esistenzialismo in "Dizionario di filosofia"

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esistenzialismo in "Dizionario di
filosofia"
esistenzialismo Insieme di autori e di filosofie che, a partire
soprattutto dagli anni Trenta del Novecento, sull’onda della
riscoperta di Kierkegaard, hanno insistito sull’insensatezza,
l’assurdo, il vuoto che caratterizzano la condizione dell’uomo
moderno e sulla «solitudine di fronte alla morte» in un mondo che,
sia come ambiente naturale sia come società e realtà storica, è
diventato a lui completamente estraneo o addirittura ostile.
Le radici storico-filosofiche e le principali correnti. I temi
fondamentali della filosofia dell’esistenza risalgono, sia dal punto di
vista storico sia da quello filosofico e culturale, alla fine del
Settecento e ai primi dell’Ottocento. Per un lato la rivoluzione
industriale, per l’altro la Rivoluzione francese hanno posto le basi
delle società di massa e giustificato quindi il problema
fondamentale che è al centro di queste filosofie: come difendere
l’esistenza umana, la sua irriducibilità di fronte all’inevitabile
erosione, talvolta di fronte alla vera e propria oppressione che tali
processi comportano? Non è perciò un caso che, sul piano
filosofico e culturale, le radici dell’e. risalgano anch’esse a questa
epoca: in primo luogo a Kant, che scava un abisso fra il mondo
anonimo delle leggi universali e necessarie che reggono il mondo
della natura (Critica della ragion pura), e il mondo morale, la libertà
degli uomini, che è totalmente estranea al primo mondo (Critica
della ragion pratica), in secondo luogo a Schelling, che, con le sue
Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e con tutta la
sua produzione successiva, polemizza con il tentativo hegeliano di
logicizzare l’esistenza; in terzo luogo a Kierkegaard, vero padre del
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movimento esistenzialistico, la cui critica dello hegelismo è
fortemente influenzata da quella di Schelling. Altri essenziali
predecessori dell’e. nel 19° sec. sono Nietzsche, con i suoi temi del
nichilismo, della distruzione di tutti i valori, della morte di Dio,
nonché una serie di grandi scrittori – Leopardi, Dostoevskij, Kafka –
che saranno dei punti di riferimento essenziali per questo
movimento di pensiero. Ma è impossibile comprendere lo sviluppo
delle tematiche esistenzialistiche, la loro diffusione di massa nel 20°
sec. in Europa, e specialmente in Germania e in Francia, senza
tener conto di un’ulteriore premessa storica: l’insieme di veri e
propri cataclismi – guerre mondiali, rivoluzioni, avvento di regimi
totalitari, l’Olocausto e altri genocidi – che hanno segnato la storia
del Novecento, travolgendo la vita di decine di milioni di individui.
Queste esperienze resero la problematica della vita e della morte,
della loro fragilità e casualità un dato di esperienza quotidiana e di
massa, così come portarono allo scoperto un magma di violenza, di
caos e irrazionalità nella storia.
La corrente religiosa e il suo principale rappresentante:
Jaspers. Una prima corrente dell’e., prevalentemente religiosa e
centrata sull’interiorità, può più propriamente chiamarsi filosofia
dell’esistenza e ha in Jaspers il suo massimo esponente. Anche se
è tipicamente tedesca, essa ebbe importanti rappresentanti anche
in Francia (Marcel, Wahl, Mounier) e in Italia (Pareyson). La radice
più profonda della filosofia dell’esistenza di Jaspers affonda in un
campo che non è filosofico, ma al confine fra scienze della natura e
scienze dello spirito: la medicina, disciplina in cui si laureò, e la
psicopatologia, a cui dedicò la sua prima grande opera, la
Psicopatologia generale. Rimproverando alla filosofia tradizionale di
essere stata dominata da astrazioni da Platone in poi, egli cerca in
altri ambiti le esperienze che devono nutrire un modo di filosofare
completamente diverso, aderente al concreto e al reale. È nella
psicopatologia che Jaspers vede la miglior applicazione della
radicale distinzione, di ascendenza diltheyana, fra lo «spiegare»
delle scienze naturali e il «comprendere» delle scienze dello spirito,
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poiché in tale disciplina si tratta proprio di penetrare con l’intuizione
nell’anima di malati i quali sono l’uno diverso dall’altro, di riuscire ad
accedere al senso delle loro esistenze. Questo compito, che
Jaspers attribuiva alla psicopatologia, sarebbe stato da lui esteso a
tutta la filosofia: il profondo mistero della nostra individualità,
l’irriducibilità della nostra soggettività a ogni sistema e a ogni legge
è dunque l’oggetto proprio della filosofia. Dopo la Psicopatologia
generale, Jaspers, conseguito un dottorato in psicologia, si porta
gradualmente sul terreno della filosofia, sforzandosi di costruire un
nuovo sapere filosofico che non può essere una scienza astratta,
ma deve esser tale da trasformare l’interiorità di chi ricerca e
aprirne le infinite possibilità. Infatti, il fondo misterioso di ognuno di
noi è «la possibilità di essere», dunque la libertà. Il confronto con la
singolarità non deve però togliere rigore alla filosofia dell’esistenza.
Jaspers si dedica a elaborare un vero e proprio sistema filosofico
nell’opera Filosofia. In essa, dopo aver ribadito l’insufficienza della
scienza, della tecnica e della metafisica tradizionale, egli cerca una
chiarificazione dell’esistenza. Nella vita quotidiana, in cui
prevalgono il collettivo e le abitudini, ci rimangono nascoste le
ricchezze della nostra interiorità: soltanto «situazioni limite», come
per es. la morte o il dolore, possono scuotere il nostro sonno
esistenziale e risvegliare in noi nuove possibilità che erano rimaste
celate, ossia il nostro «Sé reale e autentico», nella cui realizzazione
riceve attuazione concreta la nostra libertà. Fondamentale è anche,
per l’uomo, l’esperienza dello «scacco»: se l’uomo non la considera
qualcosa di meramente negativo, tale esperienza può mostrargli
come il suo vero Sé sia qualcosa di finito e che egli, quindi, non può
salvarsi con le sue sole forze individuali. C’è qualcosa di superiore
che, appunto, lo tiene in «scacco» e con cui deve fare i conti; egli,
insomma, fa esperienza della trascendenza. Jaspers chiamerà
quest’ultima anche l’«inglobante», qualcosa che ci circonda da tutti
i lati, che ci abbraccia, ma che l’uomo non può mai attingere
positivamente. Tuttavia, urtando ripetutamente contro i suoi limiti,
egli può ottenerne una conoscenza per «cifre»: una conoscenza
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sempre parziale, per illuminazioni, che scintilla solo in occasioni
privilegiate, sostituendosi alla conoscenza ordinaria. In questo
senso tutto il mondo può divenire «cifra» o «simbolo» della
trascendenza.
Martin Heidegger. L’opera di Heidegger, a partire dalla fine della
Prima guerra mondiale fino alla composizione di Essere e tempo
(➔), pur non rientrando propriamente nell’e., ha costituito tuttavia
per esso un punto di riferimento essenziale. Sein und Zeit è
dedicata propriamente a dipanare il senso dell’essere, ma, per far
questo, Heidegger prende come base un’analitica di quell’ente che
solo si pone la questione dell’essere, cioè l’uomo. Ne segue una
complessa analitica esistenziale dell’«esserci» (Dasein), termine
che solo impropriamente e provvisoriamente può essere identificato
con l’uomo; tale analisi si svolge attraverso una serie di tappe in cui
hanno un ruolo fondamentale una serie di emozioni, e in partic.
l’angoscia (➔), che mette capo alla finitezza radicale del Dasein
stesso. Tappa fondamentale in questo percorso analitico è
l’individuazione della «cura» (Sorge) come struttura fondamentale
del Dasein e come espressione del suo carattere finito e deietto. In
seguito, la capacità di decidersi risolutamente nei confronti della
morte come orizzonte della radicale finitezza apre la strada
all’esistenza autentica, che è accettazione radicale della
«possibilità» come dimensione dell’esistenza. Nella struttura del
Dasein così chiarita, emerge il nuovo senso dell’essere come
temporalità, che è al centro della ricerca heideggeriana. Negli
sviluppi successivi del suo pensiero, Heidegger ha abbandonato
questa fase della sua riflessione e ha rivendicato il fatto che anche
in questo periodo il suo vero interesse andava alla questione
dell’Essere, rinnegando così gli aspetti esistenzialistici del suo
pensiero.
La corrente atea: l’esistenzialismo francese e Sartre. Il tentativo
di rinnovare la filosofia, di rompere con la filosofia accademica in
cui si era cristallizzata la tradizione occidentale, caratterizzava già
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fortemente la posizione di Jaspers e di Heidegger. Questo tentativo
diventa ancora più radicale nell’e. francese, che rompe anche con
l’intimismo, con il privilegio del foro interiore, tipicamente tedeschi,
e porta la filosofia nei caffè e nelle strade, trasformandosi in certi
momenti in un fenomeno di massa. Nella Parigi degli anni
immediatamente seguenti alla liberazione, l’incombenza della morte
e l’insignificanza della vita, la radicalità del male (rappresentata
dall’esperienza dei campi di sterminio appena venuti alla luce),
l’angoscia della ‘decisione’ fra bene e male non erano più solo i
problemi di anime solitarie, ma assumevano una dimensione
storica, pubblica e collettiva, collegandosi a momenti caratteristici
della tradizione illuministica e della Rivoluzione francese: la
discussione pubblica, il gusto della festa popolare, l’istanza della
partecipazione diretta. Ne La nausea Sartre anticipa, nella forma di
un capolavoro letterario, le tesi filosofiche di fondo della sua prima
grande opera, L’essere e il nulla (➔). Nella vera e propria
psicopatologia, la «nausea» appunto, che affligge il protagonista di
La nausea, Roquentin, si riflette in realtà l’insensatezza della vita: il
fatto che Roquentin si senta oppresso dalle cose, addirittura invaso
da esse, è l’espressione del rapporto di assoluta estraneità che
sussiste fra l’uomo e il mondo, le cose. Il dualismo sartriano, che
caratterizza la sua filosofia fino agli ultimi sviluppi, oppone la
soggettività, la libertà, il per sé, che sono caratterizzati da una
negatività radicale, da un Nulla che è attiva distruzione di
autosussistenza, alle cose, all’Essere, all’in sé. In L’essere e il
nulla, Sartre sviluppa sistematicamente la sua ontologia dualista e
la sua concezione tragica dell’esistenza umana come libertà
assoluta condannata a un’eterna negazione della cosalità a cui è
incatenata. In primo luogo viene affrontato il problema dell’essere,
concludendo che «l’essere è in sé […] non rimanda che a sé» ed è
compatto e opaco a sé stesso, identità con sé. Di contro a esso, si
erge la regione del non essere, caratterizzata, secondo una formula
che riprende alla lettera la Fenomenologia dello spirito (➔) di Hegel,
«come ciò che è ciò che non è e ciò che non è ciò che è». Sartre
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indaga quindi lo statuto del nulla come essere del tutto eterogeneo
all’essere in sé, in quanto ha il nulla come qualità ontologica
essenziale e vede nell’uomo «l’essere per cui il nulla viene al
mondo». L’indagine propriamente filosofica è affiancata da una
serie di sottili analisi psicologiche, in cui, sulla scia di Scheler e di
Heidegger, che Sartre interpreta sempre molto liberamente, una
serie di emozioni, ma anche di atteggiamenti morali servono da
esemplificazioni e da filo conduttore per la messa a nudo dei
concetti fondamentali. Famosa, in questo senso, è l’analisi della
malafede: questa, per Sartre, non è semplice menzogna, ma la
capacità che ha l’uomo di esibire comportamenti completamente
contraddittori, esibendo empiricamente la sua essenziale
caratteristica di essere ciò che non è e non essere ciò che è. Il
seguito dell’opera analizza sistematicamente le strutture del per sé:
da rilevare, in questo quadro, per cogliere la specificità dell’e.
sartriano, che egli rifiuta la tematica heideggeriana dell’essereper-la-morte e accetta solo in parte la psicoanalisi freudiana,
propendendo per una «psicoanalisi esistenziale». L’ampia sezione
dedicata al rapporto con l’altro lo concepisce ancora nei termini di
un’esclusione assoluta io-altro (lo sguardo dell’altro mi uccide, così
come il mio sguardo uccide l’altro), mentre la 4a parte esplicita
quella tematica della libertà che era alla radice della concezione
dell’uomo come nulla fin da La nausea. Il progressivo impegno in
campo politico negli anni successivi alla liberazione porta Sartre a
modificare in modo decisivo la sua concezione: se è condannato a
essere al mondo, l’uomo non può fare a meno di prendere
posizione, di schierarsi e «impegnarsi»; da un pessimismo
rassegnato si passa così a un pessimismo etico: la morale e la
volontà, la decisione, l’intervento attivo nelle cose degli uomini, la
politica saranno ormai le caratteristiche distintive dell’opera di
Sartre fino alla sua morte. L’espressione più chiara di questa nuova
posizione può essere considerata la conferenza su
L’esistenzialismo è un umanismo. Solo dandosi da fare nel mondo,
solo scontrandosi con la durezza e col non-senso delle cose l’uomo
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può essere uomo. Non c’è altro mondo in cui possiamo far valere i
nostri valori, dato che non ci sono valori precostituiti: l’uomo non ha
un’essenza bell’e pronta, un pacchetto confezionato di qualità da
far valere, egli è nulla, «un’esistenza che è priva di ogni essenza».
«L’uomo non è altro che ciò che di se stesso fa. Questo è il
principio primo dell’e.». L’uomo è dunque sempre responsabile di
quello che è, e dunque tanto vale esercitare coscientemente questa
responsabilità: impegnarci senza riserve, dispiegare in pieno il
nostro attivismo. Rivedendo il suo precedente solipsismo, Sartre
scopre ora che non c’è azione, nemmeno la più insignificante, che
non sia rivolta agli altri; non c’è azione che non affermi un certo
valore piuttosto che un altro per tutti gli uomini: «ciascuno di noi,
scegliendosi, sceglie per tutti gli uomini». Il contenuto dell’e. diventa
dunque la creazione di valori universali a partire dalle varie
situazioni storiche in cui ci troviamo. La «nullificazione», il
«trascendimento» del mondo è ora diventata un’azione morale,
universalizzante, rivolta a tutta l’umanità. «Umanismo» (termine che
susciterà in seguito molte polemiche, in primo luogo le obiezioni di
Heidegger, nella sua famosa Lettera sull’umanismo) assume
dunque per Sartre un significato assai peculiare, poiché è
fondamentalmente l’aspirazione alla libertà che unisce tutti gli
uomini. Nel corso della sua lunga riflessione successiva, interrotta
solo dalla morte, Sartre approfondirà il legame fra la scelta libera e i
condizionamenti a cui è sottoposta. Attenuerà, di conseguenza,
senza però mai revocarlo del tutto, il dualismo fra il soggetto e il
mondo e cercherà di dare spessore alla storia, temi questi a cui
sarà dedicata un’altra sua grande opera: la Critica della ragione
dialettica. L’opera rappresenta il lavoro più maturo e sistematico
dopo L’essere e il nulla, ed è frutto del lungo confronto con il
marxismo che Sartre aveva iniziato fin dal primo dopoguerra,
avvicinandosi al comunismo all’inizio della guerra fredda (cosa che
comporterà la rottura con Merleau-Ponty), e successivamente, con
la crisi dello stalinismo, nel 1956, tentando di mantenere aperto un
dialogo critico con il movimento comunista. Il tentativo di rinnovare
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il marxismo, di farne una filosofia non dogmatica è la sostanza della
Critica della ragione dialettica: la «ragione dialettica», che
caratterizza la prassi umana, cioè la storia, si contrappone alla
ragione meccanica delle scienze naturali. Anche il dualismo
sartriano fra essere e nulla prende una nuova veste, nel tentativo di
dar conto della burocratizzazione a cui era andata incontro la
rivoluzione sovietica: Sartre prospetta una oscillazione perpetua e
irriducibile fra un momento attivo della libertà individuale come
«totalizzazione» e la sua ricaduta nel «pratico-inerte»; il primo
momento troverà la sua espressione privilegiata nella concezione
del «gruppo in fusione», cioè di un collettivo rimesso continuamente
in gioco dalla sua stessa praxis, teorizzazione che egli applicherà
successivamente agli eventi del Maggio francese, che lo videro
attivamente coinvolto.
Maurice Merleau-Ponty. L’altro grande esponente dell’e. ateo che
con Sartre ne condivise la direzione spirituale e politica, MerleauPonty, fu una figura dotata di una personalità assai diversa da
quella sartriana. In Merleau-Ponty al dualismo ontologico radicale,
che era la veste data da Sartre all’esigenza di radicale concretezza
dell’e., si sostituisce l’incarnazione, il fatto cioè che la nostra mente
«abita» un corpo: la nostra mente non è aggiunta al corpo come
qualcosa di estraneo, ma forma con il nostro corpo un tutt’uno, una
terza sostanza, rispetto alla contrapposizione tradizionale che
Cartesio aveva introdotto fra anima e corpo. Perciò il nostro corpo
non è un semplice strumento dell’anima, del pensiero, un
macchinario al servizio della mente, ma è un corpo vivo, carico di
qualità e caratteristiche che siamo abituati a riservare all’anima. Per
questo motivo Merleau-Ponty fin dall’inizio concentra la sua
riflessione sulla percezione, cui dedica la sua prima, grande opera,
Fenomenologia della percezione. Le percezioni da sole ci danno
già un mondo e un mondo ricco, variopinto, animato, il mondo
materiale in cui siamo immersi e con cui, attraverso il corpo, siamo
in continuo scambio, la nostra dimora, il nostro ambiente. L’aspetto
originale dell’e. di Merleau-Ponty è dunque quello di essere un e.
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naturalistico. Questa impostazione si sviluppa in un’ampia indagine
sul tema della corporeità e sul suo rapporto con la conoscenza
umana, indagine in cui l’autore fa ricorso a un ampio spettro di
discipline scientifiche: in partic., alla psicologia della forma (o
psicologia della Gestalt) e alle ricerche neurologiche e biologiche di
K. Goldstein, in cui si congiungevano ricerca scientifica e
un’originale impostazione filosofica di impianto esistenziale.
Famoso, in questo quadro, il ricorso di Merleau-Ponty al tema
dell’«arto-fantasma», esempio in cui risaltava in modo
particolarmente chiaro il carattere di totalità che caratterizza la
consapevolezza semiconscia che abbiamo del nostro corpo. In tale
concezione, quello che emerge di continuo è l’«ambiguità» della
situazione dell’uomo: se in- fatti è vero che siamo parte di un
mondo che «deborda da noi», se il nostro io non è una sostanza
pensante trasparente, ma una coscienza che sconfina nel mondo,
rischiamo continuamente di perderci come soggetti, di farci
risucchiare dalle cose, di dimenticare che non siamo oggetti, che il
mondo non è qualcosa di fisso e immutabile, come le nostre
abitudini ci convincono sempre a credere. La nostra vita è dunque
soggetta a una drammatica alternanza fra i due poli del nostro
essere; ora ci lasciamo prendere dalla passività e ci facciamo
oggettivare, diventiamo degli «in sé», ora ci riscuotiamo,
«riprendiamo» il senso della nostra soggettività, del nostro essere
dei «per sé», e riscopriamo il vero senso del mondo, che è un farsi
e una genesi incessante: questa riscoperta si esprime nello stupore
di fronte al fatto che ogni giorno il mondo è, in un certo senso, di
nuovo al suo mattino. Nel seguito della sua riflessione,
Merleau-Ponty si allontanerà da questa posizione, in cui si avverte
ancora il condizionamento del dualismo sartriano, sviluppando il
suo pensiero in accordo con la sua ispirazione più profonda:
all’ambiguità come dramma soggettivo dell’uomo nel mondo, egli
farà succedere una riflessione che approfondirà il tema
dell’ambiguità ontologica. Se è vero che siamo parte del mondo,
che esso è la nostra stessa carne, non si tratterà di risvegliare
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continuamente la nostra soggettività in opposizione a esso, ma di
accettare fino in fondo il mistero della nostra comunione con esso,
che rinvia a qualcosa che è a monte della nostra coscienza, della
nostra soggettività. Aprendo per un lato alla linguistica di Saussure
e alla psicoanalisi, per l’altro a una vera e propria filosofia della
natura, come documentano alcune sue opere tarde o postume,
come Segni, Il visibile e l’invisibile e La natura, egli porrà allora le
premesse per il superamento della stagione dell’e. francese.
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