1 1 BRUNO ROMANO ORIENTARSI NEL PENSIERO -KANT- E NELLE NORME -GADAMER- RIFLESSIONI SU NOMOS E LOGOS: SCHMITT, HEIDEGGER, LACAN Edizione curata da C. Palumbo, G. Petrocco, A. Siniscalchi 2 2 3 INDICE 3 4 4 5 QUESTIONI INIZIALI ‘Orientarsi nel pensiero’ è una espressione contenuta nel titolo di un breve saggio di Kant, pubblicato nel 17861. L’orientarsi si avvia in un luogo da dove ci si muove per indirizzarsi nella ricerca di altri luoghi da raggiungere. L’orientarsi può avere diverse qualificazioni; può concernere sia la ricerca di un orientamento geografico nei luoghi, sia la ricerca di un orientamento concettuale nelle argomentazioni, che formano la relazione discorsiva tra le persone. In questa seconda qualificazione, l’orientarsi può riguardare anche le prospettive che i soggetti di una comunità intraprendono nel definire i loro cammini tra le norme, regolative delle relazioni tra l’io ed il tu, tra il noi ed il voi, tra le persone e le istituzioni. Si segnala così che la chiarificazione dell’‘orientarsi nel pensiero’ può essere illuminata anche con l’analisi e la discussione dell’‘orientarsi nelle norme’, secondo un movimento circolare che concerne sia il pensiero (logos) e le norme, sia le norme (nomos) ed il pensiero. Lo scritto di Kant, qui ripreso, può far luce su due itinerari, costituiti da due qualificazioni dell’esistere umano. Una qualificazione privilegia la ragione, cercata nella sua purezza, e l’altra privilegia la fede, nel suo affidarsi alla capacità dell’intuizione e del sentire della persona. Il nucleo di queste pagine di Kant mostra che la purezza della ragione non può non entrare nella quotidianità dell’esistenza umana, immersa, sempre ed insuperabilmente, in immagini ed in rappresentazioni sensibili. L’orientarsi delle persone viene presentato anche muovendo dalla differenza tra la mia destra e la mia 1 I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero?, Milano, 2015. 5 6 sinistra, così da poter iniziare l’orientamento dalla materialità del corpo, che, nella sua costituzione fisica, ha una parte nominata ‘destra’ ed una parte nominata ‘sinistra’. Avanzando, sia in uno spazio geografico, sia in uno spazio concettuale -ancora ignoti, da esplorare-, la persona muove da una condizione che Kant descrive con queste espressioni: qui “subentra il diritto del bisogno della ragione, quale fondamento soggettivo per presupporre e ipotizzare qualcosa che essa non può pretendere di sapere in virtù di motivi oggettivi”2. Pur senza poter raggiungere una padronanza ‘oggettiva’ di un sapere puro e totale, la persona può e deve orientare, anche secondo un ‘fondamento soggettivo’, la sua esistenza nel mondo abitato da altre persone. Significativamente, l’orientarsi nel pensiero si avvia mediante una differenza istituita dall’attività, linguistico-dialogica, del nominare, che conferisce ad una mano il nome di mano destra e ad un’altra mano il nome di mano sinistra. Si conferma qui che il nucleo del pensiero è omogeneo al nucleo del linguaggio. Alle persone è dato pensare nel medio delle parole: non vi è un pensiero senza parole, così come non vi sono parole senza l’attività del pensiero. L’orientarsi nel pensiero si dispiega come l’orientarsi nel linguaggio ed è omogeneo all’orientarsi nelle norme. Non ci si orienta né secondo una ragione pura-totale, né secondo una fede senza ragione, ma si ricerca una direzione nella luce della ‘fede razionale’, chiarita dalla filosofia, come si argomenta nella ‘fede filosofica’ di Jaspers. Nel comporsi di un unicum, costituito dal reciproco illuminarsi della fede e della ragione, si ha che il nucleo iniziante è strutturato dal complesso unitario della persona: soggetto pensante e corpo vivente. L’orientarsi originario viene presentato come il muovere da una differenza, che concerne una parte sinistra ed una parte destra del corpo umano, confermando l’essenzialità del corpo materiale per iniziare il movimento della ragione, che non cade né nella vuota purezza di una umanità immateriale, né nella materialità di persone prive di una ricerca della pura luminosità della ragione. 2 Ivi, p. 36. 6 7 Vi è una reciproca chiarificazione dell’orientarsi nel pensiero e dell’orientarsi nelle norme, accomunati dal loro dispiegamento nelle relazioni dialogiche, svolte nel linguaggio simbolico, creativo di comunicazioni plurivoche e non esecutivo di informazioni univoche. Nell’orientarsi nel pensiero, all’inizio vi è anche l’assunzione di una differenza radicata nel distinguere la mano destra e la mano sinistra, mediante i nomi conferiti a queste due parti del corpo. Analogamente, nell’orientarsi nelle norme, all’inizio vi è anche l’assunzione della differenza sia tra le molteplici norme e il senso unitario del sistema giuridico, sia tra la legalità e la giustizia. Il breve saggio di Kant, qui ripreso, ha questo avvio: “per quanto in alto possiamo porre i nostri concetti e per quanto, inoltre, possiamo astrarre dalla sensibilità, tuttavia a essi continuano a rimanere attaccate delle rappresentazioni figurate, la cui peculiare destinazione è di rendere idonei all’uso empirico quegli stessi concetti che del resto non sono derivati dall’esperienza”3. Per la specifica condizione della persona in carne ed ossa, vivente nella materialità di un mondo condiviso nella penuria dei beni, viene qui avviato a discussione che i concetti, anche quelli delle norme e del diritto sono tutti concetti spirituali, che hanno una ineliminabile connessione con l’insieme delle rappresentazioni radicate nella sensibilità materiale della condizione mondana dei corpi umani. Quel che è comunicato, sia quanto all’orientarsi nel pensiero, sia quanto all’orientarsi nelle norme, può essere chiarito riprendendo l’opera di riflessione sul termine ‘orientarsi’, su quel che esso presenta come suo specifico contenuto nell’esistenza delle persone e nelle loro relazioni, anche giuridiche. “Orientarsi in senso vero e proprio significa: da una determinata regione del mondo (delle quattro in cui abbiamo suddiviso l’orizzonte) trovare le altre tre e in particolare trovare l’oriente”. Nella mia esistenza, io, persona impegnata nell’opera di ricerca di un orientamento, “ho assolutamente bisogno -scrive Kant- 3 Ivi, p. 29. 7 8 del sentimento di una differenza nel mio proprio soggetto, vale a dire la differenza tra mano destra e mano sinistra”4. L’espressione ‘sentimento di una differenza’ ha una specifica valenza, quella di considerare che il lato della mano destra ed il lato della mano sinistra “non presentano ... alcuna differenza osservabile”, poiché, al di là del lessico di Kant, si tratta di una differenza istituita dalla ‘capacità di sentirsi’ nell’attribuire nomi, nel conferire un senso linguistico-esistenziale a qualcosa, superando la sua nuda presenza oggettiva, fisica, fattuale. Nell’orientarsi geografico, si deve considerare che “pur con tutti i dati obiettivi del cielo, io mi oriento geograficamente soltanto in base a un fondamento soggettivo della distinzione ... perfino l’astronomo, se facesse attenzione soltanto a quel che vede e non contemporaneamente a quel che sente, inevitabilmente si disorienterebbe ... viene in suo aiuto, in maniera del tutto naturale mediante il sentimento della mano destra e della mano sinistra, quella capacità di distinzione disposta certo dalla natura, ma divenuta qualcosa di consueto grazie ad un ripetuto esercizio”5, che costituisce il contenuto di una memoria del linguaggio simbolico, esercitato in una lingua specifica. È la lingua, condivisa in una comunità, che si ritrova nel senso dei termini impiegati -mano destra, mano sinistra, etc.- ed intesi sia nel loro definito significato, sia nella capacità simbolica che qualifica l’interagire creativo, esercitato nelle comunicazioni delle persone. L’orientarsi inizia a presentare e distinguere: a)quel che è proprio degli atti dell’opera -pensata, voluta ed esercitata- delle persone, soggetti del nominare nel linguaggio-discorso, e b)quel che è proprio del mutamento a-personale delle cose, dei viventi nonumani e delle macchine, mai capaci dell’atto del nominare in un linguaggio simbolico-polisenso, distinto dalle operazioni dell’informare in un linguaggio numerico-monosenso, sempre mancante della gratuità del donare il senso nello svolgimento dialogico del logos. Unicamente nelle persone l’orientarsi si avvia mediante il non coincidere con l’oggettività naturalistica degli elementi di un 4 5 Ivi, pp. 32-33. Ivi, p. 33. 8 9 ambiente. Questo non-coincidere è segnato anche dal conferimento di un nome, sia alla mano destra, sia alla mano sinistra, elementi che certo gli esseri umani si trovano già ad avere nella fisicità del loro corpo, ma che costituiscono un principio orientante unicamente quando ricevono un senso conferito dall’atto personaleinterpersonale del nominare, che, nell’esercizio della dialogicità del linguaggio simbolico, connette ed esterna il pensiero e la volontà. “Al buio, in una stanza a me nota, posso orientarmi a condizione di poter afferrare almeno un oggetto di cui ricordo la posizione. In tal caso, però, non mi è evidentemente d’aiuto nient’altro che la capacità di determinare le posizioni in base a un fondamento soggettivo di distinzione ... tra i miei due lati: quello destro e quello sinistro”6. Questa distinzione è radicata nella materiale corporeità del soggetto, nei suoi due lati, destro e sinistro, ed è dunque una distinzione non riferibile ad uno spirito puro, immateriale, ma appartiene ad una persona che ha un corpo, ambientato in un mondo costituito anche dagli elementi della materia. Le persone non esistono solamente nell’ordine della purezza, ma, anche ed insuperabilmente, nella dimensione ineliminabile dell’impuro, di quel che appartiene ai sensi ed ai loro commisti rapporti inevitabili con la materialità. Sia nell’orientarsi nello spazio geografico, sia nell’orientarsi nello spazio concettuale, la persona si muove “in base a un fondamento soggettivo della distinzione”, che “non è altro che il sentimento del bisogno proprio della ragione”. Si tratta di prendere atto che, anche nell’orientarsi nei concetti, “subentra il diritto del bisogno della ragione, quale fondamento soggettivo per presupporre e ipotizzare qualcosa che essa non può pretendere di sapere in virtù di motivi oggettivi; il diritto, cioè, di orientarsi nel pensiero ... unicamente in virtù del suo proprio bisogno”. Il ‘proprio bisogno’ si presenta -sia nel versante pratico, sia nel versante teoretico- come il bisogno di un inizio istituito nel compiere delle ipotesi, che non possono essere costituite nell’ordine di pure razionali argomentazioni oggettive e che però appartengono pur sempre alla ricerca della ragione, riconosciuta come “l’ultima pietra di paragone”. 6 Ivi, p. 34. 9 10 Le persone non esistono né unicamente nella conoscenza razionale, né unicamente nella intuizione fideistica. La via dell’esistenza umana viene illuminata da Kant con il ricorso all’espressione “fede razionale”. Questa espressione si chiarisce considerando che “ogni fede è, dunque, un tener per vero soggettivamente sufficiente, con coscienza però della sua oggettiva insufficienza; essa quindi viene opposta al sapere”7. La ‘fede razionale’ mai si può trasformare in un sapere, perché è costituita sia da elementi sufficienti sul versante soggettivo, sia da elementi insufficienti sul versante oggettivo, strutturalmente proteso ad un conoscere che è un sapere. L’orientarsi nel pensiero muove sia dall’impossibilità delle persone di potere accedere ad una conoscenza totale-infinita, sia dal bisogno di assumere una direzione che consenta l’impegnarsi nella pratica quotidiana dell’esistere-coesistere, rischiata dalla libertà, ambientata in un mondo materiale dove non si danno “esseri naturali puramente spirituali”8. Nelle esemplificazioni proposte da Kant, l’orientarsi della persona comporta l’assumere una differenza, presente nella corporeità e però assumibile unicamente una volta che le sia stato dato un nome, così che, nella dialogicità del linguaggio simbolico, sia stata nominata una mano, la destra, ed un’altra mano, la sinistra. Dare un nome, nominare, è non coincidere con quel che si nomina ed immettere i nomi conferiti nel destinare-ricevere i contenuti dialogici, affidati all’opera dell’interpretazione, che costituisce e specifica le relazioni umane, anche quelle giuridiche. Già qui si presenta il nucleo della ‘fede razionale’, che è la fede nella comunicabilità di un nome, rispettando la razionalità di una tale fede, ovvero riconoscendo che, nel dialogo, la ragione non può perdere il suo tratto costitutivo: l’universalità della ratio del domandare e del rispondere tra gli esseri umani, creatori di simboli plurivocievocanti e non esecutori di segni univoci, certi nella loro a-personale funzionalità e così estranei all’arte ermeneutica. Anche nell’orientarsi nelle norme, opera la ‘fede razionale’, segnata dalla insufficienza di elementi oggettivi, 7 8 Ivi, p. 43. Ivi, p. 37. 10 11 riconducibili ad un sapere totale-infinito, che possa raggiungere la padronanza assoluta sia della legalità, sia della giustizia, ambientate nella responsabilità dell’opera ermeneutica del giurista. Poiché una padronanza oggettivata ed assoluta di un sapere giuridico totale non appartiene alla persona umana, alla sua condizione di finitudine, si ha che l’orientamento tra le norme si avvia assumendo una differenza, qualificata dalla sufficienza di elementi soggettivi (fede) e dall’insufficienza di elementi oggettivi (ragione). In Kant, questi due versanti si compongono nel contenuto dell’espressione ‘fede razionale’. Nello spazio geografico ci si orienta secondo il sentire la differenza tra la sinistra e la destra, più precisamente tra la mano nominata sinistra e la mano che ha ricevuto il nome di destra. Nello spazio giuridico ci si orienta muovendo dal sentire la differenza tra l’accogliere l’altra persona e l’escluderla. Quest’ultima differenza è impiantata nella sufficienza di un sentire del soggetto, ma non ha una sufficienza riferibile ad una conoscenza oggettiva, pura e certa, poiché le due possibilità dell’accogliere o dell’escludere sono significate ed illuminate da una molteplicità di gradazioni, di toni. L’accogliere e l’escludere consentono uno spazio lasciato all’arte dell’ermeneutica esistenziale, ad una scelta esposta al rischio della libertà e non sostituibile né con una correttezza logico-matematica, né con una certezza naturalistica, fisica, chimica, biologica, macchinica, etc. Questo sentire del soggetto è un muoversi secondo una fede che orienta all’accogliere e non all’escludere e che però custodisce anche il suo ineliminabile riferimento alla ragione, ovvero alla razionalità del prevalere qualitativo-esistenziale dell’accoglienza e non dell’esclusione. La ragione mostra, al di là della lettera dei testi di Kant, che unicamente in una relazione di vicendevole accoglimento, i soggetti possono perfezionare la qualità della loro condizione, mentre nell’esclusione la deteriorano l’un l’altro, perdendosi in un narcisismo distruttivo della reciprocità del donarsi il senso nel dialogo, disciplinato dal principio di uguaglianza. La “libertà di pensare” costituisce il tesoro principale della condizione umana, ma può perfezionarsi o deteriorarsi, come Kant mostra con il suo interrogativo: “fino a che punto e quanto correttamente penseremmo, se non pensassimo per così dire in 11 12 comunità con gli altri, ai quali noi partecipiamo i nostri pensieri ed essi a noi i loro?”9. La ‘fede razionale’ orienta le persone verso la custodia della ‘libertà di pensare’, che può essere rispettata ed accresciuta unicamente se si coesiste in questo ‘pensare in comunità’, inteso come il reciproco partecipare nel dialogo i propri pensieri personali gli uni agli altri-, così che ognuno accresce-perfeziona se stesso ricevendo i pensieri dell’altro ed accresce-perfeziona l’altro donandogli i suoi pensieri, in una comunità disciplinata dai due versanti, distinti ma connessi, del rispetto della legalità e della ricerca della giustizia. Unicamente la fede razionale, nella distinzioneconnessione dei suoi due poli -sentire e ragionare-, libera dalla “totale sottomissione della ragione ai fatti” -alla forza più forte e vincente-, libera dall’abbandonarsi alla “superstizione”10, anche a quella superstizione che si ferma ad una legalità spogliata delle domande sulla giustizia. Segue qui una interpretazione della ‘fede razionale’, che invita a chiarire il legame circolare tra due versanti: quello della ‘legge del testo’ e quello del ‘testo della legge’11. Nel primo versante si coglie la struttura del logos nel suo dispiegarsi come relazione dialogica, non producibile arbitrariamente, né disponibile secondo la forza di chi è più forte. Nessuno è il padrone assoluto delle sue parole, del senso che vi conferisce. L’interpretazione di tutti arricchisce tutte le parole dei dialoganti. Nel secondo versante si indica il nomos, nel suo incidere istituente il complesso delle norme vigenti in un tempo, costitutive di un testo, assunto come l’essenziale riferimento regolativo che disciplina le relazioni tra le persone e tra le persone e le istituzioni. Questi due versanti -‘legge del testo e ‘testo della legge’si chiariscono nel ripensare il concetto di Kant, espresso con la formula ‘fede razionale’, poiché entrambi non possono essere trattati esclusivamente né a)dall’intuizione del sentire, che si affida ad una 9 Ivi, pp. 48-49. Ivi, p. 51. 11 Cfr. il mio La legge del testo. Coalescenza di logos e nomos, Torino, 1999. 10 12 13 fede, né b)dalla purezza della ragione, divelta dalla materialità della condizione umana. La ‘legge del testo’ può essere chiarita come l’inizio normativo dell’esercizio della parola in una lingua, come il muovere da un ‘oriente’, da dove acquistano luce il rilievo e la disciplina della pluralità delle parole destinate all’altro. Viene qui nominata la fede, intesa come insieme di elementi soggettivi sufficienti che avviano il dialogo tra l’io ed il tu. Sono gli elementi soggettivi che colgono il ‘sentire che l’altro mi può comprendere’, poiché insieme apparteniamo all’unità di una lingua, che consente sia l’arricchirsi dei miei pensieri, nel ricevere i pensieri degli altri, sia il donare agli altri quanto io posso destinare al perfezionamento delle loro personalità di soggetti parlanti. È il perfezionarsi-arricchirsi nella reciprocità del dialogare, regolata dalla ragione del riconoscimento incondizionato dell’inviolabilità dell’universale diritto di tutti a prendere la parola nascente dalla capacità simbolica delle persone, creatrici di senso. Il ‘testo della legge’ è costituito da una selezione che, tra le tante norme istituibili nelle relazioni interpersonali, ha istituito alcune norme e non altre, secondo una selezione che ha il suo principio nella fede, custode del sentire la dignità umana, incontrata dalla ragione che illumina l’incondizionata struttura universale delle persone, qualificativa dello status, privato e pubblico, dell’io di ogni singola donna e di ogni singolo uomo. La ‘legge del testo’ ed il ‘testo della legge’ sono due versanti della ‘fede razionale’, che illumina l’analogia e la connessione dell’‘orientarsi nel pensiero’ e dell’‘orientarsi nelle norme’. La ‘legge del testo’ è presentata nel muovere dalla fede nel potersi ritrovare nell’altro, ovvero dalla fede che l’io ha nel riconoscersi nel tu, in una condizione radicata nel presupposto che la fede illumini il riconoscimento e l’uguaglianza delle persone in quanto persone. Senza il ‘sentire’ queste dimensioni relazionali, non si avvierebbe nessun rapporto umano, più specificamente nessun relazionarsi dialogico, nel suo essere il nucleo di ogni tipo di interagire dei parlanti secondo la loro capacità simbolica, che è assente nel non-umano. 13 14 Parlare è affidarsi al domandare ed al rispondere nella reciprocità dell’avere fede nel dialogare, che accomuna i soggetti del linguaggio, disciplinati dal principio di uguaglianza. Da questa fede nella ‘legge del testo’, così intesa, si avvia l’opera legislativa dell’istituzione delle norme, che disciplinano le relazioni tra gli esseri umani di una comunità, secondo la selezione dei contenuti del ‘testo della legge’. Questa opera istituente trova la sua misura, la sua ‘pietra angolare’, nella ragione, vissuta come rispetto dell’universalità della condizione umana, centrata nella dignità, che non è il prodotto contingente dei fatti storici, nelle loro modalità vitali, mercantili, ideologiche, etc., ma è una dimensione inviolabile, formativa della differenza antropologica, che segna il salto, e non la semplice differenza di grado, tra l’umano e tutto il resto del non-umano. La figura e l’opera del giurista appartengono esclusivamente alla condizione umana. Sono assenti nelle cose, nelle macchine e nei viventi non-umani, insuperabilmente privi sia della ‘legge del testo’, sia del ‘testo della legge’, sia della loro unitàdistinzione, illuminata dalla ‘fede razionale’, pensata da Kant. Come osserva Calamandrei, il giurista, considerato, nel pensiero dei classici, il “sacerdote della giustizia”, attualmente “è scaduto nella comune opinione al livello di un equilibrista della dialettica che ingegnosamente si esercita sui trapezi delle pure formule, senza darsi pensiero del contenuto, buono o cattivo, ch’esse ricoprono”. Ne consegue che i giuristi “rischiano di apparire come dei calcolatori senz’anima e senza preferenze, schiavi del fatto, pronti a servire qualunque padrone ... Di qui l’origine di quello scetticismo che c’è oggi tra i giovani, anche tra quelli che si inscrivono a giurisprudenza, sulla forza ideale di quel diritto che essi studiano: la scienza giuridica fa un po’ la parte non brillante della grammatica, la quale si adatta a tutti i testi, ma non ha niente a che fare con l’ispirazione artistica”12; si adatta anche ai testi dei ‘fedeli’ di ogni fondamentalismo, da quello religioso dei tagliatori di teste, a quello economico dei signori della finanza, dei padroni delle multinazionali, dei detentori delle concentrazioni bancarie, etc. 12 P. Calamandrei, Fede nel diritto, Roma-Bari, ed. dig., 2014, p. 2 of 26. 14 15 La discussione sulla ‘fede razionale’ -riprendendo la terminologia di Kant- consente di orientarsi nella complessità del fenomeno del diritto. Si possono considerare due itinerari principali, che, in questo fenomeno, Calamandrei così nomina: quello del “sistema della formulazione giudiziaria” e quello del “sistema della formulazione legislativa”. Nel primo sistema, si ha una vita sociale che si svolge senza alcuna regola istituita dal legislatore, così che “lo Stato interviene come arbitro pacificatore, e detta lì per lì la soluzione che ritiene più appropriata alla singola lite”, ovvero interviene “caso per caso”. In questa direzione, “il diritto lo si manifesta nello stesso momento in cui viene eseguito; diritto e forza coincidono in un punto solo”, quello che risulta vincente nella contingente combinatoria dei fatti ed impone la sua soluzione. Nel secondo sistema, “lo Stato non si limita più a reprimere con mezzi di fortuna il conflitto quando sia concretamente già insorto, ma procura di prevenirlo: per ottenere ciò prevede in anticipo con un processo di astrazione ... [definendo] le classi tipiche di conflitti nei quali il suo intervento potrebbe essere utile”. Ci si trova davanti ad un primo sistema, quello di una soluzione ‘caso per caso’, oppure davanti ad un secondo sistema, che registra un’attività del legislatore, separata e cronologicamente precedente l’attività del giudice. L’opera di istituzione delle leggi è tale che, quando “il diritto sia uscito dalla fucina del legislatore, colato nelle formule delle leggi, esso si raffredda e si consolida, e il giudice deve applicarlo così come esso gli viene presentato, senza poter ricominciare per conto suo quel lavoro di diagnosi politica, che è stato compiuto ... dal legislatore”. In questa prospettiva, si afferma il principio costitutivo del “sistema della legalità”13. Il rispetto del principio di legalità comporta che i giudici, in quanto giuristi e non politici, abbiano conoscenza “delle leggi e dei metodi con cui si compie il raffronto tra le loro ipotesi astratte e la concreta realtà dei casi umani”. Quando invece “vige il sistema del caso per caso, i giudici devono essere non dei giuristi”, ma delle figure politiche, ritenute idonee a procedere senza riferimento alle 13 Ivi, p. 9 of 26. 15 16 leggi già istituite e senza conoscenza dei metodi dell’ermeneutica giuridica, che orienta ed argomenta il passaggio dalla norma generale al caso particolare. Si richiede unicamente “quella misteriosa dote naturale che è la sensibilità politica”14. Si confondono qui l’attività del legislatore e quella del giudice. La funzione legislativa e la funzione giurisdizionale risultano indistinte, non separate. Il principio di legalità si concretizza nell’orizzonte della generalità-astrattezza delle norme istituite, che consentono la custodia di un principale bene personale-interpersonale: la certezza del diritto. Su questi temi, in Calamandrei si legge: “senza la legge astratta non può esservi in concreto tra i consociati quella certezza del diritto, che permette di sapere in anticipo quali sono i limiti del lecito”. Di conseguenza “non può esservi in concreto alcuna garanzia di dignità umana”, rispettata come esige il principio di reciprocità, di uguaglianza. Viene qui sostenuto che, nel “sistema della legalità”, “ciascuno sa che nel momento stesso in cui afferma il diritto suo proprio, nello stesso momento egli riconosce, basato sulla stessa legge, il diritto del suo simile e il suo proprio dovere dinanzi a lui”15. Il rispetto del principio di legalità e la custodia della certezza del diritto non sono elementi della giuridicità che possono concretizzarsi nella società in modalità meccaniche, in operazioni robotiche, logico-matematiche, semplicemente esecutive del ‘testo della legge’, poiché i giuristi eserciteranno il loro compito con il “risalire dalle leggi all’ordinamento giuridico”, così da prendere atto che “la realtà positiva del diritto è più vasta e più organica di quella che affiora nell’apparenza del diritto scritto”, si radica nella ‘legge del testo’. I giuristi sono pienamente tali perché possiedono la consapevolezza di operare con il ricorso alle “regole dell’interpretazione” ed ai “principi generali” del diritto, riaffermando che le norme hanno una configurazione generale e pertanto una ‘elasticità’ affidata all’arte ermeneutica, che offre al giudice delle “valvole di sicurezza”, degli “organi respiratori” del sistema giuridico vigente, in modo da poterlo mantenere 14 15 Ivi, p. 11 of 26. Ivi, p. 13 of 26. 16 17 costantemente sensibile alle “esigenze della società a cui esso deve servire”16, nel rispetto della ‘legge del testo’. La “fede nel diritto” e “la fede del giurista”, afferma Calamandrei, consistono nel “portare in mezzo agli uomini, e specialmente in mezzo alla povera gente, la sensazione che l’uguaglianza di tutti cittadini dinanzi alla legge non è una beffa a cui i giudici volgono le spalle, ma è una realtà che vive e si afferma, più forte di ogni prepotenza e di ogni soperchieria”, superate -si può dire, come prima discusso con Kant- da una “fede razionale”, che illumina l’‘orientarsi nelle norme’ in un nesso circolare con l’‘orientarsi nel pensiero’. Il principio di legalità e la certezza del diritto riaffermano che le relazioni giuridiche sono concepite “in forma di correlazione reciproca” e sono concretizzate quando il diritto “non può essere affermato in me senza essere affermato contemporaneamente in tutti i miei simili ... Nel principio della legalità c’è il riconoscimento della uguale dignità morale di tutti gli uomini ... Attraverso l’astrattezza della legge, della legge fatta non solo per un caso ma per tutti i casi simili, è dato a tutti noi sentire nella sorte altrui la nostra stessa sorte: quasi si direbbe che in questo principio della legalità che risale alla grande tradizione del diritto romano si trovi trasfusa in formula logica l’imperativo morale che comanda di non fare agli altri ciò che non si vuole sia fatto a noi stessi”17. Nel rispetto del principio della legalità e della certezza del diritto, non si può evitare l’interrogativo: che ne è delle questioni sulle leggi ingiuste? In Calamandrei si legge “la qualificazione di ingiustizia data a una legge importa ... non un giudizio giuridico, ma morale”18. Tuttavia, poco più avanti, Calamandrei considera che “può esservi, basato sul principio della legalità, un regime autoritario, nel quale, pur essendovi leggi generali ed astratte, e un apposito provvedimento legislativo per formularle, la formulazione di esse è però affidata a un despota o a un oligarca, e senza il rispetto di quelli che si chiamano i diritti della libertà”. Segue l’affermazione: “occorre che la libertà 16 Ivi, p. 21 of 26. Ivi, pp. 24-25 of 26. 18 P. Calamandrei, Non c’è libertà senza legalità, Roma-Bari, ed. dig., p. 11. 17 17 18 individuale sia assicurata anche contro le leggi ed anche nel periodo di formazione delle leggi. ... [nell’]atto stesso in cui [si] stabilisce il sistema della legalità, secondo il quale la libertà può essere limitata purché si rispetti il procedimento legislativo”. Sono riconosciuti e riaffermati i “diritti di libertà, che le leggi, anche se deliberate regolarmente, non possono sopprimere”. La legalità “può modificare tutte le leggi meno quelle poste a priori come condizioni necessarie per il rispetto della libertà. La libertà di culto, di stampa, di pensiero, di riunione, ecc., la uguaglianza dei cittadini nonostante ogni diversità di razza o di religione, sono considerate come estrinsecazioni insopprimibili della personalità umana, che non si potrebbero menomare senza per questo sopprimere la libertà. Le leggi possono far tutto meno che sopprimere questi diritti intangibili ... possono far tutto meno che infrangere questi principi”19. L’insieme dei riferimenti, qui delineati, al pensiero di Calamandrei -specificamente il rinvio al principio della legalità ed alla certezza del diritto- sollecita a riproporre l’analogia tra l’orientarsi nel pensiero e l’orientarsi nelle norme, così da descrivere e chiarire il nesso che lega e distingue la legge del testo ed il testo della legge, riproponendo il seguente interrogativo di Luhmann: ‘esistono ancora norme indispensabili?’. Lungo il questionare sul darsi di ‘norme indispensabili’ (Luhmann), di ‘diritti intangibili’ (Calamandrei), i passi primi ed essenziali concernono la peculiarità del sistema giuridico, nell’insieme dei sistemi sociali20, ed i legami che saldano gli anelli dell’ermeneutica giuridica21 e della specificità fenomenologicoesistenziale del linguaggio umano22, nucleo dell’interagire delle persone nell’esercizio della loro capacità simbolica. 19 Ivi, p. 14. Cfr. L. Avitabile, Modernità e pensiero giuridico. Persona sistema testo, Torino, 2013; Cammini di Filosofia del diritto, Torino, 2013. Si deve a L. Avitabile la traduzione e la cura di N. Luhmann, Il diritto della società, Torino, 2012. 21 Cfr. G. Bartoli, Il problema dell’interpretazione giuridica tra ermeneutica e fenomenologia, Torino, 2014 22 Cfr. C. Palumbo, Norma diritto interpretazione. Grammatica e filosofia del diritto a partire da Salvatore Pugliatti, Torino, 2016. 20 18 19 Si ripropongono qui le connessioni tra a)l’orientarsi nel pensiero e b)l’orientarsi nelle norme, che implicano una riflessione c)sull’orientarsi nella libertà. In assenza di questa terza dimensione non si presenterebbero né il pensiero umano, né le norme istituite in un sistema giuridico. Se si rimuove l’insieme delle questioni sulla libertà, il pensiero, le norme giuridiche ed il loro incidere sulle persone residuano come effetti di meccanismi naturalistici, operativi in tutti gli enti non umani, costitutivamente privi della capacità di pensare, di volere e di istituire le norme di una comunità, formata da soggetti responsabili, imputabili e non innocenti come le cose, i vegetali e gli animali, mai autori della storia e sempre estranei al fenomeno del diritto. *** Lo studio di Kant Che cosa significa orientarsi nel pensiero? è del 1786. Nel 1792 Kant pubblica un articolo su Del male radicale nella natura umana23. In quest’ultimo lavoro, il problema del male sollecita una riflessione sull’orientarsi nella libertà, poiché si può nominare questo termine -libertà- soltanto se non si è naturalisticamente già pre-determinati a compiere dei comportamenti, ma si è esposti al selezionare un itinerario che qualifica l’esercizio della libertà in una definita prospettiva e non in una diversa, compiendo atti conformi al bene ed al giusto oppure al male ed all’ingiusto. Si legge in Kant: “il principio del male non si può trovare in un oggetto determinante il libero arbitrio per inclinazione, né in una tendenza naturale, ma soltanto in una regola che il libero arbitrio fa a sé stesso per un uso della sua libertà, cioè in una massima”. Si afferma qui che l’orientamento della libertà verso il male non può essere ridotto “ad una determinazione da parte di cause naturali”, poiché questo “contraddice alla libertà”24, la nega, la spoglia della responsabilità-imputabilità e la configura come irrilevante per il diritto. 23 24 I. Kant, Il male radicale, Milano, 2014. Ivi, p. 77. 19 20 Una tesi centrale in Kant è la seguente: “la libertà di cui è dotato il libero arbitrio ha un carattere del tutto particolare, e cioè che essa non può essere determinata ad un’azione da un motivo se non in quanto l’uomo ha accolto tale motivo nella sua massima (se ne è fatto una regola generale secondo la quale egli vuole comportarsi)”25. Si intende chiarire così che la libertà consiste in atti che si danno un orientamento, pensato, voluto, scelto e costituito da un percorso personale, qualificativo della singola esistenza dell’io, che seleziona una massima, ovvero una regola generale, una forma qualificativa dell’incontro con gli altri esistenti e del rapporto con il mondo condiviso, nella concretezza dei casi particolari. L’‘orientarsi nella libertà’ non è un fatto bio-macchinale, ma è un atto dell’io, che si connette all’‘orientarsi nel pensiero’ ed all’‘orientarsi nelle norme’. Queste tre dimensioni dell’assumere un orientamento sono costitutive della differenza antropologica, che segna il salto ontologico tra l’umano ed il non-umano, poiché in quest’ultimo versante non si presenta alcunché né della libertà, né del pensiero, né dell’opera dell’istituzione delle norme giuridiche; non vi è nulla dell’orientarsi, ma si è già-orientati. L’unità-differenza tra questi tre modi dell’orientarsi illumina il legame tra i due poli della legge del testo e del testo della legge. Nel primo polo si presenta ciò che è sottratto alla disponibilità degli esseri umani, che non possono che esistere nell’assumere una massima orientante l’esercizio della loro libertà, superando l’indifferenza verso i più differenziati cammini ed istituendo un testo della legge, mai riconducibile ad una esecuzione a-personale delle leggi della fisica, della biologia, della meccanica, della robotica, etc. Assumere una massima comporta il fare propria una ‘regola generale’, che orienta il singolo esistente nel comportarsi nella concretezza dei ‘casi particolari’. Si intende qui mostrare che, davanti al singolo caso concreto, la condotta scelta dall’essere umano non è semplicisticamente particolare, ma consiste nella concretizzazione di una regola generale in un caso specifico, definito nella sua peculiarità. L’essere umano non esiste immergendosi in un itinerario esistenziale che vede ogni volta un caso isolato, poi un caso 25 Ivi, p. 81. 20 21 successivo, poi un altro ancora, etc.; non esiste nella modalità del ‘caso per caso’, ma nell’assumere una visione generale, una massima regolativa del suo essere-aperto nella relazione con il mondo e con gli altri. I temi del male e della libertà hanno in Kant una trattazione che, nel suo nucleo, è così esposta: “l’uomo deve farsi o essere fatto da sé stesso ciò che egli è o deve divenire ... buono ... o cattivo”. Quel che egli è, in ogni sua situazione, morale o giuridica, “deve essere un effetto del suo libero arbitrio, perché, altrimenti, essa [, la situazione,] non potrebbe essergli imputata”26, così che la persona non potrebbe essere qualificata e giudicata né buona o cattiva, né giusta o ingiusta, né rispettosa o irrispettosa della legalità, etc. La condizione prioritaria affinché si possa dare una qualsiasi qualificazione -morale e/o giuridica- all’esistenza umana è che si debba trattare di atti pensati e voluti dalla singola persona ed in quanto tali imputabili all’esercizio della sua libertà. Non si è buoni e giusti, cattivi ed ingiusti perché si esegue una inclinazione bionaturale, né perché ci si trova in una situazione che ambienta le nostre scelte, ma si è qualificabili, nelle modalità appena nominate, unicamente in quanto si è responsabili-imputabili, ovvero perché si è scelta una motivazione e la si è assunta nella luce di una massima, che viene fatta propria nella concretezza dei casi dell’esisterecoesistere quotidiano. Una massima è assunta come una regola generale, non è esauribile in un singolo caso, ma è tale da poter essere riferita ad una visione generale dell’essere-aperto dell’uomo nello scegliersi, nel formarsi una sua identità esistenziale, nel medio dell’interagire dialogico con gli altri, mantenendosi costantemente nella plurivocità di un linguaggio simbolico-creativo e non spegnendosi nell’univocità di un linguaggio segnico-esecutivo. La persona permane sempre sospesa in una esistenza che non può essere liberata dalla tendenza al male, costitutiva di un ‘male radicale’, che è inestirpabile. Se fosse possibile eliminare la dimensione del male, dell’ingiusto e dell’illegale, ed esistere nella purezza del bene, del giusto e del legale, dovrebbe venir meno la differenza tra la 26 Ivi, p. 106. 21 22 generalità della massima, assunta per l’orientamento delle condotte personali, e la particolarità del caso concreto, che ambienta la specifica volontà umana. Nelle comunità delle persone dovrebbe venir meno la differenza tra i due versanti della legge del testo strutturata come la massima- e del testo della legge -strutturato come il caso particolare-, prima analizzati e discussi nel loro appartenere esclusivamente agli autori di un linguaggio dialogico, illuminato dalla plurivocità dei simboli, che, in ogni parola, presenta un significato e simultaneamente apre una domanda di senso sul significato presentato. Possono essere ripresi due itinerari, esposti nello scritto Che cosa significa orientarsi nel pensiero?, prima analizzato e posto in discussione. In un primo itinerario, si sostiene che “per quanto in alto possiamo porre i nostri concetti e per quanto, inoltre, possiamo astrarre dalla sensibilità, tuttavia a essi continuano a rimanere attaccate delle rappresentazioni figurate, la cui peculiare destinazione è di rendere idonei all’uso empirico quegli stessi concetti”27. In un secondo itinerario, si afferma che “la libertà di pensare”, bene primo dell’esistenza umana, è mantenuta attiva unicamente quando noi pensiamo “in comunità con gli altri, ai quali noi partecipiamo i nostri pensieri ed essi a noi i loro”28. Quanto al primo itinerario, i concetti del bene e del giusto, del male e dell’ingiusto sono tali che, nella specificità della condizione umana, permangono radicati in ‘rappresentazioni figurate’ e così sono qualificati anche dalla non-purezza di tali rappresentazioni, che sono ‘figurate’, ovvero sono calate nella materialità dei casi particolari e quindi nel continuo attraversarsi di contaminazioni tra le diverse, contingenti, mutevoli, modalità di situazioni concrete. Si intende alludere ai casi reali, costitutivamente distanti dalla purezza del concetto del bene e del giusto, perché sempre esposti alla possibilità di cedere al male ed all’ingiusto, alla possibilità di identificarsi in una singola figura particolare, di perdersi nella sua ripetizione, nella chiusura in una singolarità confinata, emendata da dubbi, interrogativi, analisi comparative, etc. Nelle 27 28 I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero?, cit. p. 29. Ivi, pp. 48-49. 22 23 persone, qualsiasi concetto viene ambientato in rappresentazioni particolari e quindi perde la purezza della generalità, propria della massima assunta nel definire le condotte. Quanto al secondo itinerario, parimenti la libertà di pensare appartiene certo ad ogni singola infungibile persona, ma ha la sua concretezza nel pensare con gli altri, nella comunità del dialogare, che si dispiega nella plurivocità simbolica dell’interagire e quindi viene ogni volta esposta alle molteplici possibilità interpretative, che aprono sia al consentire, sia al dissentire e pertanto al conflitto discorsivo, che si alimenta alla compresenza sia del bene e del giusto, sia del male e dell’ingiusto, concreti nell’unitàdifferenza del bene particolare e del bene universale. L’eliminazione del male radicale e dell’ingiustizia radicale comporterebbe un sapere totale di queste due dimensioni e di quelle opposte del bene radicale e del giusto radicale. La padronanza assoluta del sapere avrebbe però, come effetto insuperabile, l’eliminazione stessa della condizione di libertà nella sospensione tra le alternative. La persona si disimpegnerebbe dalla riattivazione, mai ultima, pensata e voluta, della costruzione del bene e del giusto, nella connessione ineliminabile del donare a se stesso (egoismo-amore di sé) e del donare agli altri (altruismo-amore del prossimo), in una comunità di autori del pensare=donare il senso, secondo una reciprocità universale ed incondizionata. L’amore di sé e l’amore del prossimo entrano in una relazione che inevitabilmente si confronta con il possesso e con la proprietà dei beni, con il mio e con il tuo, con la quantità dell’avere di una persona che, quanto al medesimo bene, esclude l’avere di un’altra persona e non può possedere un sapere compiuto degli effetti negativi di un tale escludere, che residua come un male radicale, paradossalmente connesso al bene radicale, costituente l’inizio di ogni azione concepita da qualsiasi persona. Vogliamo il male perché, nell’immediato, ci si presenta, pur senza una ragione sufficiente, come il bene. Chi sceglie consapevolmente il male, compie una tale scelta perché gli si presenta essere, qui ed ora, il bene, nella configurazione di quel che gli è utile nella situazione presente. Tuttavia la priorità della dimensione del bene, come inizio motivante l’agire umano, si concretizza in modalità che registrano la pluralità 23 24 degli esseri umani, la loro differenza, la possibilità che il desiderio di uno non si possa realizzare integralmente senza venire a limitare la realizzazione del desiderio dell’altro, poiché alla comunità umana appartiene la condizione insuperabile della scarsità dei beni, della penuria. Non vi è disponibilità illimitata di tutti i beni per i desideri di tutte le singole persone, poiché la realizzazione di un mio desiderio necessita della disponibilità di beni miei, sottratti alla disponibilità di un’altra persona. Non vi è tutto per tutti e gli effetti delle limitazioni del mio e del tuo incidono non solamente nella sfera esteriore dell’avere, ma anche e profondamente nella sfera interiore del sentire. La sofferenza che si produce nell’altro, nel non poter realizzare i desideri su beni suoi, non disponibili da altri, non è oggettivabile e costituisce un aspetto del male radicale, insuperabile. L’inizio dell’azione di chi sceglie il male si ha con il bene radicale, genesi di qualsiasi atto umano. Nessuno vuole il male se non perché impropriamente lo valuta, qui ed ora, come il bene. *** I temi discussi da Kant nei due studi ricordati in queste pagine sono riferibili unicamente alla persona umana, che si orienta nel pensiero ed esiste nell’essere attraversata dalla dimensione del male radicale, mai eliminabile. In Kant, secondo l’interpretazione di Heidegger, le questioni specifiche dell’essere umano sono da ricondurre alla libertà intesa “come privilegio specifico dell’uomo in quanto entità razionale”29, riconosciuto come persona, avendo presente che “la personalità significa per Kant quel che costituisce l’essenza della persona in quanto persona, l’esser persona”. Heidegger si chiede “che cosa costituisce la personalità di una persona?” Considera che la dimensione della personalità “fa dell’uomo una entità razionale e nello stesso tempo capace di imputazione ... L’essenza della persona, la personalità, consiste nella M. Heidegger, Dell’essenza della libertà umana. Introduzione alla filosofia, Milano, 2016, p. 541. 29 24 25 responsabilità di sé” e costituisce l’uomo come il solo essere “capace di imputazione”30 e pertanto l’unico ente che ha la sua esistenza anche nell’intero svolgimento del fenomeno giuridico, avente il suo centro proprio nella responsabilità-imputabilità, nucleo di ogni momento della giuridicità. Viene riaffermato che “la responsabilità di sé è allora il modo fondamentale dell’essere che determina tutti gli atti e le omissioni dell’uomo”31. Interpretando Kant, Heidegger, ribadisce la differenza tra l’umano ed il non-umano e sostiene che “il privilegio dell’uomo risiede nella personalità, l’essenza di questa nella responsabilità di sé”. La specificità della condizione umana viene colta nella responsabilità-imputabilità degli atti posti in opera dalla singola persona, nella formazione continua della sua originale personalità, mai fungibile con quella di qualsiasi altro essere umano. In modalità, sia pure metaforiche, Heidegger osserva che “anche in una macchina è dato secondo Kant un agire, ma ciò che lì determina il movimento di una parte non viene rappresentato da questa parte determinata come il determinante”, così da doversi sostenere che “la macchina e le singole parti non possono agire volontariamente, [poiché] non c’è un effettuare secondo e mediante concetti”32. Così viene sostenuto che la responsabilità-imputabilità, anche nei suoi rilievi giuridici, è radicata unicamente nelle persone, nel loro personale selezionare un orientamento, scelto e posto in opera nel suo differenziarsi da altri orientamenti. Il poter essere imputabile è il rispondere-di-a e si manifesta nella “capacità di effettuare secondo la rappresentazione di qualcosa in quanto principio”33. Questa tesi viene confermata nel sostenere che “la volontà è la capacità di determinare la sua causalità, di determinarsi nel suo essere causa”34, assumendo un orientamento selezionato, scelto e voluto nel confronto con altri orientamenti praticabili. 30 Ivi, p. 543. Ivi, p. 545. 32 Ivi, p. 567. 33 Ivi, p. 569. 34 Ivi, p. 571. 31 25 26 Quando “io voglio in maniera effettiva, cioè mi decido, voglio nella risolutezza, ossia assumo su di me la responsabilità e in questa assunzione divento esistente”35. Nell’assunzione di responsabilità io formo, in modo mai ultimo, la mia personalità e rispondo del mio divenire l’esistente che divengo. La personalità costituisce il concretizzarsi effettivo della persona, che pertanto non è un concetto vuoto, ma si viene mostrando nel mondo condiviso con gli altri, così da presentare gli atti della libertà, che appartengono ad un io che di essi risponde, non unicamente alla sua chiusa individualità, ma all’interezza dell’umanità. “La libertà pratica in quanto autonomia è responsabilità di sé, questa è l’essenza della personalità della persona umana, l’essenza autentica, l’umanità dell’uomo”36. Nell’agire di ogni persona, nei suoi atti, nelle sue condotte, che si inscrivono nel mondo abitato anche da altre persone, lo scopo legittimo perseguito è quello costituito dall’apertura relazionale, rispettosa dell’umanità, e non dalla chiusura egoistica di un io nelle diverse modalità di un narcisismo, che, nella coerenza del suo essere tale, non si apre ad una formazione della personalità che riconosca il differenziato formarsi delle altre personalità. Argomentare che lo scopo dell’agire umano non è un io chiuso nella sua sufficienza autoreferenziale, comporta il condividere che l’agire della persona assuma dei limiti, costituiti prioritariamente da quel limitare richiesto dal riconoscimento dei diritti, di tutte le altre persone, alla formazione della loro personalità, pur sempre secondo itinerari coesistenziali che si concretizzano non escludendo alcuna persona dall’essere riconosciuta in quanto tale. Scrive Lowen: “è soprattutto il rifiuto dei limiti sociali ... a favorire lo sviluppo dell’atteggiamento narcisistico”37. I limiti giuridico-sociali si presentano come principi e regole per l’esercizio della libertà della singola persona, poiché senza l’assunzione di limiti la libertà si sforma, si distrugge nell’informe, nell’omnieventualità dove tutto può accadere. La persona e la sua essenza, ovvero la 35 Ivi, p. 579. Ivi, p. 611. 37 A. Lowen, Il narcisismo, Milano, 2009, p. 178. 36 26 27 personalità in continua formazione, necessitano dei confini che conferiscono una forma, una definita identità esistenziale. In questa direzione, Lowen scrive: “individualità e personalità dipendono dalla presenza di confini e limiti riconosciuti e accettati”, così che “l’io non venga sommerso, sopraffatto e perduto”38, in assenza di una garanzia giuridica, custode della pretesa della persona alla libera formazione della sua personalità nella reciprocità dell’interagire comunitario. La persona, che cade in una condizione di narcisismo, si trasforma in un passivo spettatore della sua immagine e così si chiude all’alterità delle altre persone, alla ricerca di una nuova, creativa ipotesi di senso da inscrivere nel mondo condiviso con gli altri. “Avendo assunto l’atteggiamento passivo dello spettatore, è poi difficile ritrovare le energie per riprendere la vita attiva”39, ovvero per attivare anche l’apertura al rispetto giuridico delle differenziate personalità delle altre persone. Il narcisista non ha problemi di orientamento, non ha interrogativi, dubbi, domande, né quanto all’‘orientarsi nel pensiero’, né quanto all’‘orientarsi nelle norme’, poiché si trova a vivere in un essere sempre già-orientato secondo la coincidenza con una sua immagine, con la chiusura autoreferenziale in essa. Il permanere in una situazione di narcisismo esige lo spegnimento della meraviglia, dello stupore, che si destano prioritariamente nell’accogliere l’alterità, l’altro nella sua non prevedibilità, nella capacità di sorprendere, che riattiva la volontà di una formazione di senso nell’interagire dialogico. Dialogo e narcisismo si oppongono in modo radicale, poiché il narcisista si chiude nel suo monologo, rifiuta l’ascolto e l’accoglienza dell’altro, rispettato nell’interagire discorsivo. L’immagine, che esaurisce l’individuo narcisista nella coincidenza con uno stato del suo io, rende negativamente indifferente la presenza degli altri ed il comprendere le relazioni interpersonali nel consenso e nel dissenso. Queste due dimensioni perdono il loro significato una volta che ci si è chiusi in un immagine definita, estranea sia al consentire sia al dissentire, essendo una immagine narcisistica, autosufficiente, monologica, e pertanto priva 38 39 Ivi, p. 179. Ivi, p. 190. 27 28 delle questioni aperte con le domande inizianti il dialogare sul consenso e sul dissenso, genesi delle controversie giuridiche e delle soluzioni concepite nelle attività legislative e giurisdizionali. Scrive Lowen: “i narcisisti non sono né liberi da preoccupazioni, né innocenti. Hanno imparato a giocare il gioco del potere, a sedurre e manipolare. Si preoccupano sempre di come li vedono gli altri, delle reazioni che sapranno suscitare. E devono mantenere il controllo”40. La figura di chi persegue la condizione di narcisismo coincide con quella di chi ricerca un potere senza limiti, senza confronto con gli altri e pertanto anche senza controversie, dove ogni persona, accogliendo la personalità degli altri, accoglie la loro differenza, capace di aprire situazioni conflittuali che esigono una regola, un limite, una disciplina giuridica che sia ‘terza’, ‘sovra le parti’. Il narcisista è una ‘parte’ che si esaurisce nella sua immagine e disconosce le altre parti, così da chiudersi alla dimensione della terzietà, che è sovra le parti, poiché costituisce una regola che non è imposta da una parte ad un’altra parte, ma è una regola imparziale, strutturata in modo da custodire la differenza di senso, che forma le distinte personalità, conferisce luminosità, pur accogliendo il limite che sanziona l’esclusione di un singolo essere umano. 40 Ivi, p. 194. 28 29 INTRODUZIONE CAPACITÀ SIMBOLICA INTERAGIRE ED ORIENTARSI NELLE ISTITUZIONI 29 30 30 31 Kant coglie la peculiarità della conoscenza fisiologica, distinta dalla conoscenza pragmatica, che “mira a indagare ciò che egli [l’uomo], in quanto essere che agisce liberamente, fa ovvero può fare di se stesso”. Si presentano due itinerari distinti, che Kant così descrive: uno concerne il ‘conoscere il mondo’ e l’altro l’‘aver pratica del mondo’; “nel primo caso ci si limita a comprendere il gioco cui si è assistito, mentre nell’altro vi si è preso parte”41. Nel ‘prendere parte al gioco’, ogni singolo essere umano è se stesso e lo è nel differenziarsi dall’altro. In questo differenziarsi interpersonale, la persona avverte che formula un suo giudizio e che, nel formularlo, mette “alla prova la correttezza del … giudizio”, interagendo e confrontandosi con i giudizi delle altre persone. La condizione umana mostra il desiderio del confronto dialogico nell’interagire. Kant osserva: “non si dica, peraltro, che almeno la matematica ha il privilegio di parlare in base alla propria sovranità: infatti, se prima non si fosse percepita la costante coincidenza tra il giudizio dell’agrimensore e il giudizio di tutti quegli altri che si dedicavano con talento e diligenza a questa disciplina, la stessa matematica non si sarebbe sottratta alla preoccupazione di cadere per qualche aspetto in errore”42. Questa tesi di Kant invita a pensare che anche la numerazione, nelle sue diverse tipologie, entra nell’orizzonte delle questioni sulla verità unicamente quando diviene oggetto del dialogo, del confronto tra il dire dell’io e del tu, del noi e del voi. Sia nell’orientarsi nel pensiero, sia nell’orientarsi nelle norme, l’essere umano vi è presente nella sua interezza, come una entità vivente, definita dalla sua specificità biologica, e come l’unica entità che esercita un pensiero ed una volontà capaci di trasformare il mondo secondo una personale ipotesi creativa di una forma nuova, concepita e decisa nell’interagire dialogico tra i soggetti parlanti. Scrive Plessner: “l’uomo costituisce certo la sua categoria di riferimento, ma non allo scopo di una pura classificazione, bensì 41 42 I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatica, Torino, 2010, p. 100. Ivi, p. 111. 31 32 per assicurare un’insondabilità che sancisca la serietà della responsabilità, dinanzi a tutte le possibilità nelle quali egli può comprendersi e dunque essere”43. L’insondabilità costituisce il luogo della responsabilità, che non ha una spiegazione scientifica, ma è l’atto personale del prendere e rischiare una libera decisione, che è scelta dal pensiero e dalla volontà della singola persona e che costituisce il nucleo di tutti gli elementi riferibili al poter essere dell’io responsabile-imputabile, nucleo della giuridicità. La decisione è un atto personale che si manifesta come un fenomeno sociale per il suo incidere sulla qualità delle relazioni umane; in questa sua seconda qualificazione mostra che ogni decidere umano ripropone gli elementi propri dell’istituire nei distinti sistemi sociali. L’opera dell’istituire entra nel mondo conferendo stabilità e durata ad una decisione che si forma nel dialogo tra le persone di una comunità. Già lo svolgimento stesso del dialogo esige che il suo darsi si compia in una lingua istituita, che ha acquisito una durata, così da poter consentire ai dialoganti lo scambio durevole delle loro ipotesi, secondo una definita lingua e non secondo un linguaggio indefinito, che renderebbe precaria la possibilità di scambiare le riflessioni sulle ipotesi formative della relazionalità umana. Una istituzione sorge con un atto singolo-plurale, che si inscrive nella storia del mondo, perché dura e non si dissolve nel momento stesso del suo presentarsi. In una istituzione, gli atti delle singole persone si intersecano gli uni con gli altri nella formazione del mondo, che costituisce il risultato del lavoro umano ed in questo si distingue dall’ambiente naturalistico, proprio delle cose, degli animali e delle macchine, privi della capacità di istituire un mondo. Le persone esistono nei due versanti del mondo condiviso: a)quello del continuare una forma di vita mediante il soddisfacimento di bisogni vitali e b)quello dell’iniziare una esistenza-coesistenza non già inscritta in un semplice svolgimento esecutivo dei meccanismi naturalistici, ma avviata anzi a formare una storia, al di là del semplice mutamento di accadimenti impersonali. Con l’opera dell’istituire, le persone si distaccano dai meccanismi degli accadimenti naturalistici, fisico-biologici, e creano 43 H. Plessner, Antropologia filosofica, Brescia, 2010, p. 54. 32 33 un tessuto di atti sociali destinati, per la struttura del loro interagire, ad una nuova formazione delle relazioni. Il sorgere delle istituzioni segna quella condizione che vede l’umanità consegnata ai suoi atti e non solamente consumata nell’esecuzione fattuale delle leggi dell’ambiente naturalistico. Si presenta qui una questione centrale, quella del come conciliare una condizione di stabilità trovata nelle leggi naturali con una condizione creata dalle istituzioni, che consistono in una stabilità istituita con un sistema normativo, nascente dal pensiero e dalla volontà delle persone e non semplicemente dall’ambiente naturalistico delle cose, di tutti gli esseri non-umani. L’istituzione libera dal cominciare ogni atto sociale da un inizio nuovo, perché l’istituzione consiste nella ripetizione di un cominciamento già compiuto e consolidato nella durata. Tuttavia questa liberazione offre, anche e simultaneamente, l’apertura di uno sguardo critico su ciò che è stato già istituito, ovvero sollecita ad un nuovo, originale ‘istituire altrimenti’, secondo un movimento storico che non ha una fissità omogenea alle leggi fisiche, biologiche, meccaniche, etc. Nella formazione delle istituzioni, si presenta principale la dimensione della reciprocità, poiché la struttura plurale di ogni istituzione mostra che in questa pluralità vi è l’incidere della comunicazione creativa interpersonale, non riducibile alle informazioni vitali a-personali, esemplificabili nelle operazioni in svolgimento negli elementi biologici dei sistemi immunitari. Nel comunicare ne va di un senso originale, di una creazione, sentita come tale in quanto un io accoglie un tu, che, nel riceverla, la ratifica e la interpreta. Significativamente si legge in Gehlen che “la reciprocità è una categoria fondamentale, riguarda un tratto essenziale dell’essere umano … Una parola è dotata di significato se si presuppone che possa essere una parola altrui e viene pronunciata mirando intenzionalmente a una risposta”44, concepita mediante la creatività del comprendere e dell’interpretare. Qui si sostiene che la parola viene pensata e pronunciata nel suo essere destinata agli altri, muovendo dal presupposto che chi la enuncia e chi la riceve sono accomunati dall’esistere in una 44 A. Gehlen, L’uomo delle origini e la tarda cultura, Milano, 2016, p. 63. 33 34 istituzione, quella di una lingua che dura in una epoca. La durata di una lingua è custodita dalle regole che la disciplinano e che garantiscono, per un tempo, la permanenza dei significati delle parole, sia nel loro essere destinati, sia nel loro essere ricevuti ed interpretati. L’orientarsi in una istituzione è omogeneo all’orientarsi in una lingua. L’un versante presuppone l’altro ed entrambi presuppongono l’interagire dialogico delle persone, capaci di esercitare un’attività che, simultaneamente, è di ripetizione e di creazione. Si legge in Gehlen: “l’uomo moderno vive nel punto di intersezione di molte istituzioni che nei confronti del singolo fanno valere … l’autorità di ciò che è fine a se stesso e pongono in relazione i singoli indipendentemente dalle situazioni oggettive”. Che le diverse istituzioni -quelle delle professioni, delle differenziate comunità di lavoro, dei raggruppamenti familiari, etc.- possano operare secondo il modello dell’essere-fini-a-se-stessi comporta che si debba “sospendere la questione del senso”, poiché chi si pone interrogativi sul senso alimenta l’apertura verso la ricerca di “istituzioni diverse da quelle presenti”45, che pertanto non troverebbero una loro fissata concretizzazione-esecuzione. Si apre qui l’insieme delle questioni che, anche nell’orientarsi nelle istituzioni, presentano il darsi di una molteplicità di fini, ognuno dei quali è perseguito per se stesso, per la sua concreta, funzionale realizzazione, non considerando che i conflitti tra i fini delle molteplici istituzioni non possono essere risolti che dal riferimento regolativo all’unità esistenziale dell’essere umano, mai smembrabile in una molteplicità di settori. L’unità e l’indivisibilità dell’io esigono che i conflitti tra le istituzioni siano superati dall’assumere come regola la reciprocità-uguaglianza tra le persone, non assoggettabili ad una determinata istituzione che, operando come totale-assoluta, prevalga sulle altre. Si offre all’analisi il cammino umano dell’orientarsi nelle istituzioni, del disciplinare, anche giuridicamente, i conflitti tra una istituzione e le altre. La posizione dell’uomo nel mondo, costituito da una pluralità di istituzioni, comporta che si prenda atto del formarsi 45 Ivi, p. 79. 34 35 di ogni istituzione nel suo differenziarsi dalle altre. Qualsiasi forma dell’interagire umano si costituisce per differenza da altre forme, ma questo costituirsi rinvia all’esercizio della libertà creativa di ogni singola persona in dialogo con la creatività delle altre persone. Si tratta di differenze non riconducibili alla commistione a-personale di accadimenti biologici, fisici, chimici, ma di differenze tali da essere riferite ad una relazione discorsiva, dove i dialoganti rispondono per le loro ipotesi di un concreto differenziarsi, che hanno una valutazione giuridicamente positiva se generano rispetto verso tutti ed una valutazione negativa se impongono a qualcuno una condizione di esclusione-assoggettamento. Ogni esercizio dell’interagire umano tende ad acquisire una durata acquistando la condizione propria di ciò che si costituisce assumendo la struttura di una istituzione, ovvero contrastando la mutevolezza del divenire, che non consente alcuna modalità del progettare per un tempo, né ad un singolo, né ad una comunità. La tendenza al durare appartiene primieramente alla struttura della parola che permane, come istituzione linguistica, se custodisce il suo significato, poiché una continua mutevolezza del significato delle parole segnerebbe la distruzione del linguaggio stesso, della sua radice più iniziale, consistente nel rendere possibile la stabilità di una comunicazione discorsiva tra i parlanti. Scrive Gehlen: “ciascuno converrà … che un’intenzione mentale si fissa e acquista durata solo attraverso il suono linguistico, mentre prima è solo il lampo di un significato che svanisce … In quanto suono linguistico, però, l’intenzione si sposta immediatamente nel campo dei contatti sodali, assume un contenuto obbligante in quanto parola circolante, condivisa da tutti”46. Il ‘contenuto obbligante’ della parola manifesta che il linguaggio è ‘terzo’, ‘sovra le parti’, è costituito da norme che regolano la comunicazione, la rendono possibile perché una determinata lingua è una istituzione che dura nel tempo e si distingue da un’altra lingua. Nel rapporto dell’io con una singola parola e con l’insieme di una lingua, l’inizio è costituito da una differenza che separa un significato da un altro significato e però non si ferma in questa 46 Ivi, p. 112. 35 36 separazione, ma da qui si muove per illuminare la relazione comunicativa -io/tu-, non limitabile nella stasi di quel che ha distinto i significati, essendo orientata invece al lavoro di continua trasformazione del mondo condiviso dai parlanti, autori originali del pensiero, della volontà, del dono del senso nella gratuità empaticoaffettiva. Anche le istituzioni “dell’economia, del diritto, dell’arte … hanno la caratteristica … di trasformarsi in valori autonomi”47. Così si può oscurare, sino a disperdersi, l’istituzione del diritto, che non è autoreferenzialmente destinata al diritto, non nasce per e non si rivolge al sistema giuridico, ma ha la sua genesi ed il suo concretizzarsi nel rispetto della relazione umana, in quanto relazione di uguaglianza tra i soggetti del dialogo, uguali perché tutti interagiscono nell’essere contemporaneamente debitori e creditori di senso, secondo i simboli che eccedono i confini dei segni e sollecitano la formazione di un ‘altrimenti’, creativo. I simboli formano il senso, oltrepassando i significati, nella loro chiusa datità. Esemplarmente, la toga non è un capo di abbigliamento, ma esterna il senso di una figura delle istituzioni giuridiche. Se l’istituzione giuridica acquista una sua chiusa autonomia, che concerne il ciclo delle operazioni sistemicofunzionali dell’attività legislativo-giurisdizionale, allora i contenuti di una tale istituzione possono essere anche contro-umani, ovvero possono rivestire di legalità l’esercizio della violenza di qualcuno che si impone a qualcun altro, negando la dimensione universale dei ‘diritti di libertà’, prima ricordati con Calamandrei. Si pongono le questioni nascenti dal conflitto tra la struttura della condizione umana e la struttura delle istituzioni, perché “la despecializzazione del comportamento è un tratto caratteristico dell’uomo (in generale), e, d’altra parte, proprio in questo consistono i rischi del suo non essere stabilizzato”48, ovvero non situato integralmente nella fissità e nella durata di una istituzione. Da queste considerazioni segue che tutte le istituzioni si costruiscono intorno ad una fissità, che però non può servire 47 48 Ivi, p. 81. Ivi, p. 116. 36 37 unicamente al suo stesso funzionamento, ma custodisce la ‘despecializzazione del comportamento umano’, che in Aristotele viene affermata con il sostenere che ‘l’anima umana è in un certo qual modo tutte le cose’, ha una plasticità che è propria della conoscenza-coscienza creativa degli esseri umani, espressa nella formazione dei simboli, che incidono nell’interagire, mai asservibile alla nuda correttezza dei segni, formativi delle parole segniconumeriche della tecnica, tendenti a sostituirsi alle parole simbolicoevocanti dell’arte. Le istituzione di una società impostano “sulla durata l’agire rivolto all’esterno e il comportamento reciproco. Anche le più alte sintesi spirituali … vivono solo fintanto che durano le istituzione al cui interno esse vengono vissute”49. Si è così portati a sostenere che la plasticità della struttura umana, il suo non essere determinata né da certezze a-personali, fisico-biologiche, né da meccanismi neurologici, esige tuttavia la durata di una fissità, che, a sua volta, si presenta subito in un rapporto di conflitto con la costante despecializzazione degli atti umani. Nell’attività istituente, la plasticità della persona si differenzia da tutto il resto del non-umano: “l’uomo non può … affermare nulla di sé in modo diretto, ma si concepisce solo a partire dal non-umano, nel confronto e nella contemporanea distinzione di sé da quello”50. Nel nostro presente storico, la differenziazione tra l’umano ed il non-umano diviene sempre più flebile, viene oscurata, lasciando formarsi una cultura centrata sulla figura di un ‘nuovo uomo naturale’. Questa figura “si sviluppa nel suo ambiente in modo prevedibile, senza reali lotte interiori, senza riferirsi costantemente alla rappresentazione di una nuova vita cui aspirare, senza sforzi personali per realizzarla. … il nuovo uomo naturale cambia con le circostanze, lo si controlla controllando le circostanze”51, manca della plurivocità incontrollabile dei simboli del linguaggio dialogico. Nel modello del ‘nuovo uomo naturale’, non residua alcunché delle lotte interiori; viene meno la stessa vita dell’interiorità 49 Ivi, p. 109. Ivi, p. 126. 51 Ivi, pp. 129-130. 50 37 38 e le istituzioni si limitano ad essere quella fissità-durata che è utile all’affermarsi delle ‘circostanze’, ovvero degli elementi che compongono funzionalmente un ambiente cosale, non più distinto dal mondo umano. Viene rimosso quel che è proprio dell’opera umana: la formazione pensata e voluta di un mondo storico, distinto dall’ambiente a-storico, costituito da un insieme di elementi che accadono senza alcun riferimento alla peculiarità della vita interiore della persona e dei simboli che la illuminano nel pensiero, nella volontà e nel pathos, condivisi con le altre persone. Appartiene alla specificità del ‘nuovo uomo naturale’ l’oscuramento della distinzione tra la vita interiore e la vita esteriore, ovvero di quella distinzione che è qualificativa della condizione umana ed è assente in tutto l’insieme del non-umano. La caduta di questa differenza comporta il venir meno anche delle questioni, esclusivamente umane, dell’orientarsi, pensato e voluto, sia tra i molteplici elementi del pensiero (logos), sia tra i molteplici elementi di un sistema normativo (nomos). Caduta la differenza tra la vita interiore e la vita esteriore, tutto diviene il risultato dell’insieme delle operazioni ambientali dove vive l’essere umano, tutto acquista i tratti propri di una meccanicità fisico-biologica. L’entusiasmo e la malinconia, l’amore e l’odio, l’accoglienza e l’esclusione finiscono per essere ritenute delle secrezioni di organi della corporeità, determinate dalle situazioni ambientali, secondo un darwinismo scolastico, acritico. L’orientarsi ha una qualificazione attiva, non consiste nella passività dell’essere orientato; è un atto, non un fatto. L’orientarsi è esclusivamente umano, l’essere-orientato qualifica tutto il nonumano. L’attività della persona è centrata sull’io, sulla sua interiorità, che è tale perché è sospesa negli atti dello scegliere tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, tra il bello ed il brutto, tra l’armonico ed il disarmonico, etc. Di queste alternative, l’io ne ha una esperienza diretta, di prima mano, ne è imputabile quanto alla risposta, mentre gli esseri del non-umano non ne hanno alcuna esperienza personale, essendo strutturalmente mancanti di quel che è proprio della persona, della sua dignità consistente nel compiere atti, concepiti e scelti, e non semplicemente nell’eseguire fatti non imputabili, innocenti. 38 39 Oggi si può affermare l’inclinazione ad ambientare l’esistenza delle persone in una condizione sociale che lascia residuare solamente esperienze di seconda mano, qualificate tali perché non ambientate nella vita interiore, ma risultanti dal flusso di una quantità di dati soverchianti la capacità di elaborazione delle donne e degli uomini e destinati alle persone “sotto forma di informazione meccanizzata”, fatta circolare nelle reti dagli strumenti informazionali. Segue che ogni singolo essere umano si avverte come una “esperienza di seconda mano”, non sentita nelle alternative della propria interiorità, ma proveniente ed imposta dalle circostanze dei fatti ambientali, che privano la persona dell’originalità del suo orientarsi, riducendola ad un ente già orientato. Il divario tra l’orientarsi ed il trovarsi già orientati consiste nell’avere e nell’esercitare la capacità simbolica oppure nell’esaurirsi nell’esecuzione dei segni. I simboli si presentano nella condizione dell’essere-aperti, dell’esistere sospesi davanti a delle alternative, che attendono una scelta, pensata, voluta e decisa con consapevole imputabilità. I segni fluiscono impersonalmente, connettono un’operazione ad un’altra operazione, senza mai esigere un interagire qualificato dall’incidenza della capacità simbolica, che illumina la libertà nel suo essere sospesa davanti alle alternative che esigono una scelta responsabileimputabile, giuridicamente rilevante. Nell’opera formativa delle istituzioni, le persone si orientano confrontando discorsivamente le diverse ipotesi dell’istituire ed in questo confronto è inevitabile che facciano circolare, nei loro dialoghi, domande e risposte su ciò che è vero, su ciò che è giusto, etc., sui concetti della verità, della giustizia, etc. , comunicati anche mediante simboli, che schiudono alternative ermeneutiche, al di là della esecutività dei segni, certi ma privi di domande e risposte davanti all’ ‘aut aut’ discusso da Kierkegaard. All’esterno dell’interagire e della sua qualificazione, sorgente dall’incidenza dei simboli, si ha che “la determinazione corrente della verità suona: la verità è la correttezza della rappresentazione, è l’accordo dell’enunciazione (della proposizione) con la cosa”. Da questo segue, per Heidegger, che qui “si nasconde qualcosa che ha la dignità di una domanda: quel quadruplice unitario 39 40 essere-aperto della cosa, dell’ambito posto tra la cosa e l’uomo, dell’uomo stesso e dell’uomo nei confronti dell’altro uomo”52. Anche la stessa modalità abituale di intendere la verità come correttezza, come corrispondenza tra l’enunciazione e ciò che viene enunciato, ha il suo luogo in questa quadruplice apertura, concerne 1)sia il tema posto in discussione, 2)sia il suo rapporto con l’uomo, 3)sia la condizione umana, 4)sia la relazione dialogica tra gli esseri umani. Se quel che costituisce il tema della ricerca della verità, nel tenersi aperti degli esseri umani nella relazione che li impegna nell’interrogarsi sulla verità, se tutto l’insieme di queste dimensioni non si mantenesse nell’essere-aperto non si avrebbe neppure lo stesso questionare sulla correttezza o non correttezza di quel che viene enunciato, né si avrebbero i due versanti dei simboli del linguaggio comunicativo-creativo e dei segni del linguaggio informativo-esecutivo. Heidegger si sofferma sulla differenza tra il vero e la verità: ‘filosofando, meditiamo sull’essenza del vero’. “Con la parola essenza si intende quel che rende vero ciò che di volta in volta è vero” ed Heidegger considera che “la domanda su ciò che sia l’essenza stessa di qualcosa” porta a “mettere in rilievo che l’essenza di qualcosa non è l’universalmente valido, ma la cosa più essenziale”53, che, anche oltre la lettera delle pagine di Heidegger, invita a cogliere quel che si schiude nella quadruplice condizione umana dell’essereaperto. Si riprende a considerare una tale quadruplicità, costituita dall’apertura: a)di quel che viene ricercato, b)della condizione umana verso il tema della ricerca, c)dell’uomo in quanto unico essere che è in cammino nel destinare il domandare e nel ricevere il rispondere, d)del sorgere e del permanere disposti -gli umani- nella relazione dialogica. In quest’ultima situazione, l’apertura comporta degli interrogativi e delle chiarificazioni sulle qualità del relazionarsi delle singole persone. Nelle relazioni umane, la rimozione dell’‘apertura’ si concretizza primieramente con il non accogliere la parola dell’altro, negando la condizione di reciprocità discorsiva, formativa dei due 52 53 M. Heidegger, Domande fondamentali della filosofia, Milano, 1988, p. 24. Ivi, p. 35. 40 41 versanti del domandare e del rispondere, che costituiscono la parola come luogo dell’essere aperti dei dialoganti nel loro comunicare nella plurivocità dei simboli, al di là dell’informare nell’univocità dei segni. Nella reciprocità interpersonale dell’essere-aperti, sono radicate le possibilità del consentire e del dissentire, ovvero del diritto a prendere la parola, in quanto insostituibile parola di un io, che non può essere fungibile con la parola di un tu. La negazione del diritto ad esercitare la parola originale dell’io e del tu, mai permutabili l’uno con l’altro, comporta la rimozione stessa del diritto, garanzia del rispettare la formazione originale dell’identità esistenziale dei singoli nel dialogo. All’essere-aperti delle persone appartiene il compiere un inizio, l’avviare un itinerario esistenziale, schiuso dalla plurivocità dei simboli, che incide sui singoli autori delle relazioni interpersonali, sulle modalità del loro avvertirsi impegnati nello scegliere e nel formare un mondo, quello dove coesistono nelle istituzione di una comunità, dialogano, ma permangono l’uno differenziato dall’altro. La mia vita interiore non è né la tua, né la sua. L’essere-aperti non è una condizione descrivibile come trovarsi in uno stare a vedere quel che costituisce un tema del pensiero e della volontà. È una condizione lontana dall’innocenza naturalistica del trovarsi delle cose tra altre cose, poiché è anzi una condizione che presenta ogni singolo essere umano nella sua responsabilità-imputabilità. Alla libertà appartiene che la condizione di apertura potrebbe essere sostituita con la chiusura verso quel che interpella la volontà ed il pensiero nella formazione della scelta del singolo. L’apertura concerne l’essere umano nella sua interezza, ovvero considerato non solamente come l’io del pensiero e della volontà, ma anche come l’io di una corporeità, che è portatrice di aspettative centrate sulla continuazione della vita, sulla consapevolezza certo di essere mortale ma contemporaneamente sulle attività intraprese per non morire ora. L’apertura esige un orientarsi verso un itinerario oppure verso un altro, rispettando la dignità umana, che non ha soltanto una sua dimensione interiore, ma è costituita pure dall’esteriorità del corpo, che pretende rispetto, già nel non poter essere trattato come un 41 42 semplice luogo che eroga energie lavorative destinate all’accrescimento del potere=avere di qualcuno che si impone su qualcun altro, accrescendo il suo profitto, venerato dalla misura unica del danaro. L’essere-aperto viene esistito dalle persone come il trovarsi nel luogo da dove avviare un orientamento; all’opposto vi è la condizione di tutti gli enti privi della struttura della persona e pertanto configurati come già orientati, esecutori di itinerari predefiniti dalle leggi della fisica, della chimica, della biologia, della neuroscienza, della meccanica, etc. Il diritto si presenta lì dove vi è l’essere-aperti per una differenziata molteplicità di orientamenti, ovvero dove compare ed incide la dimensione della possibilità esercitata-rischiata, che impegna la scelta e la decisione di una persona, nel suo differenziarsi, anche opponendosi, dalle scelte e dalle decisioni di altre persone. Qui emergono dei conflitti di ipotesi nell’orientarsi e questi conflitti non hanno una soluzione già data nella conoscenza delle leggi ‘spiegate’ dalle scienze, ma esigono l’istituzione di soluzioni contenute nelle leggi giuridiche, nascenti dall’attività istituente dei legislatori. Anche sull’istituzione delle leggi si pongono le domande: che cos’è un tale istituire, quale è la sua essenza? Tutte le domande sull’essenza di un singolo fenomeno, quindi le domande: Che cos’è il diritto? Che cos’è l’arte? Che cos’è l’economia?, etc., sono sempre domande che consentono all’interrogante di uscire dall’informe, dall’indefinito, ovvero consentono di parlare in modo appropriato. Nessuno, quando parla, -se parla sensatamente, per poter essere ascoltato e compreso dagli altri- può parlare indistintamente di tutto. Gli esseri umani dialogano su qualcosa, su un ambito definito; si può dire sull’essenza di un qualcosa, che è distinta dall’essenza di un qualcos’altro e che non è l’informe, non è senza una essenza. Se il dialogo verte sull’istituzione delle leggi giuridiche, i dialoganti non parlano certo delle leggi della fisica, della botanica, della chimica, etc. Confinano nell’essenza di un tema il loro comunicare, che però non si riduce mai ad un informare. Nella definizione del tema del dialogo si confina l’essenza di quel che impegna i parlanti e simultaneamente, se si vuole mantenere viva la discussione, si rimane nella condizione di apertura, di ricerca di un orientamento, che non è già dato, ma viene rischiato nella 42 43 relazionalità interpersonale, nell’interagire dialogico qualificato dall’incidenza del linguaggio plurivoco dei simboli. Su un qualsiasi tema, la discussione si svolge come un dialogo su quel che è proprio di quel tema, sull’essenza che lo distingue da un altro tema. Nel mettere in questione un tema, una qualsiasi dimensione-entità della vita individuale e sociale, ci si rivolge non ad una quantità di elementi, che, sommati, costituiscono quella certa entità, ma ci si orienta verso l’insieme unitario che è il senso e l’essenza di una tale entità. Heidegger insiste nel segnalare che “la domanda sull’essenza della verità è al tempo stesso e in se stessa domanda sulla verità dell’essenza”54. Quando ci si interroga sull’essenza della verità è inevitabile interrogarsi sulla verità dell’essenza. Si esiste così in un pensiero di stampo circolare. “Si parla dell’essenza dello stato, dell’essenza della vita, dell’essenza della tecnica ammettendo forse di non conoscere ancora l’essenza dello stato, della vita, della tecnica; tacitamente, però, si ha la pretesa di sapere un’altra cosa, di sapere cioè cosa sia l’essenza in generale, tanto dello stato, della vita, della tecnica, quanto di qualunque altra cosa”55. Analogamente, ogni qual volta si pone la domanda ‘che cos’è il diritto?, si cerca l’essenza del diritto pur senza fermarsi preliminarmente sull’interrogativo: che cos’è l’essenza? Nell’abitualità del dire-discutere, non è posto in questione l’interrogativo: “che cos’è in verità esso stesso quel che noi intendiamo con la parola essenza? In breve: in che cosa consiste la verità dell’essenza”56? Con riferimento al diritto, qualsiasi domanda su questo fenomeno è una domanda sull’essenza del diritto e comporta un questionare sulla verità dell’essenza, in un procedere che circolarmente esige di far luce sull’essenza della verità. Con riferimento al tema dell’essenza, per Heidegger “la determinazione essenziale del vero come correttezza dell’enunciazione non è fondata ma solo proclamata. … Nella 54 Ivi, p. 41. Ivi, p. 42. 56 Ivi, p. 47. 55 43 44 filosofia di Platone e in quella di Aristotele … vengono determinati nella loro essenza, tra le altre cose, anche l’anima, il movimento, il luogo, il tempo, l’amicizia, la giustizia, lo stato e l’uomo”57. Viene ripresa la considerazione che “la conoscenza dell’essenza precede in qualche maniera ogni altro conoscere, riconoscere, stabilire e fondare. I movimenti all’interno di una casa … i singoli comportamenti della vita in una casa non sarebbero affatto possibili se non fossimo guidati in essi dalla conoscenza dell’elemento casalingo, di quel che la casa è58”, della sua essenza, che, a sua volta, si chiarisce interrogandosi sulla verità dell’essenza. La verità viene intesa da Heidegger come nonnascondimento, disvelamento, secondo la sua lettura del pensiero greco, che cadrebbe in oblio nel passaggio, prima, al pensiero romano e, poi, al conoscere-sapere moderno. La verità non sarebbe più intesa come disvelare, ma come “correttezza dell’enunciazione e della rappresentazione”59, tralasciando così la modalità più originaria di intendere la verità, che si ha nell’illuminare l’attenzione verso “quel quadruplice unitario essere-aperto della cosa, dell’ambito posto tra la cosa e l’uomo, dell’uomo stesso e dell’uomo nei confronti dell’altro uomo”60. La condizione di quadruplice apertura costituisce la peculiarità dell’essere umano e si manifesta nel linguaggio, che implica i due versanti del domandare e del rispondere, ascrivibili alla relazione comunicativa, che separa ed unisce l’io, il tu, anche nel loro orientarsi nelle istituzioni. Esistendo nell’apertura, l’io e il tu interagiscono ponendosi la questione dell’orientarsi, che ha un ‘da dove’ ed un ‘verso dove’. Questi due luoghi, qualificativi della ricerca-orientamento, sono tali che il ‘da dove’ si chiarisce come il trovarsi già in una condizione che è quella umana e non è ogni altra condizione, vegetale, animale, macchinica, etc. Il ‘verso dove’ è qualificato dalle possibilità a)di perfezionare l’esistenza personale nella luminosità del senso oppure b)di scivolare verso la buia negazione del questionare sul senso. 57 Ivi, p. 57. Ivi, p. 58. 59 Ivi, p. 78. 60 Ivi, p. 24. 58 44 45 Il ‘da dove’, l’esistere in una situazione ricevuta e non scelta, non è disponibile dalle persone, né in quanto individui, né in quanto entità collettive. Nessun singolo e nessun gruppo e neppure l’intera umanità può disporre del trovarsi a venire alla vita in quanto essere umano, non ha nelle sue mani la possibilità di essere un vegetale, un robot, una macchina funzionante con una cosiddetta intelligenza artificiale. Il ‘verso dove’ impegna gli atti umani nella ricerca di un orientamento e della sua concretizzazione nelle istituzioni del mondo condiviso dall’io e dal tu, dal noi e dal voi, dall’interezza dell’umanità. L’orientamento è sospeso davanti alle possibilità estreme del perfezionamento della condizione umana oppure della sua distruzione, avviata con la rinuncia agli interrogativi sul senso, sino a scivolare nel pre/post-umano, che è anche il pre/postistituzionale. Tra il ‘da dove’ ed il ‘verso dove’, gli esseri umani sono impegnati nel rischiare una direzione, che concerne l’orientarsi nel pensiero, nelle norme, nelle istituzioni, poiché la quadruplice condizione di apertura, prima ricordata con Heidegger, pone la libertà davanti a delle alternative, non superabili con una verità che possa essere individuata nella correttezza dell’enunciazione, estranea alla plurivocità dei simboli, capaci di aprire itinerari esistenziali ed estranei ad una correttezza laboratoriale dei percorsi fisico-biologici, macchinali. Gli itinerari esistenziali si dispiegano nell’interagire delle persone in un relazionarsi qualificato dall’incidenza della plurivocità dei simboli. Le operazioni bio-macchinali eseguono degli schemi che non concernono il pensiero, la volontà, l’affettività e la decisione, nascenti nell’interazione dialogica, illuminata dall’apertura del pensiero simbolico, che, diversamente dal pensiero segnico, dona luminosità ad un futuro possibile. Scrive Heidegger: “i Greci conoscono già la verità nei suoi due sensi, come non-nascondimento (l’aprirsi dell’ente) e come adeguazione della rappresentazione all’ente, come correttezza”61, logico-formale Questo secondo senso progressivamente diviene 61 Ivi, p. 80. 45 46 dominante e permane tale nella condizione moderna e contemporanea. Si oscura così il primo senso, ovvero la verità presentata nella quadruplice direzione dell’essere-aperto, “1) della cosa, 2) dell’ambito posto tra la cosa e la persona, 3) della persona stessa nei confronti della cosa, 4) della persona nei confronti dell’altra persona”’62. La verità intesa come adeguazione è qualificata dall’essere una verità-copia di un ente, priva di quell’apertura alla creazione di senso, che, con la capacità simbolica, differenzia l’interagire umano dal combinarsi fattuale degli elementi del non-umano. L’interagire si forma con gli atti delle persone. Nell’apersonale, nel non-umano si danno solo fatti, fisici, biologici, macchinali, tutti privi del pensiero che si illumina nei simboli aprendo la dimensione della possibilità, della plurivocità ermeneutica delle prospettive, formative anche delle questioni sull’orientarsi nelle istituzioni dei sistemi sociali. Proprio la condizione di quadruplice apertura, che avvia la formazione della storia, è distinta dalla trasformazione-evoluzione, comune a tutti gli enti dei sistemi fisico-biologici-macchinali. L’essere-aperto, nei quattro versanti indicati, esige dalla persona un’opera di orientamento, mentre le entità impersonali -le cose, gli animali e le macchine- sono già orientate, ovvero sono costituite da memorie fisico-chimiche, neurobiologiche, informatico-macchinali, etc., che si svolgono esecutivamente, senza alcun intervento creativo, imputabile ad un io che interagisce con un tu nella luminosità dei simboli, impegnandosi nell’orientarsi nelle istituzioni. Una persona si orienta concependo, nell’interagire dialogico, delle ipotesi di trasformazione di quel che la circonda, del mondo condiviso con altre persone mediante il linguaggio simbolico. È il linguaggio proprio delle relazioni comunicative, che hanno il loro centro nella parola, capace sia di enunciare un significato, sia di comunicare un simbolo, aprente una molteplice possibilità di itinerari ermeneutici nella ricerca del senso esistenziale. L’orientarsi delle persone esige un equilibrio tra le quattro direzioni dell’essere-aperto, avente il suo asse nella peculiarità della condizione umana. In assenza dell’umanità, non avrebbe alcun senso 62 Ivi, p. 21. 46 47 nominare l’apertura, ovvero la ricerca della verità intesa come nonnascondimento, distinta da quella visione della verità consistente nella copia della realtà. Nel non-nascondimento si illumina la ricerca del senso; nella correttezza dell’adeguazione alla realtà si constata l’esecuzione di schemi già dati, di memorie a-personali, configurative dei fatti fisici, chimici, biologici, etc. In tutto il non-umano non compare alcuna questione sulla differenza tra la verità come non-nascondimento e la verità come correttezza dell’enunciazione, poiché questa differenza avviene nella dimensione dell’essere-aperto, ovvero in quella situazione costituita dall’apertura di una persona verso un’altra persona. È quell’apertura che ha il suo nucleo nel linguaggio discorsivo, nella relazione dialogica che impegna l’io ed il tu nell’interagire coesistenziale, illuminato dal linguaggio dei simboli, irriducibile al movimento fattuale, consistente nel linguaggio dei segni. La relazione tra i dialoganti forma il centro dell’essereaperto ed è, in quanto tale, una relazione che necessita di regole, istituite per disciplinare la qualità del relazionarsi interpersonale di un io, autore responsabile della sua libera opera, del pensiero e della volontà, irriducibile all’opera di un altro, di un tu. Su questi temi è proficua la rilettura di Kant, che scrive: “fino a che punto e quanto correttamente penseremmo, se non pensassimo per così dire in comunità con gli altri, ai quali noi partecipiamo i nostri pensieri ed essi a noi i loro?”63. Con l’espressione ‘pensare in comunità con gli altri’ si nomina la struttura e lo svolgimento dell’interagire nella relazione dialogica, disciplinata da regole che non sono dell’uno o dell’altro, ma hanno la qualità dell’essere sovra-le-parti. Il ‘pensare in comunità con gli altri’ descrive quella condizione del reciproco, circolare, sollecitarsi della domanda dell’io e della risposta del tu, dell’interagire nella creatività luminosa, propria della capacità simbolica delle persone. Si può riprendere la seguente tesi di Heidegger: “nell’opinione e nell’interrogare abituali, la risposta è … quel che fa tacere la domanda. Rispondere, allora, è soddisfare e accantonare la domanda”, mentre, precisa Heidegger, “con la risposta pensante … il domandare, invece, non si interrompe 63 I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero?, cit., pp. 48-49. 47 48 mai, ma incomincia, si dispiega come inizio”64, come rischio creativo. Successivamente al cominciamento del pensiero greco, si è consolidata una definizione dell’essere umano, che lo descrive come “essere vivente razionale”65. La ragione si è trasformata progressivamente in strumento omogeneo ad un “atteggiamento pianificatore del calcolo … inserito nelle sequenze delle previsioni matematiche … La ragione, adesso, diviene sempre più razionale, e tutto l’ente diviene oggetto e risultato delle sue manovre … L’uomo diventa sempre più ingegnoso e furbo, ma sempre più massificato e piccolo … Quanto più implacabili si fanno le manovre della ragione e il suo calcolo, tanto più acuto e massificato si fa l’urlo che invoca l’esperienza vissuta”66, intesa come quel sentire interiore che appartiene al chiudersi del singolo in se stesso, spegnendo la condizione iniziale del pensiero greco, che si illumina nella situazione centrale dell’essere-aperto, inteso nella quadruplicità di direzioni prima discusse. Il dominio della verità concepita come correttezza, certezza calcolabile, non è, nota Heidegger, “l’indifferente e inoffensivo contenuto dottrinario di una ‘logica’, … intesa come una disciplina scolastica: la correttezza è l’adattamento e l’arrangiamento di tutti i comportamenti umani … Quel che è corretto … viene assegnato, custodito come possesso e portato all’utilizzazione”67; è dominato e consumato, secondo il potere che impone l’imperativo: ‘produci il consumo!’. Si chiarisce che alla verità, intesa come correttezza calcolabile, appartiene lo spegnimento della condizione descritta da Heidegger come propria dell’essere-aperto, che si viene trasformando invece in un essere-chiuso, avente la sua modalità prioritaria nell’oscurare una delle quattro direzioni dell’apertura, quella “dell’uomo nei confronti dell’altro uomo”68. L’oscuramento di questa direzione dell’apertura si concretizza così: ogni persona diviene chiusa nei confronti di ogni 64 M. Heidegger, Domande fondamentali della filosofia, cit. p. 95. Ivi, p. 100. 66 Ivi, p. 101. 67 Ivi, p. 106. 68 Ivi, p. 24. 65 48 49 altra persona, con la conseguenza principale che il dialogo, ovvero la situazione interpersonale del dispiegamento del logos, si trasforma in un monologo, che acquista efficacia e coerenza non accogliendo il dire dell’altro, non donando ascolto alle sue parole, trasmutando l’interagire delle persone nella luminosità dei simboli in un fluire apersonale nel buio combinarsi dei segni. Quando la comunicazione nel medio dei simboli si spegne e si afferma il funzionamento dell’informazione a-personale nel medio dei segni, l’orientarsi si sottrae alla condizione di apertura e si consolida un percorrere itinerari di chiusura che non incontrano e non rispettano l’alterità esistenziale, il tu nella sua irriducibilità a qualunque altra entità. L’io ed il tu non sono misurabili dalla correttezza segnica della calcolabilità dei loro comportamenti, ma si chiariscono nell’interagire reciproco, nascente dalla capacità simbolica, genesi personale-interpersonale degli atti pensati e voluti, e, in quanto tali, scelti ed imputabili. L’alterità esistenziale si presenta ad ogni singolo essere umano come quel che desta meraviglia, stupore, perché non si lascia spiegare; i suoi atti liberi non sono anticipabili in un calcolo, che nel presente contiene già un futuro preformato e così negato. Gli atti umani si sottraggono alla correttezza calcolatoria di una logica che spiega e non si arresta davanti alla non spiegabilità scientifica dei simboli, presentati, nella loro ricchezza plurivoca, dal rischio della libertà, esercitata nell’esistenza personale. Nelle relazioni umane, esemplarmente in quelle giuridiche, ogni persona è aperta all’accogliere ed all’ascoltare l’altra persona, rispettandola nella sua irriducibilità ad un oggetto, conoscibile secondo la correttezza numerica dei metodi scientifico-matematici. Questa irriducibilità genera meraviglia, esige il rispetto per il mistero della dignità umana, eccedente ogni enunciazione quantitativa ed ogni eventuale, successiva monetizzazione; è l’irriducibilità della relazione circolare tra l’io ed il tu; costituisce la peculiarità della condizione umana, pur se apre l’eventualità di controversie tra le domande e le risposte imputabili all’uno o all’altro degli esseri dialoganti. Il diritto si presenta lì dove si accende la meraviglia, lo stupore, l’imprevedibilità, tutte dimensioni esclusive della 49 50 condizione umana, della capacità di creazione di senso e delle controversie che si formano nell’opporsi delle ipotesi formulate quanto alla formazione-trasformazione del mondo condiviso. “Quel che meraviglia e fa meraviglia ... mantiene e amministra la voglia di meravigliarsi”. Si precisa che “il meravigliarsi non vuole neppure che quel che fa meraviglia venga chiarito; vuole, invece, essere incalzato e avvinto da quel che non è chiarito, inteso come l’altro, il sorprendente, l’inconsueto, contrapposto al comunemente noto, al tedioso, al vuoto”69. La meraviglia ripropone la condizione esistenziale dell’essere-aperto, dell’esistere nella ricerca del senso che non è la ricerca della conoscenza di quel che ancora non è conosciuto. La direzione più intensa del gratuito meravigliarsi viene attivata dall’incontro con un altro essere umano; solamente nella condizione del relazionarsi interpersonale può emergere la distinzione tra la gratuità della ricerca-dono del senso e l’utilitàcommercio della conoscenza. In tutti gli esseri non umani, si può scorgere un insieme di operazioni fisico-chimiche, bio-macchinali, ma non si presenta mai alcunché del meravigliarsi davanti agli interrogativi sul senso. Si deve riprendere, ancora una volta, la distinzione tra ‘il senso di un funzionamento’ ed ‘il funzionamento di un senso’, mostrando che nel primo versante vi è la gratuità di un interrogativo, di una domanda centrata sul ‘che ne è dell’io’, mentre nel secondo versante vi è l’utilità di una conoscenza in un insieme funzionale di operazioni, destinabili ad un mercato. La meraviglia, lo stupore, si mantengono nella condizione, specificamente umana, dell’essere-aperti nel gratuito ricercare il senso, nell’avvertire che quanto viene conosciuto apre una possibile trasformazione dell’io, nelle due direzioni diverse e opposte, del perfezionarsi oppure del dissolversi. Sia l’acquisizione di conoscenze, sia la ricerca del senso non hanno un momento ultimo, uno stadio che possa essere considerato compiuto; permangono sempre nell’incompiutezza. Una conoscenza acquisita sollecita l’acquisizione di ulteriori conoscenze, 69 Ivi, p. 112. 50 51 mai definitivamente raggiunte. La ricerca del senso non ha una risposta che la possa esaudire, così da spegnere il ricercare. Tuttavia tra l’inesauribilità dell’attività conoscitiva e l’inesauribilità della ricerca del senso vi è una differenza incolmabile, perché nel conoscere permane estranea, ad esempio, la dimensione dell’egoità-egoismo, che invece si può presentare nella ricerca del senso, poiché in quest’ultimo versante è in gioco il proprio io, ne va del se stesso, è aperta la prospettiva della libera selezione degli scopi, che rimane assente nelle operazioni del conoscere. Questa selezione non avviene secondo itinerari conoscitivi, ma si compie nel rischio delle decisioni, formativo del futuro storico, concepito nell’interagire dialogico che si alimenta al reciproco sollecitarsi dell’io e del tu nel comparare le loro ipotesi, i loro progetti. La storia non si concretizza esaurendosi in una attività conoscitiva, ma si forma nella selezione degli scopi che attuano la conoscenza nelle istituzioni di una comunità. L’opera dell’istituire i sistemi sociali non è una semplice prosecuzione realizzatrice di conoscenze già acquisite, ma è un’opera creativa, imputabile a degli autori, che rischiano il futuro. Il legislatore non si confina nel dare concretezza a delle conoscenze concernenti schemi di discipline normative, ma è una entità istituente in quanto si mantiene nell’essere-aperto, comparando le diverse ipotesi dei diversi esseri umani aventi la responsabilità dell’attività legislativa, che sceglie e decide. L’istituire si dispiega nel dialogo che non si spegne nel monologo, segnato dall’assenza dell’interagire comunicativo nel medio del linguaggio simbolico. I simboli sono relazionali e plurivoci. Nessun simbolo è tale per un singolo isolato, mancante della molteplicità delle possibili interpretazioni provenienti dalle letture dei simboli proposte dall’io e dal tu, dal noi e dal voi, nel dialogare che li accomuna. L’essere-aperto alimenta lo stupore, inteso anche come il trovarsi davanti ad una esigenza di orientarsi, poiché unicamente gli esseri umani hanno il problema del selezionare, tra le molteplici ipotesi di orientamento, quella che viene scelta ed assunta come contenuto della decisione e così inscritta nel mondo storico di una comunità. 51 52 Tutti gli enti non-umani eseguono il loro essere-orientati e lo concretizzano senza trovarsi nel ‘tra’ che unisce e separa domande e risposte. Sono esclusivamente ciò che sono e non quel che scelgono di poter-essere, vivono in una realtà mai attraversata dalla dimensione della possibilità, non confondibile con l’eventualità, perché consiste nel rischiare l’esercizio del pensare, concepire e volere una nuova direzione di senso, creata e non già trovata in una condizione naturalistica, risultante dalla composizione di elementi fattuali, non imputabili al pensiero ed alla volontà delle persone. “Nello stupore è la più abituale di tutte le cose e in tutte le cose a diventare la più inconsueta … Lo stupore non sa come entrare nell’inconsueto del tratto più abituale del tutto, così come non sa uscire da esso; è posto di fronte all’inconsueto del tratto abituale”70. Nelle relazioni umane, ‘il più abituale’ è costituito dalle regole che rendono possibile e reale il relazionarsi delle persone nelle istituzioni. Si tratta delle regole che costituiscono i sistemi legali e che però, con il presentarsi dello stupore, attivano le domande sulla qualità dei contenuti della legalità, ovvero le domande che si interrogano sulla ricerca della giustizia, che non è sempre riducibile a quel che è selezionato ed istituito nei sistemi legali. Il desiderio di giustizia precede ed orienta il desiderio di legalità, ne seleziona i contenuti. Ci si chiede: una definita legalità è giusta o ingiusta? Non ci si chiede: la giustizia è legale o illegale? L’abituale è tale perché ha acquisito una durata, permane nella fissità-ripetizione per un tempo, mentre il disabituale irrompe con lo stupore, spezza un inizio che si era dato e segna un altro iniziare. Tutte le leggi della fisica, della chimica, della botanica, della neurobiologia, della meccanica, etc., permangono nel tempo, durano e non ricevono una svolta segnata da un nuovo orientarsi secondo un inizio diverso, pensato, voluto ed istituito nell’interagire dialogico, che, illuminato dalla meraviglia, istituisce il cammino futuro nei sistemi sociali. Ci si abitua alla legalità e ci si può disabituare alla ricerca della giustizia, che, in un assetto giuridico-sociale, si illumina con lo stupore, con la ripresa dell’iniziare l’opera di analisi e di riflessione su quanto attiene all’istituire il diritto positivo. La legalità è la 70 Ivi, pp. 118-119. 52 53 continuazione di un inizio, la giustizia esige invece di riprendere l’iniziare, chiede non semplicemente di eseguire quel che è stato istituito, ma di concepire domande che impongono ai giuristi di riavviare gli interrogativi sull’inizio, mettendo in questione il rapporto tra l’opera di selezione delle norme e la qualità giuridicoesistenziale delle relazioni umane. Il nesso tra legalità e giustizia non può essere trattato secondo gli schemi della correttezza scientifica, delle verifiche di laboratorio, perché è un rapporto illuminato da quella che Heidegger chiama “la tonalità emotiva fondamentale”, lo stupore, che consente all’uomo di interrogarsi su che ne è “di fronte all’incondizionato farsi sentire che si impone in questa tonalità emotiva che non sopporta alcun ripiego”71. Nello stupore, l’essere umano si rende disponibile per l’incondizionato, per quell’iniziare che non viene ratificato dalla correttezza di un calcolo, ma è affidato invece al rischio esistenziale del ri-iniziare, esistendo nel ‘tra’ dei due versanti irrinunciabili e differenziati: il durare-continuare nell’abituale e l’iniziare-divergere nel disabituale. Tutte le comunità sono strutturate da istituzioni, che custodiscono la loro qualificazione umana proprio perché compongono in armonia la compresenza di due versanti: quello di un durare, abitualità, e quello di un nuovo cominciamento, disabitualità. In modo esemplare, il linguaggio discorsivo di una comunità è una istituzione e presenta sia la dimensione della durata, sia quella dell’iniziare originale, ovvero, rispettivamente, della ripetizione e dell’innovazione. Unicamente perché le parole custodiscono la capacità di enunciare un definito significato durevole, possono consentire la comunicazione tra le persone, pur mantenendo una apertura per la genesi di nuove parole, capaci di comunicare nuove formazioni di senso. Questa struttura del linguaggio come istituzione è analoga alla struttura del diritto come istituzione. Il diritto istituito in una comunità consente la durata delle relazioni, la loro liberazione dalla mutevolezza arbitraria, che renderebbe impossibile la stessa capacità di progettare 71 Ivi, p. 121. 53 54 nell’interagire. Tuttavia, le istituzioni giuridiche non hanno come scopo il loro stesso funzionamento, ma garantiscono la possibilità di riprendere l’opera, esclusivamente umana, dell’iniziare creativo. Garantiscono che, sia pure nella durata delle qualificazioni delle diverse modalità del relazionarsi umano, ogni essere di una comunità abbia ed eserciti il diritto a rischiare un inizio, ad avviare un nuovo cammino, che presenti il suo impegno originale per la formazione della personalità dell’io nel medio delle relazioni interpersonali. La direzione dell’iniziare, dell’orientarsi tra le molteplici possibili ipotesi, non è né necessaria, né arbitraria, ma ripropone una dimensione dell’essere-aperto, prioritariamente quella dell’apertura “dell’uomo nei confronti dell’altro uomo”72. Questa condizione di apertura non è il risultato di un convenire tra una pluralità di esseri umani che perseguono un qualche utile, non ha alcuna ‘ragion sufficiente’ nella dimensione unica dell’utilità, che pertanto non è lo scopo prioritario e regolativo. La condizione di apertura eccede l’utile monetizzabile e differenzia l’umano dal non-umano. “Nel XIX secolo si afferma largamente e viene ritenuta valida la tesi che lo scopo di tutte le azioni sia di evitare il dispiacere e di suscitare il piacere. Ogni comportamento umano -sostiene Gehlen- viene quindi strumentalizzato in questo modo privo di espressione. Anche Freud condivideva completamente questo punto di vista: questo principio (il principio del piacere e del dispiacere)”73. È una tesi che scivola verso la regola unica dell’utilità: il piacere è utile, il dispiacere è disutile. Nella condizione umana, le persone tendono ad esistere sempre al di là della regola dell’utile, perché la loro esistenza è strutturata nell’ordine dei simboli, che non sono né utili, né disutili, ma sempre “significano più di quanto denotino o esprimano”74. Jung osserva che “per la mente scientifica fenomeni quali le rappresentazioni simboliche sono estremamente irritanti, perché non possono essere formulati in modo tale da soddisfare il nostro intelletto e la nostra logica. … ci si trova di fronte a realtà innegabili, 72 Ivi, p. 24. A. Gehlen, L’uomo delle origini e la tarda cultura, cit., p. 302. 74 C. G. Jung, Simboli e interpretazioni dei sogni, Torino, 2015, p. 10. 73 54 55 che tuttavia è impossibile formulare in termini intellettuali”75, secondo gli schemi abituali di quella logica che identifica la verità con la correttezza dell’enunciazione, rilevante perché utilizzabile, destinata al consumo nel mercato regolato dal danaro. L’origine e l’interpretazione dei simboli non è un qualcosa che possa “essere ridotta in termini meccanicistici … nello sforzo di capire i simboli, ci si troverà non solo di fronte al simbolo, ma alla totalità dell’individuo che lo produce”76, nella sua interazione con gli altri individui. Come le parole di ogni linguaggio, anche i simboli di ogni cultura hanno una struttura singolare-plurale, abituale-disabituale; esigono sempre un impegno ermeneutico che ne possa mostrare la numinosità. “La perdita del numinoso” si compie come lo smarrimento del “senso della vita”77, che non si lascia confinare nella ripetizione-esecuzione dei meccanismi fisico-biologici. Tutte le istituzioni umane, esemplarmente quelle giuridiche, non possono essere trattate così come si trattano le cose, perché non sono semplicemente quel che sono, ma sono quel che la loro struttura simbolica comunica. Così l’istituzione della moneta cartacea non produce oggetti che hanno il valore risultante dall’essere quel che sono materialmente. Un biglietto da 100 €, nella sua nuda materialità oggettiva, non vale 100 €, ma ha questo valore monetario unicamente in quanto costituisce un simbolo istituito. Così analogamente deve dirsi per la bandiera di uno Stato, di una società sportiva ed ancora per le modalità di abbigliamento dei magistrati, che compongono un collegio giudicante, per la toga degli avvocati, per le divise dei militari, etc. Tutti gli elementi appena descritti appartengono a delle istituzioni simboliche, hanno senso nella complessa plurivocità dei linguaggi umani, che dicono più di quel che viene posto nelle parole di un enunciato e che pertanto non possono essere misurate dalla correttezza logico-numerica dell’enunciazione, ma traggono il loro senso da quel che comunicano nelle convenzioni sui simboli, formative di una comunità. 75 Ivi, p. 92. Ivi, p. 94. 77 Ivi, pp. 98-99. 76 55 56 Gli elementi costitutivi delle istituzioni giuridiche non sono oggetti, trattabili come tutti gli oggetti trovati natura, ma sono stati istituiti, sorgono da una creazione di senso che costituisce il mondo umano, distinto dall’ambiente del non-umano. Una chiarificazione dell’orientarsi nel pensiero e dell’orientarsi nelle norme è possibile riprendendo una tesi principale sull’esercizio e sull’incidenza della capacità simbolica. In questa tesi si sostiene: “un agire che articola il rapporto che ha con se stesso nell’ipersignificatività si conquista per questa via la capacità simbolica. Non è più qualcosa di abituale, né un’azione piatta, diretta a uno scopo oggettivo, né un’espressione affettiva immediata”78. Viene qui descritto il rapporto che ha l’autore di un agire umano rivolgendosi a se stesso ed agli altri, in quello spazio che è proprio di una significatività eccedente un significato definito ed è pertanto illuminato da una ‘ipersignificatività’, capace di aprire lo spazio dei simboli, non confinabile nella correttezza logica di enunciati definiti, non calcolabile secondo una numerazione. L’‘ipersignificatività’ presenta certo dei significati, ma, simultaneamente ad essi, apre un itinerario capace di un inizio originario, che segna una svolta di senso, idonea ad un agire trasformativo della condizione presente nel mondo condiviso con gli altri esseri umani, tali perché tutti titolari della capacità simbolica. Le istituzioni giuridiche, ed in genere tutte le istituzioni dei sistemi sociali, sorgono dalla capacità simbolica, poiché non sono semplicemente la realtà che sono nella loro cosalità, ma incidono nel mantenere simultaneamente la loro struttura presente e nel custodire la dimensione dell’essere-aperto al futuro, nel reciproco aprirsi di un essere umano ad ogni altro essere umano, componendo nei simboli l’armonia tra la individualità della singola persona-personalità e l’universalità del genere umano. Questo aprirsi reciprocamente di un essere umano agli altri esseri umani può ricevere un approfondimento significativo nel riprendere la seguente tesi centrale di Blumer: “l’interazionismo simbolico ritiene che il significato [sorga] dal processo di interazione tra le persone … [;] il significato di una cosa, per una persona, nasce dal modo in cui altre persone agiscono nei suoi confronti rispetto a 78 A. Gehlen, L’uomo delle origini e la tarda cultura, cit., p. 173. 56 57 quella cosa: le loro azioni contribuiscono infatti a definire la cosa per la persona ... l’interazionismo simbolico vede i significati come prodotti sociali, creazioni formate e determinate dalle attività di definizione svolte dalle persone nel loro interagire”79. Oltre la lettera delle tesi esplicitate da Blumer e dal contesto dei suoi studi, l’interazionismo simbolico mostra che in una comunità i significati si formano nella reciprocità dell’interagire delle persone che si rivolgono agli elementi del mondo condiviso. In questa direzione, “l’interazione simbolica rende di fatto la vita del gruppo umano un processo costituente e non solo l’arena dove esprimere i fattori preesistenti”80, così che una comunità di persone crea una continua attività istituente, ovvero formativa sia di significati, sia di simboli, che avviano la storia, trasformativa del mondo. “Nell’interazione simbolica la vita del gruppo umano è un processo diffuso nel quale la gente forma, conferma e trasforma gli oggetti del proprio mondo man mano che dà loro significato”81. Questo processo acquista i tratti propri del ‘simbolico’ in quanto gli oggetti del mondo ricevono un significato che non si limita a ripetere la loro datità concreta, ma comunica una condizione specifica, quella dell’apertura nella costruzione del futuro che appartiene ad una comunità. Il processo dell’interazione simbolica è costantemente alimentato dall’opera dell’interpretazione, dall’arte ermeneutica, che appartiene esclusivamente alla condizione umana ed è assente in tutti gli enti cosali, animali, macchinali, etc. Le istituzioni in generale, specificamente le istituzioni giuridiche, sorgono sulle relazioni umane, strutturate come ‘interazioni simboliche’. Quest’ultima espressione e tutto quel che si riferisce all’‘interazionismo simbolico’ esigono una riflessione su due concetti: quello dell’interagire e quello dei simboli. L’interagire è un’attività esclusivamente umana, consiste nel mettere in opera degli atti sociali, irriducibili ai fatti -fisici, chimici, biologici, macchinali-. H. Blumer, L’interazionismo simbolico, Bologna, 2008, p. 36. Ivi, p. 42. 81 Ivi, p. 44. 79 80 57 58 Gli atti sono concepiti dal pensiero, costituiscono i contenuti di una volontà e si concretizzano nella consapevolezza che si danno altri atti, pensati e voluti, da altre persone e che possono sorgere controversie tra la realizzazione di un atto in contrasto con la realizzazione di atti imputabili ad altre persone distinte, non fungibili, esistendo ogni io nella formazione della sua personalità che non è quella dell’io di altri. L’interagire si dispiega nel mondo delle relazioni comunicative, dei linguaggi che le rendono possibili nelle istituzioni di una comunità. La peculiarità del linguaggio umano mostra la struttura simbolica di questo linguaggio, che, diversamente dai linguaggi del non-umano, è costituito da termini che “sono simbolici … [in quanto] significano più di quanto denotino o esprimano”82, così da esigere l’arte dell’ermeneutica, situata nel dialogo sulla molteplicità delle possibili ipotesi interpretative, che si illuminano nel confronto discorsivo, aperto dalla capacità simbolica, non riducibile alla correttezza dell’enunciazione. Nelle relazioni umane e nelle istituzioni di una comunità, si ha che “ciascuno degli individui interpreta o definisce le azioni degli altri invece di limitarsi a reagire ad esse. … l’interazione umana è mediata dall’uso di simboli, dall’interpretazione, o dalla comprensione del significato delle azioni dell’altro”83. Le relazioni umane e le istituzioni, che ne garantiscono la durata, si concretizzano nel linguaggio, che ha una struttura simbolica, poiché si mantiene nella condizione dell’essere-aperto, ovvero a)del dire il significato che viene enunciato e b)del comunicare la possibilità di interagire creativamente nella continua trasformazione del mondo di una comunità, del senso che la qualifica. Un definito significato è efficace proprio per la correttezza della sua enunciazione, che consente la comprensione dei contenuti formativi di una comunicazione nella lingua di una comunità. Tuttavia il significato non si esaurisce nel conferire una determinata certezza al transito dei contenuti che qualcuno destina a qualcun altro, ma, nel rispetto della creatività della condizione umana, schiude la dimensione della possibilità ermeneutica=creativa. Questa schiusura 82 83 C. G. Jung, Simboli e interpretazione dei sogni, cit., p. 10. H. Blumer, Interazionismo simbolico, cit., p. 113. 58 59 è assente in tutto il non-umano, esaurito nella combinatoria dei fatti, privi del pensare, volere e rischiare il cammino nuovo della possibilità istituente. L’interazione simbolica appartiene unicamente alle persone, autori di un linguaggio che simultaneamente enuncia quel che enuncia ed apre una possibilità creativa, che supera ogni definito enunciato. Si allude al superamento, creativo della storia, che si manifesta e si concretizza lì dove opera il ‘simbolico’, eccedente la fattualità di tutti gli enti del non umano. Possibilità e simbolico si coappartengono nella dimensione dell’essere-aperto degli atti umani del pensare, del volere, dello scegliere, secondo una massima assunta nell’esercizio del libero arbitrio, imputabile, giuridicamente rilevante. La pura datità dei fatti permane estranea alla condizione dell’apertura, difetta della possibilità, è unicamente quel che è, non progetta nella luminosità della capacità simbolica, permane estranea a tutti gli elementi della giuridicità. Simbolico ed apertura impegnano le persone nel loro orientarsi, qualificativo della condizione umana, che si trova davanti a diversi, alternativi, itinerari del pensiero, a diverse, differenziate, direzioni della volontà. In questa situazione, si è chiamati ad una scelta imputabile nel rischiare il proprio orientarsi, secondo una massima assunta (Kant). In assenza della possibilità, del simbolico, dell’essere-aperto, ogni ente non si orienta, ma è già orientato dalla sua specifica modalità, che esegue schemi trovati in natura, mai rischiando i percorsi della creazione di senso nell’interagire simbolico, descritto da Blumer come ‘interazionismo’, qualificato dall’esercizio della capacità di formazione e di comunicazione dei simboli. L’interagire simbolico attiva ed illumina tre connessi itinerari: 1)orientarsi nel pensiero -Kant-, 2)orientarsi nelle norme Gadamer-, 3)orientarsi nella libertà -Jaspers-. Sono i tre itinerari legati dall’unità-differenza che, secondo la prospettiva di Lacan, unisce e separa la legge del testo, costitutiva degli esseri parlanti -logos- ed il testo della legge, istituito nelle comunità dei dialoganti, disciplinate dalla legalità, nascente e regolata dall’ansia di giustizia-equità -nomos-. 59 60 Come si discuterà criticamente, nell’opera di Schmitt si afferma: “la parola greca nomos … deriva dal verbo greco nemein”, considerato coincidente con il verbo tedesco nehmen, ‘prendere possesso’, ‘conquistare’. Nomos qui è Nahme, è l’impossessarsi di quel che è stato conquistato. Successivamente significa “la divisione e suddivisione di ciò di cui si è preso possesso; infine indica la valorizzazione, di quanto sia ottenuto con la divisione, dunque la produzione e il consumo”84. In Schmitt si ha un nomos (testo della legge) non misurato-selezionato dal logos (legge del testo), genesi della capacità simbolica formativa delle istituzioni di una comunità. 84 C. Schmitt, Stato, grande spazio, nomos, Milano, 20015, p. 293; Il nomos della terra, Milano, 2011, pp. 54- 71. 60