Miche Wieviorka, L`inquietudine delle differenze, Mondadori, Milano

Miche Wieviorka, L’inquietudine delle differenze, Mondadori, Milano, 2008.
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In questo testo l’autore analizza il concetto di differenza culturale; la tesi di fondo è che le differenze
generino profonde inquietudini negli esseri umani; in quanto uomini, tuttavia, dobbiamo iniziare a pensare
che è possibile un dibattito politico sulle differenze, perché il dibattito riesce a trasformare le nostre paure
in risposte politiche adeguate.
La differenza culturale è stata spesso associata ad una riflessione sulla globalizzazione intesa come
fenomeno eminentemente economico.
Per l’autore il discorso sulla globalizzazione è legato sia a logiche sovranazionali sia a logiche proprie dello
stato nazione, perché la globalizzazione «risiede precisamente in questo intreccio tra interno ed esterno»1.
La riflessione sulle differenze deve essere condotta a livello locale, di stato nazione, e a livello
sovranazionale, perché, quando ci si interroga su questioni di differenza culturale, ci si interroga su
problemi di uno stato nazione che mette in discussione lo stato nazione stesso a livello locale.
Le differenze sono inquietanti sia a livello planetario che a livello locale.
Alcune differenze provengono dall’interno stesso di una società specifica, che rimette in discussione il
proprio spazio pubblico: pensiamo, ad esempio, ai movimenti degli occitani, sardi, baschi.
Altre volte le differenze culturali sembrano legate ai flussi migratori che portano dall’esterno un patrimonio
soprattutto immateriale. La circolazione è soprattutto un’operazione astratta che viaggia con i mezzi di
comunicazione, «fenomeno al quale l’antropologo Arjun Appadurai ci invita ormai da tempo ad accordare
importanza».2
Le differenze originate da individui e immagini che provengono dall’esterno danno luogo a comunità
immaginarie che, essendo soprattutto sovranazionali, coprono spazi più estesi rispetto a un passato in cui
questa circolazione veniva concepita all’interno dello stato nazione.
Le scienze sociali hanno due modi per analizzare le differenze: il primo riguarda l’analisi della capacità di
una società di integrare le differenze presenti al suo interno «in base ai concetti di struttura, meccanismo,
di istituzione, di sistema sociale e di società»;3 il secondo riguarda l’analisi dell’integrazione dal punto di
vista dei portatori della differenza, che descrive le reti che permettono loro di esistere e di comunicare.
La stessa differenza può essere intesa in vari modi; un modo in particolare è l’entificazione: trascendere la
differenza rispetto allo spazio e al tempo. Secondo questa visione, le differenze culturali e religiose
affondano le proprie radici in tempi lontani e tenderebbero a riprodurre tali differenze nello spazio e nel
tempo con un meccanismo di riproduzione.
Da quanto detto deriva che vi sarebbero differenze che resistono in maniera più o meno tenace alle forza
del tempo, del denaro, del potere politico.
Wieviorka, L’inquietudine delle differenze, Milano, Mondadori, 2008, p.
Ivi, p. 31.
3 Ivi, p. 33.
1
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La spiegazione delle differenze come riproduzione favorisce esplicazioni in termini di natura piuttosto che
di cultura e giustificherebbe il fatto che alcune culture «siano considerate inferiori» o«minaccia per le
identità dominanti» 4.
Le scienze sociali si sono allontanate da questo paradigma interpretativo per adottarne uno più orientato
alla produzione piuttosto che alla riproduzione.
Nell’opera L’invenzione della tradizione, Eric Hobsbawn5 spiega come le differenze siano «un’invenzione. Le
differenze siamo noi a costruirle: al contrario di quanto pensiamo, esse non sono fenomeni antichi ma
elaborazioni a cui noi stessi diamo vita attingendo a materiali del passato da cui ricavare nuove idee»6.
Contro il paradigma della riproduzione, contro la trasmissione di un materiale preesistente, le differenze
culturali possono essere ricondotte «alla sfera della produzione e dell’invenzione»7.
Secondo l’autore vi è un filo conduttore tra l’individualismo moderno e l’emergere di differenze collettive;
non vi può essere contrasto tra l’individualità personali e le società divise in gruppi, perché «si deve
accettare il paradosso per cui l’individualismo moderno nutre le identità collettive»8.
Gli individui si identificano nei gruppi e allo stesso tempo si rendono capaci di svincolarsene.
L’autore parla di vari tipi di multiculturalismo, tra cui il multiculturalismo integrato che «si fa carico delle
ingiustizie sociali […] per far esistere un’identità quando questo è sinonimo di ineguaglianza sociale»9 e
cerca di circoscrivere il legame tra le identità culturali e il fenomeno dell’ingiustizia sociale.
Descrivere questo legame è compito della filosofia politica, che attualmente si è interrogata se assumere un
atteggiamento liberal o communitarian. Secondo l’atteggiamento liberal «lo spazio pubblico è costituito
esclusivamente da individui»10 mentre, l’atteggiamento communitarian «considera gli individui all’interno
dello spazio pubblico come membri dei gruppi, di identità, di culture specifiche»11.
Ci si interroga quindi se l’uomo sia portatore di diritti individuali o portatore di diritti culturali.
L’autore elenca cinque tipi di coesistenza delle differenze. Il primo tipo è quello del modello della
riproduzione, della differenza che rispetta, nel suo perpetuarsi, modelli riproduttivi e meccanismi olistici.
Il secondo tipo si riferisce a identità collettive che, sebbene stabili e circoscritte, lasciano spazio alle
dinamiche di riproduzione ma anche a quelle di produzione, anche a riguardo di ciò che il gruppo elabora su
se stesso.
Il terzo modello può essere definito “nomade”, perché assimilabile all’idea di straniero «non come colui che
vive lontano da me, che non vedrò mai e con il quale ho un rapporto per così dire esotico, ma come colui
[…] che è al tempo stesso presente e lontano»12.
Il quarto modello è rappresentato dalle diaspore, il cui tratto costitutivo è la capacità di «istituire una serie
di reti, di stabilire un rapporto con altri gruppi e altre persone in tutto il mondo»13.
Ivi, p. 35.
Cfr. E. Hobsbawm, L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 2001, pp.3-17.
6 Ivi, p 36.
7 Ivi, p. 37.
8 Ivi, p. 38.
9 Ivi, p. 42.
10 Ivi, p. 48.
11 Ibidem.
12 Ivi, p. 59
13 Ivi, p. 60.
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Il quinto modello è quello del meticciato culturale, che è presente «negli individui che si mescolano tra di
loro. In questo caso la cosa più importante è la possibilità stessa di questa mescolanza, la possibilità stessa
del meticciato»14.
Nell’ultima parte del testo l’autore si sofferma a riflettere sulle categorie di guerra, pace, violenza in un
arco di tempo che va dal trattato di Westfalia alla caduta del muro di Berlino, periodo, questo, in cui la pace
è stata la logica contrapposizione alla guerra. Con la crescente globalizzazione e la fine della guerra fredda,
è finito il principio di ristrutturazione conflittuale degli stati nazione, ma sono esplosi fenomeni diversi di
violenza, e, secondo il rapporto dell’ Human Security Centre di Vancouver, i conflitti sono diminuiti ma il
numero di vittime soprattutto civili è aumentato.
Assistiamo al moltiplicarsi di situazioni di crisi nelle quali assume sempre maggiore importanza l’intervento
di enti politici sovranazionali.
L’autore ricerca una risposta alla domanda su come passare dalla situazione di violenza diffusa alla pace.
Egli ritiene questo passaggio possibile solo «attraverso il conflitto e la sua istituzionalizzazione».15
Propone una trasformazione delle logiche di rottura ricorrendo alla «trasformazione degli attori già
esistenti in parti attive del dibattito e della discussione».16
Il garantire la pace, contro la violenza sotterranea che genera analoga contro-violenza, non dipende solo da
un’organizzazione degli attori nella lotta armata, bensì «dalle misure dal basso, misure sociali finalizzate per
esempio al riconoscimento culturale.»17
Ivi, p. 61.
Ivi, p 72.
16 Ivi, p. 73.
17 Ivi, p. 80.
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