LECTURA DANTIS
dedicata a Mons. Giovanni Mesini
“il prete di Dante”
Divina Commedia. Paradiso
letto e commentato da
Padre ALBERTO CASALBONI
dei Frati Minori Cappuccini di Ravenna
Canto XVII
Cielo quinto o di Marte. Combattenti per la fede. Le oscure parole udite da Dante nei suoi
riguardi: l’esilio. Ma non si sgomenti, dica tutto quello che ha visto con franchezza.
Della trilogia di Cacciaguida, questo canto è il vertice, per il tema dell’esilio e per la missione dal
trisavolo conferita a Dante. A dire dell’urgenza di conoscere il senso degli oscuri detti uditi nei suoi
riguardi lungo il viaggio, il Poeta ricorre al mito di Fetonte “qual venne a Climenè, per accertarsi”, con
la premura di fare chiarezza sulle dicerie circa la sua paternità, e come Giove, per quietarlo, gli avesse
permesso di guidare il carro del sole: il disastro della guida di un incompetente insegna ancora a “li
padri” di essere scarsi, attenti nell’acconsentire ai desideri dei figli. Uguale premura avvertiva Dante di
conoscere il suo destino, e Beatrice lo incoraggia ad esprimere il suo assillo “manda fuor la vampa/ del
tuo disio”; è ben vero è che essi leggono nella sua mente, “ma perché t’ausi/ a dir la sete, sì che l’uom ti
mesca”. Non c’è alcun bisogno che ella insista, ed egli si rivolge al trisavolo sottolineandone la
parentela, la radice: “o cara piota mia che sì t’insusi” e “vedi le cose contingenti”, le cose che ci
riguardano, “mirando il punto/ a cui tutti li tempi son presenti”, tu che nell’essenza divina, eterno
presente, vi leggi tutto quello che deve accadere come noi conosciamo i principi elementari, ad esempio,
come in un triangolo non possano darsi due angoli ottusi; orbene, “mentre ch’io era a Virgilio
congiunto”, negli altri due mondi ultraterreni, “dette mi fuor di mia vita futura/ parole gravi, avvegna
ch’io mi senta/ tetragono ai colpi di ventura”, e le parole gravi sottintendono cose gravi: e anche se si
dice pronto ad affrontarle, vorrebbe tuttavia sapere con precisione ciò che l’attende, “ché saetta previsa
vien più lenta”. Dante, prima ancora di riferirci le parole dell’avo, sottolinea il suo linguaggio diretto,
“né per ambage, in che la gente folle/ già s’inviscava pria che fosse anciso/ l’Agnel di Dio che le
peccata tolle/, ma per chiare parole e con preciso/ latin rispuose”; furono parole gravi e dirette, non già
come l’antico linguaggio oracolare che lasciava adito ad una interpretazione e la suo contrario; gravi sì,
ma dette con l’atteggiamento di un padre, “quello amor paterno”, sempre avvolto nel “suo proprio riso”
di luce, “chiuso e parvente del suo proprio riso”, ardito ossimoro ad esprimere l’assoluta trasparenza
della letizia paradisiaca pur nell’indistinto della figura, troppo superiore per la forza visiva di un
mortale.
L’incipit è di alta teologia, coglie lo spunto dalle “cose contingenti” e ne allarga la portata: “la
contingenza, che fuor del quaderno / de la vostra matera non si stende,/ tutta è dipinta nel cospetto
etterno”; per sottolineare come tutto ciò che ha avuto un principio è soggetto al tempo, al prima e al poi,
passato, presente e futuro; voi, sottolinea il beato, conoscete solo passato e presente; Dio invece è eterno
presente, e chi vede in Dio vede tutto in un eterno presente. E questo ti era già noto. Ma qui sta il nodo,
se tutto è già scritto nella mente di Dio, allora le cose accadranno di necessità; non è così, chiarisce lo
spirito, “necessità però quindi non prende”; ad esempio, se osservi una nave lungo la corrente di un
fiume, forse che il tuo occhio, viso, nel quale essa si riflette, determina il suo andare? Come da un
organo arriva all’orecchio l’armonia, così, mirando in Dio, “mi viene/ a vista il tempo che ti
s’apparecchia”; e questo è quello che vedo: “di Fiorenza partir ti convene”, esilio.
Il mito di Ippolito e della matrigna sta a significare le ragioni, “per la spietata e perfida noverca”, Fedra
perfida come Firenze; non solo, nota ancor più amara, “questo si vuole e questo già si cerca,/ e tosto
verrà fatto a chi ciò pensa/ là dove Cristo tutto dì si merca”, alle spalle di Firenze c’è lo stesso
tradimento cui è quotidianamente sottoposto Cristo, là, nella Curia Romana, a riprendere l’allusione di
Ciacco, “con la forza di tal che testé piaggia”. Il discorso procede per rapide sintesi, secondo i canoni
della profezia, a dipingere eventi per noi già accaduti: “la colpa seguirà la parte offensa/ in grido, come
suol”, la colpa, come sempre, sarà dei perdenti, ad inverare le parole di Ciacco; “ma la vendetta/ fia
testimonio al ver che la dispensa”, ma la giustizia divina colpirà, e la storia di Firenze lo comprova.
Ritorna poi a Dante “tu lascerai ogne cosa diletta/ più caramente; e questo è quello strale/ che l’arco de
lo essilio pria saetta”, e “tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere
e ‘l salir per l’altrui scale”, parole scultoree, quel pane condito del sale del pudore, come già Romeo,
“mendicando sua vita a frusto a frusto”.
Non solo, ma peggio ancora, “quel che più ti graverà le spalle,/sarà la compagnia malvagia e scempia”,
già compagni, e ora ingrati, folli ed iniqui nei tuoi confronti; ma essi, “non tu”, poco appresso si
ritroveranno con il volto insanguinato: la loro condotta fornirà la prova “di sua bestialitate” e, per
converso, per te la prova “ch’a te fia bello/ averti fatta parte per te stesso”, motivo di onore, dunque
esserti estraniato da tale combutta di falsi amici.
Ma non temere, in tanta ed estesa proliferazione di nemici, ci sarà chi ti accoglierà, “lo primo tuo
refugio e ‘l primo ostello/ sarà la cortesia del gran Lombardo/ che ‘n su la scala porta il santo uccello”,
lo stemma dell’aquila sulla scala è degli scaligeri, di Bartolomeo della Scala: prende qui Dante lo spunto
per lodarne l’amicizia e la liberalità, in una gara reciproca fra dare e ricevere; e così, in senso profetico,
e per ben sei terzine, si lascia andare nei confronti del figlio Cangrande: “con lui vedrai colui che
‘mpresso fue,/ nascendo, sì da questa stella forte,/ che notabili fier l’opere sue”, anche se, data la
giovane età, il mondo ancora di lui non sa, ma il destino è con lui, impresso “da questa stella forte”,
quella di Marte, e “pria che ‘l Guasco l’alto Arrigo inganni, parran faville de la sua virtute/ in non
curar d’argento né d’affanni”; prima che papa Clemente V tradisca l’imperatore Arrigo VII, egli darà
prova del suo senso morale e delle sue abilità di condottiero. La sua liberalità poi arriverà a convincere
perfino i nemici; in questo figlio di tanto padre, “a lui t’aspetta e a’ suoi benefici”, abbi piena fiducia in
lui. Per lui, novello Messia, Cacciaguida traduce e parafrasa le parole di Zaccaria “per lui fia trasmutata
molta gente,/ cambiando condizion ricchi e mendici”. Sigilla poi in maniera sibillina e vaga “e
portera’ne scritto ne la mente/ di lui, e nol dirai”; e disse cose/ incredibili a quei che fier presente”.
Queste le chiose a ciò che turbava Dante; poi, ancora in maniera un po’ vaga, ne precisa i tempi, “ecco
le ‘nsidie/ che dietro a pochi giri son nascose”, fra pochi anni. Ma non invidi nulla agli altri, “non vo’
però ch’a’ tuoi vicini invidie”, poiché “s’infutura la tua vita”, e ben oltre il tempo in cui la loro
malvagità verrà punita. Ma a Dante le parole del trisavolo fanno sorgere un dubbio, come se egli non
avesse portato a termine la trama di cui egli aveva fornito l’ordito, e “io cominciai, come colui che
brama,/ dubitando, consiglio da persona/ che vede e vuol dirittamente e ama”. Dante non poteva certo
augurarsi di trovarsi di fronte a persona più idonea a risolvere dubbi e perplessità, e allora gli confida il
pressante interrogativo sul suo futuro da esule, ormai consapevole del suo destino, occorre certo che si
armi di prudenza e di preveggenza, e, visto che ormai “loco m’è tolto più caro”, pensa che prudenza
voglia di non mettersi in condizione di perdere l’altrui ospitalità “per miei carmi”: se appunto
azzardasse dare voce a tutto quello che nei tre mondi gli è stato dato di vedere, e lo chiarisce: “ho io
appreso quel che s’io ridico,/ a molti fia sapor di forte agrume”, e saranno men che disposti ad
ospitarmi; d’altra parte, “s’io al vero son timido amico,/ temo di perder viver tra coloro che questo
tempo chiameranno antico”, e non potrà certo adempiersi il presagio “che s’infutura la tua vita”. Falso
dilemma per “la luce in che rideva il mio tesoro” che fatta “prima corusca” assicura: “coscïenza fusca/
o de la propria o de l’altrui vergogna/ pur sentirà la tua parola brusca”, siano le persone indegne per le
proprie o per le azioni dei propri congiunti a vergognarsi, né sarebbe il caso di chiedere a questi
ospitalità; tu, “rimossa ogne menzogna,/ tutta tua visïon fa manifesta”, svela e rivela tutto ciò che hai
visto “e lascia pur grattar dov’è la rogna”; la verità, se dapprima farà male, poi si rivelerà
provvidenziale, “se la voce tua sarà molesta/ nel primo gusto, vital nodrimento/ lascerà poi, quando
sarà digesta”. Questo tuo grido è la missione a te affidata, “però ti son mostrate in queste rote,/ nel
monte e ne la valle dolorosa/ pur l’anime che son di fama note”; è opportuno colpire chi è più in vista
“come vento,/ che le più alte cime più percuote”. Per questo nei tre mondi gli si sono fatti incontro i
personaggi più noti di tutte le epoche, buoni e cattivi, proprio perché in ragione del loro rango maggiore
è la loro responsabilità del male e del bene del mondo; colpirne la malvagità significa maggiore
opportunità di un mutamento etico di tutta la civile società; un messaggio plasmato su persone ed eventi
noti lascia nella fantasia del popolo una traccia indelebile; poco senso avrebbe colpire un Asdente
qualsiasi “inteso al cuoio e a lo spago” o maghe del popolo, “triste che lasciaron l’ago/ la spuola e ‘l
fuso”, poiché “l’animo di quel ch’ode, non posa/ né ferma fede per essempro ch’aia/ la sua radice
incognita e ascosa”.