Colloquio promosso dall'Accademia cattolica di Monaco di Baviera nel gennaio 2004 sul tema Che
cosa tiene insieme il mondo. Fondamenti morali prepolitici di uno Stato liberale1.
J.Habermas, Quel che il filosofo laico concede a Dio (più di Rawls).2
Interrogarsi sui rapporti fra Stato e religione significa chiedersi se:
1-da un punto di vista cognitivo: se lo Stato sia in grado di fondare e rinnovare in maniera autonoma
le condizioni normative della propria esistenza (se lo sia stato di fatto e se lo sia di diritto);
2-punto di vista motivazionale: se lo Stato sia in grado di (a) fondarsi (b) rinnovarsi in maniera
autonoma in forza di queste sole condizioni normative.
1-Se per Stato liberale intendiamo una democrazia costituzionale (giacché solo il processo democratico
vale come «metodo di produzione legittima di diritto» e si intreccia «fin dall'origine» col l'affermazione dei «diritti
umani»3), la risposta al primo quesito sembra a prima vista affermativa:
«Il liberalismo politico, che io difendo nella particolare versione del repubblicanesimo kantiano, si
auto-comprende come una legittimazione non religiosa e post-metafisica dei fondamenti normativi
di uno Stato democratico costituzionale»4. Habermas milita apparentemente a favore di
«fondazione autonoma (cioè indipendente dalle verità rivelate) di morale e diritto»5. Infatti se si
concepisce il «il processo democratico non postivisticamente, come Kelsen o Luhann, ma come un
metodo per produrre legittimità dalla legalità, non insorge quel deficit di validità che l'“eticità”
sarebbe chiamata a riempire. Rispetto a una concezione dello Stato costituzionale ispirata alla destra
hegeliana, la linea proceduralista, facente capo a Kant, insiste su una giustificazione dei principi
costituzionali autonoma e con pretesa di risultare razionalmente accettabile da parte di tutti i
cittadini»6.
[In termini kantiani: la legalità è garantita dallo stato giuridico-civile non bisognoso di religione]
2-La risposta alla seconda questione è appartemente più sfumata ma sostanzialmente negativa.
a) A livello della fondazione dello Stato (del processo costituente) esiste un deficit «di carattere
motivazionale» poiché è molto più gravoso l'impegno di chi «assume il ruolo di cittadino dello
Stato, quindi di autore del diritto, rispetto a chi assume il ruolo di membro della società, rientrando
così fra i destinatari del diritto»7 e non basta a sostenere tale impegno la semplice necessità del
rispetto della legge ma occore una ulteriore motivazione, un ulteriore incentivo («Se i contenuti morali
dei diritti fondamentali devono prendere piede a livello di convincimenti personali (Gesinnungen), il livello cognitivo
non basta»8). «Lo status di cittadino è per così dire incassato in una società civile nutrita da fonti
spontanee o, se si preferisce, “pre-politiche”»9.
b) A livello del mantenimento dello Stato (dell'interpretazione, applicazione e rinnovo della
Costituzione) sembrerebbe che tale deficit non sussista («Da ciò non segue che lo Stato liberale sia incapace
di riprodurre autonomamente le proprie premesse motivazionali facendo ricorso a risorse secolarizzate»10; «che noi non
siamo pronti a “morire per Nizza” non rappresenta più un'obiezione contro una Costituzione europea» 11) ma a ben
guardare esso si ripropone anche in questo caso. Infatti: «la natura secolare dello Stato
1 Confluito nel volume G.Bosetti, Ragione e fede in dialogo. Jürgen Habermas, Joseph Ratzinger, Marsilio, Venezia,
2005
2 Ivi, pp- 41-63.
3 Ivi, p. 44.
4 Ivi, p. 43.
5 Ivi, pp. 43-44.
6 Ivi, p. 46.
7 Ivi, p. 47.
8 Ivi, p. 50.
9 Ivi, p. 48.
10 Ivi, p.48.
11 Ivi, p. 49.
costituzionale democratico non presenta alcuna debolezza insita nel sistema politico in quanto tale,
dunque interna, che comprometta un'autostabilizzazione nell'aspetto cognitivo o motivazionale. Con
ciò non sono esclusi motivi esterni», ovvero la «dinamica, non politicamente controllata,
dell'economia e della società globalizzata»12. È impossibile una democratizzazione dei mercati e
degli organismi sovranazionali che argini l'«assolutizzazione dell'ottica privata» cui essi stessi
conducono e che richiede dunque l'intervento del discorso religioso nel discorso politico.
[In termini kantiani: la moralità è garantita dallo stato etico-civile bisognoso di religione]
Habermas non condivide la deriva post-moderna che, in ragione dei limiti politici del processo di
secolarizzazione da essa indotto, critica radicalmente la stessa ragione e spinge a chiedersi, sulla
scia della «Repubblica di Weimar, Carl Schmitt, Heidegger e Leo Strauss», se «la secolarizzazione
europea non sia il caso autenticamente abnorme che deve essere corretto»13 (anche perché ritiene
che «uno scetticismo della ragione è invero originariamente estraneo alla tradizione cattolica»14).
Piuttosto ritiene che sia lo stesso processo di auto-critica della ragione su se stessa a renderla
«consapevole dei propri limiti»15 e che la ragione che riflette «sulle proprie radici più profonde si
scopre originata da un'istanza altra»16.
Ma in Habermas questo processo (innescato da Kant e proseguito da Hegel) riconcilia
(diversamente da quanto vorrebbero Kant ed Hegel) non solo ragione e religione ma «Ragione e
Rivelazione»17. «In contrasto sulla sobrietà etica del pensiero post-metafisico […] nelle Sacre
Scritture e nelle tradizioni religiose vi sono intuizioni, sull'errore, sulla rendenzione e sulla salvezza
da una vita esperita come priva di speranza, che nei secoli sono state sottilmente articolate e tenute
vive per mezzo della pratica ermeneutica»18 e che rappresentano per noi un patrimonio
irrinunciabile da includere del discorso pubblico.
Habermas auspica un «disponibilità all'apprendimento della filosofia nei confronti della religione»
sulla base della «reciproca compenetrazione di Cristianesimo e metafisica greca» intesa non tanto
come «ellenizzazione del cristianesimo» quanto come traduzione, ovvero di «assorbimento, per
tramite della filosofia, di contenuti genuinamente cristiani»19; la filosofia deve dunque rendere
«accessibile il contenuto dei concetti biblici, oltre i confini di una comunità di fede, a tutti coloro
che non credono o professano altre fedi»20.
Il concetto di secolarizzazione viene così rivisitato: non si tratta della liquidazione, ma della
traduzione della Rivelazione da parte della Ragione, ovvero della «liberazione secolarizzante dei
potenziali di significato incapsulati nella religione»21. In questo modo tale concetto è reso
compatibile con quello di una “società post-secolare” in cui la religione sia inclusa nel discorso
politico: non più solo per ragioni (2) motivazionali (funzionali) ma (1) cognitive (normative). (Ecco
in che senso la risposta habermasiana può risultare dunque sostanzialmente negativa a entrambi
quei quesiti iniziali).
La secolarizzazione è un «processo di apprendimento biunivoco, che costringe tanto le tradizioni
illuministe, tanto le dottrine religiose a riflettere sui rispettivi confini»22. L'apprendimento è
«complementare»23 stante «i vincoli della secolarizzazione del sapere, della neutralità del potere
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Ivi, p. 51.
Ivi, p. 52.
Ivi, pp. 52-53.
Ivi, pp. 55.
Ivi, p. 54.
Ibidem.
Ivi, p. 57.
Ibidem.
Ivi, p. 58.
Ibidem.
Ivi, p. 42.
Ivi, p. 59.
statale e della libertà di religione generalizzata»24.
Ma cosa deve intendersi con secolarizzazione del sapere, neutralità del potere e libertà di religione?
Quanto al primo punto: il laico deve riconoscere alle convinzioni religiose «uno status epistemico»
ed accettare che le visioni del mondo naturalistiche ovvero scientifiche non godono «prima facie di
alcuna priorità»25.
Quanto al secondo punto: la neutralità della legge significa indipendenza da la ortodossia solo nel
senso che coincide col rispetto di ogni ordossia; deve realizzarsi l'”incastro” (Rawls) fra
«ordinamento giuridico universalistico e morale sociale egalitaria»26 in modo che il “modello”
(Rawls) «della giustizia mondana, sebbene costruito tramite principi neutrali rispetto alle visioni del
mondo, deve risultare adatto ad ogni contesto di giustificazione ortodosso che volta per volta si
presenti»27.
Quanto al terzo punto: al credente spetta non solo la liberà di professare la propria religione ma
anche quella di intervenire, da credente, nel processo normativo; da lui si attende solo che rispetti
«ragionevomente» «la presenza di un dissenso»; dalla coscienza laica si attende invece, più
radicalmente, «un rapporto auto-riflessivo con i limiti dell'illuminismo»28 e lo «sforzo di traduzione
di materiali significativi dalla lingua religiosa a una lingua accessibile a tutti»29.
In conclusione: «la neutralità del potere statale per ciò che concerne la visione del mondo, garanzia
di uguali libertà etiche per ogni cittadino, è inconciliabile con la generalizzazione politica di una
visione del mondo secolaristica»30.
J. Ratzinger, Ragione e fede, scambio reciproco per un'etica comune.31
I rischi cui conduce la globalizzazione ed il progresso scientifico mostrano la necessità di una loro
tutela da parte del l'etica. Dato che essi stessi contribuiscono a relativizzarne le certezze, compito
della filosofia è difenderne l'autonomia, sorvegliando le indebite intrusioni del potere (politico e
scientifico) in campo etico.
«In concreto, è compito della politica sottoporre il potere al controllo della legge»32 ma il diritto non
coincide automaticamente con la giustizia, può essere infatti strumento del potere di pochi e non
necessariamente espressione dell'interesse comune.
Il problema non è risolto, come potrebbe sembrare, nemmeno dal processo decisorio democratico
poiché esso si fonda sulla delega e sulla maggioranza. La stesso proliferare, in epoca moderna, di
dichiarazioni universali dei diritti umani ne è l'implicito riconoscimento.
[In termini kantiani: la legalità è garantita da uno stato giuridico-civile non bisognoso di religione;
la moralità è garantita da uno stato etico-civile bisognoso di religione].
Esempi del potere politico e dei suoi rischi sono la guerra e il terrorismo; esempi del potere
scientifico e del suoi rischi sono l'atomica e le biotecnologie (clonazione in primis). Se per i primi si
invoca spesso la responsabilità della religione e la sua critica, i secondi sono prodotti della ragione,
pertanto «non dovrebbe dunque a sua volta essere messa sotto osservazione la ragione? Ma da chi o
da cosa? O forse religione e ragione dovrebbero limitarsi a vicenda […]?»33. A tal punto si impone
nuovamente l'esigenza di un'«etica operativa, per rispondere alle sfide delineate in precedenza e
aiutare a superarle»34.
Due fratture nella Cristianità mostrano la non coincidenza di diritto e giustizia: la scoperta
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Ivi, p. 60.
Ivi, p. 62.
Ibidem.
Ivi, p. 61.
Ibidem.
Ivi, p. 63.
Ibidem.
Ivi, pp. 65-81.
Ivi, p. 67.
Ivi, p. 72.
Ivi, p. 73.
dell'America e lo Scisma. Nasce così il tentativo di trovare «almeno un minum giuridico, le cui basi
devono trovare il proprio fondamento non più nella fede, ma nella natura, nella ragione umana.
Hugo Grotius, Samuel Pufendorf e altri hanno sviluppato il concetto di un diritto naturale come
diritto razionale, che oltre le barriere di fede pone in vigore la ragione come l'organo di comune
costruzione del diritto»35.
Il diritto naturale non fornisce però l'etica operativa che cerchiamo: «questo strumento è purtroppo
diventato inefficace […]. Il concetto di diritto naturale presuppone un'idea di natura in cui ragione e
natura si compenetrano, la natura stessa è razionale. Questa visione della natura, con la vittoria della
teoria evoluzionista, si è persa […]»36. Se pure non accettassimo questo argomento e guardassimo a
quell' «ultimo elemento del diritto naturale»37 che è «la teoria dei diritti umani»38 resta che «un
simile discorso dovrebbe oggi essere interpretato e applicato interculturalmente»39 con tutte le
cautele e le difficoltà del caso a fronte della «non universalità di fatto di entrambe le principali
culture dell'occidente, quella della fede cristiana e quella della razionalità laica»40. Anche se, va detto,
proprio in questa ottica comparativa, non la ragione (con Habermas) ma la razionalità secolarizzata, sia da abbandonare, ovvero la secolarizzazione
(contrariamente ad Habermas) «sia una deviazione che necessita di correzione»41. «Perciò
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anche la cosiddetta etica globale
rimane un'astrazione» .
[Rispetto a Kant, viene esclusa la possibilità di una fede razionale indipendente dalla Rivelazione a
fondamento dell'etica senza però che la razionalità in se stessa ne risulti svilita.]
Ratzinger conclude che a fondamento dell'etica operativa che cerchiamo restano allora soltanto
ragione e religione nella loro reciproca disponibilità ad apprendere, nei termini in cui Habermas l'ha
formulata. Nelle sue parole «ci sono delle patologie della religione, che sono assai pericolose e che
rendono necessario considerare la luce divina della ragione come un organo di controllo»43. «Ma
nelle nostre riflessioni si è anche mostrato che esistono patologie anche nella ragione […]. perciò
anche alla ragione devono essere rammentati i suoi limiti ed essa deve imparare la capacità di
ascolto nei confronti delle grandi tradizioni religiose dell'umanità»44.
Parafrasando Kurt Hübner, la fede non è in contrasto con l'idea umanistica di ragione, di
illuminismo e di libertà. «Questa regola di base deve essere messa in pratica nel contesto
interculturale della contemporaneità. Senza dubbio di due partner principali in questo rapporto
correlativo sono la fede cristiana e la razionalità laica occidentale: si può e si deve dirlo senza falso
eurocentrismo»45.
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Ivi, p. 74.
Ivi, p. 75.
Ibidem.
Ivi, p. 76.
Ibidem.
Ivi, p. 78.
Ibidem.
Ivi, p. 79.
Ibidem.
Ivi, pp. 79-80.
Ivi, pp. 80-81.