1. I costi della corruzione (e del sistema normativo che li

L’impatto della corruzione sulla Pubblica Amministrazione.
Progetti e misure per un effettivo contrasto. *
di Rosario Scalia
Consigliere della Corte dei conti
Il tema – intorno al quale e sul quale si possono svolgere alcune
considerazioni – potrebbe essere riscritto così: in che modo la corruzione (i mille
volti di tale fenomeno degenerativo di qualsiasi sistema di potere) si appalesa tra
gli amministratori e gli operatori delle istituzioni pubbliche?
Ma soprattutto: è vero che chi deve far rispettare le regole a presidio della
legalità (da quelle che impongono la chiusura di un qualsiasi procedimento
amministrativo entro un tempo predeterminato, a quelle che sono poste a
salvaguardia del rispetto del principio di libera concorrenza) è il primo a non
rispettarle e a non farle rispettare?
E se ciò accade, quali sono le cause che determinano tale anomalia?
La risposta è: le cause determinanti sono le più diverse, così che le forme
di contrasto richieste non possono essere uguali, devono essere diversificate,
modellate sul caso concreto.
La prima (che si tralascia quando si fa il novero di esse …) è quella che
si ricollega al desiderio ( a volte inconscio), rintracciabile in chi occupa
posizioni di potere, di voler dimostrare all’interlocutore la propria “intelligenza
manipolativa”.
E’ l’atteggiamento riscontrabile in quanti vogliono dimostrare di essere,
agli occhi del richiedente, detentori di una certa quale influenza su qualcuno o
sugli eventi stessi: nella distorsione arrecata al processo decisionale si realizza la
compiaciuta asserzione di voler “essere tenuti in (una certa) considerazione”.
*
Intervento al Convegno nazionale sul tema “Trasparenza e strumenti anticorruzione. La P.A. come una
casa di vetro”, organizzato da LabPA, Roma, Camera dei deputati, Sala delle colonne, 5 dicembre 2013.
1
La seconda è quella che si ricollega alla soddisfazione irrefrenabile di un
bisogno (non certo dello spirito ma) materiale: dall’azione o dall’inazione si
desidera ricevere un beneficio concreto (in genere, in denaro o sotto qualsiasi
altra forma).
A tal riguardo il richiamo alla nozione di “potere” è quasi d’obbligo.
La nozione di potere, scrive Pugliatti, “si concreta nella titolarità di uno
strumento giuridico adeguato alla realizzazione di una pubblica funzione o
all’ espletamento di un pubblico servizio, l’una e l’altro doverosi per il
soggetto titolare del potere, in quanto connessi ad un ufficio al quale egli è
preposto o legati ad un servizio che deve essere espletato”.
Secondo la visione di questo studioso della realtà gestionale del Paese, il
dirigente pubblico (ma anche qualsiasi altro operatore pubblico ad esso sotto
ordinato), intanto fruisce di una situazione di potere, in quanto esegue il suo
dovere d’ufficio.
L’ufficio viene, dunque, a profilarsi come una determinazione oggettiva
intesa a disciplinare in modo razionale le attività necessarie per il realizzarsi
dell’ordinamento.
Giuridicamente parlando: la funzione svolta o il potere esercitato sono
sempre inerenti ad un determinato ufficio e propri del funzionario che ne è
titolare.
Si deve a Salvatore Pugliatti, quindi, la esatta calibratura, all’interno dei
due poli estremi del potere e del dovere, del concetto di funzione, che trova,
peraltro, il suo fondamento nel concetto di ufficio.
Ed è possibile – se questo è il modello e il sistema dei rapporti esistente
tra il sistema dei doveri di un dipendente pubblico (o/e amministratore) e
l’espletamento di una funzione/di un servizio pubblici – che il dipendente si
dimostri disponibile a farsi corrompere.
2
In definitiva, diventare amministratore infedele o dipendente inflessibile
nei riguardi di chi (cittadino – azionista) può essere rappresentato come il (vero
relativo) datore di lavoro (non è certo né l’ARAN né il Dipartimento della
Funzione Pubblica), è cosa che può succedere.
Ma la domanda è: con quale frequenza?
La terza è quella che trae origine da un malinteso senso di riconoscenza:
se il decisore politico mi ha scelto, tra più candidati, non si può non essergli
riconoscente; così che se da quello mi perverrà una richiesta anomala, per il
relativo soddisfacimento ci si dovrà adoperare … Una regola non scritta ma che
contagia l’anima di chi è chiamato a responsabilità gestionali.
Da qualche tempo (da vent’anni a questa parte) l’opinione pubblica –
sollecitata dai mass-media a vedere nei dipendenti pubblici delle persone
“corrotte” – ha fornito una rappresentazione distorta del mondo delle burocrazie,
ne ha travisato l’operato, è riuscita a distorcerne un compito fondamentale,
quello di dover essere rispettosi esecutori di leggi e di regolamenti (tutti,
comunque, aggirabili ricorrendo a elargizioni, più o meno consistenti, di
denaro…).
Ma non sono certo questi i fenomeni che creano sbigottimento (o rabbia)
nell’opinione pubblica: questa è la punta di un iceberg.
Ben altri (e di più sofisticata fattura) sono i fenomeni che arrecano danno
ai cittadini-azionisti, in quanto li costringono a pagare un costo più alto di
quanto normalmente dovrebbero, oppure ad acquisire un servizio che, in quanto
rappresentato con specifiche e ben mirate campagne di stampa come
“scadente”, fa ritenere loro più conveniente il ricorso al “privato”.
Anche questa è corruzione (non del singolo) ma del sistema; ed essendo
“corrotto” il sistema, della distorsione arrecata al funzionamento “non
economico” delle istituzioni beneficia l’operatore pubblico.
3
Ma quest’ultimo non può ritenersene irresponsabile; egli conosce le falle
che il sistema porta in sé, ma non dice nulla per eliminare le anomalie.
Perché, alla fine, ne ha un tornaconto, anche indiretto in quanto favorisce
gli operatori che agiscono in un mercato viciniore o parallelo.
E tra i diversi operatori pubblici quelli che dimostrano di avere più potere
sono i tecnici (1).
Infatti, la loro professionalità – se male applicata (attraverso quello che i
sociologi chiamano “l’allontanamento volontario dal perseguimento del bene
comune”) – conduce ad una espansione di potere decisionale che si rivela poco
controllabile ex post.
A meno che non si ricorra a forme di controllo da esercitare – da parte
della Corte dei conti – con metodologie particolari (a campione; a sorpresa; in
alcune aree del territorio).
Ma di questa silenziosa attività – rivolta a prevenire più che a reprimere o
a recuperare il danno prodotto all’ Erario – deve essere costantemente informata
l’opinione pubblica, deve essere tenuto al corrente la comunità civile (2);
probabilmente diversamente rappresentata, nel suo sentire comune, da un
commediografo come Ibsen nella sua opera “Un nemico del popolo (1882), che
è anche un atto d’accusa stupefacente e attualissimo contro l’ ”inquinamento”
sia fisico che morale come anche verso la corruzione di sistema …”.
1
2
Sul ruolo di tali operatori, v. Gian Paolo Praedstraller, L’intellettuale tecnico e altri saggi, Ed. di Comunità,
Milano, 1972, pagg. 127-191.
Sulla lievitazione anomala dei costi della Metro C di Roma, a distanza di meno di un anno dall’avvio dei
lavori, la Corte dei conti ha effettuato un controllo così pertinente da convincere gli attori del sistema a
ridurre drasticamente le loro pretese.
4
Perché è indubbio che il fenomeno della corruzione si appalesa quando il
mercato in cui si opera (ed operano gli amministratori/i funzionari pubblici) è
diventato un “mercato collusivo” (3).
3
Sul significato di “mercato collusivo”, e su quali condizioni si poggia, v. Francesco Forte, op. cit., Napoli,
1995, pag. 218.
5
1.
I costi della corruzione (e del sistema normativo che li genera) sono
pagati dai contribuenti.
Al tempo in cui c’è stagnazione dell’economia, nel settore degli appalti di
opere pubbliche, si assiste a una generalizzata contrazione del numero dei bandi
di gara.
Al contempo, si registra un più alto grado di affollamento di competitors
(numero più alto di partecipanti); si verifica un azzeramento dei fenomeni di
collusione tra partecipanti; si ha la netta impressione che i ribassi raggiungano
percentuali in diminuzione (c.d. ribasso) che in altri tempi sono da considerare
inimmaginabili.
In sostanza, non c’è più alcun margine per il “ricatto” (tassa occulta) che
le diverse figure di operatori pubblici possono porre in essere quando sono
chiamati a svolgere alcuni compiti lungo la catena che porta alla conclusione
dell’opera pubblica; ricatto che si concreta nel riconoscere/non riconoscere le
pretese aggiuntive avanzate da chi sta facendo i lavori (impresa).
In ogni caso, in tempi di “vacche grasse” la “datio” dell’impresa al
dipendente pubblico infedele è stata quantificata in sede di elaborazione del
bando di gara.
Esso diventa un costo (occulto) a carico del bilancio pubblico, a carico
della collettività; ed è in tale momento che si identifica il primo stadio della
fenomenologia corruttiva.
Il giusto profitto (just profit) dell’impresa aggiudicataria costituisce, nel
nostro Paese, una semplice esercitazione accademica. Molto probabilmente
perché non si insegna in alcuna sede istituzionale “etica dell’impresa”.
6
Così come costituisce una pura esercitazione accademica l’elaborazione
del cronoprogramma dell’opera; anche se il termine dei lavori è scritto a chiare
lettere (ed è sotto gli occhi di tutti) ed è esposto in cartelloni aventi il valore di
pubblicità-notizia perché il “controllo sociale” diventi realtà, la rassegnazione
sembra pervadere gli animi di molti.
Al momento, non sussistono elementi certi (banche-dati) che possano
indurre la Pubblica Amministrazione a dichiarare quale è stato il profitto
conseguito dall’impresa. Invece, il “controllo sociale” a questo dovrebbe
tendere…
Ma la maggiore delle distorsioni – nel settore delle opere pubbliche –
risiede nell’art. 92, c. 5, del d.lgs. n. 163/2006: la ripartizione delle diverse voci
del quadro economico-finanziario rimane invariata; cioè, essa viene predisposta
e approvata sulla base del prezzo-base contenuto nel bando.
Ma se l’aggiudicazione è avvenuta a un prezzo inferiore, non sarebbe
ragionevole che l’entità del compenso alle burocrazie tecniche, impegnate nel
seguire i lavori, fosse ridotto della stessa percentuale?
Questo non succede; ma è un elemento che induce chi elabora il bando di
gara a non tenere conto dell’interesse pubblico (riduzione dei costi); se mai, è
orientato a privilegiare il sistema delle imprese, mantenendo sul mercato non
certo le migliori (dato l’ampio margine di manovra che attraverso questo modo
di agire, le burocrazie offrono loro).
In definitiva, anche questo è un comportamento che genera distorsioni nel
sistema; correttezza e buona fede risultano offuscate da una norma che privilegia
le burocrazie tecniche, ne rafforza il potere (proprio) a discapito del
perseguimento del “bene comune” (che è da individuare nella economicità
dell’opera, del servizio).
7
Ecco, quindi, la spiegazione che si dovrebbe rendere a una domanda
ricorrente: ma perché, nel nostro Paese, le opere pubbliche costano così tanto?
A pagare questi costi sono (stati, sono e saranno) i contribuenti, i cittadiniazionisti.
A nulla è servito l’introduzione nel nostro ordinamento (nel settore degli
appalti delle opere pubbliche) di regole e di modelli gestionali innovativi, quale
è quello del “general contractor” (in un italiano maccheronico, del “contraente
generale”): si è continuato a ragionare, a elaborare il relativo contratto di appalto
con gli schemi logici del passato, utilizzando le stesse clausole civilistiche del
passato.
Così che l’innovazione che intendeva corresponsabilizzare l’impresa nella
progettazione definitiva, rendendo certo “ab initio” il costo dell’opera da
realizzare, ha consentito a quest’ultima di continuare a rivolgersi al decisore
politico – con la complicità delle burocrazie che non rischiano nulla – per
vedersi riconosciuti dei vantaggi economici (anomali, comunque) esattamente
come in passato.
Già Francesco Forte aveva compreso il sistema di potere che
caratterizza(va) il settore e il suo funzionamento, tanto da fargli ritenere assai
utile per il perseguimento del “bene comune”, per il miglioramento dei mercati
in genere (non solo di quello all’esame) il ricorso ad alcune regole: 4
«Prima regola. I contratti non debbono avere clausole di revisione prezzi e
clausole di variante in corso d'opera o simili.
Debbono avere tempi di attuazione definiti e permessi pubblici
predeterminati, relativi alle condizioni per l'esecuzione dei lavori; e i controlli
4
V. Francesco Forte, Etica pubblica e regole del gioco. I doveri sociali in una società liberale, Liguori ed.,
Napoli, 1995, pagg. 230-232.
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vanno fatti da una società di ingegneria esterna, controllata da un organo di
revisione finanziario esterno (n.d.a., pensava l’economista alla Corte dei conti?).
Seconda regola. Vanno evitate il più possibile le istituzioni che
consentono la democrazia consociativa e stimolano la collusione fra politici ed
amministratori.
Terza regola. Vanno limitate la durata delle nomine degli enti pubblici,
mediante divieto di riconferma, e le nomine vanno sottratte il più possibile ai
politici. Quindi, gli enti pubblici vanno trasformati in società per azioni e
associazioni e fondazioni e, qualora si voglia mantenere la maggioranza di un
singolo soggetto pubblico, occorre avere una robusta minoranza privata, che
condiziona le nomine. Ciò perché la violazione dell'accordo illecito è rischiosa
per gli imprenditori se le successive gare sono «governate» dagli stessi
amministratori degli enti in modo da penalizzare chi non ha rispettato gli
accordi, e i politici si fidano degli imprenditori che entrano nel giro della
corruzione se sanno di poterli penalizzare in questo modo.
Quarta regola. Le commissioni di gara vanno costituite all'esterno, senza
l'influenza dei politici e degli amministratori degli enti. Le regole debbono
essere tali da impedire arbitrarie discriminazioni fra offerenti (ad esempio
mediante clausole discrezionali o possibilità di ribassi disastrosi accompagnati
da clausole indefinite sulla qualità e modalità delle opere). Non vi debbono
essere «albi» o «qualifiche di gara».
L'accordo illecito è rischioso e il monopolio difficilissimo se gli
imprenditori potenzialmente concorrenti sono un numero ampio e aperto.
Quinta regola. Occorrono norme di gara e procedure di esecuzione dei
lavori trasparenti.
L'accordo illecito è rischioso se gli imprenditori che ottengono i lavori
collusivamente sono soggetti al rischio di essere «scoperti».
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Sesta regola. Occorre che i controlli sui lavori siano effettuati con criteri
economici e non puramente formali, mediante analisi costi-efficacia e costirisultati. Ed occorre la massima pubblicità sui preventivi e sui consuntivi, con
controllo particolare di quelli che si distaccano dai preventivi.
Ciò perché il gioco illecito è rischioso se gli eccessi di costi e le anomale
diminuzioni di risultati possono essere scoperti».
Alcuni di questi suggerimenti sono stati recepiti nel nostro ordinamento;
altri rimangono “in sospensione” (se ne parla, ma senza costrutto).
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2.
Dalla corruzione traggono beneficio solo in pochi ? …
Quanti beneficiano dei comportamenti tenuti dalle burocrazie quando essi
non sono conformi alle regole del diritto?
Si potrebbe dire più correttamente: quando esse violano i loro doveri
d’ufficio?
In questo caso, la risposta che può essere data al quesito può presentare
diverse sfaccettature.
Per questo essa va elaborata conoscendo il sistema amministrativo (i suoi
punti di forza; i suoi punti di debolezza); acquisendo informazioni sul tenore di
vita degli operatori pubblici “a rischio corruzione”; costruendo un sistema a
difesa e tutela dell’immagine della Pubblica Amministrazione,5 che si dimostri,
nei fatti, rispettoso del principio di legalità; analizzando, caso per caso,
l’eventualità dell’insorgenza di conflitti di interesse che possono contribuire alla
diffusione di tale fenomeno.
Dalla corruzione derivano benefici, comunque, solo per pochi.
Ecco perché ci si aspetta che i molti dimostrino una disponibilità ad
accettare le indicazioni – molto più puntuali che in passato – del nuovo “Codice
di comportamento”.
Testo base, ma non sufficiente ad arginare le anomalie che i diversi gruppi
di operatori pubblici presentano gruppi individuati dalla legge, certamente.
Ma fino a che punto essi sono disponibili ad ammettere che il sistema ha
consentito loro di abusare del potere?
5
Sul tema del “danno all’immagine” si è detto: “L’istituto del danno all’immagine non è definito dalla
legge. Esso è il frutto dell’interpretazione giurisprudenziale della Corte di Cassazione e della Corte dei
conti. A un certo punto interviene il legislatore, sollecitato soprattutto da tanti amministratori pubblici che
hanno avuto problemi con la Corte dei conti … Il legislatore non abolisce il danno all’immagine per il
quale si limita a recepire un concetto che era frutto della elaborazione giurisprudenziale e stabilisce
soltanto che non si può condannare per danno all’immagine se non nei casi e nei modi previsti dall’art. 7
della legge 27 marzo 2001, n. 97” (Silvio Benvenuto).
11
Sta in questa domanda il “punto centrale” delle nostre riflessioni.
Disponibilità, quindi, a conformare il proprio comportamento (facendolo
conformare, con l’esempio, anche ai propri collaboratori) alle regole della
trasparenza, dell’agire per il “bene comune” (e non per coltivare un proprio
interesse o un proprio progetto di vita).
Regole che presuppongono il radicamento di una forte disponibilità della
classe politica, ai diversi livelli di governo, ad autolimitare la propria influenza
(in termini di compartecipazione) sui processi di formazione della volontà delle
organizzazioni, evitando le distorsioni che tali processi decisionali possono
subire.
Ancora una volta Francesco Forte, nel 1995, aveva ipotizzato il ricorso (6)
ad alcuni rimedi:
«Primo: trasformare gli enti pubblici economici in società per azioni e
quelli non economici in associazioni, fondazioni e cooperative che siano
realmente tali.
Secondo: ove si tratti di enti «strategici fondamentali», lo stato, il comune,
la regione ne deterranno il pacchetto di controllo, le nomine degli amministratori
avverranno il più possibile mediante comitati esterni sulle cui scelte non
possono influire i politici, e che vengono sottoposte al vaglio delle assemblee
elettive, con parere consultivo, al fine di dar loro la adeguata pubblicità.
Terzo: negli enti «strategici» non fondamentali, lo stato, il comune, la
regione terranno solo una «quota aurea» "di sicurezza", che consenta di far
prevalere i loro programmi e di porre il veto motivato su amministratori non
graditi, ma il potere di nomina, rimozione e riconferma spetterà alla
maggioranza.
6
V. Francesco Forte, op. cit., Napoli, 1995, pag. 233.
12
Quarto: tutti gli altri soggetti economici, trasformati in società per azioni,
dovranno essere ceduti del tutto al mercato, con il supporto del sistema bancario;
quelli non economici dovranno esser «restituiti alla società civile.
Quinto: l'editoria va separata dall'industria e dalle banche per evitare che
queste condizionino i politici e i "grand commis" tramite i loro "prodotti
culturali"».
13
3.
Alla ricerca dei “punti deboli” del sistema amministrativo.
Da tempo si conoscono i “punti deboli” del sistema amministrativo (del
sistema tecnico-amministrativo). Tanto da far immaginare, nel 1992, di poter
costruire rapidamente una mappa dei rischi, nei quali le istituzioni stesse
potevano incorrere.
Nel 2012, cioè ben venti anni dopo, se ne è dovuto riparlare.
E si è giunti alle stesse conclusioni cui era giunta la Commissione
“Minervini” nel 1996.
Ma un passo avanti è stato fatto: i “punti deboli” del sistema amministrativo sono stati individuati dal legislatore stesso.
Un fatto positivo, certamente. Ma non sufficiente a mettere il
cittadino/l’impresa al riparo dai comportamenti anomali delle burocrazie.
Infatti, se la legge è costruita in funzione del mantenimento di posizioni di
privilegio di alcune parti della società rispetto ad altre, allora è la legge stessa
che va modificata; assumendo come tecnica legislativa quella della
ponderazione degli interessi (da tutelare; da modificare; da abolire).
La valutazione delle politiche pubbliche non è ancora disciplina che si
trova diffusa tra gli insegnamenti delle nostre Università. Probabilmente perché
essa, ove fosse applicata, porterebbe rapidamente alla discoperta delle
distorsioni del sistema (7).
Invece, essa costituisce per una Istituzione superiore di controllo – quale è
la Corte dei conti, nel nostro Paese – un potente mezzo di riconoscimento delle
anomalie gestionali; anomalie che ben potrebbero essere corrette con
7
V. Una introduzione visiva all’analisi delle politiche pubbliche (a cura dell’Istituto Max Weber), vol. 75,
Ed. Istituto Max Weber, Roma, 2002, pagg. 126.
14
l’assunzione di misure organizzative, senza – per questo – che sia necessario
ricorrere al legislatore.
Sensibile quest’ultimo a venire incontro alle azioni di lobbyng di intere
categorie, ma mai messo nelle condizioni di capire “come va il mondo”.
Un legislatore che è stato chiamato a individuare i “punti deboli” del
sistema, non è un legislatore; è stato chiamato a scrivere – ancora una volta –
una legge-provvedimento.
Lo stesso legislatore sembra essere giunto a una amara conclusione:
l’incapacità del sistema di prendere coscienza delle anomalie, e di dover scrivere
esso le regole a contrasto di queste.
3.1
Le misure assumibili per contrastare i mille volti della corruzione
Poche le misure da assumere; anzi qualcuno le ha già indicate.
E, tra queste, quelle che puntano all’effettiva misurazione dei tempi di
lavorazione di una qualsiasi pratica, di qualsiasi resa di un servizio al cittadino,
all’impresa.
La cultura del “controllo di gestione” deve risultare pervasiva; essa non va
vista come metodo per dimostrare la propria efficienza organizzativa, ma
soprattutto come criterio per discernere il contributo che il pubblico impiego dà
(e può continuare a dare) alla crescita sociale ed economica del Paese.
Il rafforzamento dei corpi ispettivi (e, alla “periferia” del sistema
istituzionale, costituito dalle Prefetture-Uffici territoriali del Governo) può
realizzarsi, poi, senza maggiori costi per il sistema; infatti, occorre che la
spending review riduca i costi degli apparati (quelli di linea) ma rafforzi le
strutture di supporto (quelle di staff).
15
Così da facilitare il passaggio da funzioni di responsabilità gestionali a
funzioni di natura ispettiva e di ricerca e studio delle diverse dirigenze; il valore
da assegnare a queste ultime non può essere inferiore a quello dato sinora alle
organizzazioni di linea.
E, poi, ma non certo da ultimo, una grande attenzione – da parte dei
dirigenti – alla vita che conducono (o sono costretti a condurre) i collaboratori.
E’ pura illusione credere che i comportamenti che una persona tiene in
privato siano diversi da quelli che tiene dentro l’ufficio; soprattutto se il rapporto
di lavoro è stato asservito alle regole valevoli per il settore privato; e ciò nella
illusione di poterne contenere i costi.
Occorre creare, quindi, un sistema relazionale (tra dirigenti e
collaboratori) che veda l’instaurarsi di un rapporto di fiducia; quella stessa che è
venuta a mancare quando i c.d. “esterni” hanno occupato posti di responsabilità
senza essere all’altezza dei compiti loro affidati dalla classe politica.
L’inquinamento del sistema è stato devastante; anche perché agli “esterni”
si è richiesto di agire ispirandosi a un’etica pubblica dai contorni assai vaghi.
Da qui la necessità di richiedere a quanti operano nel settore pubblico di
conoscere le regole che lo presidiano; e ciò non può che realizzarsi potenziando
il sistema formativo, cui riconnettere un ruolo educativo di grande chiarezza.
Alle Scuole di formazione pubblica, ma non solo, il compito (la missione)
di rigenerare la mente e il cuore degli operatori pubblici, facendo riscoprire l’
“etica della Nazione” in quella che si trova scritta nella nostra Carta
costituzionale.
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