PROCEDURA CIVILE SECONDA PARTE.
CAPITOLO 37. LE FASI DI QUIESCENZA DEL PROCEDIMENTO
1. Le fasi di quiescenza del procedimento
Le fasi di quiescenza del procedimento è uno stato di arresto della procedura, un periodo
nel corso del quale il processo pende ma non possono venir compiuti i normali atti della
serie procedimentale. La quiescenza è sempre uno stato provvisorio: l’arresto del
processo può venir meno attraverso specifici atti di impulso; in mancanza di tali atti, alla
scadenza di un determinato lasso di tempo, il processo è destinato ad estinguersi.
Il procedimento di cognizione può restare quiescente per varie cause:
1) Sospensione;
2) Interruzione;
3) Cancellazione della causa dal ruolo.
2. Sospensione
La sospensione del processo di cognizione è uno stato di quiescenza del procedimento:
ART 298, c.1, che prescrive che “durante la sospensione non possono essere compiuti atti
del procedimento”. La sospensione interromper i termini in corso (c.2): questi torneranno
a decorrere dalla ripresa della procedura.
L’effetto sospensivo è unitario, ma le cause della sospensione sono molteplici e varie.
nella sezione dedicata all’istituto, il codice prevede agli ARTT 295-296, due figure di
sospensione: una c.d. necessaria, e una c.d. concordata dalle parti.
A stare alla legge, le parti possono ottenere di comune accordo, una sospensione del
processo (ART 296). Questa sospensione concordata è un istituto praticamente morto per
la misura temporale ridicola del periodo massimo di sospensione: tre mesi. In un sistema
in cui i singoli gradi del processo duranti anni, e dove i tempi fra un’udienza ed un’altra,
sono in media superiori a 4 mesi, la sospensione concordata si è ridotta ad una mera
possibilità teorica.
Messa da parte la sospensione dell’ART 296, le figure di sospensione appaiono molto
eterogenee: se proprio se ne vuole trovare un comune denominatore, le si può dire
genericamente accomunate dall’opportunità da una pausa procedurale in attesa di un
eventi rilevante per il processo o per la decisione.
Proviamo intanto ad elencare le principali figure di sospensione previste dalla legge, oltre
a quelle contemplate dal 295 e 296:
1) Sospensione per rimessione alla Corte di Giustizia Europea;
2) Sospensioni previste dal’ART 27 del Regolamento del 2001, per preventiva pendenza
di un identico giudizio di fronte all’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro;
3) Sospensione per pendenza di un processo straniero ai sensi dell’ART 7, L. 1995;
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Etc. Etc.
3. Sospensione necessaria
E veniamo alla sospensione c.d. necessaria, dalla rubrica dell’ART 295. Il giudice “dispone
che il processo sia sospeso” quando occorre “risolvere una controversia, dalla cui
definizione dipende la decisione della causa”. Qui l’esigenza di arrestare il corso del
processo è legata al fatto che un altro giudice deve decidere un’altra causa, che si presenta
pregiudiziale rispetto a quella considerata. La pregiudizialità consiste nel fatto che la
decisione nel merito del processo passabile di sospensione dipende giuridicamente dalla
decisione della causa pregiudiziale.
Esempio tipico è la causa di riconoscimento della paternità rispetto alla causa di alimenti.
Gli alimenti chiesti al congiunto sono infatti dovuto solo se sussiste il rapporto di
parentela addotto quale elemento dell’obbligo: se il rapporto di filiazione non sussiste, la
domanda di alimenti deve essere rigettata.
Di norma, il giudice della causa alimentare conosce solo incidentalmente del rapporto di
filiazione; se però di fronte ad un altro giudice e tra le stesse parti, pendesse un autonomo
giudizio su tale rapporto, egli dovrebbe ordinare la sospensione del processo per
attendere il passaggio in giudicato della relativa sentenza.
Il tenore dell’ART 295 è generale, ma bisogna tenere conto che, nella pratica, può
facilmente mancare qualcuno degli elementi indispensabili per imporre la sospensione.
Cominciamo a scartare l’idea che sospensione possa aversi quando la causa pregiudiziale
pende di fronte allo stesso giudice della causa “pregiudicata”: in questo caso il giudice non
può sospendere il processo.
Quando infatti la causa pregiudiziale pende di fronte allo stesso ufficio giudiziario perché
essa è stata instaurata con domanda autonoma (rispetto alla causa pregiudicata), dovrà
farsi applicazione dell’ART 274, cioè della riunione di procedimenti relativi a cause
connesse. Quando invece la causa pregiudiziale sorge nel corso della trattazione della
causa dipendente (attraverso il meccanismo della trasformazione della questione in causa
di cui all’ART 34), il processo non subisce alcuna sospensione in quanto il giudice dovrà
trattare nell’unico processo davanti a lui, entrambe le cause (c.d. simultaneus processus).
Ovvero, se incompetente sulla causa pregiudiziale, dovrà rimettere al giudice competente,
ambedue le cause.
Per avrsi sospensione, la causa pregiudiziale deve quindi pendere di fronte ad un giudice
diverso rispetto a quello davanti a cui pende la causa dipendente.
Nemmeno questo, però, basta: anche in ipotesi di due cause legate da nesso di
pregiudizialità e proposte a giudice diversi, per aversi sospensione occorre che sia
impossibile l’applicazione del meccanismo dell’ART 40 c.1, cioè della riunione di fronte al
giudice preventivamente adito delle due cause. Occorre cioè che questa riunione sia resa
in concreto impossibile per tardività della rilevazione, ovvero per impossibilità di
proficua trattazione delle due cause.
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Aggiungiamo poi che, malgrado l’ampio significato di “altro giudice”, non si può
generalizzare la pregiudizialità al di fuori della giurisdizione ordinaria.
Tanto per cominciare è difficile trovare ipotesi di pregiudizialità tra il processo
amministrativo e quello civile. Infatti il giudice civile ha sempre il potere di disapplicare
l’atto amministrativo illegittimo, sicché tutte le volte in cui un diritto dipende da un atto
impugnato per le vie della giurisdizione amministrative di legittimità, la controversia su
tale diritto non dovrà affatto essere sospesa, potendo il giudice semplicemente limitarsi a
disapplicare l’atto in questione.
Rispetto alla giurisdizione amministrativa esclusiva, in astratto nulla impedisce di
concepire una pregiudizialità amministrativa quale fattispecie di obbligo di sospensione,
ma la realtà presenta casi del genere abbastanza raramente.
Quanto alla giurisdizione penale, malgrado la rilevanza sul piano civile della condanna o
dell’assoluzione dell’imputato, il sistema sancisce una generale libertà del giudizio vivile
rispetto a quello penale. Il rapporto tra la giurisdizione civile e quella penale è cioè
regolato nel senso di una tendenziale separazione dei giudizi, con esclusione quindi della
sospensione del processo civile anche quando la decisione di quest’ultimo dipenda
dall’esito del processo penale.
Fanno eccezione le seguenti ipotesi:
a) trasferimento i sede civile dell’originaria domanda (restitutoria o risarcitoria) proposta
nella forma della costituzione di parte civile nel processo penale. Qui il processo civile
pende ma resta soppeso in attesa della decisione del giudice penale;
b) proposizione della domanda in sede civile dopo la sentenza penale di primo grado. In
caso di appello di tale sentenza, il processo civile resta sospeso in attesa della decisione
dei successivi gradi del giudizio penale.
Veniamo infine al procedimento reso in materia di sospensione: quale organo è abilito a
pronunciarlo; quale è la forma; se vi sono mezzi di controllo.
I provvedimento relativi alla sospensione hanno forma di ordinanza. L’ordinanza viene
pronunciata dal collegio se la causa di sospensione viene rilevata nella fase decisoria.
L’ordinanza è di regola non impugnabile; è però impugnabile con il solo mezzo del
regolamento di competenza l’ordinanza che dispone la sospensione necessaria del
processo (ART 42).
Ciò significa che restano non impugnabili:
a) le ordinanze che rigettano l’istanza di sospensione;
b) le ordinanze che accolgono l’istanza di sospensione ma fuori dalle ipotesi di
sospensione necessaria ai sensi dell’ART 295.
La Corte di Cassazione, in sede di regolamento di competenza, è chiamata a valutare se la
sospensione necessaria stata correttamente disposta dal giudice; per far questo essa deve
valutare l’effettiva sussistenza del nesso di pregiudizialità tra le decisione del processo “a
monte” (pregiudicante) e la decisione del processo sospeso (pregiudicato). L’ordinanza
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verrà confermata, e il processo rimarrà sospeso, se il nesso viene riconosciuto tale da
imporre la sospensione, e verrà viceversa annullata se il nesso non viene considerato
talmente forte da imporre la sospensione.
4. L’interruzione
L’interruzione è un arresto del procedimento, in sé e per sé non dissimile dalla quiescenza
che consegue alla sospensione, ma diverso nei presupposti e nella ratio. L’istituto
dell’interruzione mira infatti a permettere il rispetto dell’effettività del contraddittorio di
fronte ad eventi che possono concretamente compromettere tale effettività.
Gli eventi considerati dalla legge quali fattispecie di interruzione, sono:
a) morte della persona fisica / estinzione della persona giuridica;
b) perdita di capacità della parte, o
b1) perdita di capacità del rappresentante legale, o
b2) cessazione della rappresentanza legale.
Si noti che la rappresentanza in parola è esclusivamente la “rappresentanza legale”
mentre restano escluse dall’area dell’interruzione le vicende estintive tanto della
rappresentano volontaria quanto della c.d. rappresentanza organica.
Una forma di perdita della capacità in corso di causa di grandissimo rilievo pratico nel
processo è il sopravvenire del fallimento (o la sottoposizione a liquidazione coatta
amministrativa o a amministrazione straordinaria) della parte che sia imprenditore
commerciale. Il processo non può proseguire nei confronti di questo soggetto e ad esso
succederà normalmente il curatore fallimentare. Si tratta in questo caso di una
interruzione automatica, dal momento che “L’apertura del fallimento determina
l’interruzione del processo”.
In tutti i casi previsti, la legge ritiene opportuno impedire il compimento di atti
processuali che potrebbero danneggiare la parte colpita dall’evento, allo scopo di
permettere una nuova costituzione dei soggetti a cui spetta di proseguire validamente il
processo. Ciò spiega perché in certe fasi procedurali, o in certi tipi di procedimento, non si
dia luogo a interruzione: non si considerano infatti soggetti ad interruzione il giudizio di
cassazione, i procedimenti di esecuzione forzata, il procedimento monitorio.
Sul piano procedurale si distinguono morte e perdita della capacità avvenuti prima del
termine per la costituzione tempestiva (ART 299), da morte e capacità della parte
costituita o della parte dichiarata contumace (ART 300).
Ai sensi dell’ART 299, se, prima della costituzione, “sopravviene la morte oppure la
perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti o del suo rappresentante legale
o la cessazione di tale rappresentanza, il processo è interrotto”.
Ai sensi dell’ART 300, se uno degli eventi previsti dall’ART 299 “si avvera nei riguardi
della parte che si è costituita a mezzo di procuratore, questi lo dichiara in udienza o lo
notifica alle altre parti”. In tal caso l’interruzione non consegue automaticamente
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all’evento, ma necessita di apposita dichiarazione del difensore della parte colpita
dell’evento. In mancanza di tale dichiarazione, il processo continua regolarmente.
Nel caso in cui l’evento interruttivo colpisca la parte dichiarata contumace, l’ART 300 c.4
prevede che il processo è interrotto dal momento in cui il fatto interruttivo è
documentato dall’altra parte, o è “notificato o certificato dall’U.G., nella relazione di
notificazione di uno dei provvedimento di cui all’ART 292”.
L’interruzione della procedura ha un senso finché spetti alle parti compiere atti, vale a
dire fino alla scadenza del termine per il deposito dell’ultimo atto dimensionale: scaduto
tale termine all’attività delle parti si sostituisce solo il dovere decisorio del giudice e non
resta da garantire alcuna esigenza di salvaguardino del contraddittorio.
Eventi in grado di provocare l’interruzione del processo possono colpire anche il
procuratore della parte, cioè il suo avvocato. L’ART 301 (morte o impedimento del
procuratore) prescrive che, se la parte è costituita a mezzo di procuratore, il processo è
interrotto dal giorno della morte, radiazione o sospensione. L’interruzione è automatica,
non richiedendosi alcune previa dichiarazione, ma la rilevanza dell’evento è anche qui
subordinata al suo verificarsi anteriormente al termine per il compimento dell’ultimo atto
difensivo della parte: dopo tale momento non vi è più alcuna esigenza di contraddittorio
da salvaguardare.
Il c.3 ART 301 specifica che non sono cause di interruzione “la revoca della procura o la
rinuncia ad essa”. La norma è il logico svolgimento del principio di ultrattività della
procura fissato dall’ART 85, secondo cui “la revoca o la rinuncia non hanno effetto nei
confronti dell’altra parte finché non sia avvenuta la sostituzione del difensore”. Ne segue
che fino al momento della sostituzione tutte le comunicazioni e notificazioni
continueranno legittimamente a farsi al procuratore costituito ai sensi dell’ART 170.
Il periodo di interruzione può concludersi con la ripresa del procedimento ovvero con la
sua estinzione. L’art 305 stabilisce che “il processo deve essere proseguito o riassunto
entro iil termine perentorio di 3 mesi dall’interruzione, altrimenti si estingue”. Si ha
“prosecuzione” quando l’iniziativa di rimettere in moto il procedimento è presa dalla
parte toccata dall’evento interruttivo, ovvero dai suoi eredi o comunque dal nuovo
soggetto a cui spetta prenderne il posto.
Prosecuzione significa quindi nuova e volontaria costituzione di tale soggetto con
ripristino della regolarità del contraddittorio.
Si ha invece “riassunzione” quando è la controparte a prendere l’iniziativa di rimettere in
moto il procedimento. In tal caso, tramte “atto di riassunzione”, verrà effettuata la
vocativo in jus dei soggetti che debbono costituirsi per proseguire il processo.
Il soggetto che procede alla prosecuzione deve provvedere a costituirsi; la sua
costituzione potrà avvenire direttamente all’udienza o in cancelleria.
Se il processo non vene riavviato con il meccanismo della prosecuzione, l’altra parte può
riassumere il processo (art 305). L’atto di riassunzione assume la forma della citazione se
vi sia un’udienza già fissata, e la forma del ricorso se, mancando fissazione di udienza,
occorre stabilirne la data.
Il ricorso va depositato presso la cancelleria del giudice, il quale provvederà con decreto
alla fissazione di udienza e assegnerà un termine per la notifica a coloro che debbono
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costituirsi per proseguire il processo. La citazione verrà notificata: personalmente alle
parti mutate a seguito dell’evento interruttivo.
In caso di morte della parte “il ricorso deve contenere gli estremi della domanda, e la
notificazione entro un anno dalla morte può essere fatta collettivamente e
impersonalmente agli eredi, nell’ultimo domicilio del defunto”:
L’u.c. del 303 prevede che “se la parte che ha ricevuto la notificazione non compare
all’udienza fissata si procede in sua contumacia”.
Tanto la prosecuzione quanto la riassunzione debbono essere compiute entro il termine
perentorio di 3 mesi; in mancanza il processo si estingue.
CAPITOLO 38. L’ESTINZIONE
1. Introduzione
L’estinzione del processo è il fenomeno per cui il rapporto processuale instaurato non si
conclude con la sentenza di merito, ma con un provvedimento che chiude il processo
senza pronunciare sulla domanda.
Le cause dell’estinzione del giudizio ordinario di cognizione di primo grado sono due: la
rinuncia agli atti del giudizio (ART 306) e la inattività delle parti (art 307). Quando si
verifica una di tali fattispecie il processo si estingue; la parte interessata alla
dichiarazione di estinzione è abilitata a servirsi della relativa eccezione ma, in mancanza,
lo stesso giudice è tenuto a dichiarare l’estinzione (Nota: la rilevabilità d’ufficio
dell’eccezione di estinzione èsytata introdotta dalla L. 69/2009. In precedenza, non solo
l’eccezione era riservata alla parte interessata ma addirittura questa doveva
necessariamente servirsene nella sua prima difesa, pena la presunzione di abbandono. La
disciplina previgente esprimeva, dunque, un netto favore per la continuazione del
giudizio, e, quindi, per la definizione nel merito della controversia. Nel nuovo regime,
viceversa, la mancata dichiarazione dell’estinzione diviene oggi correttamente
denunciabile quale motivo di impugnazione).
2. La rinunzia agli atti
L’attore può rinunciare agli atti del giudizio in corso con effetto estintivo dello stesso. La
rinuncia non può provenire ovviamente dal convenuto: sarebbe paradossale che il
chiamato in giudizio possa sottrarsi alla sua soggezione al giudizio rinunciandovi.
Il processo si estingue se la rinuncia è accettata dalle parti costituite che potrebbero avere
interesse alla prosecuzione del processo. L’ART 306 c.1 specifica che l’accettazione non è
efficace se contiene riserve o condizioni.
Che significa questo? L’esperienza insegna che l’attore può decidere ad un certo momento
di lasciar perdere, di ritirassi dal processo. Le cause possono essere vare: la
consapevolezza sopravvenuta del proprio torto, una qualche difficoltà insorta, eccetera.
A prescindere dalle ragioni che spingono l’attore a rinunciare alla tutela giurisdizionale
ottenibile con quel processo, la rinuncia è comunque un atto “puro”, non legato
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casualmente alla propria ragione psicologica: da punto di vista processuale, cioè, non
occorre indagare sulle motivazioni oche portano l’attore a rinunciare.
Questo effetto è appunto l’estinzione del processo, cioè la chiusura del rapporto
processuale in corso: in sé considerata la rinuncia agli atti significa rinuncia al processo
ma non all’airone, non cioè al diciotto tutelato dal processo e, quindi, non alla possibilità
di proporre daccapo la domanda giudiziale. In tal senso la rinuncia agli atti viene distinta
dalla rinuncia all’azione, cioè al diritto azionato. La rinuncia all’azione comporta la non
riproponibilità della relativa domanda giudiziale.
L’ART 306 impone che la rinuncia debba provenire dalla parte personalmente, o dal
procuratore speciale. Non si tratta quindi i un atto normalmente rientrante nei poteri del
difensore: per rinunciare efficacemente questi deve essere autorizzato ad hoc. La
dichiarazione di rinuncia può essere fatta verbalmente all’udienze, o “con atti sottoscritti
e notificati alle altre parti” (ART 306 c.2).
Per essere efficace, inoltre, la rinuncia deve essere “accettata dalle parti costituite che
potrebbero aver interesse alla prosecuzione”. E’ necessaria invece l’accettazione delle
parti costituite, ma non di tutte ma solo di quelle che “potrebbero avere interesse, alla
prosecuzione”. Chi sono queste?
Possiamo considerare subito che non hanno interesse alla prosecuzione le parti che si
sono limitate a chiedere il rigetto della domanda in punto di rito, in quanto non può avere
interesse alla prosecuzione chi vuole far morire il processo.
Ne consegue che, per l’efficacia della rinuncia agli atti, non è necessaria alcuna
accettazione del convenuto che si è limitato a sollevar eccezioni processuali.
Invece, la parte che si è difesa entrando le merito della domanda, rivela in tal modo di
aver interesse alla prosecuzione del processo. Mostra, cioè, di avere anch’essa interesse
ad una sentenza di merito, una sentenza di segno contrario a quella dell’attore ma
comunque incisene sulle situazioni stanziali coinvolte nel processo: sappiamo infatti che
la sentenza di rigetto ha la stessa idoneità al giudicato sostanziale della sentenza di
accoglimento.
Possiamo pertanto dire che vanno considerati “interessati” alla prosecuzione del giudizio
e devono pertanto accettare la rinuncia a pena di inefficacia dell’atto, le controparti
dell’attore che hanno esperito difese di merito nel processo.
Si pone il problema se debbano considerarsi interessate le pratiche si sono
contemporaneamente difese in rito e in merito. La risposta è dubbia, ma si tende a dire
che questo convenuto non manifesta un vero interesse alla prosecuzione del processo: le
eccezioni di rito sarebbero di per sé pregiudiziali rispetto a quelle di merito, e la loro
proposizione indicherebbe inequivocabilmente ce egli si ritiene a priori soddisfatto della
chiusura del processo senza esame del merito, cioè di un effetto equivalente a quello della
rinuncia agli atti.
3. L’inattività delle parti
L’altra fattispecie di estinzione è data dall’inattività delle parti nei casi previsti dalla legge.
Un primo gruppo di casi di inattività è descritto dal c.1 ART 307.
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Si tratta di casi in cui un processo in stato di quiescenza deve essere riassunto entro il
termine perentorio di tre mesi dalla data in cui è entrato in quiescenza. E la quiescenza
può dipendere da una intervenuta cancellazione dal ruolo o dal fatto che il processo, pur
pendendo, non è mai stato iscritto al ruolo.
Quest’ultimo caso è quello della mancata costituzione di ambedue le parti nei termini
stabiliti dalla legge, mentre i casi in cui il giudice ordina la cancellazione dal ruolo sono:
- quello in cui nessuna delle parti costituite è compara all’udienza “di recupero” fissata dal
giudice quando la prima udienza è andata deserta;
- quello in cii nessuna delle parti costituite è comparsa all’udienza “di recupero” fissata
dal giudice quando una qualunque udienza successiva alla prima è andata deserta (ART
309);
- quello in cui nessuna delle parti ha provveduto alla citazione del terzo ordinata dal
giudice (ART 270 c.2);
- quello in cui, costituitosi tardivamente l’attore, anche il convenuto si sia costituito fuori
termine eccependo l’intempestività della costituzione del primo.
Il processo deve essere riassunto davanti allo stesso giudice nel termine perentorio di tre
mesi. In mancanza di tempestiva riassunzione, il processo si estingue.
In tutti questi casi, una volta riassunto, il processo si estingue “se nessuna delle parti si sia
costituita”; l’estinzione si verifica alla data della scadenza del termine per la costituzione
della parte nei cui confronti è operata la riassunzione. Il processo si estingue inoltre se
“nei casi previsti dalla legge il giudice ordini la cancellazione della causa dal ruolo” (ART
307 c.2). In altri termini, se il processo è stato già riassunto dopo un termine di
quiescenza, una nuova, eventuale cancellazione della causa dal ruolo determinerà sempre
estinzione immediata, anche se si tratti di un tipo di cancellazione che di per sé
porterebbe ad un nuovo periodo di quiescenza: la legge non ammette quindi che un
secondo periodo di quiescenza possa succedere al primo.
Un secondo gruppo di casi è contemplato dall’ART 307 c.3, che richiama il
comportamento inerte delle parti “alle quali spetta di rinnovare la citazione o di
proseguire, riassumere o integrare il giudizio”: il processo, infatti, si estingue
immediatamente ove queste “non vi abbiano provveduto entro il termine perentorio
stabilito dalla legge, o dal giudice che dalla legge sia autorizzato a fissarlo”.
Rientrano in tali previsioni:
- ART 164 c. 2 (mancata rinnovazione della citazione nulla nel termine perentorio fissato
dal giudice che riscontri una vizio nella vocativo in jus);
- ART 291 (mancata rinnovazione della notificazione della citazione, nel termine
perentorio fissato dal giudice che riscontro un vizio della notificazione che potrebbe
giustificare la mancata costituzione del convenuto);
- ART 102 c.2 (mancata integrazione del contraddittorio nel termine fissato dal giudice);
- ART 305 (mancata riassunzione o prosecuzione del processo interrotto entro 3 mesi);
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- ART 290 (mancata costituzione dell’attore non correlata ad istanza di prosecuzione del
processo da parte del convenuto),
- ART 181 c.2 (mancata comparizione dell’attore all’udienza fissata ad hoc dal giudice a
seguito della mancata comparizione dell’attore già costituito alla prima udienza).
Possiamo quindi fissare una duplice casistica di estinzioni per inattività:
Nella prima serie di casi (art 370 c.1), l’estinzione consegue ad una doppia inattività: la
primitiva inattività considerata dalla legge è idonea a provocare solo un provvedimento di
cancellazione della causa dal ruolo; occorrerà poi che passi un trimestre senza una
successiva attività di riassunzione perché possa prodursi l’estinzione.
Nella seconda serie di casi (ART 307 c.3), fattispecie dell’estinzione è una singola
inattività: l’estinzione è immediata e consegue alla cancellazione della causa dal ruolo.
4. Rilevazione e pronuncia di estinzione
L’ultimo comma dell’ART 307 afferma che “l’estinzione opera di diritto ed è dichiarata,
anche d’ufficio”. L’espressione “opera di diritto” sta ad indicare che l’estinzione non è
l’effetto della pronuncia che la dichiara, pronuncia che assume il valore di mero
provvedimento ricognitivo di una situazione già avveratasi (seppur non dichiarata), con
la conseguenza che la dichiarazione retroagisce al momento in cui si è perfezionata la
fattispecie estintiva (es. la dichiarazione di estinzione viene pronunciata il 27 Dicembre,
ma l’assenza bilaterale che, ai sensi dll’ART 309, ha provocato l’estinzione, ha riguardato
l’udienza del 21 Settembre l’estinzione si considera a tutti gli effetti avveratasi il 21
Settembre).
L’u.c. ART 307 prescrive che l’estinzione è dichiarata “con ordinanza del g.i. ovvero con
sentenza del collegio”. L’ART 308 c.1 prevede ancora che l’ordinanza che pronuncia
l’estinzione sia reclinabile al collegio. Come si può vedere, la legge si limita a richiamare la
struttura classica istruttore-collegio, nulla dicendo del caso normale in cui il processo sia
a decisione monocratica.
Dobbiamo operare dunque alcuni chiarimento.
Struttura collegiale: l’accoglimento dell’eccezione di estinzione sollevata nella fase
istruttoria prende forma di ordinanza del g.i. reclinabile al collegio.
Il c.2 ART 308 aggiunge che il collegio provvede in camera di consiglio con sentenza se
respinge il reclamo, e con ordinanza non impugnabile se l’accoglie. In altre parole, il
rigetto del reclamo (e quindi la conferma dell’estinzione) viene deciso con pronuncia
impugnabile, mentre l’accoglimento del reclamo viene deciso con un provvedimento
definitivo. Ciò consente di dire che la legge favorisce la prosecuzione del processo e la sua
conseguente conclusione in merito.
Il rigetto dell’eccezione viene pronunciato dal g.i. con ordinanza, ma tale ordinanza non è
autonomamente reclinabile: il processo prosegue e la questione dell’estinzione si potrà
ritualmente riproporre al collegio in sede di precisazione delle conclusioni.
Struttura monocratica: nella forma dell’ordinanza sarà reso il solo provvedimento che
nega che si sia verificata l’estinzione emesso in fase istruttoria. Il provvedimento che
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dichiara l’estinzione assume invece la forma della sentenza: essendo importante che il
provvedimento sia controllabile da un diverso giudice, e non essendo possibile il reclamo,
occorre che l’estinzione sia dichiarata con un provvedimento impugnabile. La sentenza,
che è appellabile per regola generale, si presta perfettamente allo scopo.
Se però il giudice di fronte a cui è sollevata l’eccezione di estinzione la rigetta, la forma di
tale rigetto resta quella dell’ordinanza.
In tale caso l’ordinanza che rigetta l’eccezione di estinzione non è autonomamente
impugnabile: se la parte interessata a far dichiarare l’estinzione vuole insistere, deve
riproporre la propria eccezione in sede di precisazione delle conclusioni.
Se l’eccezione è sollevata ad istruttoria conclusa la pronuncia del g.i. che decide in veste di
giudice monocratico, rivestirà sempre forma di sentenza, sia che rigetti l’eccezione di
estinzione decidendo il merito della causa, sia che l’avvolga e declini quindi la decisione
nel merito: in ambedue i casi la questione sarà riproponibile con l’appello.
5. Gli effetti dell’estinzione
Gli effetti dell’estinzione sono stabiliti dall’ART 310.
Ad estinguersi è il processo: consistendo questo in una serie coordinata di atti,
l’estinzione da un lato impedisce di compiere ulteriori atti della serie, dall’altro “rende
inefficaci gli atti compiuti” (ART 310 c.2).
L’estinzione non estingue l’azione. Sappiamo già cosa questo vuol dire: l’estinzione
sancisce la chiusura del processo in corso senza decidere però dei diritti fatti valere con la
domanda, sicché tali diritti saranno ancora “azionabili”. Si dddi, cioè, potrà ancora
eventualmente decidersi in un nuovo processo generato da autonoma domanda che li
riguardi; nessun giudicato dunque colpisce l’azione.
Come regola generale dunque, gli atti del processo perdono la loro efficacia, non
sopravvivono cioè al venir meno della serie procedimentale che dava loro un senso ed
una funzione. Questo vale in linea di principio per gli atti delle parti e per quelli degli
uffici, con l’eccezione di alcuni provvedimento. Così non vengono travolte dall’estinzione
le sentenze di merito e le pronunce “che regolano la competenza”: esse mantengono la
loro efficacia tra le parti negli eventuali nuovi processi che dovessero avere luogo tra
queste sulla medesima situazione litigiosa.
L’espressione “pronunce che regolano la competenza” india i provvedimenti della Corte di
Cassazione che decidono la questione di competenza sia pronunciando sullo specifico
rimedio del regolamento di competenza, sia pronunciando sulla competenza all’esito di
ricorso ordinario.
Le altre pronunce che conservano la loro efficacia oltre il processo estinto sono “le
sentenze di merito”. Sappiamo che nel corso del processo possono aversi sentenza che
decidono in qualche modo del merito della domanda proposta al giudice ma che non
concludono il grado di giudizio, cioè non “definiscono il giudizio”. Se il giudizio, che
prosegue dopo la loro pronuncia, si estingue, tali sentenze sopravvivono all’estinzione
restando efficaci, e quindi imponendosi al giudice dell’eventuale, futuro processo sul
medesimo oggetto e tra le stesse parti.
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Non sopravvivono all’estinzione invece le ordinanze istruttorie e le sentenze meramente
processuali.
Vi sono però delle apparenti eccezioni alla perdita di efficacia delle ordinanze: abbiamo
già visto, infatti, che le ordinanze di condanna anticipatori emesse nel corso del giudizio
conservano la loro efficacia se il processo si estingue.
Secondo l’ART 310 c.3 “le prove raccolte sono valutate dal giudice a norma dell’ART 116
c.2”.
Questo significa anzitutto che le prove proveniente dal processo estinto non scompaiono:
esse saranno valutabili nell’eventuale, successivo processo che dovesse riaprirsi tra le
stesse parti dopo l’estinzione. La norma introduce peraltro un a limitazione alla loro
efficacia: piuttosto che essere valutate secondo la regola generale del “prudente
apprezzamento”, esse dovrebbero valere quali “argomento di prova”. Una volta stabilito
però che il nuovo giudice deve tenere conto delle precedenti risultanze istruttorie, la
differenza appare limitata: il giudice che si serva di tali risultanze istruttorie sarà
semplicemente onerato di uno sforzo argomentativi maggiore, nel senso che egli è
invitato a dare conto in maniera più analitica della convinzione fondata sulla loro base.
Infine, l’u.c. ART 310 sancisce che “le spese del processo estinto stanno a carico delle parti
che le hanno anticipate”. Si ha quindi una sorta di “chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha
avuto”, che dipende dal fatto che manca una parte soccombente condannabile al rimborso
delle spese, in quando manca la sentenza con cui il giudice “chiude il processo davanti a
lui” (ART 91) e regola le speme.
(Nota bene: la disciplina degli effetti dell’estinzione esposta riguarda, come
accennato, il giudizio ordinario di primo grado! Attenzione quindi a non fare
confusione con le norme che regolano invece gli effetti dell’estinzione
- dell’appello e della revocazione ordinaria;
- del giudizio conseguente ad opposizione a decreto ingiuntivo;
- del giudizio di rinvio.)
CAPITOLO 39. LE IMPUGNAZIONI
1. Le impugnazioni in generale
Delle impugnazioni in generale si occupa il gruppo di norme che va dall’ART 323 all’ART
338.
Il sistema delle impugnazioni è l’organizzazione dei rimedi contro gli eventuali errori;
esso si articola in “mezzi” specifici di impugnazione, cioè in procedure volte a denunciare
l’erroneità, l’illegittimità o l’ingiustizia delle sentenze, con conseguente trasmigrazione
del giudizio ad un successivo “grado” nel quale si esercita una funzione lato sensu di
controllo dell’esito del grado precedente.
Nel passaggio da un grado all’altro, si ha continuazione del processo originariamente
sorto dalla domanda giudiziale; l’impugnazione della sentenza è quindi un episodio del
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processo e la tutela dei diritti di azione e di difesa garantiti dall’ART 24 Cost, si manifesta
anche attraverso il suo esercizio.
Secondo la legge processuale i mezzi per impugnare le sentenze sono (ART 323):
- regolamento di competenza;
- appello;
- ricorso per cassazione;
- revocazione;
- opposizione di terzo.
(Non rientra invece nel novero delle impugnazioni in senso tecnico il rimedio della
correzione degli errori materiali. Le sentenze e le ordinanze non revocabili
possono essere corrette, su ricorso della parte, dallo stesso giudice che le ha
pronunciate qualora esso sia incorso in omissioni o in errori materiali o idi calcolo.
L’errore deve essere ictu oculi ma non deve incidere sulla portata e sul contenuto
concettuale della decisione).
2. La soccombenza
Il meccanismo delle impugnazioni è retto dal principio della soccombenza in virtù del
quale è legittimata ad impugnare la parte soccombente, intendendosi per tale la parte che
ha subito l’accoglimento delle altri richieste nei propri confronti, o che ha formulato
richieste che siano state rigettate dalla sentenza.
La soccombenza può essere totale o parziale( Esempio totale: mi citano per restituire 100,
mi obbligano a restituire 100. Esempio parziale: Mi citano per restituire 100, mi
condannano a restituire 50).
Con riguardo a quali atti e rispetto a quale momento si valuta il rapporto tra il chiesto e il
pronunciato e si misura, quindi, la soccombenza? Si ha riguardo alle conclusioni
contenute in citazioni (quanto all’attore), o in comparsa (quanto al convenuto), oppure si
devono valutare le conclusioni finali? Sappiamo già che gli atti introduttivi debbono
congenere le conclusioni a pena di nullità, ma sappiamo anche che le conclusioni,
originariamente contenute nell’atto introduttivo sono soggette ad una eventuale
precisazione nel corso del giudizio. La risposta quindi è che si considerano le conclusioni
finali.
3. Forma del provvedimento e impugnazione: l’impugnazione del provvedimento
decisorio in forma erronea
Oggetto precipuo dell’impugnazione sono i provvedimenti in forma di sentenza ( l’ART
323 indica i mezzi per impugnare “le sentenze”, infatti).
In linea di principio non costituiscono quindi oggetto di impugnazione i provvedimento in
forma diversa dalle sentenze (NOTA: in verità ci sono varie eccezioni: fanno eccezione
l’ordinanza con cui il giudice pronuncia sulla competenza che è soggetta a regolamento di
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competenza, e l’ordinanza si sospensione di cui all’ART 295 che l’ART 42 assoggetta
parimenti al regolamento di competenza).
La prassi presenta, però, alcuni problemi. La regola della non assoggettabilità del decreto
e dell’ordinanza ai mezzi di impugnazione in senso proprio, vige infatti nei casi in cui è la
legge stessa a prevedere che l giudice pronunci ordinanza o decreto. Può però capitare
che il giudice sbagli la forma del provvedimento, pronunciando, ad esempio, un’ordinanza
per assumere una decisione che richiederebbe invece la forma della sentenza. Ci si è
quindi posti il problema del rimedio esperibile contro il provvedimento che doveva
essere reso in forma di sentenza ma, per errore ha preso un’altra forma.
Il problema non trova una risposta diretta nel codice, e la soluzione che ha prevalso
proviene dalla giurisprudenza. Secondo quest’ultima, le forme di controllo proprie
dell’ordinanza o del decreto (revoca, reclamo, ecc) sono proponibili solo nel caso in cui la
legge consente al giudice di decidere nella forma dell’ordinanza o del decreto quando
invece la decisione, presa in tali forme, doveva invece rivestire la forma della sentenza, il
provvedimento resta comunque soggetto al tipo di impugnazione prescritta dalla legge
per quest’ultima.
E’ questa la teoria della c.d. prevalenza della sostanza sulla forma del provvedimento: ai
fini dell’identificazione del rimedio, sulla forma erroneamente adottata, prevale la forma
che la legge prescrive per l’oggetto trattato e cioè la forma non rispettata. L’impugnazione
non va modulata sulla forma effettiva del provvedimento, ma sulla forma che doveva
esserci ed è mancata.
3.1. Forma del provvedimento di impugnazione: l’impugnazione del provvedimento
decisorio prescritto dalla legge
Diverso è il problema dell’impugnabilità con i mezzi specificamente previsti per
l’impugnazione delle sentenze, dei provvedimento che, per legge, non rivestono la forma
di sentenza. Si tratta di casi in cui un provvedimento a carattere decisorio prende forma
di decreto o di ordinanza. Sono invero frequenti i casi, soprattutto al di fuori del processo
ordinario di cognizione, in cui determinati diritti sono decisi con un provvedimento in
forma di ordinanza o decreto.
Nulla quaestio quando è la legge a prevedere un rimedio specifico; dove invece essa taccia
e nulla prevede, soggiace la regola per cui il provvedimento in questione è comunque
soggetto a ricorso in cassazione qualora esso presenti contestualmente i requisiti della
decisorietà e della definitività. Questa regola deriva dall’interpretazione dell’ART 111 c.7
Cost.
4. I termini per le impugnazioni ed il giudicato
L’ART 324 qualifica come “passata in giudicato” la sentenza “che non è più soggetta né a
regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione
per motivi di cui ai numero 4 e 5 dell’ART 395”. Ciò vuol dire che, poiché le impugnazioni
ivi elencate vanno esperite entro precisi termini, l’inutile scadenza del relativo termine
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stabilizza la sentenza rendendo definitiva la decisione: in questo senso, definitività
significa impossibilità di ottenere una rivisitazione del caso ed una differente decisione
sulla controversia.
Il contenuto di una sentenza impugnabile è quindi, per definizione, insanabile perché
potenzialmente surrogabile dal diverso contenuto dalla distinta sentenza pronunciata
all’esito del giudizio di impugnazione.
Questa è la dinamica fisiologica dei processi di cognizione: le sentenze sono, almeno di
norma, impugnabili sicché esse mancano di definitività. Solo quando la potenziale
modificabilità della sentenza si arresta, essa diventa definitiva nel senso del giudicato
formale.
(Quanto detto rispetto all’idoneità dell’impugnazione ad impedire il passaggio in
giudicato della sentenza vale per le c.d. impugnazioni ordinarie. Il codice prevede
però anche alcuni mezzi di impugnazione a carattere straordinario. Si tratta delle
opposizioni di terzo e della revocazione c.d. straordinaria. qualificabili sotto alcuni
aspetti quali mezzi di impugnazione, ma che, sotto altri aspetti, presentano
carattere di autonome azioni di accertamento esercitate nella forma delle
impugnazioni: a differenza delle impugnazioni c.d. ordinarie, esse non danno luogo
ad un prolungamento del processo attraverso un nuovo grado dello stesso, così
imprendendo il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, ma vengono
invece esperite contro sentenza già passata in giudicato).
Il sistema delle impugnazioni si regge dunque su un meccanismo di termini perentori
deputati a regolar e l’esperimenti dei singoli mezzi: per evitare la decadenza
dall’impugnazione che determina il passaggio in giudicato della sentenza, occorre
impugnare entro precisi termini. E’ quindi molto importante conoscere
approfonditamente tale meccanismo, secondo il dettato degli ARTT 325-326-327-328.
4.1 Il termine breve
L’ART 325 stabilisce :
a) un termine di 30 giorni per esperire l’appello contro la sentenza di primo grado,
nonché per proporre la revocazione e l’opposizione di terzo di cui all’ART 404 c.2 (c.d.
opposizione revocatoria);
b) un termine di 60 giorni per esperire il ricorso contro le sentenze ricorribili in
cassazione.
Si tratta di termini perentori.
Ma da quale momento decorrono questi termini? La risposta è data dall’ART 326: “I
termini stabiliti dall’articolo precedente..decorrono dalla notificazione della sentenza”.
Decorrenza dalla notificazione della sentenza significa che tali termini decorrono da una
data mobile perché la notificazione della sentenza è un atto meramente facoltativo,
compiuto a discrezione di parte. Sappiamo che la sentenza viene ad esistenza attraverso
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la sua “pubblicazione”, preceduta dal deposito in cancelleria. La notifica della sentenza è
un atto successivo al deposito in cancelleria, e un atto eventuale, in quanto dipendente
dalla volontà della parte che sceglie di notificare la sentenza alla controparte, proprio al
fine di far scattare nei confronti di questa il termine perentorio, a seconda dei casi, di 30 o
60 giorni.
Ai fini del decorso del termine breve, la notificazione della sentenza va fatta al
procuratore della parte costituita nel giudizio a quo, ai sensi dell’ART 170. Per far sì che
decorra il termine la parte interessata deve dunque notificare non personalmente alla
controparte, ma a questa presso il procuratore domiciliatario (cioè al domicilio di
quest’ultimo). Ne segue che la notifica della sentenza fatta personalmente alla parte non è
idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione.
4.2. Il termine lungo
L’ART 326 però, non può essere letto separatamente dal successivo articolo 327, il quale
si occupa del caso in cui non si abbia alcuna notificazione della sentenza, E mira ad evitare
che, in assenza di notificazione, la sentenza resti impugnabile perennemente con
conseguente instabilità del giudizio in essa contenuto. L'articolo 327 c.1 stabilisce infatti
che decorsi sei mesi dalla sua pubblicazione, La sentenza non è più soggetta ad
impugnazione.
Possiamo questo punto considerare che la legge appresta due ordini di termini, il quali in
qualche modo possono intrecciarsi. La sentenza, una volta depositata in cancelleria, deve
comunque essere impugnata entro sei mesi, termine cosiddetto lungo, dopodiché essa
assume la definitività della cosa giudicata. Tuttavia, all'interno di questo arco temporale,
se una parte vuole accelerare il passaggio in giudicato della sentenza, essa può modificare
la sentenza stessa a controparte, per far scattare il termine breve. Dal momento della
notifica, chi vuole impugnare non può più contare sul termine semestrale.
4.3. Interruzione del termine breve e regime del termine lungo
Durante la decorrenza del termine breve di cui all’ART 325 può però sopravvenire, in
capo al notificatori, uno degli eventi previsti nell’ART 299 (morte, incapacità, ecc):
l’evento produce interruzione del termine per l’impugnazione e un nuovo termine breve
inizia a decorrere dal giorno in cui venga rinnovata la notificazione della sentenza. Per
semplificare il compito alla parte onerata della rinnovazione, questa può essere fatta agli
eredi collettivamente ed impersonalmente, nell’ultimo domicilio del defunto.
4.4. L’eccezione al termine semestrale
L’ART 327 c.2, stabilisce che la disposizione del c.1 (cioè il limite finale dei sei mesi dalla
pubblicazione) “non si applica quando la parte contumace dimostra di non avere abuso
conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa, e per
nullità della notificazione degli atti di cui all’ART 292”.
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La regola per cui la sentenza possa comunque in giudicato decorso il semestre dal
deposito, non si applica dunque nell’ipotesi di contumacia involontaria del convenuto,
quando cioè la contumacia di questi dipende dal fatto che nei suoi confronti era stata
proposta una citazione nulla, ovvero era nulla la notificazione della citazione: si tratta di
un’ipotesi in cui si è radicato un processo nei confronti di un soggetto che non fu
correttamente messo in condizione di partecipare al processo stesso. Una sentita esigenza
di tutela del contraddittorio e del diritto di difesa fa sì che questi possa impugnare la
sentenza anche dopo la scadenza dei sei mesi (e quindi senza limiti di tempo), con
l’avvertenza che l’ammissibilità della relativa impugnazione dipende dalla prova che la
nullità dedotta affettante l’atto introduttivo gli ha impedito la conoscenza del processo. La
presenza della nullità degli atti contemplati nell’ART 327 c.2 non è quindi da sola
sufficiente a rendere ammissibile l’impugnazione tardiva: la prova della mancata
conoscenza del processo deve essere offerta da chi esperisce l’impugnazione tardiva e
tale prova, lungi dall’esaurirsi nella dimostrazione della nullità della notifica dell’atto
introduttivo, deve consistere nel fatto che, in conseguenza della dedotta nullità, la parte
non abbia avuto la conoscenza effettiva del processo concluso dalla sentenza impugnata.
5. L’acquiescenza (A.)
L’impugnazione può diventare improponibile, oltre che per scadenza dei termini, anche
per sopravvenuta acquiescenza (ART 329).
Facendo A. alla sentenza, la parte socco,gente esprime la propria volontà di non
impugnarla e, quindi, ne fa accettazione. La manifestazione di A. può consistere in una
dichiarazione di accettazione espressa della pronuncia giudiziale o di formale rinuncia a
sottoporla a gravame (c.d. A. espressa), o in un comportamento concludente (c.d. A.
tacita). Questo comportamento deve consistere in “atti incompatibili con la volontà di
avvalersi dell’impugnazione”.
Giustamente la giurisprudenza è molto prudente nell’attribuire ai comportamenti della
parte il valore di acquiescenze tacita della sentenza.
Emblematico è il caso dell’esecuzione spontanea della sentenza da parte del soccombente:
unanimemente si nega che in tale caso si possa parlare di A. tacita.
5.1. A. parziale o impropria
Il c.2 ART 329 prevede a sua volta che la proposizione di una impugnazione parziale
importi A. alle parti della sentenza non impugnate (c.d. A. parziale o impropria). In altri
termini, se la parte risulti soccombente, per es. rispetto a due capi della sentenza,
l’impugnazione di uno solo di essi, fa sì che il giudice dell’impugnazione non possa
decidere dell’altro, con la conseguenza che, all’atto di impugnazione, sul campo non
impugnato si formerà automaticamente il giudicato.
Questa riduzione dell’ambito dell’impugnazione però si produce purché le parti della
sentenza non impugnate possano considerarsi autonome e non dipendenti dal capo
impugnato. A complicare le cose sta infatti la disposizione dell’ART 336 c.1, secondo cui
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“la riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti
dalla parte riformata o cassata”. La norma sancisce il c.d. “effetto espansivo interno”
dell’impugnazione per cui i capi di sentenza non impugnati (e quindi apparentemente
passati in giudicato), ma dipendenti dal capo riformato o cassato, risentono comunque
della riforma o dalla cassazione parziali della sentenza.
6. La notificazione dell’impugnazione
La notificazione dell’atto di impugnazione avviene di norma presso il procuratore
domiciliatario della parte contro cui essa è stata proposta. Quando invece l’impugnazione
deve notificarsi ad una parte contumace, essa dovrà essere fatta ad essa personalmente.
La legge consente peraltro, nell’atto di notificazione della sentenza, di dichiarare la
propria residenza o di eleggere domicilio nella circoscrizione del giudice che tale sentenza
ha pronunciato: in tal caso l’impugnazione non dovrà avvenire presso il procuratore
domiciliatario per il grado precedente, ma dovrà essere notificata nel luogo di residenza o
di domicilio indicato nella notifica della sentenza.
Trascorso però sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, l’impugnazione si notifica
comunque personalmente, a norma degli ARTT 137 ss.
7. Le impugnazioni incidentali
Si è già accennato all’ipotesi della pluralità di impugnazioni contro la stessa sentenza, ed
al fatto che questo evento necessita di una pluralità di soccombenti; non è infatti possibile
che un singolo soccombente frazioni la sentenza, impugnandone in primo momento un
capo di decisione e successivamente un altro: lo impedisce il principio dell’ A. parziale
derivato dall’ART 329 c.2. Quando invece la soccombenza è distribuita tra le parti, ognuna
di esse è legittimata ad impugnar i capi della sentenza ad essa sfavorevoli, con la
conseguente possibilità di più impugnazioni contro la stessa sentenza.
La dinamica delle impugnazioni plurime contro la stessa sentenza è regolata dal codice
attraverso la disciplina delle impugnazioni incidentali. Disciplina che ha come
presupposto comune la soccombenza sia “parziale”: non stia tutta quindi da una parte
sola.
Consideriamo esemplificativamente ciò che può accadere.
L’attore è parzialmente soccombente in caso di unica domanda non integralmente accolta,
ma tale è anche il convenuto. In un esempio già visto, l’attore Tizio chiede 100 a carico di
Caio ma la sentenza condanna Caio a pagare solamente 50. Tizio è vincitore quanto
all’accertamento del credito e quanto alla condanna di 50, ma è soccombente sul residuo
50. Caio è sicuramente soccombente per l’accertamento del debito, ma non lo è rispetto
alla residua somma domandata nei suoi confronti: la soccombenza, quindi, si distribuisce
tra le parti.
In tutti questi casi le più impugnazioni che possono riguardare la sentenza vanno
inderogabilmente trattate e decise unitariamente, cioè nello stesso procedimento. In tal
senso, proposta la prima impugnazione (c.d. impugnazione principale), tutte le
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impugnazioni successiva devono assumere la forma dell’impugnazione accidentale, cioè
dell’impugnazione successiva ed interna allo stesso procedimento di impugnazione
derivante dall’impugnazione principale, nelle forme prescritte dal mezzo di impugnazione
considerato.
Contro l stessa sentenza non possono quindi avere luogo procedimenti distinti che
rendono concretamente possibili decisioni tra loro contrastanti. Principio fondamentale è
quello della c.d. unitarietà del processo di impugnazione, per cui una volta aperto un
procedimento di impugnazione contro una data sentenza, esso deve fungere da
contenitore di tutte le ulteriori, possibili impugnazioni di essa. Questo principio si ricava
agevolmente dall’ART 333: “Le parti alle quali siano state fatte le notificazioni previste
dagli articoli precedenti debbono proporre a pena di decadenza le loro impugnazioni in
via incidentale nello stesso processo”:
Malgrado però il divieto di distinte impugnazioni principali resta possibile sempre che
contro la stessa sentenza siano concretamente proposte più impugnazioni in questa
forma: si pensi, per fare il caso più semplice, all’ipotesi in cui ognuno dei soccombenti
parziali notifica alla controparte il proprio
atto di appello, magari lo stesso giorno e nell’ignoranza del contegno altrui. Qui si hanno
due separati appelli principali contro la stessa sentenza, a cui seguono due distinte
iscrizioni a ruolo e due distinti procedimenti d’appello. Occorre quindi ristabilire a
posteriori quell’unitarietà del procedimento di impugnazione che è mancata a priori, ed in
tal senso dispone l’ART335 imponendo la riunione delle plurime impugnazioni principali.
Si tratta di una norma di chiusura del sistema che garantisce il simultaneus processus
altrimenti pregiudicato dalla pluralità di iniziative impugnatorie.
La riunione delle impugnazioni separate è obbligatoria ed è obbligo che grava sul giudice,
il quale deve ordinarie la riunione.
7.1. L’impugnazione incidentale tardiva
Veniamo adesso all’ART 334 (Impugnazioni accidentali tardive), norma chiave che risolve
un problem apatico connesso all’impugnazione incidentale. La norma consente di
proporre impugnazione incidentale anche quando siano scaduti i termini per impugnare,
o la parte legittimata ad impugnare abbia prestato A, sicché la sentenza potrebbe
considerarsi tecnicamente passata in giudicato. Le parti destinatarie dell’impugnazione
principale possono quindi a loro volta impugnare la sentenza in via incidentale anche
quando per esse sarebbe scaduto il termine per impugnarla in via principale. Ciò vuol
dire, per es. che se non sia stato proposto appello nei 30 giorni dalla notifica della
sentenza, nessun autonomo appello è più proponibile. Se però un’altra parte abbia invece
regolarmente notificato il proprio appello nei termini, gli altri soccombenti vengono
automaticamente rimessi in termini per appellare con la modalità dell’impugnazione
incidentale, che viene qualificata tardiva.
Qual’è il perché di una simile disciplina? Immaginiamo cosa potrebbe succedere una
assenza di una norma come l’ART 334: accadrebbe che chi, in assenza di impugnazione
proveniente dalla controparte, ha deciso di soprassedere all’impugnazione del capo di
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sentenza a lui sfavorevole (“se il mio avversario on impugna il capo che mi dà ragione,
rinuncio anche io ad impugnare il capo che mi dà torto”) si troverebbe a disagio di fronte
all’altrui impugnazione che, se effettuata all’ultimo minuto, non gli darebbe il tempo per
impugnare a propria volta! E succederebbe, di conseguenza, che il soccombente parziale
impugnerebbe sempre, precauzionalmente e solo per timore di non avere tempo
sufficiente in caso di iniziativa dell’altro. La cosa è, come può intuirsi, poco auspicabile.
Per questa ragione la legge rende possibile proporre l’impugnazione nella forma
incidentale tardiva, cioè dopo anche l’eventuale scadenza del termine. Senza la possibilità
dell’impugnazione tardiva, coloro che, trovandosi nella condizione della parte
parzialmente vittoriosa, accetterebbero la situazione di soccombenza reciproca come il
minor male, sarebbero sempre e comunque indotti ad impugnare tempestivamente, per il
timore che la controparte, non accettando a sua volta la situazione, impugni in un
momento tale che essa non abbia più il tempo per proporre la propria impugnazione.
(vedi es. pag 486).
Possono sempre proporre impugnazione incidentale tardiva nei confronti
dell’impugnante principale, le parti contro le quali è stata proposta l’impugnazione.
In ipotesi di pluralità di parti occorre distinguere: l’impugnazione tardiva è consentiva
alle parti necessarie, nei cui confronti occorre integrare il contraddittorio a norma
dell’ART 331 per inscindibilità o dipendenza di cause.
L’impugnazione tardiva è invece preclusa alle parti non necessarie, nonché nei confronti
delle stesse.
La stretta dipendenza dell’impugnazione incidentale tardiva dall’impugnazione principale
è sancita dalla norma per cui, se l’impugnazione principale è dichiarata inammissibile,
l’impugnazione tardiva perde ogni efficacia.
8. Impugnazioni in senso stretto e gravami
Si suole distinguere tra due categorie generali di impugnazione con riguardo ai poteri del
giudice chiamato a decidere l’impugnazione.
La prima categoria è quella delle c.d. “impugnazioni in senso stretto”. In essa l’ambito
cognitivo del giudice dell’impugnazione è limitato ai vizi della sentenza e, più in generale,
agli errori del giudice del grado precedente. Si tratta di impugnazioni che si risolvono
sostanzialmente nel controllo della correttezza del giudizio operato nella sentenza
impugnata, o della legalità del procedimento anteriore alla sentenza. L’accogliemnto
dell’impugnazione è strettamente subordinato al riscontro del vizio denunciato.
A questo genere di impugnazioni appartiene il ricorso per cassazione, mezzo di
impugnazione c.d. a critica vincolata: è “vincolata” la critica che il ricorrente svolge nei
confronti della sentenza impugnata, perché essa deve necessariamente esprimersi
attraverso motivi legalmente predeterminati; simmetricamente l’ambito dei poteri
cognitorii e decisori della Cassazione subisce significative limitazioni.
L’altra categoria di impugnazioni è quella dei c.d. “gravami”. Gravame è l’appello mezzo
che è fisiologicamente utilizzato per ottener una nuova decisione del merito della
controversia. Qui, al giudice dell’impugnazione nona i chiede di limitarsi a giudicare
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specifici errori del giudice del grado precedente, ma piuttosto di assumere su di sé la
responsabilità di decidere di nuovo della controversia. Ed è in quanto gravame che
l’appello riapre il giudizio, fungendo così da sorta di prosecuzione del primo grado.
Questa differenza tra i due tipi fondamentali di impugnazione si riflette sul potere del
giudice che è abbastanza differente in un caso e nell’altro: il giudice d’appello (quale
giudice di gravame) è chiamato a ri-decidere la controversia con poteri sostanzialmente
omogenei a quelli del giudice di primo grado.
Il giudice di appello rinnova il giudizio sul merito della controversia, contrariante a
quanto accade nel giudizio di cassazione in cui l’accoglimento del ricorso è subordinato ad
alcune precise condizioni: qui la Corte deve preliminarmente verificare che il vizio
denunciato sia ricompreso in uno dei motivi specificamente stabiliti dalla egre per
ricorrere; deve poi procedere all’individuazione in concreto di tale vizio; al riscontro
positivo segue un necessario momento invalidativo della sentenza, momento che può
essere o meno seguito da un nuovo giudizio a carattere ricostruttivo entro i limiti fissati
dalla cassazione della sentenza.
9. Conseguenze sterne dell’accoglimento dell’impugnazione
L’ART 336 c.2 stabilisce che la riforma della sentenza o la sua cassazione “estende i suoi
effetti ai provvedimento e agli atti dipendenti dalla semenza riformata o cassata”. La
norma disciplina la sorte degli atti o provvedimento che trovano il loro titolo nel
contenuto ella sentenza impugnata: trattandosi di atti dipendenti essi subiscono il venir
meno del titolo.
Vari ed eteorgenei sono gli atti e i provvedimenti che, dipendendo dalla sentenza,
risentono del suo venir meno. Cerchiamo di dare esempi.
Una prima categoria di atti dipendenti è quella degli atti di esecuzione allorché la
sentenza è usata come titolo esecutivo: se la sentenza è annullata o cassata gli atti
esecutivi perdono la loro giustificazione giuridica. Così, per es. se un atto di pignoramento
si fonda su titolo esecutivo costituito dalla sentenza di condanna di primo grado, una volt
intervenuta la riforma in appello della sentenza, l’atto di pignoramento resta privo di
titolo con decadenza dei vincoli esecutivi con tutte le conseguenze ripistinatorie
restitutorie.
Un distinto campo di applicazione dell’ART 336 c.2 è quello del rapporto tra sentenze non
definitive e sentenze definitive, tutte le volte in cui la semenza definitiva si presenta come
logicamente e giuridicamente dipendente dal conteuto della non definitiva.
In tal caso il provvedimento definitivo risente della riforma della sentenza non definitiva.
Così, per esempio, se viene riformata in sello la sentenza di condanna generica a cui era
seguita una sentenza di liquidazione del danno, quest’ultima sentenza resta travolta dalla
cancellazione della prima sentenza in cui essa trovava il suo presupposto.
Provvedimenti dipendenti possono darsi anche in processi diversi da quello in cui è stato
pronunciata la sentenza cassata o riformata: è il caso, per esempio, del decreto ingiuntivo
di pagamento chiesto ed ottenuto sulla base di una sentenza di mero accertamento del
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credito; venuta meno la sentenza all’esito dell’impugnazione, resta travolto anche il
decreto ingiuntivo.
Altro ambito di applicazione è quello relativo alla sorte dei provvedimenti per l’ulteriore
istruzione della causa assunti con l’ordinanza accoppiata alla sentenza che non definisce il
giudizio, qualora questi siano dipendenti dal contenuto della sentenza non definitiva poi
riformata in appello. Anche tali atti vengono travolti dal venir meno di tale sentenza.
CAPITOLO 40. IL REGIME DELLE IMPUGNAZIONI NEI GIUDIZI CON PLURALITA’ DI
PARTI
1. Il litisconsorzio nelle impugnazioni
La pluralità di parti in primo grado si riflette sull’appello e, più in generale, sui
procedimenti di impugnazione.
Non ci sono problemi quando l’impugnazione della sentenza che ha pronunciato nei
confronti di più di due parti viene proposta da una parte contro ognuna delle altre, o da
più parti contro le rimanenti: il giudizio di impugnazione si svolgerà nei confronti di tutti,
e la pluralità originaria di soggetti verrà mantenuta. E’ il caso dell’appello di Tizio
proposto contro Caio e Sempronio, dopo essere rimasto soccombente nei confronti degli
stessi Caio e Sempronio: in questa ipotesi le tre parti del primo grado coincideranno con
le tre parti del grado successivo, sicché la sentenza d’appello pronuncerà nei confronti di
tutte e questo elimina ogni problema alla radice.
I problemi sorgono quando invece l’impugnazione non viene fin dall’inizio proposta da
tutti o nei confronti di tutti: se in primo grado il rapporto processuale intercorreva tra
Tizio, Caio e Sempronio quid juris se il soccombente impugna nei soli confronti di Tizio
senza chiamare in giudizio Sempronio?
In linea di principio, l’ambito del giudizio è rimesso alla volontà della parte soccombente,
la quale può peraltro scegliere “cosa” impugnare rispetto a quanto deciso, e nei confronti
di chi impugnare.
Potrebbe essere così appellato un capo di sentenza che pronuncia tra A e B ma non un
altro capo reso tra A e C. Alla mancata impugnazione di questo secondo capo di sentenza
corrisponde il suo passaggio in giudicato nei confronti di C. Questa situazione discende
dall’art 329 c.2 per cui le parti della sentenza non espressamente impugnate non
diventano oggetto dell’impugnazione sicché diventano definitive, con conseguente
divaricazione delle sorti dei rapporti originariamente decisi dalla sentenza di primo
grado.
Talora, però, la scissione non è possibile e l’impugnazione deve necessariamente
coinvolgere tutti i soggetti. Occorre quindi capire quando il giudizio di impugnazione deve
svolgersi tra tutte le parti e quando invece esso può svolgersi tra alcune di esse.
A tal proposito, la prima distinzione da fare è quella tra:
a) sentenza che decide un processo unico con pluralità di parti, e
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b) sentenza che decide un processo cumulato cioè sentenza che decide contestualmente
più cause distinte.
Nel primo caso è naturale che in appello la causa resti unica e “inscindibile”. L’oggetto del
procedo e della sentenza, si manterrà tale per tutte le successive fasi di giudizio, fasi che
dovranno necessariamente coinvolgere tutti i soggetti del rapporto, del processo e della
sentenza. Il caso più evidente è quello della sentenza che ha pronunciato tra più parti in
ipotesi di litisconsorzio necessario: quando la pluralità di parti è necessaria, essa deve
permanere per tutto il giudizio, in quando non avrebbe senso che fosse limitata ad un
determinato grado e non mantenuta negli altri. Quindi… o tutti o nessuno!
Il problema relativo a se l’impugnazione soggettivamente incompleta possa o meno dare
luogo a separazione delle cause originariamente cumulate, si pone, allora, nelle ipotesi in
cui il processo ha avuto ad oggetto non un’unica causa, ma più cause tra loto cumulate. In
tal caso la separazione è possibile se il cumulo delle cause decise è scindibile, mentre non
è possibile se le cause cumulate risultano tra loro interdipendenti.
Il cumulo è scindibile quando l’accoglimento dell’impugnazione soggettivamente
incompleta non interferisce con il passaggio in giudicato della decisione non impugnata,
nel senso che la riforma del capo di sentenza impugnato tra A e B potrebbe
tranquillamente convivere con il capo di sentenza restato immutato tra B e C. Il cumulo è
invece inscindibile quando l’eventuale riforma del capo di sentenza impugnato tra A e B
appare incompatibile con il capo di sentenza tra B e C, così rivelando un rapporto di
interdipendenza tra le decisioni che ne rende inscindibile la trattazione.
2. Scindibilità di cumulo
La sentenza ha pronunciato tra:
- A, attore che fa valere i vizi di un bene acquistato,
- B, venditore-convenuto, e
- C, chiamato da B in garanzia.
Accolta la domanda di A nei confronti di B, e accolta la domanda di B nei confronti di C,
quest’ultimo appella nei soli confronti di B invocando l’insussistenza o l’inefficacia
dell’obbligo di garanzia imputatogli e chiedendo la riforma della sentenza nella parte in
cui ha accertato la sua responsabilità. E’ possibile questo appello soggettivamente
limitato, cioè non coinvolgente A? La risposta è positiva, considerando che la possibile
riforma dell’accertamento del rapporto di garanzia tra B e C è compatibile con il
permanere del rapporto principale tra A e B, e con gli accertanti obblighi di B verso A. Se C
vincerà l’appello sarà libero dalla responsabilità verso B.
2.1. Inscindibilità di cumulo
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Stessi soggetti, stesse domande, stessa stessa sentenza. Appella il chiamato in garanzia C
nei soli confronti del convenuto B, ma stavolta sostenendo l’inaccoglibilità della domanda
principale per tardività della denuncia dei vizi e, quindi, per intervenuta decadenza
dell’azione fondata sui vizi della cosa venduta: egli, in altre parole, fa valere l’ingiustizia
della propria condanna a tenere indenne il convenuto perché mancavano i presupposti
della condanna a quest’ultimo. E’ possibile questo appello soggettivamente limitato, cioè
non coinvolgente A? No, se si considera che C qui sottopone al giudice dell’impugnazione
una questione propria del capo di sentenzi che ha deciso il rapporto principale tra A e B.
Questo capo deve necessariamente essere rideciso nei confronti di A: se la sentenza
d’appello accogliesse infatti l’appello di C dichiarando che A era decaduto dall’azione, si
avrebbe un risultato incompatibile con l’accoglimento avutosi in primo grado della
domanda di A e, quindi, con il suo passaggio in giudicato. Se si ammettesse questo, il
convenuto B potrebbe alla fine risultare doppiamente soccombente, sulla base di una
diversa soluzione della stessa questione.
La riforma domandata appare quindi incompatibile con la conservazione della decisione,
e il processo di impugnazione deve svolgersi nei confronti di tutti i soggetti del primo
grado.
2.2. Criterio distintivo
Da quanto detto si ricava che il criterio distintivo tra cumulo scindibile e cumulo
inscindibile è quello della compatibilità tra la possibile modifica del rapporto sostanziale
oggetti dell’impugnazione e la cristallizzazione del rapporto sostanziale che riguarda il
soggetto che non partecipa al giudizio di impugnazione. Nel caso in cui la modifica del
primo può giuridicamente convivere con la conservazione del secondo, il giudizio di
impugnazione può corretta ente svolgersi tra in assenza della parte / delle parti di
quest’ultimo; laddove invece la modifica del primo e la conservazione del secondo
entrano in contraddizione, l sparti dell’impugnazione debbono coincidere con quelle
contemplate dalla sentenza impugnata.
Vediamo il regime processuale.
3. Regime processuale
L’ART 332 (notificazione dell’impugnazione relativa a cause scindibili) regola la seconda
ipotesi. Se l’impugnazione di una sentenza pronunciata in cause scindibili è stata proposta
soltanto da una delle parti o nei confronti di alcuna di esse, “il giudice ne todina la
notificazione alle altre, in confronto delle quali l’impugnazione non è preclusa o esclusa,
fissando il termine in cui la notificazione deve essere fatta”. Si segnalano due cose: la
prima è che la notificazione di cui parla la norma non è una chiamata in causa delle parti
mancanti, ma una denuntiatio litis, cioè un mero invito a partecipare al giudizio di
impugnazione in corso; la seconda riposa sull’espressione “in confronto delle quali
l’impugnazione non è preclusa o esclusa”, e indica che la notificazione alle parti mancanti
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va fatta solo se ancora possibile, cioè se per esse l’impugnazione non sia divenuta
impossibile per acquiescenza o decadenza temporale.
L’ordine di notificazione non è dunque un ordine di integrazione del contraddittorio,
tanto è vero che il capoverso dell’ART 332 prescrive che, se la notificazione ordinata non
avviene, “il processo rimane sospeso fino anche non siano decorso i termini previsti negli
ARTT 325 e 327 c.1” (cioè termine breve e termine lungo). Scaduti tali termini, il giudizio
di impugnazione riprende regolarmente a procedere tra le sue parti mentre il capoc i
sentenza che riguarda le parti estranee all’impugnazione passa in giudicato.
L’ART 331 (integrazione del contraddittorio in cause inscindibili) regola, invece, la
fattispecie della corrispondenza necessaria tra le parti dei differenti gradi di giudizio. Se
la sentenza pronunciata tra più parti “in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti
non è stata impugnata nei confronti di tutte, il giudice ordina l’integrazione del
contraddittorio, fissando il termine nel quale la notificazione deve essere fatta”.
La norma è chiara: quando il giudice dell’impugnazione ritiene che manchino parti
necessarie, il processo non può svolgersi; nella logica del “o tutti o niente”, il
contraddittorio deve estendersi a queste e, in un termine perentorio, esse devono essere
chiamate a ena di declaratoria di inammissibilità. Il capoverso dell’ART 331 prescrive
infatti che l’impugnazione “è dichiarata inammissibile se nessuna delle parti provvede
all’integrazione nel termine fissato”.
La declaratoria di inammissibilità implica il passaggio in giudicato della sentenza.
Nelle ipotesi di causa unica inscindibile o di cumulo inscindibile per interdipendenza della
cause, l’atto originario di impugnazione può dunque pretermettere taluna delle parti
contemplate in sentenza senza incorrere nella declaratoria di inammissibilità, in quanto
sarò il giudice a provvedere all’ordine di integrazione del contraddittorio. Il rapporto
processuale nasce dunque viziato ma le parti interessate all’impugnazione hanno il potere
di regolarizzarlo nel corso del relativo procedimento, chiamando la parte originariamente
pretermessa.
CAPITOLO 41. L’APPELLO
L’appello è il mezzo concesso dalla legge per l’impugnazione della sentenza di primo
grado e costituisce pertanto il secondo grado del giudizio.
Esso è regolato abbastanza in dettaglio, ma la sua disciplina soggiace comunque ad una
norma di chiusura: per quanto non specificatamente previsto, l’ART 359 rinvia alle norme
relative al procedimento di primo grado di fronte al tribunale “in quanto applicabili”.
1. Il giudice dell’appello
L’ART 341 individua il giudice commettente a conoscere e decidere dell’appello.
Nei confronti delle sentenze del giudice di pace, l’appello si propone al tribunale nel cui
ambito territoriale si situa l’ufficio che ha pronunciato la sentenza (NOTA: Fa eccezione
l’ipotesi del c.d. “giudice erariale”. Quando è parte un’amministrazione dello Stato,
l’appello non va proposto al tribunale ordinariamente competente, ma, a sensi dell’ART
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25, al tribunale dove ha sede l’avvocatura dello Stato coincidente con il tribunale della
città dove ha sede la Corte d’Appello).
Nei confronti delle sentenze del tribunale, l’appello si propone alla Corte d’Appello, nel cui
distretto cade la circoscrizione del tribunale che ha pronunciato la sentenza.
Quando esercita la funzione di giudice dell’appello, la Corte d’appello giudica sempre in
formazione collegiale. Questo indipendentemente dal fatto che in primo grado la sentenza
sia stata pronunciata dal tribunale in formazione collegiale o dal g.i. monocraticamente.
E’ però previsto che il presidente del collegio possa” delegare per l’assunzione di mezzi
istruttori uno dei componenti del collegio” (ART 350 c.1).
Rispetto alle sentenze del giudice di pace, funge invece da giudice d’appello il tribunale in
formazione monocratica. Si intende: il tribunale nella cu circoscrizione cade l’ufficio del
giudice di pace da cui proviene la sentenza.
2. Le sentenze appellabili
Sono soggette ad appello “le sentenze pronunciate in primo grado, purché l’appello non
sia escluso dalla legge o dall’accordo delle parti a norma dell’ART 360 c.2”. (art 339).
L’appello è escluso dalla legge, anzitutto nei confronti dei provvedimenti che pronunciato
solo sulla competenza: contro essi è ammesso solo il regolamento di competenza, ex ART
42. Sono viceversa appellabili le sentenze che pronunciano contemporaneamente sulla
competenza e sul merito, con il solo limite che l’appello non può limitarsi alla statuizione
relativa alla competenza (ART 43): l’appello può dunque avere ad oggetto il solo merito,
oppure avere congiuntamente ad oggetto competenza e merito.
Non sono soggette ad appello le sentenze pronunciate in quei particolari procedimenti di
cognizione che vanno sotto il nome di opposizione agli atti esecutivi (ART 618). In verità
la legge non qualifica specificamente queste sentenze come “non appellabili”, ma le
definisce “Non impugnabili”; tuttavia la previsione della “non impugnabilità” per i
provvedimenti che insistono su diritti soggettivi, va propriamente intesa come
“inappellabilità”, poiché alle parti resta sempre garantita la ricorribilità in Cassazione ex
ART 111 c.7.
Non appartengono poi al novero delle sentenze di primo grado, e quindi la legge esclude il
loro appello, le sentenze c.d. in unico grado.
Sono rese in unico grado:
a) la sentenza “che il giudice ha pronunciato secondo equità a norma dell'articolo 114”
definita espressamente inappellabile dall'articolo 339;
b) __ lasse le sentenze rese dalla corte d'appello che giudica non in funzione di giudice
d'appello ma quale giudice competente su domanda ad essa immediatamente proposta.
Anche queste sentenze sono ricorribile per cassazione, ma non in virtù dell'articolo 111 in
virtù dell'articolo 360, Secondo cui “possono essere impugnate con ricorso per cassazione
le sentenze pronunciate in unico grado”. Il ricorso contro di esse non è quindi ricorso
straordinario ma ricorso ordinario;
25
c) le sentenze contenenti “accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità,
interpretazione dei contratti e accordi collettivi;
d) le sentenze rese dal tribunale in funzione del giudice del lavoro sulle controversie in
materia di invalidità assoggettate dalla legge ad accertamento tecnico obbligatorio
preventivo.
_Sono invece appellabili, ma con appello soggetto specifici limiti, “le sentenze del giudice
di pace pronunciate secondo equità A norma dell'articolo 113 c.2__”. L'appello è dato
esclusivamente per violazione di norme sul procedimento, per violazione di norme
costituzionali o comunitarie, ovvero dei principi regolatori della materia. Ciò è conforme
alla natura equitativa del giudizio espedito in primo grado dal giudice di pace.
E veniamo all'articolo 360 c.2, che prevede l'inappellabili tardi una sentenza appellabile
del tribunale, se le parti sono d'accordo per omettere l'appello a favore dell’esperibilità
diretta del ricorso per cassazione. Il caso configura un accordo processuale che comporta
non la nuda rinuncia ad impugnare la sentenza, ma piuttosto la scelta di un diverso mezzo
di impugnazione che permette la sottoposizione della sentenza al giudizio di cassazione
(c.d. ricorso per saltum). L'articolo 360 aggiungi che “tal caso l'impugnazione può
proporsi soltanto a norma del primo comma”, Cioè per violazione o falsa applicazione di
norme di diritto.
2.1. Appellabilità delle sentenze non definitive e riserva d’appello
Oltre alle sentenze conclusive del rapporto processuale, sono appellabili:
a) le sentenze c.d. “parzialmente definitive”, cioè non conclusive del processo ma decisore
di domanda (cioè esaurienti uno dei più oggetti controversi cumulati nel processo);
b) le sentenze non definitive in senso proprio, cioè le sentenze che non solo non chiudono
il processo, ma non definiscono neppure il giudizio sul diritto fatto valere;
c) la sentenza di condanna generica, ex ART 278.
Quanto alla loro appellabilità, le sentenze non definitive nonché la sentenza di condanna
generica, soggiacciono ad una particolare disciplina. L’ART 340 consente infatti alla parte
soccombente di non appellare tali sentenze, senza peraltro che ne consegua il loro
passaggio in giudicato, attraverso il meccanismo della c.d. riserva di appello: il
soccombente dichiara di voler proporre comunque appello ma se ne riserva l’effettiva
proposizione in un momento successivo. La sorte della sentenza resta pertanto sospesa:
essa sarà impugnabile unitamente alla sentenza che definisce il giudizio.
La riserva va fatta, “ a pena di decadenza, entro il termine per appellare e, in ogni caso,
non oltre la prima udienza dinanzi al giudice istruttore successiva alla comunicazione
della sentenza stessa” (ART 340 c.1). La riserva peraltro “non può più farsi, e se già fatta
rimane priva di effetto, quando contro la stessa sentenza da alcuna delle parti sia
proposto immediatamente appello” (ART 340 c.3).
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Piuttosto che frazionare il processo proponendo un’impugnazione immediata contro la
sentenza non definitiva, il legislatore ha lasciato la parte soccombente libera di
impugnare in un secondo momento: essa potrebbe valutare più conveniente dolersi della
prima sentenza solo dopo la pronuncia definitiva, mentre per l’intanto potrebbe essere
più conveniente proseguire il processo. Infatti, la sentenza finale potrebbe soddisfar e
l’interesse in gioco nonostante il segno negativo dalla prima udienza.
Rispetto alle sentenze appellabili ex ART 340, la parte soccombente ha quindi tre scelte:
a) appellare immediatamente la sentenza;
b) restare inerte;
c) fare riserva di appello: la parte soccombente non impugna nei termini, e la sentenza
tuttavia non passa in giudicato. La parte “prenota” la successiva impugnazione da esperire
quando giungerà la sentenza finale. Se, fatta la riserva, al momento dell’impugnazione
della sentenza definitiva non sopravviene l’impugnazione della non definitiva, la riserva
perde effetto con una sorta di passaggio in giudicato retroattivo: la sentenza il cui
passaggio in giudicato era restato sospeso, passerà in giudicato retroattivamente. La
riserva è sotto condizione risolutiva: essa vale ma a condizione che sia seguita nei termini
prestabiliti dall’impugnazione, altrimenti non ha alcun effetto.
Se la riserva è stata regolarmente fatta ma un’altra parte a sua volta appella
immediatamente la sentenza, viene meno anche la riserva della parte che aveva preferito
questa strada rispetto all’impugnazione immediata: la riserva funziona quindi a
condizione che l’altra parte non impugni a sua volta immediatamente la sentenza, poiché
in questo caso la riserva perde la sua efficacia, per cui alla parte che ha fatto la riserva
resta l’alternativa o di disinteressassi dell’impugnazione, ovvero proporre anch’essa
l’impugnazione immediata.
3. Effetto devolutivi ed effetto sostitutivo
L’appello è caratterizzato da alcuni effetti peculiari che lo caratterizzano quale gravame: il
c.d. effetto devolutivo e il c.d. effetto sostitutivo.
Effetto devolutivi significa “trasferimento della controversia in appello”.
A scanso di equivoci, occorre precisare che la materia del contendere non è trasferita
automaticamente per il solo fatto che si sia proposto un qualunque appello. Per far sì che
l’oggetto del giudizio di primo grado corrisponda all’oggetto del giudizio di appello, è
necessario poter escludere che l’appellante si sia limitato a proporre un appello ad ambito
più ristretto. Oltre infatti alla generale possibilità di acquiescenza parziale, occorre
considerare lo specifico meccanismo dell’ART 346 che impedisce che il semplice appello
della sentenza comporti nuovo giudizio sull’eccezioni non accolte in primo grado. La
devolutività della controversia in appello fa sì che il giudice di secondo frano riesamini
l’intera vicenda nel complesso dei suoi aspetti, purché tale indagine non travalichi i
margini della richiesta.
In ogni caso la pronunzia resa in appello ha natura ed effetto sostitutivo della pronunzia
gravata. L’effetto sostitutivo è l’attitudine della sentenza d’appello a sostituirsi
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integralmente alla sentenza impugnata, non solo nel caso in cui questa venga riformata,
ma anche in caso in cui venga confermata: la pronuncia d’appello toglie rilievo alla
decisione di primo fado e si impone come regola del rapporto intercorrente tra le parti.
E’ per l’effetto sostitutivo della sentenza d’appello che il giudice di secondo grado,
investito della censura di nullità della sentenza di primo grado, non può limitarsi a
dichiarare la nullità ma deve decidere nel merito.
4. L’ambito dell’appello
Cosa accade quando una parte soccombente decide di appellare una sentenza ?
Riprendiamo la fondamentale norma sull’A. parziale (ART 329 c.2: “L’impugnazione
parziale importa A alle parti della sentenza non impugnate”) per osservare il
funzionamento nell’appello: tutte le volte in cui sia possibile suddividere la sentenza in
più parti / capi, l’appello di uno di questi capi fa sì che automaticamente si debbano
intendere rinunciati gli altri capi, che passano automaticamente in giudicato. Non sarà
possibile per il giudice d’appello tornare a giudicare su d’essi.
Torniamo all’esempio della sentenza che ha accolto sia la domanda di condanna al
pagamento del capitale, sia la domanda di condanna al pagamento di interessi
convenzionale. Un’unica sentenza si scinde in due capi di decisione: il primo relativo al
capitale e il secondo relativo alla condanna ed al pagamento degli interessi. E’ sufficiente
impugnare la sola condanna al pagamento del capitale per sottoporre tutta la sentenza al
giudizio d’appello?
La risposta è negativa. L’appellante può infatti limitarsi ad impugnare la condanna al
pagamento del capitale confidando sul fatto che, se il secondo giudice accoglie l’appello
contraddicendo quello di primo grado sulla degenza del capitale, la questione degli
interessi resterà assorbita, sicché cadrà automaticamente il relativo capo di condanna. Ma
l’appello può venire rigettato: in tal caso la conferma della condanna al capitale impedisce
al giudice di occuparsi del capo che sugli interessi.
E’ evidente allora che la strada dell’appello limitato al solo capo del capitale ha un senso
quando l’appellante non ha interesse a contestare specificatamente la decisione sul tipo e
sulla modalità del calcolo degli interessi. Se invece il soccombente ha un interesse
specifico alla contestazione delle modalità di calcolo degli interessi, se cioè egli ritiene
erronea la decisione che riconosce interessi convenzionali differenti dall’interesse legale,
non sarà sufficiente impugnare il solo capo sul capitale: a questo fine, l’atto d’appello deve
specificamente censurare il capo degli interessi sotto il profilo della loro natura e delle
modalità di calcolo.
4.1. L’ambito dell’appello e la riproposizione delle eccezioni
Le cose finirebbero qui se si dovessero tenere in conto solo l’ART 329 c.2. A complicare il
quadro sta però il fatto che, in appello, la norma generale dell’ART 329 va contemplata
dell’ulteriore prescrizione dell’ART 346 ( “Le domande e le eccezioni non accolte nella
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sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono
rinunciate”).
Ci spieghiamo.
Il caso appena esemplificato ricade nella previsione dell’ART 329 c.2: doppia
soccombenza rispetto a due domande, cumulate tra loro e accolte con due distinte
statuizioni cumulate in sentenza. Ma immaginiamo che sia l’attore a risultare
soccombente: è stata rigettata la sua domanda di condanna perché è stata accolta
l’eccezione di nullità del contratto sollevata dal convenuto. Al convenuto è stata però a
sua volta rigettata l’eccezione di prescrizione dell’obbligazione.
Qui il contenuto decisorio della sentenza consiste in un rigetto secco della domanda: solo
l’attore è il soccombente reale, sicché solo egli può impugnare, non essendo il convenuto
soccombente. Ora, di fronte all’attore appellante, il convenuto-appellato ha tutto
l’interesse a riproporre l’eccezione di prescrizione che gli era stata rigettata in primo
grado. Glielo impone l’ART 346: se non lo facesse, l’eventuale accoglimento dell’appello in
punto di nullità, impedirebbe al giudice di rivedere la questione della prescrizione: per la
legge l’eccezione è “rinunciata”.
In altre parole, la questione della prescrizione può assumere rilevanza a seguito della
contraria decisione adottabile dal giudice di secondo grado sulla nullità del contratto ( “se
il contratto non è nullo, il diritto che ne deriva è però prescritto”) il giudice di secondo
grado, però, non può d’ufficio trattare la questione della prescrizione se la relativa
eccezione, rigettata in primo grado, non è stata espressamente riproposta in appello.
Pertanto l’onere di riproposizione in appello vige non solo per le eccezioni rigettate, ma
anche per le eccezioni che, proposte in primo grado, non sono state decise per il
meccanismo dell’assorbimento. Esso vige poi per le domande che, proposte in primo
grado, non siano state esaminate: su queste domande non vi è infatti un soccombente e
quindi non trova spazio né l’appello principale, né l’appello incidentale.
5. Forme e modalità dell’appello
Nel giudizio di cognizione ordinaria, l’appello si propone con atto di citazione ad udienza
fissa: “L’appello di propone con citazione contenente l’esposizione sommaria dei fatti ed i
motivi specifici dell’impugnazione, nonché le indicazioni prescritte nell’ART 163”. Si ha
quindi rinvio alla norma generale sulla citazione. Viceversa, nei processi iniziati da
ricorso, l’appello si propone con ricorso. Ricorso che va depositato in cancelleria della
Corte d’Appello; il presidente nomina il giudice relatore e fissa l’udienza di discussione
davanti al collegio, e l’appellante provvede alla notifica del ricorso e del decreto di
fissazione all’appellato.
L’ART 342 prescrive che l’atto di appello deve contenere, oltre l’esposizione sommaria dei
fatti, “i motivi specifici dell’impugnazione”. Ciò significa che l’appellante deve indicare le
ragioni per cui viene chiesta la riforma della pronuncia di primo grado, con i rilievi di
fatto e di diritto posti a fase dell’impugnazione. Lo scopo è quello di precisare esattamente
il contenuto e la portata delle relative censure.
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I motivi sono peraltro liberamente determinabili, a differenza che nel ricorso per
cassazione, in cui la tipologia dei motivi è prestabilita dalla legge; essendo inoltre
l’appello un mezzo di gravame con carattere devolutivo pieno, il principio della specificità
dei motivi prescinde da qualsiasi particolare rigore di forme, essendo sufficiente che al
giudice siano indicate, anche sommariamente, le ragioni di fatto e di diritto su cui si fonda
l’impugnazione.
Trova applicazione l’ART 163-BIS: i termini minimi a comparire per l’appellato sono
determinati in 90 giorni, il che vuol dire che l’appellante deve fissare la data dell’udienza a
non meno di 90 giorno dalla notifica (150 se all’estero).
Anche i modi della costituzioni sono quelli della costituzione in primo grado (ART 347
c.1): “La costituzione in appello avviene secondo le forme e i termini per i procedimenti
davanti al tribunale”; la procedura è pertanto quella dell’iscrizione a ruolo, a cura
dell’appellante, entro 10 giorni dalla notifica, con applicazione dell’ART 165 e, quanto
all’appellato, degli ARTT 166-167.
L’appellante deve “inserire nel proprio fascicolo copia della sentenza appellata” (ART 347
c.2). Il c.3 detta gli obblighi del cancelliere in funzione di coordinamento tra il giudice di
primo grado e quello d’appello: “Il cancelliere provvede a norma dell’ART 168 e richiede
la trasmissione del fascicolo d’ufficio al cancelliere del giudice di primo grado”:
Effetto della mancata costituzione dell’appellante nel termine prescritto è la sopravvenuta
improcedibilità dell’impugnazione (ART 348: “L’appello è dichiarato improcedibile anche
d’ufficio se l’appellante non si costituisce in termini”). Come si vede, la differenza è molto
netta rispetto a quanto accade in primo grado, dove la scadenza del termine fissato
all’attore per costituirsi, lascia la possibilità che sia ancora il convenuto a costituirsi nel
proprio termine; anche in assenza di tale costituzione, il processo non si estingue ma può
essere riassunto nel termine di tre mesi dalla scadenza del termine per la costituzione del
convenuto. Scaduto invece il termine per la costituzione dell’appellante, il giudice non
potrà fare altro che dichiarare l’improcedibilità dell’appello stesso. Declaratoria di
improcedibilità impedisce la riproposizione dell’appello anche se non è decorso il termine
fissato dalla legge. Il che significa, in sostanza, passaggio in giudicato della sentenza.
Altra fattispecie di specifica improcedibilità dell’appello è quella prevista dall’ART 348:
ove l’appellante non compaia alla prima udienza, “il giudice con ordinanza non
impugnabile rinvia la causa ad una prossima udienza, della quale il cancelliere dà
comunicazione all’appellante”. In caso di mancata comparizione dell’appellante alla nuova
udienza, “l’appello è dichiarato improcedibile anche d’ufficio”.
L’appellato si costituisce depositando in cancelleria una comparsa di risposta negli stessi
termini prescritti per il primo grado: la costituzione è tempestiva se rispettato il termine
previsto dall’ART 166. Il deposito della comparsa di risposta può peraltro anche essere
successivo, e potrebbe avere luogo anche alla prima udienza.
Nella comparsa di risposta l’appellato inserirà le sue difese rispetto all’appello:
inammissibilità, improcedibilità ex ART 348m infondatezza.
Nella comparsa di risposta, l’appellato potrà inserire eventuali nuove eccezioni e la
richiesta di nuove prove ammissibili nei limiti dell’ART 345 e potrà inoltre riproporre le
eccezioni già spese in primo grado, ex ART 346.
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6. L’appello incidentale
L’appellato che sia a sua volta soccombente, può impugnare la sentenza proponendo il
proprio appello in via incidentale. L’appello incidentale si propone nella comparsa di
risposta, “all’atto della costituzione in cancelleria ai sensi dell’ART 166” (ART 343); il
termine è quello della comparsa di risposta tempestiva, d è perentorio essendo stabilito
“a pena di decadenza”.
Peraltro l’interesse a proporre l’appello incidentale può sorgere dall’impugnazione
proposta da altra parte diversa dall’appellante principale: in tal caso si propone nella
prima udienza successiva alla proposizione dell’altrui impugnazione.
L’appello incidentale è una vera e propria impugnazione incidentale: esso
a) ha ad oggetto una decisione in senso proprio, vale a dire il rigetto di singole domande o
di capi specifici di domanda; esso non serve quindi per sottoporre al giudice d’appello
mere ragioni non condivise dal giudice di primo grado.
b) può essere tardino, cioè proposto anche in un momento in cui sarebbe già scaduto il
termine per l’appello in via principale.
7. Trattazione e decisione
Nella prima udienza di trattazione il giudice verifica la regolare costituzione del giudizio
e, se necessario, ordina l’integrazione di esso o la notificazione prevista dall’ART 332; ove
occorra, dispone che si rinnovi la notificazione dell’atto di appello. Nella stessa udienza il
giudice dichiara contumacia dell’appalto, provvedere alla riunione degli appelli proposti
contro la stessa sentenza e procede al tentativo di conciliazione ordinando, quando
occorre, la comparizione personale delle parti (ART 350 c.3).
Negli stretti limiti fissati dall’ART 345, il giudice d’appello può disporre l’assunzione di
nuove prove, ovvero ordinare la rinnovazione totale o parziale dell’assunzione già
avvenuta in primo grado; egli può comunque dare disposizioni per effetto delle quali il
procedimento deve continuare. In tutti questi pronuncia ordinanza e provvede a norma
degli ARTT 191 ss. Resta ferma l’applicabilità della norma di cui al numero 4 del c.2 ART
279.
Esaurita l’attività prevista negli ARTT 350-351 il giudice invita le parti a precisare le
conclusioni e dispone lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica
a norma dell’ART 190.
Se di fronte alla Corte d’appello è proposta querela di falso, il giudice è incompetente a
deciderne; pertanto, quando ritiene il documento impugnato rilevante per la decisione
della causa, egli sospende con ordinanza il giudizio, e fissa alle parti un termine
perentorio entro il quale debbono riassumere la la causa di falso davanti al tribunale.
CAPITOLO 42. (SEGUE) L’APPELLO
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1. I nova in appello: il divieto di nuove domande
Il nome di nova” designa il tema delle possibili novità della materia del contendere in
appello rispetto al primo grado di giudizio.
Nel giudizio di appello non sono proponibili domande nuove rispetto alle domande già
proposte in primo grado: questo divieto, posto dall’ART 345, è generalmente considerato
“di ordine pubblico”, sicché si ritiene irrilevante anche l’eventuale accettazione del
contraddittorio su tali domande che provenga dalle controparti. Le domande nuove
proposte in appello sono dichiarate inammissibili anche d’ufficio. Questo vuol dire che
esse non sono rigettate nel merito, ma che non sono affatto trattate, sul presupposto che
non spetta al giudice d’appello occuparsene. Si tratta, quindi, di domande che anche dopo
la declaratoria di ammissibilità in appello, possono essere riproposte in primo grado al
giudice competente.
Al divieto fanno eccezione le nuove domande cc.dd. “consequenziali”, cioè quelle che
tutelano diritti direttamente discendenti dalla sentenza di primo grado: l’ART 345 lascia
la possibilità di domandare “gli interessi, i frutti, gli accessori maturati dopo la sentenza
impugnata, nonché il risarcimento dei danno sofferti dopo la sentenza stessa”. Si tratta,
come si vede, di quelle domande il cui titolo è strettamente dipendente dalla decisione di
primo grado, domande che potrebbero proporsi autonomamente tramite un nuovo
giudizio di cognizione in primo grado e che solo un’esigenza di economia processuale
rende proponibili in appello: appare congruo che le parti dell’appello possano coltivare
queste domande in tale grado piuttosto che dar luogo ad un autonomo processo di primo
grado.
1.1. I nova in appello: i limiti alle nuove eccezioni e alle nuove prove
Occorre ora chiedersi se in appello siano per la prima volta proponibili nuove eccezioni,
cioè eccezioni non sollevate in primo grado. C’è, per esempio, spazio in appello per
un’eccezione di prescrizione non dedotta in precedenza? La risposta è nell’ART 345 c.2,
secondo qui “non possono proporsi nuove eccezioni che non sia rilevabili anche d’ufficio”.
Così disponendo, il giudice ha scelto una via intermedia tra la proponibilità
incondizionata di tutte le nuove eccezioni ed il suo divieto assoluto: non trovano ingresso
in appello le nuove eccezioni che potrebbero essere dedotte solo su istanza di parte; sono
invece ammesse le nuove eccezioni rilevabili anche d’ufficio.
L’eccezione di prescrizione non è quindi rilevabile d’ufficio: o la si solleva in primo grado
o non la si può più riproporre; viceversa, l’eccezione di nullità del contratto può proporsi
per la prima volta in appello.
Veniamo alle nuove prove (cioè a quelle non richieste in primo grado). Mentre il sistema
precedente ammetteva in generale nuove prove in appello, la L. 353/1990 ha imposto una
disciplina restrittiva: “Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere
prodotti nuovi documenti salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della
decisione della causa, ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli
nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile” (ART 345 c.3). In linea di
32
principio l’appello deve dunque configurare una fase di giudizio priva di attività
probatoria, salva l’indispensabilità del mezzo di prova.
Ciò porta a chiedersi: quando è indispensabile una prova? Il quesito è ambiguo e la
risposta incerta: la dottrina si è affannata a delineare il concetto di indispensabilità, come
qualcosa “di più della rilevanza” che deve caratterizzare ogni prova ma, in termini
definitori, ha concluso ben poco. L’esperienza ci dice solo che il collegio talora ammette
nuove prove dietro valutazione discrezionale dell’insieme delle circostanze, valutazione
che spinge a ritenere opportuno che, nel caso di specie, si superi la rigidezza del divieto di
nuove prove.
Quanto detto vale naturalmente per la prova dei fatti costitutivi, modificativi, estintivi ed
impeditivi già oggetto effettivo di giudizio in primo grado: è nei confronti di questi fatti
che non è ammessa una nuova procedura probatoria. Quando invece in appello si apre per
la prima volta il discorso su questioni che in primo grado non furono trattate,
relativamente a tali questioni viene a porsi per la prima volta un problema istruttorio e
ciò impone il rispetto del contraddittorio sotto il profilo del “diritto alla prova”.
Ne consegue che nei confronti di tali questioni la prova dovrà considerarsi sempre
indispensabile.
L’altra eccezione al divieto di nuove prove si ha quando la parte dimostra di non aver
potuto produrre la prova in primo grado per causa ad essa non imputabile. E’ la logica
della remissione in termini, già vista in generale parlando dell’ART 153 c.2. Sarebbe
ingiusto che, persa incolpevolmente la possibilità di dare una prova in primo grado,
questa possibilità non gli sia concessa in appello. Ovviamente occorre poter dimostrare
che la mancata prova in primo grado non è dipesa da una scelta volontaria o da
negligenza del richiedente.
Non è peraltro considerata mezzodì prova in senso stretto, la consulenza tecnica d’ufficio.
2. L’inammissilbità dell’appello per motivi di solo rito
Si sono già esaminati gli effetti sostitutivo e devolutivi dell’appello: la controversia passa
al nuovo grado di giudizio con il dovere del giudice d’appello di statuire sul merito
attraverso una decisione che, anche in caso di conferma, si sostituirà integralmente a
quella impugnata.
Queste caratteristiche dell’appello comportanti l’onere dell’appellante di censurare
sempre nel merito la sentenza di primo grado. L’appello è quindi inammissibile se
limitato a motivi processuale se cioè esso si limita a denunciare nullità del procedimento
o della sentenza di primo grado senza prospettare una diversa decisione nel merito. In
questo caso infatti manca l’interesse al gravame: la sola censura di nullità non può
assumere autonoma rilevanza, potendo la censura rilevare solo se si assume che da essa
dipende un vizio di giudizio.
La deduzione della sola nullità del processo o della sentenza di primo grado non
basterebbe. La denuncia di tali nullità configura certamente legittimo motivo di appello:
l’ART 161 c.1 stabilisce anzi che la nullità, diretta o riflessa, della sentenza di primo grado
non può denunciarsi per altra via se non per mezzo dell’appello, ma a condizione che
33
l’appellante sia in grado di riconnettere alla nullità di un vizio della decisione relativo al
merito della controversia. Il giudice di appello deve infatti decidere la causa nel merito,
ma in tanto può farlo, in quanto siano state debitamente dedotte questioni di merito, per
cui l’appello fondato esclusivamente sui motivi di nullità, senza contestuale gravame
contro l’ingiustizia della sentenza di prono grado, risulta inammissibile per non
rispondenza al modello legale o tipo di impugnazione.
2.1. Le eccezioni alla regola: la remissione della causa al giudice
La regola dell’inammissibilità dell’appello limitato a soli vizi processuali subisce peraltro
talune eccezioni.
Vi sono infatti casi particolari in cui legittimamente l’appello è limitato alla denuncia di
motivi di nullità. Si tratta di casi tassativi, specificamente individuati dal codice, in cui si è
ritenuto che la nullità del giudizio di primo grado sia talmente grave da rendere
inopportuno che l’appello possa direttamente concludersi con decisione di merito.
Qui il giudice di appello, rilevata la nullità e dichiarata, deve limitarsi ad annullare la
sentenza per rimettere la causa al giudice di primo grado, che viene re-investito del
compito di pronunciare nel merito.
Contrariamente al regime generale del gravame, il giudizio si scinde così in due fase: una
prima fase di annullamento della sentenza (c.d. momento rescindente) a cui segue una
seconda fase intesa ad un nuovo giudizio (c.d. momento rescissorio) ed attribuita allo
stesso giudice da cui era stata pronunciata la sentenza annullata.
I casi in cui questo avviene sono tutti molto particolari.
Iniziamo dalla previsione dell’ART 353 (Rimessione al primo giudice per motivi di
giurisdizione) c.1: “Il giudice d’appello, se riforma la sentenza di primo grado dichiarando
che il giudice ordinario ha sulla causa la giurisdizione negata dal primo giudice, pronuncia
sentenza con la quale rimanda le parti davanti al primo giudice”. Si tratta del caso in cui,
proposta domanda al giudice ordinario, questi si era dichiarato sprovvisto di
giurisdizione pronunciando una sentenza conclusiva del processo davanti a sè. L’appello
contro tale sentenza ha invece ribaltato la decisione accertanti la sussistenza della
giurisdizione ordinaria: applicando la regola generale a questo punto il giudice d’appello
avrebbe dovuto decidere nel merito, ma le parti avrebbero seccamente perduto un grado
di giudizio, sicché il legislatore ha preferito riportarle alla posizione originaria,
affondando la pronuncia nel merito al giudice che si era erroneamente spogliato della
causa.
Altre ipotesi di eccezioni alla regola della necessaria decisione in merito sono quelle
previste dall’ART 354 (Rimessione al primo giudice per altri motivi) :”Fuori dei casi
previsti dall’articolo precedente, il giudice d’appello non può rimettere la causa al primo
giudice;
- tranne che dichiari nulla la notificazione della citazione introduttiva,
- oppure riconosca che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il
contraddittorio
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- o non doveva essere estromessa una parte,
- ovvero dichiari la nullità della sentenza di primo grado a norma dell’ART 161 c.2”.
I. Vediamoci la previsione secondo la quale: il giudice riconosce che nel giudizio di primo
grado doveva essere integrato il contraddittorio.
E’, questa, l’ipotesi del litisconsorzio necessario. Sappiamo che quando la sentenza non
può essere pronunciata che nei confronti di più parti, queste devono tutte partecipare al
giudizio e, in difetto, l sparti mancanti vanno chiamate ad integrare il contraddittorio.
Sappiamo anche che ci sono rimedi preventivi ma, nonostante tutto, può sempre aversi
una sentenza che non pronuncianti confronti di tutte le parti.
Se, appellata tale tale sentenza, il giudice del gravame riconosce che effettivamente è
mancata una parte necessaria, egli non può ordinare la chiamata in causa di questa, ma
deve annullare la sentenza e rimettere la causa al primo giudice affinché il processo di
primo grado possa ricominciare da capo nei confronti anche della parte necessaria
assente.
L’esigenza di integrità del contraddittorio è talmente forte che impone di ricominciare da
capo. Il processo deve potersi svolgere nei confronti di tutte le parti necessarie senza
possibilità di sanatoria del vizio in appello perché la parte sopravvenuta ha diritto ad un
doppio grado pieno di giudizio.
II. Ipotesi speculare è quella dell’intervenuta estromissione in primo grado di una parte
necessaria: anche in questo caso la sentenza appellata non ha pronunciato nei confronti di
tutti i legittimi contraddittori.
III. Altra remissione della causa al primo giudice si ha quando il giudice d’appello dichiara
nulla la notificazione della citazione introduttiva. Ritorna qui il caso del contumace
involontario che la legge tutela in modo vigoroso. L’accoglimento del gravame di chi
ritiene di essere stato danneggiato dal mancato rilievo della nullità della notifica,
comporta l’annullamento della sentenza di primo grado seguita da remissione della causa
al primo giudice.
IV. Ulteriore caso di divieto di giudicar sin merito, con obbligo di remissione al primo
giudice, è la declaratoria della nullità della sentenza di primo grado a norma dell’ART 161
c.2, cioè della sua nullità insanabile.
In realtà, il c.2 ART 161 si limita a richiamare l’ipotesi della mancata sottoscrizione della
sentenza. Si ritiene però che la previsione della mancata sottoscrizione non esaurisca le
ipotesi di inesistenza, e si finisce così per attribuire all’ART 161 c.2 un ruolo meramente
esemplificativo delle possibili figure di inesistenza della sentenza. La casistica
giurisprudenziale è varia in proposito; vale la pena di ricordare che la norma è stata, per
esempio, applicata:
a) quando la sentenza ha pronunciato nei confronti di persona già defunta al momento
della proposizione della domanda;
35
b) quando la sentenza difetta di parti essenziali alla sua identificazione secondo il modello
dell’atto-sentenza (es: motivazione);
c) quando la decisione risulta pronunciata da un collegio giudicante diverso da quello
davanti al quale si è svolta la discussione.
V. Ultima ipotesi di remissione al primo giudice è quella, prevista dall’ART 354 c.2, in cui il
giudice d’appello riscontra la mancanza dei presupposti dell’estinzione pronunciata in
prono grado. Anche in tal caso la legge impedisce la decisione in merito del giudice
d’appello imponendo il ritorno del processo al giudice che ha erroneamente sancito la
chiusura del processo in punto di rito.
3. L’estinzione del giudizio d’appello
Anche il grado d’appello soggiaci alla possibilità di estinzione, potendosi verificare, in
corso di giudizio, inattività delle parti ovvero rinuncia agli atti.
L’ART 338 regola gli effetti dell’estinzione statuendo che “L’estinzione del procedimento
d’appello…fa passare in giudicato la sentenza impugnata, salvo che ne siano stati
modificati gli effetti con provvedimento pronunciati nel procedimento estinto”. La
declaratoria di estinzione impedisce la pronuncia della sentenza d’appello, ed impedisce
dunque il verificarsi dell’effetto sostitutivo rispetto alla sentenza appellata; ne consegue il
passaggio in giudicato della sentenza di primo grado.
Il passaggio in giudicato resta peraltro escluso nei casi in cui risultavo “modificati” gli
effetti di tale sentenza a ragione di provvedimenti pronunciati nel corso del procedimento
estinto. Il riferimento è ad atti di carattere non meramente ordinatorio che abbiano inciso
sulle statuizioni della sentenza di primo grado, operandone una sostituzione o una
parziale modificazione.
4. L’intervento di terzi in appello
L’atto di appello può provenire solo da parti del giudizio di primo grado ed essere diretto
nei confronti di parti dello stesso giudizio. Eccezione è il potere di proporre appello
attribuito al successore a titolo particolare nel diritto controverso.
Resta il problema dell’eventuale partecipazione di terzi alla fase d’appello in via
successiva, che è affrontato da due distinte norme:
a) dall’ART 334 che ammette l’intervento di coloro che sarebbero legittimati a proporre
l’opposizione di terzo ai sensi dell’ART 404. Tale opposizione configura un rimedio
successivo e, rispetto ad essa, l’ART 334 appresta uno strumento di tutela anticipata,
consentendo ai terzi di far valere le proprie ragioni ancor prima che sia emessa la
sentenza che potrebbe pregiudicarli e nei cui confronti sarebbero legittimati a proporre
l’opposizione di cui all’ART 404. Pertanto, può intervenire in appello colui che potrebbe
subire pregiudizio nei suoi diritti da un determinato esito del giudizio.
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b) dall’ART 111 c.3, che, prevedendo che “in ogni caso” il successore a titolo particolare
possa intervenire nel giudizio, si applica evidentemente anche al grado d’appello.
CAPITOLO 43. IL GIUDIZIO DI CASSAZIONE E LA FASE DI RINVIO
1. Il giudizio di Cassazione
L’altro grande mezzo generale di impugnazione delle sentenze è il ricorso per cassazione
(Nota: talvolta si dice ricorso in cassazione, ma il c.p.c. parla di ricorso per cassazione. La
differenza è questa: il ricorso IN cassazione è il ricorso fatto alla Corte di Cassazione, vista
come organo; nel ricorso PER Cassazione invece, la parola cassazione sottende all’attività
di cassazione), ricorso che dà vita al giudizio di fronte alla Corte Suprema di Cassazione.
(La Corte di Cassazione (CDC) all’origine non rivestiva affatto natura di organo
giurisdizionale, presentandosi piuttosto quale organo ausiliario del potere
legislativo opto al controllo esterno dell’attività giurisdizionale.
Molto approssimativamente possiamo ricordare che nella Francia rivoluzionaria
era fortemente temuta la possibilità di arbitri e sconfinamenti da parte degl organi
giudiziari: l’idea che i giudizi dovessero applicare la legge e null’altro che la legge,
portò ad ipotizzare un controllo sull’attività giurisdizionale da affidarsi ad un
organo ad hoc. Da questa esistenza nacque il Tribunal de Cassation, adibito
solamente a “cassare”. Dopo, in epoca napoleonica, si chiamò Cour de Cassation).
La CDC è un giudice centralizzato, con sede in Roma, ed è un organo investito di molteplici
funzioni istituzionali, quali in particolari il controllo della giurisdizione e la c.d. funzione
nomofilattica. Con questa parola si vuole indicare il compito che l’ordinamento attribuisce
alla CDC di garantire la corretta osservanza della legge e l’uniformità dell’interpretazione
e dell’applicazione del diritto oggettivo, secondo la formula dell’ART 65 del Testo Unico
sull’Ordinamento Giudiziario.
2. I provvedimento impugnabili
Ricorribili per CDC sono fondamentalmente le sentenze di appello, sicché nella
maggioranza dei casi, il giudizio di cassazione configura una peculiare “terza istanza”.
Sono quindi ricopribili le sentenze della Corte d’Appello che ha pronunciato come giudice
d’appello delle sentenza del tribunale, e le sentenze del tribunale che ha deciso in secondo
grado nei confronti delle sentenze del GDP.
Sono poi ricopribili per cassazione le sentenza “in unico grado” (ART 360): a) le sentenze
del tribunale inappellabili in quanto pronunciate sfondo equità; b) le sentenze del
tribunale dichiarate dalla legge “non appellabili”; c) le sentenze della Corte d’appello
investita dalla controversia non quale giudice d’appello ma quale giudice di unico grado.
E’ ricopribile ancora per cassazione la sentenza pronunciata dal Tribunale quando le parti
abbiamo concordemente rinunciato all’appello. La rinuncia all’appello è ammessa anche
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anteriormente alla pronuncia della sentenza e permette alla parte soccombente di portare
la sentenza direttamente in cassazione, ma solo per violazione o falsa applicazione delle
norme di diritto, cioè attraverso il solo n.3) delle cinque tipologia di ricorso per
cassazione.
Sono infine ricopribili per C. le sentenze del giudice del lavoro contenenti “accertamento
pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti ed accordi collettivi”:
l’art 420-bis prescrive che queste sentenze siano impugnabili “soltanto con ricorso
immediato per C”.
Il regime del ricorso contro le sentenze non definitive non coincide con quello dell’ART
340 dettato per l’appello. Ai sensi del c.3 ART 360 non sono passibili di ricorso immediato
e diretto le sentenze “non definitive” in senso proprio, cioè la sentenze “che decidono di
questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio”: il ricorso verso talis
estense può essere proposto solo “allorché sia impugnata la sentenza che definisce, anche
parzialmente, il giudizio” ma “senza necessità di riserva”. La doppia prerogativa
dell’autonoma ricorribilità immeritata e della ricorribilità differita all’impugnazione della
sentenza definitiva, riguarda invece solo gli altri tipi di “sentenze parziali”, doppia
prerogativa che lascia intatta la necessità di previa riserva per la ricorribilità differita
(ART 361).
A parte vanno considerati quei provvedimenti emessi in forma diversa dalla sentenza, che
decidono su diritti nei cui confronti non è prevista alcuna specifica impugnazione. Contro
tale tipo di provvedimenti è serpe ammesso il ricorso per C. c.d. “straordinario” in forza
dell’applicazione diretta dell’ART 111 c.7 Cost.
Il ricorso per C. ha ricevuto un considerevole impulso proprio dall’ART 111 c.7. Sappiamo
già che l’ambito di tale norma è stato molto dilatato dalla C. fino al punto di
ricomprendervi tutti i provvedimenti, anche in forma diversa dalla sentenza, incidenti su
diritti soggettivi e non altrimenti impugnabili. Si tratta di provvedimenti che hanno
attitudine ad incidere su diritti soggettivi delle parti e che possiedono il requisito della
definitività. Il ricorso per C., originariamente confinato alle sentenze previste dall’ART
360, è oggi il mezzo di controllo dei provvedimenti decisori e non altrimenti impugnabili
nelle materie più disparate.
L’ART 360 u.c. è la sola norma del codice a registrare l’istituto del ricorso straordinario,
nel suo riferimento alle sentenze e ai provvedimenti diversi dalla sentenza “contro i quali
è ammesso il ricorso per C. per violazione di legge”. La norma è importante non solo per la
ricognizione che essa fa di tale tipo di ricorso, ma per la piena parificazione di ricorso
straordinario e ordinario quanto ai motivi di ricorso. Nello statuire che le disposizioni “di
cui al primo comma e terzo comma” si applicano in pieno ai ricorsi contro quelle sentenze
e quei provvedimenti, essa impedisce di ridurre la “violazione di legge” di cui parla l’ART
111 c.7 Cost, al solo motivo di “violazione o falsa applicazione di norma di diritto” di cui al
n.3 ART 360, con esclusione degli altri motivi. La cosa è rilevante in quanto la norma
stronca la tendenza, manifestata in precedenza dalla Cassazione, ad escludere il ricorso
straordinario per il motivo del vizio di motivazione sancito dal n.5 ART 360.
3. I motivi di ricorso
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A differenza dell’appello, il ricorso per C. si presenta come una tecnica specifica di
impugnazione che potremmo chiamare “impugnazione a motivi obbligati”.
Per l’appello manca una norma che subordini a motivi specifici di impugnabilità.
L’appellante deve certamente “motivare” l’appello, ma qualunque ragione di critica alla
sentenza di primo grado, purché qualunque ragione di critica alla sentenza di primo
grado, purché astrattamente idonea a dar luogo ad una differente decisione nel merito,
può fungere da motivo di appello. Ciò corrisponde alla natura dell’appello che conduce ad
una nuova ed autonoma decisione della controversia.
Nel giudizio di C. le cose stanno diversamente. Per essere ammissibile, il ricorso deve
poter ricondurre le censure mosse alla sentenza ad uno, o più, dei motivi ammessi
dall’ART 360. L’avvocato della parte soccombente deve quindi indagare in che termini, e
in che limiti, il vizio della sentenza possa tradursi in uno dei motivi elencati dall’ART 360:
la C. infatti verificherà pregiudizialmente che la censura alla sentenza corrisponda ad uno
dei motivi ammessi. Ne segue che le censure non inquadrabili in alcuno dei motivi
contemplati dalla legge verranno dichiarate inammissibili. La C. non è quindi chiamata a
“giudicare un’altra volta “ della controversia, poiché i suoi poteri di cognizione sono
instradati secondo specifici motivi di controllo della pronuncia impugnata. Inoltre
l’accoglimento del ricorso si concreta nella C della sentenza impugnata, e solo in seguito a
tale cassazione potrà procedersi ad eventuale nuova decisione. Ciò comporta che il
giudizio di cassazione consta di una prima fase necessaria, a carattere demolitori della
pronuncia impugnata, che prende il nome tecnico di “giudizio rescindente”, e di una
seconda fase, eventuale, a carattere ricostruttivo, che prende il nome di “giudizio
rescissorio”.
I motivi contemplati dall’ART 360 danno luogo a cinque distinte figure, ma si possono
ricondurre a tre tipo fondamentali:
a) violazione di legge, cioè alla violazione e alla falsa applicazione delle norme sostanziali
utilizzate quale metro di giudizio per le situazioni soggettive coinvolte (c.d. errores in
giudicando);
b) violazione di norme processuali. Per giudicare il giudice deve seguire le regole del
processo: l’errore nell’applicazione di queste regole comporta un vizio censurabile in C.
(c.d. errores in procedendo);
c) soluzione delle questioni relative ai fatti di causa, sotto il profilo della correttezza del
ragionamento degusto dal giudice: si trtta degli errori connessi al mancato rispetto dei
principi del corretto argomentare ricavabili dall’esposizione del giudizio di fatto compiuto
dalla motivazione.
Più in particolare, il ricorso è ammesso:
1) “per motivi attinenti alla giurisdizione”. Quando la parte soccombente ritenga violate le
norme che presiedono all’attribuzione della giurisdizione del giudice italiano, ovvero, al
riparto della giurisdizione tra i vari ordini giurisdizionali nazionali, può ricorrere per C.
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per richiedere che, applicate correttamente tali norme, la Corte cassi la sentenza che le ha
violate;
2) “per violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento
di competenza”. La parte soccombente può chiedere la cassazione della sentenza quando
ritenga violate le norme sulla competenza del giudice, e sempre che l’incompetenza non
sia sanata per mancata o tardiva rilevazione. Le sentenze ricopribili per cassazione con il
mezzo ordinario sotto il profilo della competenza sono le sentenze che hanno pronunciato
contemporaneamente sul merito e sulla competenza affermativamente, o hanno
pronunciato solo sul merito, con ciò implicitamente riconoscendo la competenza.
3) “per violazione o falsa applicazione di norme di diritto”. Il terzo motivo ci porta nella
dimensione dell’errore attinente alla formulazione del giudizio. Questo accade anzitutto
per l’interpretazione e l’applicazione della legge e del diritto c.d. sostanziale, cioè delle
norme che regolano il rapporto giuridico oggetto del processo e della decisione. Ma
l’interpretazione e l’applicazione della legge può riguardare anche regole del processo:
questo accade allorché oggetto di disputa sia appunto una norma processuale e la
decisione adottata dipende dall’interpretazione o dall’applicazione di essa. Per esempio,
sciogliendo la questione se la notifica di un dato atto si perfezione in un certo momento,
ovvero in un momento diverso, il giudice d’appello, interpretando la norma, adotta la
prima soluzione; il ricorso con cui si censura tale scelta invocherà il motivo del n.3, cioè la
violazione di norma di diritto. Si parla, in tal caso, di error in giudicando de jure
procedendi.
Alla violazione e falsa applicazione delle norme di diritto, l’ART 360 n.3 espressamente
assimila le norme poste dai contratti ed accordi collettivi di lavoro (si tratta delle c.d.
clausole normative. L’errore del giudice di merito nell’interpretazione o applicazione di
tale normativa è quindi parimenti denunciabile con ricorso per C.
“Violazione” e “falsa applicazione” sono le due possibili manifestazioni di questo tipo di
errore. Si può dire, semplificando, che con violazione ci si riferisce all’erronea
interpretazione della norma, intesa come l’erronea ricostruzione della fattispecie astratta,
mentre con falsa applicazione ci si riferisce all’inesatta applicazione della norma ai fatti
rilevanti nel caso considerato, cioè all’erronea riconduzione della c.d. fattispecie concreta
alla sua fattispecie normativa.
4) “per nullità della sentenza o del procedimento”. Con il motivo n.4 usciamo dalla
denuncia del vizio proprio dell’atto di giudicare per entrare nella dimensione del vizio
riconducibile al compimento di atti viziati o all’omissione di atti necessari.
Ricorribilità “per nullità della sentenza o del procedimento” significa ricorribilità per
mancato rispetto delle norme che regolano tanto l’attività processuale delle parti quanto
l’attività del giudice.
Le sentenze ricopribili per C. possono quindi essere censurate per i vizi propri e per i vizi
degli atti precedenti che si sono riflessi su di esse. Questo vuol dire che contro una
sentenza d’appello, oggetto normale del ricorso per C. potrà ricorrersi per nullità che
dipende da un vizio del primo rado di giudizio, o per nullità dipendente da un vizio
dell’atto di appello, o ancora per nullità dipendente da un vizio suo proprio. Si ricorsi che
la rilevabilità della nullità della sentenza è disciplinata dall’ART 161 c.1, secondo cui la
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nullità delle sentenza soggette ad appello o a ricorso per C. “può essere fatta valere
soltanto nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi di impugnazione”.
5) “per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e
decisivo per il giudizio”. Con questo quinto motivo, usciamo dall’errore di diritto, e ci
spostiamo su vizi di motivazione della sentenza, cioè sui difetti di giustificazione di
quanto deciso.
Va anzitutto precisato che, parlando di “omessa motivazione” ai sensi del n.5 non ci si
riferisce alla sentenza materialmente pira di motivazione, cioè una sentenza esaurentesi
nel solo dispositivo. In questo caso avremmo un vizio documentale della sentenza, una
nullità che ricadrebbe nel n.4 ART 360: la sentenza difetterebbe di uno dei requisiti
formali prescritti dalla legge. Parlando invece di omessa motivazione si intende dire che le
spiegazioni addotte per motivare…non spiegano nulla, non giustificano cioè la
conclusione a cui è giunta la sentenza. La motivazione è omessa tutte le volte in cui si
riscontra un salto dalle premesse alla conclusione, sicché quest’ultima appare arbitraria
perché apodittica.
Accanto all’omissione, rilevano:
- l’insufficiente motivazione, che si ha quando la sentenza prospetta una giustificazione
della conclusione attinta che però non appare plausibile per l’incompleto sviluppo logico
o argomentativo, cioè per l’assenza di uno o più passaggi necessari della dimostrazione, e
- la contraddittoria motivazione, che si verifica quando le conclusioni appaiono
logicamente incompatibili con le loro premesse.
I vizi di omissione, insufficienza o contraddizione della motivazione debbono riguardare
la ricostruzione delle circostanze che formano la base fattuale del giudizio di diritto, e
debbono cadere “su un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, cioè su un punto di
fatto che non si debba considerare espressamente o implicitamente riconosciuto.
3.1. Il controllo del giudizio di fatto
L’esame del motivo contemplato dal n.5 ART 360 ci permette di chiarire un punto
fondamentale, e cioè il significato dell’espressione tradizionalmente ripetuta, secondo cui
la C. non è “giudice del fatto”, ma è “giudice del solo diritto”.
Quando si impugna la sentenza per vizio della motivazione, il controllo esercitato dalla C.
non può andare al di là della verifica della correttezza del ragionamento espresso in
sentenza: la C. non può così giudicare in via diretta dell’avveramento o meno dei fatti in
questione. Al giudice di C. si può chiedere solo di verificare che il giudice di merito, nel
ricostruire il fatto controverso, abbia ben giustificato la propria confusione, cioè sia stato
in grado di rappresentar in maniera plausibile il suo convincimento, spiegando in modo
sufficiente e non contraddittorio il perché della propria scelta.
La C. è chiamata a verificare quindi la correttezza dei criteri logici e argomentativi
utilizzati dal giudice in motivazione: verrà quindi cassata la sentenza in cui la C. avrà
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ravvisato una stortura nella giustificazione ricostruttiva del fatto, non potendo essa
invece verificare se il fatto si sia effettivamente prodotto o no.
Sotto questo profilo, ipotesi della C. sono più ristretti rispetto ai poteri del giudice
d’appello, che invece può esprimere il suo autonomo giudizio sulle vicende fattuali
sottostanti ai diritti fatti valere in giudizio.
(Va peraltro segnalato che la C. riconduce stabilmente al controllo della
motivazione, ai sensi del n.5, anche i giufidizi che il giudice formula quando è
chiamato ad applicare i c.d. “concetti indeterminati” (per es. buona fede,
correttezza, giusta causa). L’esito dell’applicazione di tali concetti non è infatti
strettamente determinato: è nella loro natura rendere possibili più soluzioni la sui
scelta è affidata alla discrezionalità del giudice del merito secondo circostanze che
egli solo può correttamente apprezzare. Per questa ragione, la C. limita il suo
controllo ala congruità e logicità del relativo giudizio).
3.2. L’ammissibilità dei motivi di ricorso
La trattazione del merito del ricorso ai vini dell’accoglimento o del rigetto, è peraltro
subordinata ad un giudizio di ammissibilità dei suoi motivi. L’ART 360-bis, introdotto
dalla L. 69/2009, sanziona con l’inammissibilità il ricorso proposto contro il
provvedimento che “ha deciso le questione di diritto in modo conforme alla
giurisprudenza della Corte” quando “l’esame dei motivi non offre elemento per
confermare o mutare l’orientamento della stessa”, nonché “quando è manifestamente
infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo”.
Il n.1 conferisce un crisma di ufficialità al c.d. “precedente giudiziale”, seppur non nel
senso precipuo dei sistemi di common law.
La norma in sostanza dice che, quando la Corte ha già in passato speso i propri poteri
decidenti in modo stabile una certa questione di diritto ed il provvedimento impugnato si
è adeguarti a tale soluzione, il ricorrente non può limitarsi a censurare la soluzione ma
deve impegnarsi a trovare ed esporre i motivi per i quali sarebbe opportuno un
ripensamento della Corte. In altre parole, occorre non solo che il ricorso esprima la
consapevolezza del suo contrasto con la giurisprudenza della Corte, ma anche che l’invito
a cambiare giurisprudenza sia sorretto da una motivazione ragionevolmente idonea a
stimolare il ripensamento.
Il n.2 ART 360-bis introduce un requisito di ammissibilità di non immediata
comprensione. Che vuol dire che il ricorso è inammissibile quando è manifestamente
infondata “la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusti processo”?
La domanda è legittima perché una censura del genere non corrisponde a nessuno dei
cinque motivi contemplati dall’ART 360 e la prassi utilizza la denuncia della violazione dei
canoni del “giusto processo” come “coloritura” di specifici motivi.
In mancanza di prolungata esperienza applicativa, le risposte sono ancora incerte. Se ne
possono qui segnalare due, l’una opposta all’altra.
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La prima risposta è che la prescrizione in realtà ha allargato i motivi di ricorso nel senso
che, a fianco delle nullità vere e proprie, diviene motivo di cassazione anche la violazione
delle regole del giusto processo che non abbiano comportato vere e proprie nullità.
L’inammissiblità sanzionata dell’ART 360-bis n.2 riguarderebbe quindi la manifesta
infondatezza di una doglianza legittima.
L’altra opzione interpretativa può essere così riassunta: denunciabili ai sensi dell’ART
360 n.4 solo le nullità che importano violazione del principio del giusto processo, mentre
cessano di essere denunciabili con ricorso per C. le nullità che non incorrono in tale
violazione. Si tratta di una tesi che restringe l’ambio del motivo del n-4, ma che pone non
pochi problemi e la cui adozione necessita di correttivi e distinguo la cui elaborazione
appare prematura allo stato. Sarà quindi la concreta applicazione della norma da parte
della C. a fornire in futuro la sua chiave interpretativa.
La L. 69/2009 ha inoltre aggiunto all’ART 373 c.1 l’inciso secondo cui la dichiarazione di
inammissibilità del ricorso in camera di consiglio può avvenire “anche per mancanza dei
motivi previsti dall’ART 360”. La norma si riferisce al caso in cui il motivo concretamente
speso dal ricorrente non integra la fattispecie legale del motivo.
4. La funzione c.d. nomofilattica
Si à già detto della funzione nomofilattica della C., cioè del suo compito istituzionale di
assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge”.
Alcuni istituti particolari nella disciplina del ricorso per C. confermano questa particolare
funzione, evidenziando l’esigenza che la C. curi la corretta interpretazione della legge
anche al di là del caso deciso.
Nella disciplina positiva del giudizio di C. spiccano quattro norma in cui si rifletta la
funzione nomofilattica.
a) Art 384 c.1 La norma obbliga la Corte ad enunciare sempre il principio di diritto
quando decide il ricorso ai sensi del n.3 ART 360; decidendo invece dei motivi di cui ai
numero 1,2 e 4 ART 360, la pronuncia del principio è subordinata alla “particolare
importanza” della questione di diritto. Per principio di diritto si intende qui la regola
giuridica del caso deciso, opportunamente esplicitata affinché possa valere per futuri
giudizi su casi omologhi. Per particolare importanza della questione si intende, da un lato,
l’idoneità della soluzione contenuta nel principio del diritto ad applicarsi ad una casistica
aperta; dall’altro la “particolare importanza” andrà valutata anche alla lice della novità del
principio rispetto alla giurisprudenza della Corte. L’enunciazione del principio di diritto
non consegue solo all’accoglimento del motivo di ricorso, ma si ricollega alla decisione
comunque del motivo di impugnazione e, quindi, anche sul rigetto.
b) ART 363. Il procuratore generale presso la C. “può chiedere che la C. enunci
nell’interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto
attenersi”, non solo “quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi
hanno rinunciato” ma anche “quando il provvedimento non è ricopribile in C. e non è
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altrimenti impugnabile”. La richiesta del Procuratore generale, contenente una sintetica
esposizione del fatto e delle ragioni di diritto poste a fondamento dell’istanza, è rivolta al
primo presidente, il quale “può disporre che la Corte si pronunci a sezione unite se ritiene
che la questione è di particolare importanza”.
Presupposto di esercizio di questo potere è l’esigenza che la Corte rimedi ad un principio
di diritto errato posto alla base di una decisione non più ricopribile, o non ricopribile
affatto per C. E’ il caso in cui la sentenza non sia stata impugnata nel termine per proporre
ricorso, ovvero in cui il provvedimento non sia di per sé ricopribile per C. Il procuratore
generale presso la C. ha un potere che supera sia la volontà delle parti che il limite della
non impugnabilità del provvedimento.
Oltre al potere di iniziativa del Procuratore Generale, l’ART 363 prevede anche la
possibilità di autonoma pronuncia della Corte di principi di diritto in funzione
nomofilattica quando il ricorso della parte “è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene
che la questione decisa è di particolare importanza”. La norma significa che la
declaratoria di inammissibilità del ricorso non impedisce alla Corte di poter giudicare
delle questioni la cui decisione riveste quella importanza particolare che significa idoneità
a riflettersi sulla corretta osservanza della legge e sull’uniformità di interpretazione ed
applicazione del diritto.
La cassazione della sentenza non può però giocare al ricorrente in quanto l’accoglimento
del ricorso avviene nel solo interesse della legge: le parti quindi resteranno soggette alla
pronuncia cassata. E’ evidente qui la funzione strettamente nomofilattica dell’istituto che
non tutela il diritto del ricorrente, ma consente la sostituzione del principio di diritto
errato con quello corretto.
c) ART 384 c.4: “Non sono soggette a C. le sentenze erroneamente motivate in diritto,
quando il dispositivo sia conforme a diritto; in tal caso la C. si limita a correggere la
motivazione”.
E’ il caso della sentenza che ha deciso bene ma ha motivato male sul piano giuridico,
sicché da essa scaturisce una distorta rappresentazione della norma o dell’istituto. In tal
caso, la Corte rigetta il ricorso dato che la conclusione (dispositivo), in sé è conforme a
diritto, ma provvede a correggerne la motivazione.
d) ART 374 c.2: “Il primo presidente può disporre che la Corte pronunci a sezione unite
sui ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle
sezioni semplici, e su quelli che presentano una questione di massima di particolare
importanza”.
Il primo presidente della Corte può disporre che su determinate questioni non decida una
sezione semplice, cioè una delle sezioni a cui normalmente è rimesso il ricorso attraverso
un meccanismo interno di distribuzione. Può accadere che certe questioni di diritto
ricevano talvolta una soluzione in un senso da una sezione e una soluzione opposta da
un’altra sezione; si determinano così dei conflitti che contraddicono i beni primari della
corretta interpretazione della legge e dell’uniformità del diritto nazionale.
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Se la sezione I ha fissato un principio di diritto che la sezione III ha contraddetto
risolvendo la stessa quesitone, evidentemente non è stato tutelato il bene della certezza
ed uniformità del diritto. E’ quindi sommamente opportuno che, sulla questione che ha
ricevuto soluzioni contrastanti, decida un tipo di collegio più qualificato rispetto ai
normali collegi che si formano nelle sezioni in cui si è sviluppato il conflitto. Con “Sezioni
unite” si designa infatti una speciale conformazione di collegio decidente che, per numero
di membri e peculiarità della sua composizione, appare atta ad esprimere la posizione
della C. con la massima autorevolezza.
Questa particolare solennità della decisione della causa si ha anche quando si deve
decidere su ricorsi che “presentano una ustione di massima di particolare importanza”.
Quando il primo presidente ritiene che sia opportuno che un orbano così qualificato
sciolga consapevolmente una questione di diritto di particolare importanza, cioè quando
dalla soluzione della questione giuridica che il ricorso porta all’attenzione dei giudici
supremi possono scaturire conseguenze particolarmente significative per l’ordinamento.
Particolare è l’organo e particolare è la sua autorevolezza. Al punto che, se una sezione
semplice non ritiene di poter condividere un principio di diritto proveniente dalle sezioni
unite, essa non può decidere difformemente ma “rimette a quest’ultime, con ordinanza
motivata, la decisione del ricorso”.
La questione torna quindi alle sezioni unite che dovranno decidere dell’opportunità di
conservare la propria precedente giurisprudenza p di dar spazio alle contrarie ragioni
motivatamente espresse dall’ordinanza di remissione.
5. Il procedimento
Passiamo ora ad esaminare le forme degli atti del giudizio di cassazione.
I termini per proporre il ricorso sono 60 giorni dalla notificazione della sentenza (c.d.
termine breve), o 6 mesi dalla pubblicazione previsto dall’ART 327 c.1 (termine lungo). Il
termine breve differisce da quello dell’appello che è solo di 30 giorni, mentre il termine
lungo è uguale sia per l’appello che per la C.
A pena di inammissibilità il ricorso deve contenere l’indicazione delle parti,
l’individuazione della decisione impugnata, l’esposizione sommaria dei fatti della causa, i
motivi per i quali si chiede la C. con l’indicazione delle norme di diritto su cui essi di
fondano, l’indicazione della procura se conferita con atto separato, la specifica indicazione
degli atti processuali e dei documenti sui quali esso si fonda (ART 366). Ancora a pena di
inammissibilità, il ricorso deve essere sottoscritto da un avvocato iscritto nell’apposito
albo speciale dei patrocinanti di fronte alle giurisdizioni superiori, munito di procura
speciale (ART 365).
Il ricorso per C. deve essere previamente notificato alla controparte. Il termine per
ricorrere si intende rispettato se l’atto è notificato prima della sua scadenza. Ai senti
dell’ART 366 c.2 il ricorrente ha l’onere di eleggere domicilio a Roma: in caso contrario le
notificazioni sono fatte presso la cancelleria della C.
Il ricorso viene notificato secondo le regole generali al procuratore costituito, e, quindi, a
colui che è stato procuratore della controparte, per il giudizio d’appello.
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Una volta notificato, il ricorso deve essere depositato in cancelleria entro 20 giorni, a pena
di improcedibilità, dall’ultima notificazione alle parti. Ai sensi dell’ART 369 c.2, assieme al
ricorso notificato deve essere depositata la copia autentica della sentenza impugnata. Il
ricorso presuppone procura speciale ( successiva alla sentenza e anteriore al ricorso), che
deve essere depositata assieme agli atti e documenti su cui il ricorso di fonda. I fascicoli
d’ufficio dei precedenti gradi di giudizio vengono trasferiti, per vie interne, dalla
cancelleria del giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato a quella della
Corte. Allo scopo, occorre chiedere la trasmissione del fascicolo alla cancelleria del
giudice a quo che vidima la relativa istanza, anch’essa da depositarsi insieme al ricorso.
Nel giudizio di C. non è ammesso il deposito di atti e documenti non prodotti nei
precedenti gradi di giudizio. Fanno eccezione gli atti e i documenti riguardanti la nullità
della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso e del controricorso. I documenti
relativi all’ammissibilità di questi possono essere depositati anche oltre il termine per il
loro deposito ma in tal caso l’ART 372 .2 prescrive che il depositante deve notificare
l’elenco alle altre parti.
5.1. Controricorso e ricorso incidentale
Esaminiamo ora la difesa dell’intimato, cioè del soggetto a cui è stato notificato il ricorso.
L’intimato può replicare con controricorso, cil con un atto di risposta da notificarsi al
ricorrente nel domicilio da questi eletto per il giudizio di C. Per notificare il controricorso,
la legge concede un termine di 40 giorni (ART 370 c.1), dallo scadere del quale decorre un
successivo termine di 20 giorni per il deposito.
Simmetricamente al ricorso, il controricorso deve essere redatto da un avvocato iscritto
all’albo dei patrocinanti davanti alle magistrature superiori (avvocato “cassazionista”)
munito di procura speciale, e deve contenere i requisiti formali prescritti dall’ART 366
per il ricorso. Con esso il controcorrente opporrà le ragioni di rigetto dei motivi esposti
nel ricorso o contesterà, se del caso, l’ammissibilità o la procedibilità del ricorso stesso.
Solo il resistente che, nel rispetto dei termini per la notifica ed il deposito, abbia proposto
controricorso, potrà poi presentare l’apposita “memoria illustrativa” prevista dall’ART
378. Anche però in mancanza di controricorso, egli potrà partecipare alle discussione
orale.
Una volta istaurato il giudizio di C. con la proposizione del ricorso, il procedimento si
svolge senza necessità di atti di impulso di parte. A tempo debito verrà fissata un’udienza
di discussione di cui verrà dato avviso alle parti che potranno, fino a 5 giorni prima,
depositare un’apposita memoria esplicativa senza possibilità di aggiungere altri motivi.
All’udienza il giudice relatore riferisce i fatti rilevanti e il contenuto della decisione
impugnata, i motivi del ricorso e del controricorso, indi il presidente invita le parti a
svolgere le proprie difese. Segue l’esposizione orale delle conclusioni motivate dal PM
(cioè il Procuratore Generale della Corte), e la Corte, al termine della discussione di tutte
le cause trattate nel giorno di udienza “delibera, nella stessa seduta, la causa in camera di
consiglio”.
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Il processo di C. è denominato dall’impulso d’ufficio, e da questo consegue che in esso non
trova spazio l’estinzione per inattività delle parti; rileva invece l’estinzione per rinuncia al
ricorso.
L’impugnazione incidentale nel giudizio di C. viene proposta nella forma del c.d. ricorso
incidentale. SI tratta di un’impugnazione incidentale materialmente contenuta nel
controricorso ( il “controricorso con ricorso incidentale” è un atto complesso fungente
quindi da atto introduttivo della difesa del resistente e da veicolo del ricorso incidentale).
Con il semplice controricorso non possono impugnarsi capi della sentenza d’appello: se
intende far questo il resistente deve proporre ricorso incidentale. Ma il controricorso non
è idoneo neppure a contenere la richiesta di un nuovo giudizio su altre questioni decise
nella sentenza impugnata: anche in tal caso è necessario proporre ricorso incidentale. Il
ricorso incidentale è dunque necessario non solo in caso di soccombenza effettiva su capi
di domanda.
(Sul punto la differenza con l’appello è netta: mentre l’appellato non ha bisogno di
proporre appello incidentale per le questioni risolte sfavorevolmente, essendo
sufficiente la loro riproposizione ex ART 346, con il controricorso ci si deve
limitare a chiedere che la sentenza sia tenuta ferma perché i mitici dedotti dal
ricorrente sono infondati.
Il controcorrente che infatti voglia sottoporre a nuovo giudizio questioni per lui
negativamente decise dalla sentenza che gli ha dato conclusivamente ragione, è
tenuto a proporre ricorso incidentale, cioè a dolersene con apposito motivo. La
prassi ha introdotto in proposito la figura del ricorso incidentale condizionato, cioè
del ricorso proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito che ne
subordina l’esame al riconoscimento della fondatezza del ricorso principale. Solo in
questo caso infatti il ricorrente incidentale acquista l’interesse alla decisione a
proprio favore della questione sollevata con il ricorso incidentale. La
giurisprudenza più recente delle Sezioni Unite ritiene che il ricorso incidentale
proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito baia natura di
ricorso condizionato, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte, e
che perda il “condizionamento” solo se le questioni pregiudiziali di rito o
preliminari di merito investite dal ricorso stesso, siano non solo rilevabili d’ufficio,
ma non siano neppure state oggetto di decisione esplicita o implicita da parte del
giudice di merito).
5.2. La sospensione dell’esecuzione della sentenza
L’esigenza di evitare l’esecuzione immediata della sentenza nei cui confronti è stato
proposto ricorso per C, rende possibile la sospensione della sua esecutività o la
sospensione dell’esecuzione già intrapresa: il ricorrente può simmetricamente
domandare l’una o l’altra cosa, in simmetria con il soccombente in primo grado che ha
proposto appello.
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Prevede l’ART 373 che, in caso di grave e irreparabile danno derivante dall’esecuzione, la
parte condannata può chiedere la sospensione dell’esecuzione ovvero dell’esecutorietà
della sentenza, ovvero chiedere che sia prestata “congrua cauzione”. Il requisito
dell’irreparabilità del danno viene comunemente inteso come pericolo oggettivo di
distruzione o perdita delle qualità essenziali del bene sottoposto ad esecuzione, laddove il
requisito della gravità viene visto nell’eccezionale sproposizione tra il vantaggio del
procedente e il pregiudizio dell’esecutato.
A decidere della sospensione non è però il giudice dell’impugnazione, ma lo stesso giudice
della sentenza impugnata. La legge non ha gravato la C. del compito di verificare la
sussistenza del pericolo: quale giudice di legittimità ad essa sono istituzionalmente
estranee le valutazioni di opportunità che presiedono a tale giudizio, valutazioni i rimesse
al giudice di merito da cui proviene la sentenza impugnata per C. L’istanza di sospensione
si propone quindi con ricorso a questo giudice che, con decreto in calce al ricorso, ordina
la comparizione delle parti in camera di consiglio e decide con ordinanza non
impugnabile. Con lo stesso decreto, in caso di eccezionale urgenza, può essere disposta
provvisoriamente l’immediata sospensione dell’esecuzione.
6. Le decisioni della C.
La forma norma delle decisioni della C. è la sentenza. Se però la C. riconosce di dover
dichiarare l’inammissibilità, o la manifesta infondatezza del ricorso, essa pronuncia
ordinanza all’esito della procedura della camera di consiglio. Allo scopo di permettete
un’immediata scrematura dei ricorsi trattabili con la procedura normale e dei ricorso
palesemente inammissibili, l’ART 374 c.1 conferisce al primo presidente il compito di
assegnare i ricorsi ad una apposita sezione che “verifica se sussistono i presupposti per la
pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell’ART 375, c.1”.
L’ART 375 impone l’adozione della procedura della camera di consiglio anche nel caso in
cui la Corte riconosce di dover accogliere il ricorso per manifesta fondatezza.
La procedura della camera di consiglio si distingue da quella della pubblica udienza. Ai
sensi dell’ART 380, il relatore che ravvisi la ricorrenza di un delle ipotesi dell’ART 375 e
ritenga quindi che il ricorso vada deciso in camera di consiglio “deposita in cancelleria
una relazione con la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in
fatto e in diritto in base ai quali ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di
consiglio”. Una volta fissata, con decreto presidenziale, la seduta della Corte, decreto e
relazione vengono comunicati al PM e notificati agli avvocati delle parti almeno 20 giorni
prima della data stabilita per la seduta stessa.
La decisione in camera di consiglio avviene nella forma dell’ordinanza.
Se la Corte riscontra l’infondatezza del ricorso, lo rigetta con sentenza. Il non
accoglimento del ricorso rende definitiva la sentenza impugnata. Quando la Corte
riconosce invece la fondatezza del ricorso lo accoglie cassando la sentenza impugnata.
Ovviamente l’accoglimento del ricorso può essere totale, o parziale; in quest’ultimo caso
le parti della sentenza corrispondenti alle parti del ricorso rigettato divengono definitive.
Nell’ipotesi che la Corte accolga il ricorso essa cassa la sentenza impugnata.
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Alla cassazione della sentenza seguono varie possibilità:
1) E’ possibile che l’accoglimento del ricorso renda necessario un nuovo giudizio sulla
controversia. E’ il caso, per es., in cui, cassata la sentenza per errata interpretazione di una
norma, occorre valutare di nuovo i fatti alla luce della corretta interpretazione della
norma indicata dalla sentenza di C. In un caso del genere, il più delle volte la C. non decide
direttamente del torto o della ragione delle parti, ma “rinvia” la causa al giudice del
merito affinché sia esso a formulare il giudizio finale dopo aver valutato le circostanze di
fatto e di diritto in conformità alle indicazioni provenienti dalla sentenza di cassazione.
2) Quando questo avviene, si vede chiaramente la scissione del giudizio in due fase: una
prima fase detta rescindente (di cassazione della sentenza) e una seconda fase a carattere
ricostruttivo, c.d. rescissoria, affidata ad un giudice diverso da quello che ha annullato la
sentenza, il c.d. giudice del rinvio.
L’ART 383 c.1 prescrive che “la Corte quando accoglie il ricorso per motivi diversi da
quelli richiamati nell’articolo precedente, rinvia la causa ad un altro giudice di grado pari
a quello che ha pronunciato la sentenza cassata”. Il procedimento viene quindi rinviato,
per lo svolgimento della fase rescissoria, non allo stesso giudice che ha pronunciato la
sentenza cassata, ma ad un organo di pari grado.
Quando cassa con rinvio, la Corte deve pronunciare il c.d. principio di diritto “al quale il
giudice di rinvio deve uniformarsi”.
Il principio di diritto si risolve nella formulazione della corretta regola giuridica
specificamente applicabile al caso da decidere: spetterà al giudice del rinvio curarne
l’applicazione ai fatti della controversia, in luogo della regola erronea fatta propria dalla
sentenza cassata. La pronuncia del principio di diritto è prescritta sempre quando la Corte
decide di ricorso proposti a norma dell’ART 360 c.3m e in ogni altro caso in cui la Corte
decidendo su altri motivi del ricorso, risolve una questione di diritto di particolare
importanza.
All’esigenza di formulare un nuovo giudizio sulla controversia dopo la cassazione della
sentenza può però talvolta sopperire la C. stessa. Si tratta del caso in cui l’attività
ricostruttiva può essere agevolmente compiuto senza bisogno che la causa sia rimessa ad
un giudice di merito.
A norma dell’ART 384 c.1, la Corte, quando accoglie il ricorso, “decide la causa nel merito
qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto”. In tanto infatti vi + bisogno di
un autonomo e separato giudizio di merito, in quando vi sia ancora necessità di autonomi
accertamenti in fatto, accertamenti che, come sappiamo, sono istituzionalmente negati
alla Corte, la quale non svolge attività istruttorie. Ne segue che in tutte le ipotesi in cui il
giudizio rescissorio si risolve nell’elaborare il giudizio di diritto su fatti già accertati o
pacifici, tale giudizio può ben essere formulato dalla stessa C. In tali casi, rinviare la causa
al giudice di rinvio sarebbe infatti un spreco di tempo, denaro e energia e contrasterebbe
con i principi di ragionevole durata del processo e di economia processuale.
Si parla di “cassazione sostitutiva”: decidendo in rescissorio, la Corte opera il
completamento del giudizio reso necessario dalla cassazione della sentenza, e così
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facendo si sostituisce al giudice del rinvio nell’accertamento dei diritti e degli obblighi
delle parti. Non basta naturalmente che si sia avuto un accertamento dei fatti, ma occorre
anche che dalla decisione della C. non derivi la rilevanza di altri e diversi fatti rispetto a
quelli accertati: in tal caso il rinvio è sempre necessario, non potendo la C. procedere al
loro accertamento.
Resta degno di nota che nella cassazione sostitutiva la fase rescindente resta
concettualmente separata dalla fase rescissoria, ancorché tutto si svolga nell’ambito del
giudizio di cassazione: la C. prima cassa la sentenza e poi decide della controversia.
(Di “ulteriori accertamento di fatto” non vi è bisogno quando i fatti sono stati
effettivamente oggetto di accertamento e decisione nel giudizio di merito e la
cassazione è caduta su un punto della sentenza che tale accertamento non rimette
in discussione. Da un po’ di tempo però, la C. ha iniziato a decidere nel merito anche
in casi in cui, pur essendo mancato un effettivo accertamento, la decisione appare
comunque possibile perché un nuovo accertamento di fatto appare
fondamentalmente superfluo. Si può approvare questa tendenza, in nome del
principio della ragionevole durata del processi, ma non senza notare che la C. ha
l’obbligo di provocare il contraddittorio sul punto: il fatto può essere infatti
pacifico ma le parti hanno il pieno diritto di interloquire in punto di diritto sul suo
inquadramento giuridico).
La cassazione sostitutiva dà luogo ad una forma di cassazione senza rinvio perché la fase
rescissoria ha luogo presso la Corte stessa; il rinvio può però mancare nelle ipotesi in cui
non vi è affatto bisogno di una fase rescissoria bastando a regolare definitivamente il
processo la cassazione della sentenza.
La Corte cassa senza rinvio in presenza del c.d. difetto assoluto di giurisdizione. Questo si
verifica quando sulla pretesa vantata dall’attore non sussisteva alcuna potestà
giurisdizionale del giudice italiano, in quando la materia era riservata al giudice straniero,
ovvero si trattava di questione riservata alla potestà discrezionale della PA.
Appare chiari che in queste ipotesi non vi è alcun giudice a cui sia possibile rinviare la
causa.
L’altra ipotesi richiamata dalla legge è quella in cui la domanda “non poteva essere
proposta”. Si tratta della c.d. “improponibilità oggettiva” della domanda configurabile
quando l’ordinamento non accorda neppure in astratto la tutela giurisdizionale richiesta.
Esempio di scuola è quello della cassazione della sentenza pronunciata prima del 1970,
visto che lo scioglimento civile del matrimonio si è avuto nel 1970, con la legge dell’anno
stesso).
Questo tipo di cassazione senza rinvio viene però praticato anche in casi meno estremi: si
tratta di ipotesi in cui, nonostante la proponibilità della domanda, in realtà il giudice del
rinvio non resterebbe nulla da aggiungere alla cassazione della sentenza. Nella
giurisprudenza della Corte l’art 382 c.3 è applicato in casi in cui il giudice della sentenza
cassata ha, per es:
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- pronunciato su oggetti non richiesti, incorrendo in vizio di c.d. ultrapetizione;
- accolto la domanda in difetto di legittimazione dell’attore.
E’ evidente come la sola cassazione sia sufficiente nel primo caso ad eliminare
l’ultrapetitum, e nel secondo caso ad eliminare la pronuncia su una domanda che non
avrebbe dovuto essere proposta.
La cassazione senza rinvio si ha parimenti se il processo non poteva essere “proseguito”.
Se si è verificato un evento che imponeva necessariamente la chiusura del processo in
punto di rito, e malgrado ciò il processo è proseguito fino a decidere del merito, la
cassazione ella sentenza dovrà essere necessariamente senza rinvio, non essendo
possibile alcuna sentenza di merito.
Tutte le ipotesi di cassazione senza rinvio possono dar luogo ad obblighi di restituzione o
di riduzione in pristino; in questi casi le relative domande, in pristino, nonché ogni altra
domanda conseguente alla cassazione, vanno proposte al giudice che ha pronunciato la
sentenza cassata.
Per il loro carattere di “decisioni in ultima istanza”, le sentenze della C. presentano la
caratteristica di non essere normalmente sottoponibili a successive impugnazioni. Fanno
però eccezione alcuni speciali mezzi di impugnazione. In particolare le decisioni della C.
sono assoggettate:
- da un lato, al procedimento volto alla correzione di errori materiali o di calcolo ai sensi
dell’ART 287, e alla revocazione per errore di fatto ai sensi dell’ART 395;
- dall’altro, alle impugnazioni c.d. straordinarie, cioè alla revocazione per i numeri 1,2,3,6
ART 395, ma limitatamente al “provvedimento con il quale la Corte ha deciso la causa nel
merito”.
La revocazione ordinaria per errore di fatto e la correzione degli errori materiali sono
regolati congiuntamente dall’ART 391-bis, che prescrive la forma del ricorso, ai sensi
dell’ARTT 365 ss., da notificare entro il termine di 60 giorni dalla notificazione della
sentenza, o di 1 anno della pubblicazione della sentenza stessa.
La C. decide in camera di consiglio con ordinanza sul ricorso per correzione dell’errore
materiale; quanto al ricorso per revocazione pronuncia ordinanza se lo dichiara
inammissibile, altrimenti rinvia alla pubblica udienza. La pendenza del termine per la
revocazione della sentenza non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza
impugnata con ricorso per cassazione respinto.
I ricorso per i motivi dei numero 1,2,3,6 ART 395 e quelli con cui il terzo si oppone alla
sentenza di C. si propongono alla C. stessa e debbono contenere gli elementi,
rispettivamente, degli ARTT 398 c.2-5 e 405 c.2. Quando pronuncia la revocazione o
accoglie l’opposizione di terzo, la Corte “decide la causa nel merito qualora non siano
necessari ulteriori accertamenti di fatto”; altrimenti, pronunciata la revocazione, o
dichiarata ammissibile l’opposizione di terzo, “rinvia la causa al giudice che ha
pronunciato la sentenza cassata” (ART 391-ter).
7. Il giudizio di rinvio
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Quando all’esaurimento della fase rescindente con la cassazione della sentenza deve
seguire un’attività rescissoria, questa avviene in sede di rinvio tutte le volte in cui occorre
procedere all’accertamento di fatti, siano essi fatti “ulteriori”, cioè fatti in precedenza non
accertati, ma resi rilevanti dalla sentenza di cassazione, ovvero elementi di fatto in
precedenza già istruiti ma su cui è necessario giudicare di nuovo sempre alla luce della
sentenza di cassazione. A maggior ragione l’attività rescissoria dovrà svolgersi in sede di
rinvio quando alla sentenza di cassazione deriva la necessità del rinnovo di singoli atti o
addirittura di intere fasi del processo.
Quando la C. cassa con rinvio, il processo va riassunto di fronte al giudice
specificatamente designato a fungere da giudice del rinvio nella decisione di cassazione.
La riassunzione può essere fatta da ciascuna parte non oltre 3 mesi dalla pubblicazione
della sentenza della C. E’ quindi onere della parte interessata alla pronuncia in rinvio
riassumere in tempo il giudizio. La domanda si propone con citazione notificata
personalmente alla parte. Al giudice di rinvio si propongono anche le domande di
restituzione o di riduzione in pristino, nonché ogni altra domanda conseguente alla
sentenza di cassazione (ART 389).
Effetto della mancata o intempestiva riassunzione è la totale estinzione del processo.
Prescrive infatti l’ART 393 che se la riassunzione non avviene nel termine trimestrale,
ovvero, se dopo la riassunzione si verifica una causa di estinzione del giudizio di rinvio,
“l’intero processo si estingue”.
In tal caso non sopravvive più alcune efficace decisione di merito.
L’ART 393 assume dunque il ruolo di norma speciale rispetto all’ART 310 c.2, che invece
salva dall’estinzione “le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo”.
Dal naufragio dell’intero procedimento conseguente all’estinzione si slva perà la parte
percettiva delle sentenza di cassazione (ART 393 “… ma la sentenza della C. conserva in
suo effetto vincolante anche nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione
della domanda”). Se l’azione esercitata nel processo estinto è riproposta, il giudice deve
dare seguito alle prescrizioni ed indicazioni della C., ed, in particolare, applicare il
“principio di diritto”, cioè la parte della sentenza che fissa la regola giuridica da applicare
al caso di specie. Lo specifico principio di diritto pronunciato in sede di cassazione vincola
pertanto ogni altor giudice chiamato in furto a giudicare sul medesimo rapporto giuridico.
Il giudizio di rinvio si svolge secondo le modalità del procedimento che la legge prescrive
per la trattazione davanti al tipo di organo investito del rinvio (Corte d’appello, tribunale,
GDP). La posizione delle parti resta quella che esse avevano nel procedimento in cui fu
pronunciata la sentenza cassata. Inoltre, essendo il giudizio di rinvio esclusivamente
riservato allo svolgimento della fase rescissoria resa necessaria dalla cassazione della
sentenza, le parti “non possono prendere conclusioni diverse da quelle prese nel giudizio
nel quale fu pronunciatala sentenza cassata” (ART 394). Il giudizio di rinvio è quindi un
giudizio tendenzialmente “chiuso”, in cui le parti non possono normalmente introdurre
nuovo materiale probatorio.
Lo stesso ART 394 consente però alle parti di mutare le conclusioni allorché “la necessità
delle nuove conclusioni sorga della sentenza di cassazione”. Può infatti accadere che la
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ragione dell’intervenuta cassazione sia tale da imporre uno svolgimento del giudizio
all’esito del quale sorga l’esigenza di conclusioni diverse da quelle sulle quali aveva
pronunciato la sentenza poi cassata. L’ambito del giudizio di rinvio non è infatti
determinabile a priori, ma è determinato dal motivo che ha condotto alla cassazione. Si
pensi, ad esempio, ad una cassazione per violazione delle norme sulla competenza, ovvero
all’accoglimento del motivo di cui al n.4 per vizi della sentenza c.d. derivati, cioè
dipendenti da precedenti nullità non sanate del procedimento: in sede di rinvio il
procedimento andrà ripreso, e dovrà svolgersi, a partire dal punto momento in cui si è
manifestato il vizio. Così, se la C. ha cassato la sentenza perché il giudizio è svolto in
assenza di una parte necessaria, in sede di rinvio le parti si troveranno nella posizione di
partenza: al riscontrato vizio di contraddittorio non rimedia la mera presenza nel giudizio
di rinvio della parte necessaria pretermessa, in quando è necessario che la trattazione
della causa si svolga ex novo nel contraddittorio di questa.
Così ancora, cassata la sentenza per violazione delle regole di competenza e riassunta la
causa davanti al giudice competente, il processo in rinvio dovrà svolgersi integralmente
ex novo. Il vizio a cui si pone rimedio attiene infatti ad un presupposto processuale che si
proietta su tutti gli atti successivi.
(Quando il rinvio segue alla cassazione per il motivo di cui al n.5, al giudice di
rinvio è rimesso il compito di sostituire un giudizio convincente e privo di errori
logici a quello viziato del giudice della sentenza cassa. Potrebbe allora darsi che
attraverso il nuovo giudizio, il giudice del rinvio giunga alle stesse conclusioni a cui
è giunta la sentenza cassata, in quanto la sostituzione della motivazione difettosa
con una motivazione ineccepibile, non garantisce necessariamente un diverso
dispositivo: pur mancando di giustificazione logico-giuridica, la decisione adottata
dal primo giudice potrebbe infatti risultare corretta, sicché è ben possibile che
dalla fase di rinvio emerga una conclusione equivalente a quella risultante dalla
sentenza cassata).
La sentenza del giudice di rinvio è impugnabile secondo le regole proprie del grado in cui
essa è pronunciata. Nel caso normale del rinvio al grado d’appello, la sentenza sarà quindi
ricorribile per C. Le sentenze pronunciate in rinvio sono naturalmente impugnabili anche
dai terzi con il mezzo dell’opposizione (ART 404).
CAPITOLO 44. LA REVOCAZIONE
1. introduzione
Ai rimedi generali dell’appello e del ricorso per C. l’ordinamento affianca a quello
particolare della revocazione della sentenza.
Della revocazione può dirsi che:
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1) E’ un mezzo di impugnazione a critica vincolata, perché è proponibile solfano per
motivi specificatamente ordinati;
2) E’ un mezzo di impugnazione proponibili su istanza delle parti soccombenti e, per altri
motivi, del PM;
3) Si atteggia talora a mezzo di impugnazione ordinaria e talaltra a mezzo di
impugnazione straordinaria: la distinzione dipende dai motivi di revocazione adottati.
2. Motivi di revocazione
Sono motivi di revocazione ordinaria l’errore di fatto ed il contrasto della sentenza con
altro precedente giudicato.
Essi sono detti ordinari perché possono farsi valere solo contro sentenze non ancora
passate in giudicato. Il che è logico se si considera che consistono vizi palesi: la loro
evidenza consente di ancorare la decorrenza dei termini per impugnare ad una data certa,
collegabile al provvedimento stesso.
Più in dettaglio:
- l’errore di fatto revocatorio si dà quando la sentenza è l’effetto di un errore di fatto
risultante dagli atti o dai documenti della causa (ART 394 n.4). La norma precisa che vi è
questo errore “quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verrà è
incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui
verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non
costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare”.
Resta quindi dalla prescrizione che, per aversi errore di fatto revocatorio, si deve poter
parlare di una svista del giudice, obiettivamente e immediatamente rilevabile dalla lettura
degli atti di causa che abbia portato il giudice ad affermare l’esistenza di un fatto che
invece è inesistente, o viceversa.
Solo il c.d. errore di percezione, dunque ha natura revocatoria, natura che non ha il c.d.
errore di giudizio, che è eventualmente denunciabile in cassazione ex ART 360. L’errore
percettivo incide su un punto decisivo su cui la sentenza non ha pronunciato ( = non è il
risultato di apposito giudizio); l’errore di giudizio invece verte su un punto decisivo della
controversia che il giudice ha scientemente considerato; verte cioè su un fatto
espressamente valutato, sicché viene ad essere denunciata l’erroneità del giudizio stesso.
L’errore di fatto revocatorio vizia la sentenzi aperchè l’abbaglio percettivo ha fatto
ricostruire la realtà fattuale in modo errato, ed ha così prodotto una decisione errata.
(L’errore revocatorio può cadere anche su un fatto di natura processuale. Per
esempio, il giudice ha dichiarato l’inammissibilità dell’appello incidentale sul
presupposto che la comparsa di risposta che lo contiene sia stata depositata
tardivamente; si tratta però di un errore di lettura della data facilmente evincibile
dall’esame della comparsa.
L’errore è idoneo a provocare la revocazione della sentenza).
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E’ importante inoltre distinguere sempre l’errore di fatto revocatorio da quello materiale,
il quale consiste, appunto, in omissioni o errori materiali o di calcolo, che però non
condiziona la scelta del giudice, cioè non è determinante della soluzione che il giudice
adotta in sentenza. L’errore materiale è infatti un errore di scrittura, cioè un errore nella
trasmissione del pensiero. Esso è correggibile con l’apposito procedimento di cui agli
ARTT 287 ss. (es: condanno a 1000€, anche se effettivamente dovevo condannare a
10000€ ma il giudice ha scordato di mettere uno zero).
L’ordinamento intende evitare che convivano due pronunce tra loro contrastanti, tanto
che consente di far valere il giudicato, sia nel corso del processo con l’eccezione, sia anche
con un apposito mezzo, che è appunto la revocazione. L’impugnazione per revocazione
non è possibile quando l’eccezione è stata sollevata nel corso del processo; in questo caso,
sull’eccezione il giudice deve avere già deciso e la relativa decisione, eventualmente, deve
avere già deciso e la relativa decisione, eventualmente, deve essere impugnata con
l’appello o con il ricorso in C. Si noti infine che se poi il giudice non ha deciso
sull’eccezione, la sentenza è sempre appellabile o ricopribile in C, ma per il vizio di
omissione di pronuncia (ART 112).
3. Motivi di revocazione straordinaria
Dolo della parte, falsità della prova, decisività di documenti, dolo del giudice. Sono detto
motivi straordinari perché possono farsi valere anche contro sentenze già passate in
giudicato. Si tratta infatti di vizi per la cui scoperta non basta leggere il provvedimenti
impugnato, né gli atti di causa.
Vediamoli nel dettaglio:
- dolo della parte. Si dà questo motivo di revocazione quando la sentenza è effetto del dolo
di una parte in danno all’altra (ART 395). Si deve trattare di un comportamenti illecito
deliberatamente fraudolento;
- falsità della prova. Si dà questo motivo di revocazione quando la sentenza si fonda su
prove false. La scoperta della falsità delle prove può avvenire nei seguenti modi: a) dopo
la pronuncia della sentenza, la parte vincitrice riconosce la falsità delle prove; b) dopo la
pronuncia della sentenza, la falsità delle prove è dichiarata con una sentenza, penale o
vivile, passata in giudicato; c) sia il riconoscimento (sub a), sia la dichiarazione (sub b)
possono essere antecedenti alla pronuncia della sentenza, ma alla condizione che la
scoperta di ciò sia svenuta, incolpevolmente, solo dopo la sentenza;
- decisività di documenti. Si dà questo motivo di revocazione quando, dopo la pronuncia
della sentenza, sono ritrovati documenti decisivi che la parte non ha potuto produrre in
giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario;
- dolo del giudice. Si dà questo motivo di revocazione quando la sentenza è l’effetto del
dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato.
4. I provvedimenti revocabili
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Veniamo ora ai provvedimento revocabili. Attraverso la revocazione sono anzitutto
impugnabili le sentenza pronunciate in grado di appello e le sentenza pronunciate in
unico grado.
La revocazione ordinaria sarà esperibile purché tali sentenze non siano definitive. Ciò
vuol dire che non deve essere decorso il termine di 30 giorni dall’eventuale notificazione
della sentenza, ovvero il termine lungo di cui all’ART 327 c.1. Non sono invece mai
revocabili per notavi del n.4-5 ART 395 le sentenza di primo grado per le quali è pendente
il termine per proporre appello. Infatti in quest’ultimo caso, i motivi che
giustificherebbero la revocazione ordinaria si convertono necessariamente in motivi di
appello, con la conseguenza che, scaduti i relativi termini, essi non saranno più invocabili.
Le sentenze pronunciate in grado di appello e le sentenze pronunciate in unico grado
sono impugnabili anche se passate in giudicato per i motivi di revocazione straordinaria.
In via straordinaria sono parimenti revocabili le sentenze di primo grado ma solo se non
più soggette ad appello per scadenza dei relativi termini. I motivi dei n. 1-2-3-6 ART 395
superano quindi la barriera del giudicato, ma devono pur sempre essere fatti valere con
l’appello quando vengono alla luce in pendenza del termine per proporre questo gravame.
Come si può notare, l’ordinamento vede nella revocazione un rimedio residuale,
utilizzabile quando non è utilizzabile il rimedio generale: nell’alternativa tra revocazione
ed appello, va infatti sempre preferito l’appello: tutti i motivi di revocazione sono anche
potenziali motivi di appello, e finché il mezzo generale è esperibile esso assorbe il rimedio
particolare.
Anche le decisioni della C. sono soggette a revocazione, ma con le seguenti precisazioni:
- tutte le sentenze della C. sono soggette alla revocazione per il motivo di cui all’ART 395
n.4. Resta quindi escluso l’altro motivo di revocazione ordinaria di cui al n.5 ART 395;
- le sentenze di merito della C. sono soggette ai motivi di revocazione straordinaria.
Oltre alle sentenze, sono inoltre impugnabili per revocazione i seguenti provvedimenti:
- il decreto ingiuntivo non opposto, ma solo per i motivi n. 1-2-5-6 ART 395;
- il lodo arbitrale;
- l’ordinanza di convalida di licenza o sfratto, ma solo per i motivi xi cui ai n. 1-4 ART 395.
L’impugnazione per revocazione è stata estesa a questo provvedimento in virtù di alcuni
interventi della C;
- le ordinanze che la C. pronuncia a seguito dell’adozione della procedura della camera di
consiglio.
5. La revocazione del PM
Oltre ai motivi di revocazione concessi alle parti secondo la disciplina esaminata, la legge
conferisce un potere speciale di impugnazione per revocazione ad un organo pubblico. Ai
sensi dell’ART 397 il PM, nelle cause in cui il suo intervento è obbligatorio ex ART 70, può
agire per la revocazione di tutte le sentenze proveniente dai giudici di merito, passate o
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no che siano in giudicato. Si tratta di un potere di impugnazione contra partes per due
ordini di motivi:
- violazione del contraddittorio, se la sentenza è stata pronunciata senza che il PM sia
stato sentito (ART 397);
- collusione fraudolenta, se la sentenza è l’effetto di una collusione tra le parti per frodare
la legge.
Il termine per proporre la revocazione è di 30 giorni e decorre “dal giorno in cui … il PM
ha avuto conoscenza della sentenza”.
6. Il procedimento
La revocazione si propone con citazione davanti allo stesso giudice che ha pronunciato la
sentenza impugnata (ART 398). A pena di inammissibilità, la citazione deve indicare non
solo il motivo di revocazione, ma anche le prove relative “alla dimostrazione dei fatti di
cui ai numero 1-2-3-6 ART 395, del giorno della scoperta o dell’accertamento del dolo o
della falsità, o del recupero dei documenti”.
Se rivolta contro sentenze di appello non passate in giudicato, la revocazione finisce per
concorrere con il ricorso per C., per l’intrinseca alternatività tra i suoi motivi e i motivi di
cassazione. Per l’ART 398 u.c. la proposizione della revocazione non solo “non sospende il
termine per proporre il ricorso per C”, ma neppure ne sospende il relativo procedimento.
Tuttavia, il giudice davanti a cui è pendente il giudizio di revocazione può, su istanza di
parte, sospendere il termine o il procedimento di C fino alla comunicazione della sentenza
che ha pronunciato la revocazione. E’ questo un caso di sospensione dei termini non
automatico, ma discrezionale: il giudice della revocazione deve infatti valutare che la
revocazione proposta non sia manifestamente infondata.
Davanti al giudice investito della revocazione “si osservano le norme stabilite per il
procedimento davanti a lui” (ART 400); in camera di consiglio il giudice può autorizzare
la sospensione dell’esecuzione della sentenza (ART 401). L’accoglimento
dell’impugnazione obbliga il giudice a revocare anzitutto la sentenza, attraverso un
giudizio di tipo rescindente a cui segue, senza soluzione di continuità, la decisione del
merito della causa se non è+ necessario disporre nuovi mezzi istruttori. Se invece
un’istruzione probatoria è ritenuta necessaria, il giudice “pronuncia, con sentenza, la
revocazione della sentenza impugnata e rimette con ordinanza le parti davanti
all’istruttore” 8ART 402).
Quanto infine all’impugnazione della sentenza pronunciata nel giudizio di revocazione,
l’ART 403 ammette “i mezzi di impugnazione ai quali era originariamente soggetta la
sentenza impugnata per revocazione”. E’ invece tassativamente negata la proponibilità di
un altor giudizio di revocazione contro la sentenza pronunciata nel giudizio di
revocazione.
CAPITOLO 45. LE OPPOSIZIONI DEL TERZO
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1. Introduzione
Le impugnazioni sono prerogativa delle parti del giudizio: quando parliamo del
“soccombente” ci riferiamo alla parte a cui il provvedimento del giudice non ha accordato
la tutela domandata; e così, per es. quando parliamo di “appellato”, ci riferiamo ad una
parte contemplata dalla sentenza di primo grado e nei cui confronti viene proposto
l’appello.
Eccezionalmente però i terzi possono impugnare, con lo specifico mezzo della
“opposizione di terzo”, una sentenza resa tra altri soggetti, una sentenza, quindi, che non
si rivolge a loro. Questo accasa nei casi previsti dall’ART 404.
2. L’opposizione ordinaria
Secondo il c.1 ART 404, un terzo può “fare opposizione contro la sentenza passata in
giudicato o comunque esecutiva pronunciata tra altre persone quando pregiudica i suoi
diritti”. Questa opposizione è chiamata “opposizione di terzo ordinaria”.
Come è possibile che una sentenza può pregiudicare un terzo, visto che la sentenza si
limita a far stato tra le parti, senza riguardare il terzo?
La risposta è che talora è proprio il “fare stato tra le parti” che può collidere con i diritti
del terzi, sicché la legge consente a quest’ultimo di opporsi alla sentenza invocando un
proprio diritto assertivamente incompatibile con il rapporto accertato tra le parti.
Facciamo un semplice esempio: il sig. Rossi conviene la signora Bianchi per
l’accertamento della proprietà del fondo Vignaclara posseduto da quest’ultima e per la
condanna alla restituzione. La domanda viene accolta con condanna di Bianchi che deve
quindi rilasciare il fondo a Rossi. Il sig. Neri, terzo rispetto al processo ed alla sentenza,
ritiene però che Bianchi dovrebbe restituire a lui il fondo Vignaclara, sul presupposto di
essere egli titolare di un diritto reale da cui deriva il suo diritto alla restituzione del bene
da parte del possessore. E’ vero che la sentenza non incide direttamente su questo suo
diritto poiché produce i suoi effetti solo tra Rossi e Bianchi, ma, dovendo quest’ultima
rilasciare il fondo a Rossi, Neri subisce una sostanziale retrocessione del proprio diritto
rispetto a quello riconosciuto in sentenza a Rossi: ce n’è abbastanza perché l’ordinamento
gli consenta di reagire. Ma reagire come, e contro cosa? Contro l’atto (sentenza di
accoglimento) che ha conferito al titolo di Rossi la prevalenza di fatto sul proprio titolo
(usucapione): per ottenere qualcosa che gli consenta di prevalere sull’ordine di restituire
a Rossi. In tal senso egli può impugnare la sentenza resa tra Rossi e Bianchi per
dimostrare che l’usucapione del bene, autonomamente intervenuta a suo favore, prevale
legittimamente sul diritto di Rossi accertato in sentenza.
L’impugnazione sarà appunto un’opposizione di terzo a quella sentenza “pronunciata tra
altre persone” perché nella realeà essa interferisce con un proprio diritto,
pregiudicandolo. Come lo pregiudica? Pur non decidendo nulla del suo diritto su quel
bene, la sentenza di fatto lo pospone alla realizzazione di un diritto altrui: Bianchi può
restituire il fondo ad un solo soggetto e questo è individuato in Rossi da un titolo
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giudiziale (la sentenza). Per ottenere legalmente la prestazione di Bianchi, Neri deve
preventivamente eliminare il tutolo di Rossi, cioè deve fare opposizione alla sentenza e
convincere il giudice che il proprio diritto reale sul fondo deve prevalere su quello di
Rossi.
E’ anche vero che Neri potrebbe aspettare che avvenga la restituzione a Rossi e poi agire
contro questi, ma l’ordinamento ritiene equo dargli la possibilità prevenire questo esito.
In fondo, abbiamo già visto che egli avrebbe potuto intervenire, a norma dell’ART 105, nel
processo tra Rossi e Bianchi per far valere nei confronti di ambedue la propria
intervenuta usucapione: in quel caso la sentenza avrebbe dovuto valutare
comparativamente la reciproche posizioni di tutti i soggetti. A ben guardare, quindi,
l’opposizione di terzo qui espleta la stessa funzione dell’intervento principale ad
excludendum, solo che invece di farlo preventivamente, lo fa successivamente.
Nell’esempio visto, il terzo fa valere dunque una propria affermata situazione consistente
in un diritto autonomo e prevalente nei confronti delle parti della sentenza. Egli non era
parte necessaria del processo: poteva intervenire, ma non lo ha fatto, , poiché egli non è
soggetto al giudicato (res inter alios), potrebbe ancora agire autonomamente in
accertamenti nei confronti del vincitore, ma la legge gli concede di impugnare la sentenza
con l’opposizione dell’ART 404 c.1.
Oltre a questa categoria di terzi, la legittimazione all’opposizione alla sentenza inter alios
viene riconosciuta a quei terzi che, pur dovendosi considerare contraddittori necessari
nel relativo processo, non vi parteciparono. Si tratta, come si può comprendere, di ipotesi
di litisconsorzio necessario incompleto e non sanato dall’integrazione del contraddittorio
dell’ART 102.
E’ questa l’opposizione del litisconsorzi pretermesso.
Si è detto a suo tempo che la sentenza che non pronunci nei confronti di tutti i
litisconsorti necessari è irrimediabilmente viziata, e questo significa che il litisconsorzi
necessario pretermesso potrà in ogni tempo far valere i propri diritti senza essere
vincolato dalla sentenza. Egli potrà però impugnare in via di opposizione di terzo tale
sentenza, ed in tal modo rientrare nel processo a cui avrebbe dovuto necessariamente
partecipare.
La legittimazione all’opposizione di terzo ordinaria del c.1 ART 404 è quindi riconosciuta
tanto:
a) al titolare dei diritti incompatibili e prevalenti rispetto al diritto oggetto del processo e
della sentenza, quanto
b) al terzo che doveva partecipare al processo a pena di invalidità della sentenza.
Nel caso sub a) l’opposizione alla sentenza non è un attacco al processo, in quanto il
processo si è svolto ritualmente in assenza del terzo, il quale dovrà provare la prevalenza
sostanziale del proprio diritto rispetto al diritto attribuito al vincitore.
Nel caso sub b) l’opposizione alla sentenza esprime, in realtà, la contestazione del vizio di
un procedimento che, in quanto privo di un contraddittore necessario, non poteva
sfociare nella sentenza di merito.
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Al terzo opponente basterà provare questo fatto per ottenere l’annullamento della
sentenza; una volta riuscitovi dovrà seguire daccapo uno svolgimento processuale di cui
egli sia parte, in modo che la sentenzi pronunci infine anche nei suoi confronti.
3. L’opposizione di terzo revocatoria
Una seconda categoria di opposizione di terzo, l’opposizione detta “revocatoria”, è
prevista dal c.2 art 404.
Le differenze con l’opposizione ordinaria risultano abbastanza evidenti alla lettura del c.2
nel quale non si parla genericamente di un terzo leso in un propri diritto, ma di due
categorie di soggetti legittimati ad opporsi: “creditori” ed “aventi causa”. Inoltre si
richiede che la sentenza opposta sia frutto di dolo o collusione ai danni dell’opponente.
Questa opposizione è detta “revocatoria” per la sua simmetria funzionale con l’azione
revocatoria dell’art 2091 cc. Si tratta infatti di un mezzo per contrastare una sentenza
preordinata a provocare danno ingiusto ad un soggetto estraneo al processo.
Il danno che possono subire i creditori consiste tipicamente nella perdita della garanzia
patrimoniale (ART 2720 cc.): come il trasferimento per contrasto a Caio della proprietà
del bene di Tizio che ne garantisce il debito nei confronti di Sempronio può costituire
frode, così l’accertamento giudiziale che Caio è divenuto proprietario del bene che
garantiva il debito di Tizio nei confronti di Sempronio, si presta ad essere opposto da
questi sotto il profilo del dolo o della collusione a suo danno.
In pratica l’ordinamento assimila la sentenza “pilotata” delle parti al contratto in frode ai
creditori: il mezzo è diverso ma la tipologia di danno è la stessa del c.d. eventus damni,
requisito dell’azione revocatoria ex ART 2091 cc.
Il danno che l’avente causa di una delle parti del processo può subire, consiste a sua volta
nella c.d. efficacia riflessa che la sentenza talora manifesta nei suoi confronti. Sappiamo
già che certi rapporti dipendenti dal rapporto oggetto del processo svoltosi inter alios,
pur essendo tecnicamente terzi possono in qualche modo subire effetti della sentenza. In
tali casi i diritti o gli obblighi del terzo restano conformati dalla pronuncia sul rapporto
pregiudiziale, sicché essi finiscono col risentire negativamente della pronuncia
sfavorevole al loro dante causa.
Si pensi al caso del sub-conduttore Tizio, di fronte alla sentenza che risolve il contratto di
locazione principale tra il conduttore Caio e il locatore Sempronio: il sub-conduttore è il
tipico avente causa, il cui rapporto risente sfavorevolmente della sentenza resta tra il
conduttore e il locatore perché la risoluzione del rapporto a monte comporta l’automatica
risoluzione del rapporto a valle (ART 1595 cc.). Di fronte allora alla risoluzione del
rapporto a locazione prodotta dal dolo di una delle parti, ovvero dal dolo di ambedue le
parti, la legge riconosce al sub-conduttore l’opposizione di terzo revocatoria.
In caso di accoglimento dell’opposizione, la dottrina ha discusso a lungo se la sentenza
venga integralmente meno o venga semplicemente neutralizzata nei confronti del terzo
che non travolga il giudicato tra le parti. La giurisprudenza ha peraltro decisamente
imboccato la via dell’annullamento pieno, ed erga omnes, della sentenza tanto
nell’opposizione ordinaria che nell’opposizione revocatoria.
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Naturalmente l’accoglimento dell’opposizione non rimuoverà gli eventuali capi della
sentenza che non tocchino la situazione del terzo.
4. Tipi di provvedimenti opponibili
Sentenza impugnabile con l’opposizione di terzo è non solo quella passata in giudicato,
ma anche la sentenza “comunque esecutiva” (ART 404 c.1). All’epoca di scrittura della
norma, esecutive erano normalmente le sentenze d’appello: oggi che l’ART 282 conferisce
normale esecutività anche alle sentenze di primo grado, occorre chiedersi se possa
proporsi opposizione anche contro tali sentenze. La lettera della legge sembra orientare
per la soluzione positiva, ma non bisogna dimenticare che, una volta appellata la
sentenza, e finché l’appello pende, è sempre possibile che il terzo esplichi intervento nel
relativo procedimento, si sensi dell’ART 344. L’ART 344 era stato originariamente
concepito sul presupposto della normale esperibilità dell’opposizione contro la sentenza
d’appello, sicché prima di tale sentenza il terzo avrebbe potuto far valere i suoi diritti solo
con l’intervento nel procedimento; oggi chi ammette l’opposizione alla sentenza di primo
grado, si trova alle prese con il serio problema del coordinamento tra opposizione e
intervento in appello. L’unica soluzione ragionevole sembra allora quella di ritenere che,
in pendenza di appello, il terzo debba usare il mezzo dell’intervento.
L’opposizione del terzo è stata ammessa dalla giurisprudenza costituzionali anche nei
confronti di provvedimenti diversi dalla sentenza, ma assimilabili a questa per gli effetti:
così per l’ordinanza di convalida di sfratto per finita locazione e per l’ordinanza di
convalida di sfratto per morosità; così per il decreto ingiuntivo esecutivo.
Si può pertanto affermare la regola che l’opposizione deve considerarsi esperibile contro i
provvedimenti avventi contenuto decisorio, a prescindere dalla loro forma.
Ai sensi dell’ART 391-ter, ambedue i tipi di opposizione sono esperibili contro le decisioni
della C. che, a seguito di cassazione senza rinvio, abbiano pronunciato nel merito.
Resta quindi esclusa l’esperibilità delle opposizioni di terzo contro tutte le altre categorie
di decisione della C.
5. Il procedimento
L’opposizione va proposta davanti allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza, e
secondo le forme prescritte per il procedimento proprio di tale organo (ART 405 c.1).
Davanti al giudice adito si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti a lui
(ART 406).
La citazione deve contenere, oltre ai suoi elementi propri), anche l’indicazione della
sentenza impugnata. Nel caso di opposizione revocatoria deve altresì contenere
l’indicazione del giorno in cui il terzo è venuto a conoscenza del dolo o della collusione, e
della relativa prova. Si ricordi, infatti, che l’ART 325 prescrive il termine perentorio di 30
giorni per proporre opposizione revocatoria, e che tale termine “decorre dal giorno in cui
è stato scoperto il dolo o la collusione” (ART 326 c.1).
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L’ART 407 consente al giudice dell’opposizione il potere di pronunciare, su istanza di
parte contenuta nell’atto introduttivo dell’opposizione e nella forma della camera di
consiglio, ordinanza di sospensione dell’esecuzione della sentenza. Il richiamo all’ART
373 impone al giudice di subordinare la sospensione al riconoscimento di un danno
“grave e irreparabile”.
La sentenza che decide sull’opposizione è impugnabile con gli stessi mezzi con cui era
impugnabile la sentenza opposta. Se la sentenza opposta era di primo grado, rimedio
contro la sentenza che pronuncia sull’opposizione è l’appello. Viceversa, se si trattava di
sentenza d’appello, la sentenza resa in opposizione sarà impugnabile solo con ricorso per
C.
CAPITOLO 46. LA TUTELA CAUTELARE
1. La tutela cautelare
Di fronte all’urgenza del provvedere che talora si manifesta, e sul presupposto che una
tutela immediata in via ordinaria è praticamente impossibile, l’ordinamento processuale
appronta i mezzi per ottenere in tempi brevi misure di anticipazione o di garanzia della
tutela finale. Appronta cioè una tutela che viene definita “cautelare” perché essa, in via
rapida, soddisfa provvisoriamente l’interesse fatto valere o ne garantisce le possibilità di
futura tutela evitando che la macchina della giustizia possa girare a vuoto. Lo scopo è
appunto quello di evitare che l’avente diritto, quando finalmente ottenga la sentenza che
gli dà ragione, non sappia più che farsene perché nel frattempo si è consumata una
definitiva lesione del suo interesse alla tutela, ovvero non riesca più a trovare
soddisfazione perché nel frattempo è venuta meno l’utilità perseguita.
(La tutela cautelare non va confusa con l’anticipazione di tutela propria della
ordinanze che, nel corso del processo ordinario di cognizione, possono essere
concesse in caso di mancata contestazione di una somma di denaro (ART 168-bis),
in caso di prova scritta (tre), o all’esito dell’istruzione probatoria (quater). Queste
ordinanze sono meri espedienti tecnici di anticipazione della decisione su diritti
controversi e non hanno natura cautelare).
I provvedimento cautelari sono, almeno normalmente, legati da un nesso di strumentalità
con l’oggetto dell’ordinaria tutela giurisdizionale, servendo ad anticiparne, in modo
tendenzialmente provvisorio, il contenuto, o ad assicurare il successo pratico dei
provvedimenti che verranno (se e quando verranno). E la non definitività è legata al fatto
che essi sono concessi non sulla base di un giudizio di certezza (volta appunto
all’accertamento del diritto), ma sulla base di giudizi di ragionevole probabilità della
ragione dell’istante. In altri termini, se il tempo stringe e occorre fare qualcosa per evitare
che la situazione peggiori o precipiti, è necessario che il giudice decida velocemente, allo
stato degli atti e sulla base della verosimiglianza. I provvedimenti cautelari forniscono il
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rimedio agli ostacoli derivanti dalla durata dei processo e così garantiscono l’efficacia
della tutela giurisdizionale.
I provvedimenti cautelari sono concessi a seguito di procedimenti agili ed idonei a
sfociare in tempi brevi in provvedimenti che hanno la caratteristica o di anticipare il
contenuto della pronuncia di merito, o di garantire la conservazione della situazione di
fatto o di diritto, su cui opererà la sentenza di accoglimento, per evitare che la ragione
ottenuta si riveli infruttuosa.
Il provvedimenti cautelare, definito spesso “misura cautelare”, può quindi consistere:
a) nell’anticipazione del contenuto o degli effetti della sentenza di merito. Normalmente
anticipatori è il provvedimento c.d. d’urgenza concesso ai sensi dell’ART 700;
b) nella produzione di un esito funzionale alla realizzazione degli effetti della futura
sentenza di accoglimento e distinto da questi. L’esempio più significativo è quello del
creditore che, in attesa della sentenza di condanna, è esposto al rischio che nel frattempo
il debitore comprometta la garanzia patrimoniale del credito: qui, più che una
anticipazione della condanna, serve un provvedimento idoneo a neutralizzare il potere
del debitore di disporre del proprio patrimonio in danno del creditore.
Da un lato quindi abbiamo un primo genus di provvedimento cautelari che anticipano gli
effetti della sentenza, e da un altro un secondo genus di provvedimenti cautelari che
operano assicurando che la futura ed eventuale sentenza di accoglimenti non si riveli
inutile al tempo della sua pronuncia. Si parla, in questo secondo caso di provvedimenti a
funzione assicurativo-conservativa. Ne sono figure tipiche i sequestri. La distinzione tra a)
e b) è importante in quanto, mentre in b) l’efficacia della misura cautelare è strettamente
legata alle vicende del processo di merito, nel caso di provvedimento anticipatori, il nesso
di strumentalità con la tutela di merito è fortemente attenuato dalla circostanza che la
misura cautelare non decade se adesca non fa seguito il giudizio di merito: ARTT 669octies.
2. Fumus boni juris e periculum in mora
I presupposti per la concessione del provvedimento sono il c.d. fumus boni juris e il c.d.
periculum in mora.
Con il humus…. si designa la probabilità dell’esistenza del diritto del quale si chiede
tutela; l’esistenza del diritto, alla cui tutela è intesa l’istanza cautelare, viene infatti
valutata con un giudizio di verosimiglianza attraverso la cognizione sommaria delle
ragioni del ricorrente. Sulla base di un’istruttoria velocizzata e demoralizzata, il giudice
esegue una prognosi di ragionevole fondatezza della domanda, senza pregiudizio di
eventuali, più ponderati accertamenti futuri.
L’altro elemento, il perciulum in mora, è il rischio conseguente al ritardo della tutela. Il
giudice deve poter considerare che la mancata concessione del provvedimento cautelare
comporta una ragionevole probabilità di danno. Quindi, il giudice è chiamato a porre a
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presupposto dell’accoglimenti la possibilità concreta del sopravvenire di fatti lesivi del
diritto controverso.
Conviene ora procedere ad una panoramica dei principali provvedimenti cautelari, e per
quale tipo di tutela essi sono contemplati.
Previsioni di provvedimenti cautelari sono sparse in tutto l’ordinamento. Il c.p.c.
contempla alcuni modelli classici di provvedimento cautelare, ma altre misure
arricchiscono il codice civile, e molte sono le leggi speciali che a loro volta prevedono
cautele giudiziarie.
Il primo tipo è rappresentato dal sequestro.
3. Il sequestro giudiziario
Due sono le categorie fondamentali di sequestro: il sequestro giudiziario e il sequestro
conservativo, figure distinte per funzione per modus procedendo.
Partiamo dal sequestro giudiziario che è a sua volta da distinguere in due sottotipi.
Secondo l’ART 670 : “il giudice può autorizzare il sequestro giudiziario”:
1) Di beni mobili o immobili o aziende o altre universalità di beni, quando ne è
controversa la proprietà o il possesso, ed è opportuno provvedere alla loro custodia o alla
loro gestione temporanea;
2) Di libri, registri, documenti, modelli, campioni e di ogni altra cosa da cui si pretende
desumere elementi di prova, quando è controverso il diritto all’esibizione o alla
comunicazione, ed è opportuno provvedere alla loro custodia temporanea”.
I primi due numeri ART 670, dimostrano che vi sono due diverse forme di sequestro
giudiziario: l’una ha a oggetto cose da custodire temporaneamente perché una lite insiste
su diritti relativi ad esse, l’altra riguarda cosa la cui utilità risiede e si esaurisce nel loro
valore probatorio.
La prima configura una misura cautelare che serve ad evitare che si possa alienare,
trasferire, danneggiare o distruggere il bene, un bene su cui si potrà esercitare il diritto
riconosciuto ad una delle parti in causa.
La seconda serve a fare sì che possano essere utilizzate come prove nel processo cose che
normalmente consistono in libri, registri, documenti, modelli.
La figura contemplata dal n.2 ART 670 garantisce in via cautelare il “diritto della prova”.
Talvolta è controverso il diritto all’esibizione, alla comunicazione di beni e cose che
possono essere utilizzate come mezzi di prova ed è opportuno che si crei un vincolo su
queste cose affinché non spariscano o vengano rese inservibili. Tutto in funzione del
possibile giudizio che il giudice potrà trarre dall’esame di queste cose e, quindi, del diritto
della parte alla prova.
L’altro sottotipo di sequestro giudiziario è legato alla controversia sulla proprietà o sul
possesso di cose determinate e viene concesso quando è opportuno provvedere alla
custodia o alla gestione temporanea di “beni mobili, immobili, aziende e altre univer. di
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beni”. L’esigenza sottostante al sequestro è quella alla conservazione o alla corretta
gestione del bene.
Il primo presupposto del sequestro è che si disputi su diritti inesistenti su uno specifico
bene: la disputa può afferire tanto al profilo della proprietà, quanto alla più generica
spettanza del bene o del diritto. L’opportunità del sequestro giudiziario può dunque
aversi anche in caso di disputa sulla titolarità di diritti obbligatori alla consegna o al
rilascio di una cosa. Si pensi alla questione se a taluno spetti o non spetti il rilascio di un
immobile per averlo preso in locazione: il locatario, per esempio, può essere costretto a
domandare il sequestro dell'immobile di fronte ad altri soggetti che mirano ad esercitare i
propri titoli di godimento dello stesso immobile.
In realtà, il termine proprietà va meglio inteso quale appartenenza; e una controversia
sull'appartenenza posso urgente per un credito, quando vi sia contesa sulla titolarità di
esso. Così, controvertendosi sull'opponibilità della cessione di canoni a terzo acquirente
di un immobile, appare ragionevole consentire il sequestro dei canoni stessi. Così, ancora,
si ammette correntemente il sequestro delle azioni sociali: per esempio, al fine di
impedire al possessore materiali di azioni che si affermano comuni, il diritto esclusivo di
voto.
La lite può, però, perché anche sul mero possesso: di sequestro giudiziario può esserci
bisogno se si discute A chi spetti il possesso materiale di un determinato bene.
Naturalmente la controversia sul possesso non deve emergere nel quadro delle azioni
possessori di cui agli articoli 1168 seguenti; Non deve sue integrare una autentica
controversia possessoria, Perché tale tipo di controversia assume necessariamente la
forma della tutela possessoria, che comporta i caratteristici provvedimenti cautelari
scaturenti dall'esercizio delle azioni possessori. Si deve trattare piuttosto della necessità
di mettere sotto custodia una cosa che taluno possiede senza titolo e che non restituisce
pur senza contestare il titolo giuridico di richiedente.
In tutti i casi visti può essere opportuno che i beni sia sottratto, in via provvisoria
preventiva, alla disponibilità materiale della parte, e che esso sia messo sotto custodia. In
questo modo si evita anche il possessore, trasferendo il possesso di un terzo, ponga in
essere una fattispecie di acquisto a titolo originario da parte di quest'ultimo, In tal modo
vanificando la stessa disciplina del inopponibilità della successione del diritto
controverso.
Nel disporre il sequestro giudiziario, il giudice nomina il custode e, aggiunge l’ART 676,
“stabilisce i criteri e i limiti dell’amministrazione delle cose sequestrate”. Nella pratica
succede talora che venga investito dalla custodia dello stesso possessore del bene: invero
il giudice “può nominare custode quello dei contendenti che offre maggiori garanzie e dà
cauzione” (ART 676 c.2). Naturalmente in tal caso cambia il titolo del possesso,
passandosi dal possesso in proprio nome ad una forma di detenzione alieno iure, una
sorta di munus pubblico che viene conferito al precedente possessore. Vine conservato il
rapporto diretto con il bene ma con un vincolo giuridico che obbliga il possessore
rispettare la materialità del bene, a non alienarlo, e a non disporre.
Il sequestro giudiziario si esegue nelle forme dell’esecuzione per consegna o per il
rilascio.
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4. Il sequestro conservativo
Pur essendo in buona parte regolato dal codice di rito, il sequestro conservativo trova il
suo fondamento in una norma del c.c.: ART 2905. Il sequestro conservativo ci porta nel
campo dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale, cui appartengono l’azione
surrogatorie quella revocatoria.
Secondo l’ART 2095: “ Il creditore può chiedere il sequestro conservativo dei beni del
debitore, secondo le regole stabilite nel codice di proced. civile”: A sua volta l’ART 2096
fissa gli effetti del sequestro.
Dobbiamo quindi considerare congiuntamente la previsione generale dell’ART 2095 c.c.,
l’ART 671 che dice quali i sono i presupposti del sequestro conservativo e l’ART 2096 che
ne identifica gli effetti.
Il sequestro conservativo può essere concesso quando il creditore ha “fondato timore di
perdere la garanzia del proprio credito”. In questo caso il giudice “può autorizzare il
sequestro conservativo di beni mobili o immobili del debitore o delle somme e cose a lui
dovute, nei limiti in cui la legge ne permette il pignoramento”. (ART 671). E qui possiamo
osservare una nette differenza con il sequestro giudiziario per poter chiedere il quale
occorre aver già identificato le cose da sequestrare. Potenziale oggetto di sequestro
conservativo è invece qualunque cespite patrimoniale: la richiesta di sequestro
conservativo non è infatti richiesta di sequestrare beni previamente specificati piuttosto
che altro, ma richiesta dell’autorizzazione a vincolare il patrimonio del debitore fino a
concorrenza della somma da esso garantita.
Il sequestro conservativo è dunque un mezzo per garantire indirettamente l’obbligazione
pecuniaria attraverso il blocco dei beni del debitore.
L’effetto del sequestro è indicato nell’ART 2096 c.c.: non hanno effetto in pregiudizio del
creditore sequestrante le alienazioni e gli altri atti che hanno per oggetto la cosa
sequestrata “in conformità delle regole che hanno per oggetto il pignoramento”. Il
sequestro opera dunque rendendo inefficaci per il sequestrante gli atti di disposizione del
bene e, conseguentemente, a lui inopponibili i relativi acquisti di terzi. Gli atti di
disposizione del bene sequestrato eventualmente compiuti non sono affetti da nullità, ma
sono inefficaci, cioè inopponibili al creditore. Il sequestro, quindi, crea un vincolo che si
identifica con l’inopponibilità dell’atto di disposizione al creditore.
Così funzionando, il equestri anticipa il pignoramenti al punto che l’ART 676 prevede che
il vincolo del sequestro conservativo si converta nel vincolo del pignoramento al
momento della pronuncia della sentenza di accoglimento esecutiva. Si può quindi dire che
il sequestro conservativo costituisce un vincolo transitorio in funzione del futuro
pignoramento così giungendo da anticipazione degli effetti di questo. Il sequestro
conservativo garantisce quindi gli effetti della futura ed eventuale sentenza di condanna
esecutiva, sicché, nel momento in quo queste viene pronunciata, esso non ha più ragione
di essere, onde la legge ne prevede l’automatica trasformazione in pignoramento. Il tutto
senza soluzione di continuità: gli effetti di inopponibilità degli atti di disposizione prodotti
dal sequestro perdurano, ma da quel momento andranno considerati alla stregua di effetti
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del pignoramento, essendosi prodotta una conversione automatica del sequestro in
quest’ultimo.
Oltre ai sequestri conservativo e giudiziario, nel codice (ART 687) è regolato anche il c.d.
“sequestro liberatorio”, figura connessa alla mora credendi ed alla previsione dell’offerta
della prestazione ex ART 1208 cc. Possono essere assoggettate a sequestro le somme o le
cose oggetto dell’obligazione che il debitore abbia offerto al creditore, allorché siano
controversi l’obbligo o le modalità del pagamento, o l’idoneità della cosa offerta.
5. I provvedimento d’urgenza
I provvedimenti di urgenza sono previsti dall’ART 700 che recita: “Fuori dai casi regolati
nelle precedenti sezioni di questo capo, chi ha fondato motivo di temere che durante il
tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un
pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti
di urgenza che appaiono, secondo le circostanze, più idonei a assicurare provvisoriamente
gli effetti della decisione sul merito”. Si tratta di un istituto che risponde al bisogno
dell’adeguata e puntuale soddisfazione della specifica esigenza cautelare fatta valere; esso
consente al giudice di individuare caso per caso il provvedimento più adatto, senza
limitarne la scelta a provvedimenti che, in quanto predeterminati nel contenuto,
potrebbero non essere adeguati alle circostanze. Sotto questo profilo, dunque, l’ART 700 è
una sorta di valvola dell’ordinamento.
Condizione della pronuncia in via d’urgenza è che l’esigenza cautelare concretamente
fatta valere non trovi già tutela in un istituto previsto dalla legge. SI suole caratterizzare
cioè come “residualità” o “sussidiarietà” della tutela d’urgenza, concessa solo in assenza di
rimedi cautelari tipici. Il giudice dovrà pertanto verificare se l’ordinamento non offra un
tipo di rimedio che soddisfi in via fisiologica l’interesse alla cautela: la risposta positiva
impone di esperire tale rimedio; se invece, la tutela imposta dalle circostanze non appare
garantita da un rimedio già contemplato dall’ordinamento, opererà la tutela di urgenza in
via sussidiaria e residuale.
(Un esempio: Se occorre bloccare la disponibilità di un cespite patrimoniale posto a
garanzia di un diritto di credito, occorre ricorrere ad un sequestro conservativo:
non sarebbe ammissibile domandare un provvedimento innominato d’urgenza ex
art 700, in quanto in tal caso la legge offre la modalità cautelare del sequestro).
Non basta però la presenza in astratto del rimedio cautelare tipico per escludere
l’operatività dell’ART 700. Ordinariamente i diritti di credito di somme di denaro sono
cautelarmente tutelati dal sequestro conservativo, ma quid juris se, in un normale
rapporti di credito, l’esigenza cautelare del creditore non coincide con la conservazione
della garanzia patrimoniale? Il periculum in mora può infatti riguardare un’esigenza
diversa rispetto al depauperamento del debitore che provoca, per il creditore, il rischio di
una mancata soddisfazione delle proprie pretese. Il fine del creditore potrebbe non essere
la precostituzione di una futura esecuzione fruttosi, ma piuttosto il conseguimento
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immediato di una fonte finanziaria; in tal caso la tutela normale del diritto di credito non
riveste specifica utilità: al creditore occorre un’anticipazione cautelare della condanna,
cioè un ordine celere di pagamento di somma di denaro che gli permetta di soddisfare le
proprie esigenze alimentari. A tale scopo soccorre l’ordine immediato di pagamento della
somma nella forma del provvedimento di urgenza.
Nella logica della tutela d’urgenza, il giudice caso per cos dovrà oltre che valutare le
ragioni di inopportunità del provvedimento, procedere anche a forgiare il contenuto del
provvedimenti d’urgenza, contenuto che non è predeterminato dalla legge. Spetterà al
giudice riconnettere al provvedimenti gli effetti più specificatamente idonei a tutelare
l’esigenza cautelare concretamente fatta valere. Normalmente si tratterà
dell’anticipazione del futuro e probabile contenuto della sentenza di merito, ma non è
raro il caso di tutele d’urgenza che si risolvono in provvedimenti a valenza conservativoassicurativa.
Il ricorso al provvedimento d’urgenza è diffuso in tutti gli ambiti: dalla protezione del
diritto al nome alla protezione del diritto dell’immagine, nel campo dei diritti di vicinato e
delle immissioni, ecc. La fantasia degli avvocati si è esercitata a tutto campo tanto che oggi
la maggior parte della casistica in materia cautelare è occupata dai provvedimenti
d’urgenza.
Nella giurisprudenza meno recente prevaleva la tendenza leggere in senso molto stretto
la prescrizione dell’irreparabilità del pregiudizio contenuta nell’ART 700. L’irreparabilità
del pregiudizio limitata molto la concessione del provvedimento ex ART 700, poiché il più
delle volte l’assolutezza dell’irreparabilità poteva essere posta in dubbio. Con il passare
del tempo e il mutare del costume giudiziario, questo concetto è stato relativizzato. Oggi,
se si guarda attentamente alla giurisprudenza, si scopre che, malgrado l’uso dell’aggettivo
“irreparabile”, si fa spesso a meno della dimostrazione rigorosa di una vera e propria
irrimediabilità del pregiudizio, consideratose piuttosto se, nel caso di specie, il
pregiudizio denunciato si presenti effettivamente come grade ed imminente.
Quanto alle modalità del relativo procedimento, il provvedimento di urgenza non
presenta regole particolari, da quanto la L. 353/1990 ha abrogato le originarie norme
procedurali dettate dagli ARTT. 701 e 702, sicché si applicano in generale le regole del
procedimento cautelare uniforme.
6. Altri provvedimenti cautelari nel c.p.c.
Grande interesse rivestono i provvedimenti cautelari accessori alle azioni possessorie
(ART 1168 ss. c.c.) provvedimento emessi nel corso dei procedimenti possessori
(reintegrazione e spoglio). Le azioni nel corso delle quali tali provvedimento sono
pronunciabili non sono, in sé prese, azioni cautelari: le azioni possessorie sono vere e
proprie azioni di merito esperibili a tutela dello jus possessionis, si tratta di azioni di
merito: pur non tutelando un diritto reale in senso stretto, esse garantiscono sempre una
posizione giuridicamente protetta, quale il possesso. All’interno delle azioni possessorie,
tuttavia, è spesso prioritaria l’esigenza di una tutela cautelare ed urgente. Si veda infatti
l’ART 1168 c.c. u.c., il quale afferma che la reintegrazione deve ordinarsi dal giudice “sulla
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semplice notorietà del fatto e scena dilatazione”. Ossia: un’azione di merito porta con sé
un proprio specifico provvedimento cautelare: si tratta di una misura cautelare a tutti gli
effetti, al punto che, nella disciplina sui procedimenti possessori, si prevede che, una volta
proposta la domanda di reintegrazione e di manutenzione del possesso, il giudice deva
provvedere “ai sensi dell’ARTT 669-bis e ss.” (art 703 c.2): vale a dire che l’autorità
giurisdizionale provvede secondo l’ordinaria disciplina del procedimento cautelare
uniforme”.
Altre forme di cautele regolate dal c.p.c. sono i provvedimenti pronunciabili nel corso di
esercizio delle c.d. azioni di enunciazione (nuova opera e danno temuto). Si tratta di
norme che forniscono tutela cautelare ai diritti del proprietario e del possessore
minacciati da nuove opere o da danno grave e prossimo all’immobile.
Il c.p.c. tratta di un altro gruppo di provvedimento cautelari: i provvedimenti c.d. di
istruzione preventiva (ART 692 ss.).
Questi provvedimenti sono certamente cautelari, ma in un senso speciale perché tutelano
non direttamente il diritto sostanziale oggetto di giudizio, ma il diritto strumentale alla
prova di fatti nel processo. Attraverso essi viene anticipato lo svolgimento di procedure
probatorie che dovrebbero esperirsi in seguito nel corso dell’istruzione probatoria, ed in
tale modo viene garantita l’effettività del diritto alla prova, inteso a sua volta quale
elemento indispensabile per la garanzia del diritto di azione.
La peculiarità di queste cautele ha fatto sì che, di fronte alla disciplina uniforme del
procedimento cautelare intervenuta con la L. 353/1990, esse mantenessero la disciplina
ad hoc dettata dal testo originario del codice: infatti gli ARTT. da 692 a 699 continuano a
regolare la disciplina dell’istruzione preventiva, mentre è significativo che gli ARTT. 701 e
702 che regolavano specificamente la disciplina dei provvedimenti d’urgenza sono stati
abrogati perché sostituiti dalla disciplina generale.
L’ART 692 prescrive che “Chi ha fondato motivo di temere che siano per mancate uno o
più testimoni, le cui deposizioni possono essere necessarie in una causa da proporre, può
chiedere che ne sia ordinata l’audizione a futura memoria”.
Se chiamato a deporre è un malato a rischio vira alla parte interessata alla testimonianza
conviene fare sì che il teste sia sentito prima che un evento irreparabile impedisca
definitivamente o renda manifestamente gravoso il suo ascolto nel futuro giudizio. La
legge concede la possibilità di proporre istanza al giudice affinché sia sentito il teste “a
futura memoria”, cioè allo scopo precipuo i valersi della sua deposizione in un momento
successivo.
Lo stesso vale per gli accertamenti tecnici e per le ispezioni giudiziali (ART 696). Se le
prove vanno ricercate da un’attività istruttoria ad hoc, e appare fondata la
preoccupazione che al momento opportuno non si sia più in tempio per esperirla, si può
chiedere al giudee in via cautelare di assumere senza indugio al mezzo di prova.
L’istanza si propone con ricorso al giudice che sarebbe competente perla causa di merito
(ART 693). In caso di “eccezionale urgenza” i provvedimento possono essere pronunciati
con decreto, ed il ricorrente può essere dispensato dalla notificazione alle altre parti.
E’ degno di nota che l’assunzione preventiva dei mezzi di provano pregiudica la
possibilità di una normale e successiva assunzione di prove nel corso del giudizio di
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merito: stabilisce l’ART 698 c.2 che essa non pregiudica le questioni relative
all’ammissibilità delle prove, “né impedisce la loro rinnovazione nel giudizio di merito”.
Naturalmente l’urgenza che caratterizza l’esigenza di istruzione preventiva può
presentarsi non solo prima sella proposizione della domanda ma anche in seguito: l’ART
699 consente la proposizione della relativa istanza in corso di causa, specificando che non
osta ad essa lo stato di interruzione o di sospensione del giudizio.
CAPITOLO 47. IL PROCEDIMENTO CAUTELARE UNIFORME
1. Il procedimento cautelare uniforme: ambito di applicazione
La riforme del 1990 ha dedicato un notevole impegno alla riscrittura in chiave
universitaria del procedimento cautelare. Fino alla L. 353/1990 la disciplina dei
procedimenti cautelari era frammentaria e incompleta: alcuni istituti erano
sufficientemente regolati, mentre la disciplina di altri era carente, con soluzioni opposte
su problemi fondamentali. A questo stato di cose il legislatore reagì offrendo un modello
procedimentale uniforme, disciplinando una casistica che fino a quel momento era stata
affidata alla buona volontà della giurisprudenza e della dottrina. Per fare ciò si è creato
uno spazio tra l’ART 679 e l’ART 670, che ha dilatato il codice inserendo 13 articoli (da bis
a quaterdeces) che hanno fissato le forme che deve assumere in concreto il procedimento
cautelare, la competenza del giudice, le modalità di introduzione, le possibilità di dolersi
della concessione o della mancata concessione, le sorti successive in relazione al giudizio
di merito, l’esecuzione del provvedimento e l’ambito di applicazione della disciplina.
L’unificazione della materia permette di avere un quadro sistematico chiaro.
L’ultima delle norme, l’ART 669-quaterdecies, descrive l’ambito di applicazione del
procedimento stabilendo che “Le disposizioni della presente sezione si applicano ai
provvedimenti previsti nelle sezioni II, III, e V di questo capo, nonché in quanto
compatibili, agli altri provvedimenti cautelari previsti dal c.c. e dalle leggi speciali. L’ART
669-septies applica altresì ai provvedimenti di istruzione preventiva previsti dalla
sezione IV di questo capo”.
Sono dunque assoggettai alla disciplina del procedimento uniforme i sequestri, i
provvedimenti di urgenza, i provvedimenti di nuova opera e danno temuto, a cui vanno
aggiunte le fasi cautelari del giudizio possessorio.
Mentre però per i provvedimenti contemplati nel c.p.c. l’applicazione è piena e diretta,
problemi sorgono invece per tutti i numerosi provvedimenti cautelari previsti dal c.c. e
dalla legislazione complementare poiché gli articoli in questione si applicano “in quanto
compatibili”.
Molti sono invero i rimedi cautelari non compresi nelle sezioni II, III e V del capo III titolo
I libro IV del c.p.c. A mero titolo esemplificativo possiamo ricordare:
- i provvedimenti di sospensione dell’efficacia delle delibere assembleari;
- il sequestro dei beni del coniuge allontanatosi dalla residenza familiare.
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Quali regole della procedura cautelare generale si applicano quando si ricorre a questi
istitutil visto che gli ARTT. 669-bis e seguenti son applicabili a condizione di
compatibilità? La risposta non è facile; si può tuttavia approssimativamente rispondere:
a) che per tutto ciò che non è specificatamente regolato, trova applicazione la disciplina
generale;
b) che le disposizioni specificatamente dettate per i singoli istituti, anche se in ipotesi
divergenti dal modello unitario, sono tendenzialmente fatte salve;
c) che però le norme speciali vanno armonizzate con il sistema, nel senso che esse
risulteranno in concreto applicabili, se
c1) il mantenimento della divergente rgola speciale sia essenziale alla ratio ed alla
funzione dell’istituto, e se
c2) tale regola non collida con esigenze intrinseche della tutela cautelare.
Vediamo ora la discipilna specifica del procedimento cautelare uniforme.
2. La domanda e la competenza
Per sua natura l’esigenza cautelare può sopravvivere in ogni momento, ed in ogni
momento potrà proporsi la relativa domanda. L’istanza cautelare potrà quindi formularsi:
a) contestualmente alla domanda di merito, ovvero b) anteriormente all’instaurazione
della causa, o c) a giudizio pendente e nel corso di questo. Nel primo caso essa sarà
contenuta nell’atto di citazione, o nel ricorso introduttivo; negli altri casi assumerà la
forma del ricorso autonomo. Il ricorso cautelare proposto ante causa, andrà depositato
nella cancelleria del giudice competente (ART 669-bis); quando invece vi è già causa
pendente per il merito, “la domanda deve essere proposta al giudice della stessa” (ART
669-quater).
Ci si chiede se, in quest’ultimo caso, la domanda debba sempre assumere le forme del
ricorso, o se possa essere proposta nella forma breve dell’istanza dettata a verbale di
udienza. La seconda soluzione è preferibile, perché più ragionevole: essa appare
conforme al criterio generale della libertà delle forme per cui l’atto processuale può
rivestire la “forma più idonea al raggiungimento del loro scopo” (ART 121).
Principio tendenziale è che la competenza a decidere del rimedio cautelare spetta al
giudice che deve decidere del merito. L’ART 669-ter c.1 stabilisce infatti che, prima
dell’inizio della causa di merito, “la domanda si propone al giudice competente a
conoscere del merito”: il giudice della cautela viene individuato dunque per relationem.
Ciò manifesta lo stretto legame tra merito e cautela ed esprime un’esigenza di stretta
coordinazione tra il momento della cautela e quello del giudizio finale.
La competenza cautelare in corso di causa spetta al gudice già investito del merito. L’ART
669-quater statuisce che, “quando vi è causa pendente per il merito, la domanda deve
essere proposta al giudice della stessa”. Ma a quale organo? Se la causa pende davanti al
tribunale, la domanda si propone all’istruttore, e se l’istruttore non è ancora designato la
domanda si propone al Presidente del Tribunale. Lo stesso vale anche se il giudizio è
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sospeso o interrotto, se cioè il giudizio sta vivendo una delle fasi di quiescenza nelle quali
non c’è un istruttore in attività.
Se però la causa pende davanti al giudice di pace, la domanda non si può proporre a
questi ma dovrà proporsi al tribunale, nella cui circoscrizione è situato l’ufficio del GDP di
fronte a cui pende il processo. Altra ipotesi in cui manca il GI è quella in cui il tribunale ha
già deciso la causa con sentenza definitiva e corrono i termini per l’appello.
Il processo pende, però non c’è un giudice attualmente investito del rapporto processuale,
né tantomeno c’è alcun istruttore designato. Qui, in pendenza dei termini per proporre
l’impugnazione, “la domanda si propone al giudice che ha pronunciato la sentenza”.
(NOTA: Ci si chiede se competente a provvedere sull’istanza cautelare sia sempre e
comunque il giudice del merito, o se competente a concedere la cautela sia solo il giudice
effettivamente competente sul merito. La cos ha un suo rilievo perché la soluzione per cui
anche il giudice in competente per il merito potrebbe concedere provvedimenti cautelari
potrebbe indurre a scegliere un foro piuttosto che un altro in funzione della maggiore
probabilità di concessione: se devo rivolgermi, per es. al tribunale di Perugia, competente
in via esclusiva, ma sospetto che, data la giurisprudenza di quel tribunale, difficilmente
otterrà il provvedimento cautelare richiesto, mentre mi risulta che a Orvieto la
giurisprudenza del tribunale è più accondiscendente, posso proporre la causa a Orvieto e
chiedere a quel giudice di pronunciare il provvedimento cautelare? Giudice competente
per il cautelare è il giudice che l’attore ha invocato come competenze per il merito o è il
giudice effettivamente competente per il merito? Basta cioè che penda la causa per il
merito perché si possa chiedere al GI il provvedimento cautelare, o occorre che questi
verifichi preventivamente la propria competenza sul merito anche per poter concedere il
cautelare?
La soluzione preferibile sembra quella per cui il giudice del merito può conoscere
dell’istanza cautelare solo previo riconoscimento della propria competenza per il merito.
Non basta che il processo sia comunque in vita di fronte a qualunque giudice, perché
questo sia automaticamente competente per il cautelare: esso deve pendere di fronte al
giudice competente).
Ci sono però casi in cui il giudice del merito non ha competenza cautelare. Si ha quindi
scissione tra il giudice della cautela e quello del merito, scissione che si verifica:
a) Quando la competenza per la causa di merito appartiene al GDP. Per scelta del
legislatore, che ha inteso riservare i relativi poteri al giudice togato, il GDP non ha
compenetra cautelare. In caso quindi sia esso competente per il merito “la domanda si
propone al tribunale”:
b) Quando la competenza per la causa di merito appartiene al giudice straniero. La legge
mira a rendere possibile che il giudice italiano pronunci misure cautelari anche quando la
giurisdizione spetti ad un giudice straniero: in tal caso “la domanda si propone al giudice
che sarebbe competente per materia o per valore, del luogo in cui deve essere eseguito il
provvedimento cautelare”. La norma abilita evidentemente il giudice italiano a
72
pronunciare in luogo del giudice del merito appartenente ad altri ordinamento, quando si
richiedono provvedimenti cautelari da eseguirsi in Italia.
c) Quando la competenza per la causa di merito appartiene ad arbitri. Quando le parti
hanno concordemente rinunciato alla giurisdizione statuale avendo compromesso in
arbitrato la lite, ed hanno quindi investito del potere di decisione della controversia
soggetti privati, si pone il problema della carenza del potere di pronunciare
provvedimento cautelari in capo a quest’ultimi. Salvo infatti l’isolato potere di
sospensione delle delibere delle assemblee societarie, gli arbitri si trovano nella stessa
situazione del GDP: per scelta del legislatore, essi possono decidere il merito, ma non
posson esercitate il potere di provvedere in materia cautelare.
d) Quando la competenza per la causa di merito appartiene al giudice penale. Questo
avviene allorché nel processo penale è esercitata l’azione civile per il risarcimento dei
danni derivanti dal reato (c.d. costituzione di parte civile). La pronuncia di sequestro
conservativo può in verità essere richiesta allo stesso giudice penale; è vedente però che
possono sorgere altre e diverse esigenze cautelari alle quali potrebbe non rispondere la
soluzione del sequestro conservativo. In questi casi la competenza cautelare spetta
esclusivamente al giudice civile: in particolare, la domanda di cautela deve essere
proposta al giudice che sarebbe competente per il merito se l’azione civile, fosse
esercitata nella sua naturale sede civile.
3. Il procedimento
Cosa deve fare il giudice investito dell’istanza cautelare? L’ART 669- sexies prescrive che
il giudice “sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio,
procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in
relazione ai presupposti ed ai fini del provvedimento richiesto, e provvede con ordinanza
all’accoglimento o al rigetto della domanda”.
Risulta da questa norma, che:
a) Il contraddittorio delle parti è essenziale, ma il suo svolgimento non è predeterminato
attraverso l’imposizione di forme specifiche;
b) il giudice non è vincolato a forme prefissare, poiché può procedere nel modo che
ritiene più opportuno all’istruzione.
Le tappe e le modalità dell’istruttoria non sono prestabilite e la disciplina che presiede
alle fonti di priva ed all’efficacia dei mezzi di prova è allentata. Spesso il giudice assumerà
le c.d. “sommarie informazione”, notizie sui fatti di causa raccolte senza particolari
formalità che assumono valore di elementi indiziari, in virtù dei quali egli è autorizzato a
formarsi il suo convincimento in ordine alla soluzione della controversia cautelare.
Per quanto basilare, la regola del contraddittorio può però subire attenuazioni in certi
casi. Talvolta infatti ci si trova di fronte ad esigenze la cui immediata soddisfazione è
incompatibile con la previa provocazione del contraddittorio.
Questo accade anzitutto quando la convocazione della controparte pregiudicherebbe
l’attuazione del provvedimento. E’ facile capire che, in certi caos, avvertire
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preventivamente la controparte significa rendere inutile la misura cautelare. Si pensi
all’ipotesi in cui vi siano fondati sospetti che questa si stia liberando dei propri cespiti
patrimoniali: avvertirla significherebbe invitarla ad accelerare la dismissione per mettere
il richiedente davanti al fatto incompiuto. Si capisce perché in tal caso sia concesso
chiedere in provvedimento cautelare inaudita altera parte: il giudice può provvedere sulla
richiesta senza contraddittorio “con decreto motivato assunte ove occorra sommari
informazioni”.
L’altra ipotesi è quella dell’urgenza assoluta, dell’urgenza cioè che impone di provvedere
immediatamente, senza poter attendere l’instaurazione del contraddittorio: per esempio,
se sono in corso lavori di sbancamento in un fondo che stanno provocando smottamenti
di terreno che minacciano un manufatto nel fondo limitrofo, il provvedimento di
sospensione dei lavori potrà essere concesso immediatamente sulla base della sommaria
rappresentazione dei fatti, non essendoci evidentemente il tempo per instaurare un
contraddittorio e svolgere l’istruzione cautelare.
Il provvedimento concesso ante causa in difetto di contraddittorio, è comunque un
provvedimento ad efficacia temporale limitata.
Esso assume la forma del decreto e contiene sempre la fissazione (“entro un termine non
superiore a 15 giorni”) dell’udienza di comparizione delle parti davanti allo stesso giudice
che l’ha pronunciato, con contestuale assegnazione all’istante di “un termine perentorio
non superiore a 8 giorni per la notificazione del ricorso e del decreto”. Si tratta, come si
vede, di un provvedimento intrinsecamente provvisorio, un provvedimento effimero
perché necessariamente seguito dall’udienza in cui il giudice, con ordinanza, confermerà,
modificherà o revocherà i provvedimenti concessi inaudita altera parte.
L’ordinanza si sostituisce quindi al decreto in ogni caso: all’esito del contraddittorio, si
avrà ordinanza di conferma se il giudice ribadisce la scelta della misura cautelare,
ordinanza di revoca o di modifica se non riscontra la presenza dei presupposti della
cautela, ovvero ne corregge la portata. Il decreto decade inoltre in caso di mancato
rispetto del termine perentorio assegnato per la notifica.
AL rigetto della domanda cautelare è dedicato l’ART 669-septies.
Il rigetto può aversi tratto per ragioni di sostanza, quanto per ragioni processuali. Il
rigetto non impedisce la riproposizione della domanda cautelare: se è stato motivato da
ragioni di incompetenza basterà riproporre la domanda al giudice competente; negli altri
casi, la riproposizione potrà avvenire “quando si verifichino mutamenti delle circostanze
o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto”.
Nella primitiva impostazione della legge, la possibilità di riproporre la domanda cautelare
era legata alla possibilità del reclamo ex ART 669-terdecies nei confronti delle ordinanze
di rigetto.
Divenuti in seguito reclinabili tutti i provvedimenti resi sull’istanza cautelare,
indipendentemente dal loro segno positivo o negativo, oggi il provvedimento di rigetto
soggiace al regime del reclamo, ma, alternativamente, l’interessato potrà scegliere la
strada della riproposizione della domanda cautelare. Il reclamo può esperirsi solo
secondo i tempo ed i modi previsti per esso ma consente di addurre tutti i possibili motivi
di fatti e di diritti per la revoca o modifica del provvedimento. La riproposizione del
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ricorso non soggiace a termini di sorta, ma comporta l’onere di dedurre la sopravvenienza
di mutamenti delle circostanze o di arricchirne la causa petendi con nuove ragioni di fatto
i di diritto.
L’ART 669-octies disciplina l’accoglimenti della domanda. Esso cura in particolare gli
adempimento necessari in caso di accoglienti del ricorso cautelare ante causa: in tal caso
l’ordinanza di accoglimenti “deve fissare un termine perentorio non superiore a 60 giorni
per l’inizio del giudizio di merito”; in mancanza di fissazione del termine da parte del
giudice, “la causa di merito deve essere iniziata nel termine perentorio di 60 giorni”.
Il meccanismo del termine perentorio per l’inizio della causa di merito è la principale
manifestazione della c.d. strumentalità della tutela cautelare rispetto alla tutela di merito.
Dove tale strumentalità è mitigata, non si dà infatti luogo a fissazione di termini per
l’instaurazione del giudizio di merito.
Il giudice può peraltro subordinare l’accoglimento dell’istanza cautelare “valutata ogni
circostanza” all’imposizione di una cauzione in capo all’istante “per il risarcimento dei
danni.
L’ordinanza di rigetto del ricorso cautelare pronunciata prima dell’inizio della causa di
merito deve connettere la condanna alle spese. L’ART 669-septies c.2, stabilisce che in tal
caso il giudice “provvede definitivamente sulle spese del procedimento cautelare”.
Non contiene invece condanna alle spese l’ordinanza di accoglimento, anteriore alla
causa, che fissa termine perentorio per l’inizio del giudizio di merito.
Quanto alle decisioni rese sulle istanze cautelari proposte in caso di cause, esse non
comportano regolamento delle spese: si tratta di ordinanze incidentali che non chiudono
il rapporto processuale, e la liquidazione delle relative spese resta affidata alla sentenza
conclusiva del giudizio di merito.
Le disposizioni sulle spese sono reclinabili secondo la regola generale dell’ART 669terdecies.
4. La strumentalità al merito
Nella previsione di un termine perentorio per l’instaurazione del merito si suole vedere
sancito il c.d. “principio di strumentalità” della tutela cautelare rispetto al merito. Come
però si è accennato, il principio non trova applicazione nell’ipotesi prevista dal c.6 ART
669-octies in virtù del quale la permanenza degli effetti dei provvedimenti cautelari a
carattere anticipatorio resta svincolata dall’inizio del giudizio di merito: la sanzione
dell’inefficacia della misura cautelare per inosservanza dell’onere di iniziare
tempestivamente il giudizio di merito e del corrispondente onere di non lasciarlo
estinguere, non si applica infatti “ai provvedimenti di urgenza emessi ai sensi dell’ART 70
e gli altri provvedimento cautelari idonei ad anticipare glie fletti della sentenza di merito,
previsti dal c.c. o da leggi speciali”.
I provvedimenti che anticipano il contenuto della sentenza di merito, non divengono
quindi inefficaci se il ricorrente non inizia tempestivamente il giudizio di cognizione. La
cosa si spiega considerando che, se la parte subisce il provvedimento si adegua ad esso, il
ricorrente potrebbe non avere interesse all’accertamento pieno e definitivo del proprio
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diritto; in tal caso, imporgli di domandare tale accertamento significa imporre un
processo su una controversia che potrebbe essersi placata. Da questa constatazione nasce
la possibilità che il provvedimento di accoglimenti resti fermo ed insensibile alla mancata
proposizione della domanda di merito, o all’estinzione del giudizio eventualmente
proposto.
Questa stabilità dell’ordinanza cautelar neon va però confusa con la stabilità propria della
cosa giudicata. La decisione cautelare non contiene alcun accertamento e nessun
giudicato si forma in relazione al relativo provvedimento, il cui contenuto non può “fare
stato” nel senso dell’ART 2909 c.c. Da un lato, infatti, l’ART 669-octies prevede che
“ciascuna parte può iniziare il giudizio di merito”, dall’altra l’autorità del provvedimento
cautelare non è mai invocabile in alcun giudizio. I soggetti interessati dalla misura
cautelare conservano quindi tutte le proprie azioni ed eccezioni: non solo il ricorrente
potrebbe in ogni tempo iniziare il giudizio sul proprio diritto, ma un simmetrico giudizio
per l’accertamento negativo di tale diritto potrebbe nascere ad iniziativa della
controparte. Inoltre, in ogni eventuale controversia sull’esistenza, inesistenza o
conformazione del diritto a tutela del quale è concessa la misura cautelare, questa non
potrà esplicare alcun effetto giuridico: “L’autorità del provvedimento cautelare non è
invocabile in un diverso processo”.
La strumentalità è invece piena per i provvedimenti a natura assicurativo-conservativa, la
cui stabilità è strettamente dipendente dalle vicende del processo di merito. La
conservazione della loro efficacia è infatti strettamente condizionata dall’assolvimento
non solo dell’onere di iniziare il giudizio di merito tempestivamente, ma anche dell’onere
di non lasciarlo estinguere in seguito.
5. Vicende del provvedimento cautelare
Per sua natura il provvedimento cautelare è soggetto ad essere influenzato dagli eventi
successivi, attraverso una disciplina volutamente intesa ad evitare la sua cristallizzazione
ed a mantenerlo sensibile agli sviluppi dei fatti rilevanti e dei rapporti intercorrenti tra le
parti.
Anzitutto il provvedimento cautelare può diventare inefficace.
L’inefficacia consegue al mancato inizio del giudizio di merito, nel termine perentorio.
Sempre limitatamente alla prima categoria di provvedimenti, l’inefficacia consegue
inoltre all’estinzione del giudizio di merito, non bastando evidentemente che un giudizio
sia instaurato ma occorrendo anche che esso sia portato alla sua conclusione fisiologica,
vale a dire alla decisione sul rapporto sostanziale: la conclusione del processo con un
nulla di fatto travolge anche il sequestro ottenuto a garanzia del diritto che non è stato
deciso.
(L’estinzione dell’eventuale causa di merito, non tocca invece i provvedimento
cautelari a carattere anticipatorio, rispetto alla conservazione dei quali non è
imposto di instaurare il giudizio di merito: secondo l’ART 669-octies l’estinzione
del giudizio di merito non determina l’inefficacia né i provvedimento d’urgenza
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emessi ai sensi dell’ART 700 né dagli altri provvedimenti cautelari idonei ad
anticipare gli effetti della sentenza di merito).
Tutte le misure cautelari perdono sempre e comunque efficacia se viene rigetta in merito
la domanda: il rimedio cautelare diviene infatti inefficace “se con sentenza, anche non
passata in giudicato è dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale era stato
concesso”.
Non occorre quindi che la sentenza sia definitiva; basta la pronuncia di primo grado
perché la cautela sia dichiarative subito inefficace: la dichiarazione di inefficacia, nonché
le disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente sono pronunciati nella
stesa sentenza o, in mancanza, con ordinanza a seguito di ricorso al giudice che ha emesso
il provvedimento. L’inefficacia conseguente al rigetto nel merito della domanda riguarda
indistintamente i provvedimento cautelari anticipatori e quelli a carattere “conservativoassicurativo”.
Il provvedimento cautelare perde altresì la sua efficacia “se non è stata versata la
cauzione di cui all’ART 669-undecies.
Mentre in quest’ultimo caso la procedura per la declaratoria è la stessa vista per
l’inefficacia conseguente alle sentenza di rigetto, per i casi di mancato o tardivo inizio
della causa di merito e di estinzione della stessa, a pronunciare l’inefficacia sarà, su
ricorso della parte interessata, il giudice “che ha pronunciato il provvedimento”.
Questi, convocate le parti con decreto in calce al ricorso, con ordinanza esecutiva,
dichiarerà “che il provvedimento è divenuto inefficace”, dando nel contempo “le
disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente”. Tutto ciò, però, a
condizione che l’inefficacia sia pacifica; in caso, viceversa, di contestazione, il
procedimento dovrà formalizzarsi: anzitutto a decidere non sarà più il giudice che emise
il provvedimento di cui si chiede la dichiarazione di inefficacia, ma “l’ufficio giudiziario al
quale appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare”; in secondo luogo,
invece della mera pronuncia di una ordinanza, si darà luogo ad un vero e proprio
procedimento di cognizione, procedimenti destinato a concludersi con “sentenza
provvisoriamente esecutiva”.
Nel corso del procedimento contenzioso per la declaratoria di inefficacia mantengono
comunque rilevanza le “circostanze sopravvenute che consentono modifica e/o revoca del
provvedimento cautelare.
5.1. La revoca e la modifica
Oltre alla possibilità di perdere l’efficacia per gli eventi appena visti, il provvedimento
cautelare può essere anche revocato o modificato in funzione del mutamento delle
circostanze che giustificarono la sua concessione. Queste circostanze possono con il
tempo venire meno o cambiare, e l’ART 669-dices stabilisce che, se nel corso
dell’istruzione “si verificano mutamenti nelle circostanze”, su istanza di parte il giudice
istruttore della causa di merito può “modificare o revocare con ordinanza il
provvedimento cautelare”.
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Per “mutamenti nelle circostanze” si devono intendere tutti gli eventi sopravvenuti idonei
ad influire sulla legittimità o opportunità del provvedimento: deve trattarsi di elementi
che, se sussistenti e considerati al momento della concessione, avrebbero condotto il
giudice a non concedere affatto il provvedimento, ovvero a concedere un altro differente
nel contenuto o nelle modalità. Ma revoca o modifica si potranno ottenere non solo in
caso di fatti nuoci, ma anche “se si allegano fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza
successivamente al provvedimento cautelare”. In tal caso, peraltro, l’istante dovrà “fornire
la prova del momento in cui ne è venuto a conoscenza”.
La legge concede però il rimedio della revoca solo a condizione che non sia stato
“proposto reclamo ai sensi dell’ART 669-terdecies)”. Si vuole, in altre parole, che i fatti
nuovi idonei ad incidere sulla permanenza della misura cautelare, si facciano
necessariamente valere attraverso il mazzo del reclamo fintantoché questo sia
proponibile.
Per il caso che manchi attualmente un GI della causa di merito, i provvedimento di revoca
o modifica “devono essere richiesto dal giudice che ha emanato il provvedimento
cautelare”.
Resta da considerare l’ipotesi che l’esigenza di revoca o modifica si presenti prima
dell’effettivo inizio del giudizio di merito, ovvero in ipotesi in cui tale giudizio non venga
affatto proposto.
In tal caso i mutamenti delle circostanze saranno valutati dal giudice ha provvrdito
sull’istanza cautelare. Lo stesso avviene nel caso in cui il processo di merito sia iniziato,
ma sia stato in seguito dichiarato estinto: evidentemente l’ipotesi da considerare è quella
dell’estinzione del processo a qui non consegue l’inefficacia del provvedimento per la
natura anticipatori di questo. In tal caso il provvedimento cautelare resta pur sempre
esposto al mutamento delle circostanze e può quindi legittimamente essere revocato o
modificato dal giudice che lo emise.
5.2. Il reclamo
Un rimedio generale contro le ordinanze in sede cautelare è il reclamo, mezzo a carattere
impugnatori che investe della controversia cautelare un giudice distinto rispetto al
giudice del provvedimento reclamato.
Cos’è il reclamo e a chi si propone? Esso sostanzialmente è un mezzo di impugnazione.
Visto nella prospettiva dell’impugnazione esso appartiene inoltra ai mezzi provvisti di
carattere devolutivi generale, essendo potenzialmente idoneo a riportare la controversia
cautelare integralmente al giudice ad quem, senza limiti di motivi o di errori del giudice a
quo. In altre parole, con il reclamo si possono sollevare tutte le doglianze utili ad
eliminare la pronuncia reclamata e ad ottenere una pronuncia differente: errori di
valutazione di fatti, violazioni ella legge sostanziale, vizi processuali, sopravvenienza di
fatti nuovi. L’analogia con l’appello è evidente.
Il reclamo si indirizza ad un diverso organo dello stesso ufficio giudiziario. Il reclamo
contro i provvedimenti del giudice singolo del tribunale si propone infatti al collegio am
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con la decisiva particolarità che di tale collegio “non può far parte il giudice che ha
emanato il provvedimento reclamato”.
Quando il provvedimento cautelare è stato emesso dalla Corte d’Appello, il reclamo si
propone ad altra sezione della stessa Corte, o in mancanza di altra sezione, alla Corte
d’Appello più vicina.
Per i termini di proposizione il c.1 ART 669-terdecies distingue a seconda che la
pronuncia sia stata resa in udienza ovvero sia stata pronunciata fuori udienza. Nel primo
caso il termine perentorio di 15 giorni decorre dalla data di udienza; nel secondo lo stesso
terrine decorre dalla data della comunicazione o dalla data di ricezione della sua notifica.
I commi successivi regolano la forma del reclamo ed il procedimento. Il c.3 richiama quali
norme generali del procedimento gli ARTT 737-738, che peraltro vanno coordinati con i
commi 4 e 5 ART 669-terdecies.
Forma del reclamo è il ricorso; quanto al procedimento, il presidente del collegio nomina,
tra i componenti del collegio un giudice relatore “che riferisce in camera di consigliO”:
(ART 738). Il rispetto del contraddittorio è rigoroso anche in sede di reclamo: il collegio
infatti deve decidere “convocate le parti”. Il giudice del reclamo può assumere
informazioni e acquisire nuovi documenti. Esso pronuncia, non oltre 20 giorni dal
deposito del ricorso, ordinanza non impugnabile con la quale “conferma, modifica o
revoca il provvedimento cautelare”.
(L’ordinanza del giudice del reclamo è dichiarata espressamente non impugnabile
e la C. ha respinto fermamente il tentativo di sottoporla a ricorso straordinario ex
ART 111 c.7).
Il collegio investito del reclamo non può limitarsi ad un provvedimento meramente
rescindente ma deve sempre decidere della controversia cautelare: è infatti vietata la
remissione al giudice che ha pronunciato il provvedimento cautelare reclamato.
Come si è già visto sopra, il rimedio della revoca è concesso solo a condizione che non sia
stato “proposto reclamo ai sensi dell’ART 669-terdecies: invero il c.4 dell’ART 669terdecies prescrive che “le circostanze ed i motivi sopravvenuti al momento della
proposizione del reclamo debbono essere proposti, nel rispetto del principio del
contraddittorio”.
5.3. L’attuazione
La fase dell’attuazione è successiva a quella della concessione del rimedio cautelare, ed è
da tener distinta da questa. L’ART 669-duodecies regola l’attuazione dei provvedimento
cautelari: detta cioè le regole per la loro esecuzione coatta in mancanza della
collaborazione spontanea della parte contro cui la misura è concessa. Con la fase attuativa
si realizza l’adeguamento della realtà sostanziale a ciò che il giudice ha deciso con il
provvedimento cautelare. Ai sensi dell’ART 669-duodecies la fase attuativa si realizza
secondo due tecniche generali ed alternative tra loro.
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La prima tecnica è quella dell’ “espropriazione forzata” del libro III del codice che viene in
gioco quando la misura cautelare da eseguire ha ad oggetto il pagamento di somme di
denaro. In tal caso è prescritto il rispetto degli ARTT 491 ss. “in quanto compatibili”. Qui
l’esecuzione avrà luogo nelle forme del pignoramento, con ciò facendosi salva la
possibilità di tutela della par condicio creditorum, attraverso la possibilità della
partecipazione dei creditori nella forma dell’intervento. Il legislatore ha inteso quindi
dare una disciplina unitaria dell’esecuzione dei crediti di denaro, praticamente
assimilando al titolo esecutivo di cui all’ART 474 il provvedimento cautelare.
Sul piano pratico, le conseguenze di maggior rilievo riguarderanno l’individuazione del
giudice competente, che verrà determinato ai sensi degli ARTT 16 e 26, e l’incanalamento
delle contestazioni relative all’esecuzione ed ai suoi effetti nelle procedure delle
opposizioni.
La seconda tecnica è quella della c.d. “esecuzione in via breve”. Si realizzerà tale forma di
esecuzione per le “misure cautelari aventi ad oggetti obblighi di consegna, rilascio, fare o
non fare”; in tal caso l’attuazione avverrà “sotto il controllo del giudice che ha emanato il
provvedimento cautelare”: come si vede il legislatore ha evitato il rinvio delle norme delle
corrispondenti esecuzioni forzate ma ha lasciato il giudice della cautela libero di regolarsi
nella maniera ritenuta più opportuna. Questi infatti determinerà le modalità di
attuazione, e, nel caso che “sorgano difficoltà o contestazioni”, darù “con ordinanza i
provvedimenti opportuni”.
CAPITOLO 48. IL RITO DEL LAVORO E LE CONTROVERSIE DI LAVORO
1. Il rito del lavoro e le controversie di lavoro
Il processo ordinario di cognizione regolato dagli ARTT. 163 ss. è il rito generale per le
controversie appartenenti alla giurisdizione civile.
Esso però, da una lato non è sempre l’unico procedimento utilizzabile, dall’altro non si
estende a tutte le controversie trattate dal giudice civile. Esistono alcuni procedimento
che si distinguono da quello ordinario e che possono genericamente dirsi speciali, la cui
specialità va valutata sotto diversi aspetti:
a) alcuni procedimenti sono speciali in quanto destinati ad essere utilizzati in presenza di
alcune particolari circostanze (esempio; il procedimento cautelare;
b) in altri casi la specialità consiste nel fatto che l’ordinamento mette a disposizione
meccanismi giurisdizionali concorrenti con quello ordinario, generalmente per
conseguire il risultato in tempi più rapidi rispetto a quanto sarebbe necessario per
ottenere la sentenza, o comunque secondo forme semplificate rispetto al processo
ordinario (esempio: il procedimento per convalida di sfratto);
c) esistono poi dei procedimenti la cui specialità sta nel rappresentare l’unica forma della
cognizione di dati diritti. In questi casi, l’ordinamento ritiene che le dinamiche del
processo ordinario non si addicano al tipo di diritti fatti valere o al particolare rapporto
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tra le parti, e così sostituisce al rito ordinario altri riti, i quali costituiscono l’unico sistema
processuale utilizzabile.
Il processo del lavoro appartiene alla terza delle categorie, in quando non rappresenta né
una particolare forma di tutela in presenza di specifiche circostanze sub a), né un rito
concorrente a quello ordinario sub b), ma costituisce l’unico strumento processuale
utilizzabile quando il diritto fatto valere
rientra nell’ambito delle c.d. controversie di lavoro dell’ART 409.
(Il rito del lavoro nasce quale rito specificamente destinato a regolare le
controversie di lavoro di cui all’ART 409. La legge utilizza però il medesimo rito la
soluzione di controversie che non sono “di lavoro”, in quanto non rientrano
nell’ambito dell’ART 409 (es. materie agrarie). Una volta introdotto
nell’ordinamento, esso è diventato infatti uno schema procedimentale
astrattamente utilizzabile anche al di fuori delle controversie di lavoro. E’ nella
discrezionalità del legislatore stabilire quale procedimento applicare ad un certo
tipo di controversia e perciò è possibile che lo stesso legislatore ritenga opportuno
disciplinare una certa fattispecie contenziosa con un dato rito speciale piuttosto
che con quello generale degli ARTT. 163 ss.)
Tornando alla “specialità” del rito del lavoro, occorre considerare che la scelta di
elaborare un apposito processo di cognizione per le controversie di lavoro deriva dal fatto
che, sul piano sostanziale, generalmente la posizione soggettiva delle parti in un rapporto
di lavoro non è paritaria: si reputa che la ciondolone del lavoratore subordinato sia più
debole di quella del datore di lavoro, e quindi quella condizione di debolezza sul piano
sostanziale deve in qualche modo essere riequilibrata sul piano processuale, attraverso
l’individuazione di un meccanismo ad hoc, con regole proprie.
Vediamo quali sono le c.d. “controversie di lavoro” alle quali si applica il rito del lavoro
integralmente.
La norma di riferimento è l’ART 409. In linea generalissima, si può dire che rientrano
nelle controversie di lavoro quelle individuali relative a rapporti di lavoro subordinato e
parasubordinato. Non rientrano quelle collettive e quelle relative ai rapporti di lavori
autonomi.
A seconda della natura giuridica del soggetto datore di lavoro, si deve poi distinguere tra:
1) Rapporti di lavoro subordinato privato, anche se non inerenti all’esercizio dell’impresa;
2) Rapporti di lavoro subordinato alle dipendenze di enti pubblici economici;
3) Rapporti di lavoro subordinato alle dipendenze di enti pubblici non economici. Fino al
1998, tali controversie rientravano nella giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, in quanto il rapporto tra pubblico dipendente e PA era sottoposto ad un
regime di carattere pubblicistico. A seguito di un lungo processo, si è poi ritenuto che
avesser carattere civile e quindi si sono trasferite alla competenza del giudice ordinario.
81
Le controversie di lavoro parasubordinato sono quelle relative ai rapporti di
collaborazione consistenti in una “prestazione di opera continuativa e coordinata,
prevalentemente personale”.
Elementi determinanti della parasubordinazione sono la coordinazione e la continuità;
nei rapporti con i terzi, inoltre, l prestazione dell’opera deve risultare prevalentemente
compiuta dal prestatore.
Danno luogo inoltre a controversie di lavoro anche i rapporti agrari: quelli di lavoro
subordinato, in quanto appartenenti alla categoria dell’ART 409 c.1e quelli associativi, in
quanto rappresentanti nell’elencazione dell’ART 409 c.2. Peraltro, ai sensi dell’ART 11, L
150/2011, tali controversie si svolgono con il rito del lavoro ma sono riservate alla
competenza delle sezioni specializzate agrarie di tribunale e di corte di appello (in
secondo grado) e per esse non trovano applicazione alcune norme contenute negli ARTT.
409 ss. riservate alle sole controversie lavoristiche.
2. La competenza ed il mutamento di rito
La specialità delle controversie relative ai rapporti di lavoro che ha indotto a disegnare un
apposito rito, giustifica anche l’attribuzione di esse alla competenza per materia del
tribunale in funzione del giudice del lavoro.
Una speciale disciplina riguarda la competenza territoriale, peraltro inderogabile. Occorre
distinguere a tale fine le controversie di lavoro subordinato alle dipendenze di un privato
datore di lavoro da quelle alle dipendenze della PA, nonché ancora le controversie di
lavoro parasubordinato. Per le prime, esistono le seguenti competenze concorrenti: a)
luogo dove è sorto il rapporto di lavoro; b) luogo dove si trova l’azienda; c) luogo dove si
trova una sua dipendenza alla quale è addetto o ha prestato la sua opera il lavoratore; d)
in via sussidiaria si applica il foro generale dell’ART 18, nel caso in cui non sia
individuabile secondo i criteri a) b) c).
Per le controversie di lavoro subordinato alle dipendenze di un datore di lavoro pubblico,
la competenza va individuata invece: a) con riferimento al luogo nella cui circoscrizione
ha sede l’ufficio al quale il lavoratore è addetto; b) anche qui, in via sussidiaria, si applica
il foro generale. Inoltre, pur essendo parte una PA, non si applica la regola del foro
erariale.
Infine, per le controversie relative ai rapporti di lavoro parasubordinato, la competenza è
individuata in relazione al luogo del domicilio del lavoratore parasubordinato.
Veniamo a questo punto alle modalità ed ai termini del rilievo dell’eccezione di
competenza.
Dispone in proposito l’ART 428 che, nel caso di causa di lavoro proposta a giudice
incompetente, “l’incompetenza può essere eccepita dal convenuto soltanto nella memoria
difensiva di cui all’ART 416 o rilevata d’ufficio dal giudice non oltre l’udienza di cui
all’ART 420”. Il c.2 dello stesso articolo prevede che, a seguito della rilevazione, “il giudice
rimette la causa al tribunale in funzione del giudice del lavoro, fissando un termine
perentorio non superiore a 30 giorni per la riassunzione con rito speciale”. Alle questioni
di competenza occorre sovrapporre quelle di rito sbagliato (causa di lavoro, ma la
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domanda è proposta con forme ordinarie o viceversa). Può accadere infatti che tale
questione resti autonoma rispetto a quella di competenza, in quanto la causa è stata
proposta al giudice competente, ma può anche accadere che la questione di rito porti con
sé quella di competenza (domanda proposta con il rito sbagliato al giudice incompetente).
Per analizzare correttamente le questioni di rito e quelle di competenza occorre
considerare che il legislatore ha voluto dare una diversa qualificazione alle une e alle
altre: mentre la competenza è un “presupposto processuale”, in quanto la proposizione di
una domanda al giudice incompetente impedisce al giudice di decidere nel metto, il rito
non è presupposto processuale perché quando il giudice è adito con le forme sbagliate
deve disporre il mutamento di tali forme, ma se non lo fa egli non è privato del potere di
decidere nel merito e la sentenza eventualmente pronunciata è una sentenza valida.
(La pronuncia emessa all’esito di un procedimento svoltosi secondo un rito
sbagliato è affetta da un vizio che può dirsi innocui. Immaginiamo infatti che la
parte soccombente proponga appello avverso la sentenza pronunciata secondo il
rito sbagliato. Anzitutto, ove fosse proposto in appello per il solo motivo del vizio
attinente al rito, esso non sarebbe ammissibile, non potendo l’appello fondarsi solo
su vizi attinenti al processo. In secondo luogo, anche se la parte impugna la
sentenza non solo per il difetto di rito, ma anche per motivi di merito la sanatoria
del vizio attinente al rito avviene per il solo effetto sostitutivo che produce la
sentenza d’appello rispetto a quella appellata: basta cioè che il giudice d’appello
applico il rito corretto perché il vizio sia sanato).
Il vizio attinente al rito è regolati dagli ARTT 426-427, rispettivamente per il caso in cui la
domanda sia proposta nelle forme ordinarie (citazione), ma la causa sia di lavoro, e per il
caso in cui la domanda sia proposta nella forme di lavoro (ricorso), ma non rientri tra le
controversie di lavoro. Nel primo caso, il giudice fissa con ordinanza l’udienza di
discussione ed un termine entro il quale le parti devono provvedere all’eventuale
integrazione degli atti introduttivi. L’integrazione possibile è quella relativa alle istanze
probatorie: mentre infatti nel rito ordinario, all’udienza di comparizione e trattazione le
parti conservano ancora la possibilità di chiedere un termine per l’indicazione di mezzi di
prova e produzioni documentali, nel rito del lavoro la preclusione delle richieste
istruttorie e del deposito di documenti si produce al momento del deposito del ricorso ed
al momento della scadenza del termine per la costituzione tempestiva (per il convenuto).
Quando la domanda è proposta per errore nelle forme del rito del lavoro, il giudice
dispone “che gli atti siano messi in regola con le disposizioni tributarie”. Ciò perché per il
processo del lavoro sono previste regole di imposizione tributaria meno gravose di quelle
che operano nel rito ordinario (NOTA: prima del d.l. 111/2011, il processo del lavoro era
totalmente esente dal versamento del c.d. contributo unificato. Dopo l’entrata in vigore
del decreto, invece, l’esenzione dal contributo unificato opera solo ove il reddito
imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito delle parti sia inferiore a quello
previsto dall’ART 76 d.p.r. 115/2002). Per ottenere la conversione da rito del lavoro in
rito ordinario occorre quindi che vi sia anche la regolarizzazione egli atti dal punto di
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vista fiscale. Nulla si prevede invece quanto all’integrazione degli atti, in quanto si
presume che non vi siano ulteriori attività consentite nel rito del lavoro che siano già
precluse nel rito ordinario In questo caso “le prove acquisite durante lo stato di rito
speciale avranno l’efficacia consentita dalle norme ordinarie”.
3. Le differenze tra rito ordinario e rito del lavoro nella fase introduttiva della
causa
Per comprendere le dinamiche del rito del lavoro procederemo attraverso la
comparazione tra questo e il rito ordinario, individuandone le relative differenze in ogni
fase del processo: introduzione della causa, trattazione, decisione.
Cominciamo dalle differenze relative alla fase introduttiva. L’idea che ha ispirato la
riforma del processo del lavoro è che la durata del processo si riduce al minimo quando è
ridotto al minimo il numero di udienze necessarie per giungere alla decisione; si
prospetta così la possibilità che l’intero processo si svolga in una sola udienza (la c.d.
“udienza di discussione”, tanto che le “udienze di mero rinvio sono vietate”), anche se la
giurisprudenza ha poi ammesso e consentito le udienze di rinvio.
L’esaurimento dell’intero processo in una sola udienza è comunque perseguito
imponendo sin dall’inizio alle parti l’onere di presentare le proprie domande, eccezioni e
difese, nonché di articolare le relative richieste istruttorie, in altri termini, di definire da
subito il thema decidendum ed il thema probandum. La differenza con il processo
ordinario di cognizione sta nel fatto che nel rito del lavoro le preclusioni sono più rigide.
L’allegazione dei fatti deve avvenire tutta negli atti introduttivi, in quanto non solo il
ricorrente deve esporre i fatti su cui si fonda la domanda, ma anche il convenuto deve
proporre “a pena di decadenza, le eventuali domande in va riconvenzionale e le eccezioni
processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio”; inoltre sempre il convenuto
nella stessa memoria deve “prendere posizioni in maniera precisa e non limitata ad una
generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda”,
sicché anche le mere difese devono essere proposte nella memoria di costituzione.
Va poi notato che le preclusioni relative all’attività assertiva e quelle relative alle
articolazioni istruttorie maturano contemporaneamente, nel senso che ad ogni
allegazione di fatti deve corrispondere la relativa richiesta istruttoria. Il ricorrente deve
infatti fornire nel ricorso introduttivo l’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il
ricorrente intende avvalersi e in particolare dei documenti che si offrono in
comunicazione; il convenuto a sua volta deve “indicare specificamente, a pena di
decadenza, i mezzi di prova dei quali intende avvalersi ed in particolare i documenti che
deve contestualmente depositare”. Qui si appezza una vistosa differenza rispetto al rito
ordinario: mentre in quest’ultimo la maturazione della preclusione per l’allegazione dei
fatti è autonoma, e anteriore alla maturazione della preclusione per le prove, nel processo
del lavoro la preclusione è contestuale sia per l’allegazione dei fatti che per l’articolazione
delle relative istanza istruttorie.
Nel processo del lavoro, dune, ogni barriera preclusiva si impone alle parti prima che esse
si presentino al giudice. Ciò, come si è detto, per far sì che l’udienza di discussione sia
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anche il momento in cui l giudice, avendo di fronte tutti gli elementi della causa, sia già in
grado potenzialmente di decidere. In altre parole, il processo del lavoro è strutturato nel
senso che il thema decidendum e quello probandum si formino prima dell’incontro tra
parti e giudice all’udienza di discussione.
Il processo del lavoro può essere preceduto da una fase stragiudiziale destinata alla
conciliazione tra le parti peculiare rispetto al rito ordinario. Si tratta del c.d. tentativo
stragiudiziale di conciliazione, introdotto come obbligatorio nel processo del lavoro con il
d.lgs. 80/1998, e poi diventato faocolativo con la L. 183/2019.
Il tentativo facoltativo di conciliazione stragiudiziale può svolgersi in diverse sedi: le parti
potranno scegliere tra il tentativo di fronte alle commissioni presso la Direzione
provinciale del lavoro, il tentativo di fronte ad organismi sindacali, ed il tentativo di fronte
ad organismi sindacali secondo le modalità previste dai contratti collettivi.
La domanda di conciliazione proposta davanti alla Direzione provinciale del lavoro, ai
sensi dell’ART 410, produce l’effetto sostanziale dell’interruzione della prescrizione e
della sospensione, per la durata del tentativo e per i 20 giorni successivi alla sua
conclusione, di ogni termini di decadenza.
4. Introduzione del giudizio; contumacia, riconvenzionale, interventi
La domanda introduttiva de giudizio assume la forma del ricorso contenete l’insieme
degli elementi identificativi della domanda giudiziale. Ai sensi dell’ART 414 il ricorso deve
infatti contenere:
1) L’indicazione del giudice;
2) Il nome e gli estremi di identificazione dell’attore e del convenuto;
3) La determinazione dell’oggetto della domanda;
4) L’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le
relative conclusioni;
5) L’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi ed in
particolare dei documenti offerti in comunicazione.
Il ricorso va depositato in cancelleria con i documenti ad esso allegati, e il giudice, entro
cinque giorni dal deposito del ricorso, fissa con decreto l’udienza di discussione, “alla
quale le parti sono tenute a comparire personalmente”; tra il giorno del deposito e la fasta
dell’udienza di discussione non devono decorrere più di 60 giorni. A questo punto l’attore
ha l’onere di notificare il ricorso, integrato dal decreto di fissazione dell’udienza, al
convenuto entro 10 giorni dalla data di pronuncia del decreto. Tale termine non è
considerato perentorio, ma meramente ordinatorio, a condizione che, tra la data di
notificazione al convenuto e quella dell’udienza di discussione, intercorra “un termine
non minore di 30 giorni”.
(La necessità della previa costituzione in cancelleria del ricorrente rende
impossibile la contumacia dell’attore).
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La costituzione del convenuto avviene mediante deposito in cancelleria di una “memoria
difensiva”. Il deposito di tale memoria va effettuato almeno 10 giorni prima dell’udienza
fissata dal giudice se il convenuto intende proporre domande riconvenzioni, ricezioni non
rilevabili d’ufficio, ovvero richiedere prove; la scadenza di tale termine è fissato in fatti a
pena di decenza per le eccezioni processuali e le eccezioni di merito che non siano
rilevabili d’ufficio, e per le istanze istruttorie. A pena di decadenza vanno anche depositati
nello stesso termine i documenti dei quali il convenuto intende avvalersi.
A differenza di quanto avviene nel rito ordinario, se il convenuto intende proporre una
domanda riconvenzionale, egli deve chiedere al giudice lo spostamento della prima
udienza e il giudice provvede con un nuovo decreto. Tale decreto è comunicato all’attore a
cura dell’ufficio, unitamente alla memoria difensiva. Lo stesso accade nel caso di
intervento volontario (ART 419): l’originario testo dell’ART 419 non prevedeva né un
differimento dell’udienza, né alcun obbligo per l’ufficio. La norma è stata dichiarata
incostituzionale nella parte in cui attribuisce al giudice il potere-dovere di fissare una
nuova udienza e di disporre che il relativo provvedimento sia notificato alle parti
originarie ad iniziativa dell’ufficio, nonché sia notificato all’interveniente il decreto che
fissa la nuova udienza. La C.C.ha ritenuto di dover equiparare la posizione del terzo
interveniente alle parti originarie, consentendo anche ad esso di usufruire di una nuova e
successiva udienza per predisporre le proprie difese.
Ai sensi dell’ART 419 l’intervento volontario è ammesso fino al termine stabilito per la
costituzione del convenuto, cioè 10 giorni prima dell’udienza. Ciò riduce di molto l’utilità
dell’intervento o almeno la sua pratica utilizzabilità: mentre i termini per intervenire sono
assai ristretti, l’interesse a intervenire potrebbe maturare anche successivamente, o a
seguito di domanda riconvenzionale, o seguito comunque dell’evolversi del
procedimento; tale interesse non giustifica in ogni caso l’intervento, che resta
inammissibile se non compiuto entro i termini.
5. Le differenze tra rito ordinario e rito del lavoro nella fase della trattazione
Dobbiamo adesso porre a confronto la disciplina del rito del lavoro con quella del rito
ordinario nella trattazione.
Nel rito del lavoro devono sempre essere svolti l’interrogatorio libero delle parti, il
tentativo di conciliazione e, dopo la L. 183/2010, deve essere formulata una proposta
transattiva ad opera del giudice che, se rifiutata senza giustificato motivo, costituisce
comportamento valutabile dal giudicante ai fini della decisione. Nel rito ordinario, invece,
l’udienza per lo svolgimento dell’interrogatorio libero e del tentativo di conciliazione è
solo eventuale, essendo subordinata, ai sensi dell’ART 185, alla richiesta congiunta delle
parti.
Alcune differenze sussistono quando all’allegazione di fatti ulteriori, cioè alla possibilità di
precisare e/o modificare le domande già proposte. Nel rito ordinario (ART 183), “le parti
possono precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate”;
stando all’ART 420, invece, “le parti possono, se ricorrono gravi motivi, modificare le
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domande, eccezioni e conclusioni già formulate, previa autorizzazione del giudice”. La
differente espressione utilizzata nelle due norme sta a significare che, nel rito ordinario,
vi è per le parti un potere più ampio che sta nel rito del lavoro incidente sulla materia del
contendere già formatasi con gli atti introduttivi.
Anzitutto, il potere delle parti è limitato alla semplice precisazione delle domande già
proposte; è escluso quindi il libero esercizio del potere di modificazione delle domande.
Ne rito del lavoro è necessario che le parti motivi le ragioni della modificazione,
dimostrando la sussistenza di “gravi motivi”, e che ottengano dal giudice l’autorizzazione.
L’aggiustamento del tiro, rispetto a quanto già domandato o eccepito, è quindi ammesso
entro margini ristretti, non solo perché non sono proponibili domande o eccezioni nuove,
né sono modificabili quelle già proposte, ma anche perché l’attività di precisazione è
subordinata ad una verifica di ammissibilità e alla sussistenza di motivi che spetta al
giudice valutare discrezionalmente.
Altra differenza rivelante tra i due riti riguarda l’istruzione probatoria. Nel rito ordinario,
come si è visto, esiste una apposita fase destinata all’istruzione probatoria, nella quale, in
un primo momento, le parti articolano le richieste istruttorie, e successivamente, in un
secondo momento, il giudice le ammette e ne dispone l’assunzione. Nel rito del lavoro le
cose stanno diversamente, in quanto la fase di istruzione probatoria, si sovrappone e
confonde con quella di trattazione in senso stretto: alla medesima udienza di discussione
infatti le parti precisano le domande già proposte, ed il giudice “ammette i mezzi di prova
già proposti dalle parti e quelli che le parti non abbiano potuto proporre prima, se ritiene
che siano rilevanti, disponendo, con ordinanza resa all’udienza, per la loro immediata
assunzione”.
Possiamo da ciò ricavare alcune considerazioni:
a) nel rito del lavoro non vi è distinzione tra trattazione in senso stretto e istruzione
probatoria, entrambe destinate a svolgersi nella udienza di discussione;
b) la preclusione relativa alle richieste istruttorie matura per entrambe le parti sin dagli
atti introduttivi, dovendo esse formulare in questi le relative istanze: la possibilità che
anche successivamente siano articolate “ulteriori” istanze all’udienza è infatti subordinata
alla dimostrazione che non si sia potuto formularle prima; si tratta quindi di una
remissione in termini possibile solo se si fornisce la prova della causa non imputabile
della decadenza nella quale la parte è incorsa, e l’omesso deposito degli stesso
contestualmente a tale atto determinano la decadenza dal diritto di produrli, salvo che i
documenti si siano formati successivamente o la loro posizione sia giustificata dallo
sviluppo del processo. Ne consegue che, ove i documenti siano stati prodotti in udienza, il
giudice potrà dichiarare la decadenza della parte o, in alternativa, disporre l’ammissione
d’ufficio dei documenti stessi ai sensi dell’ART 421 c.2, dovendosi ritenere, in tale ultima
ipotesi, che il silenzio della controparte, comporti l’accettazione del provvedimento
giudiziale riammissione e dovendosi escludere che l’ordine di esibizione, a norma
dell’ART 210 c.p.c. possa supplire al mancato assolvimento dell’onere della prova a carico
della parte istante.
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Naturalmente, una volta ammessi nuovi mezzi di prova, deve ammettersi anche la
controparte alla formulazione delle richieste istruttorie necessarie in relazione a quelli
ammessi; in questo caso, il rinvio dell’udienza è espressamente previsto come necessario;
c) alla stessa udienza il giudice non solo ammette le prove richieste, ma dispone anche per
la relativa assunzione.
L’istruttoria nel rito del lavoro si distingue da quella del rito ordinario anche per motivi
diversi dalla tempistica, motivi piuttosto collegati ai poteri ufficiosi. Il giudice del lavoro
dispone di poteri più ampi del giudice ordinario, almeno per due ragioni: il giudice del
lavoro a) “può disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di
prova; b) anche fuori dai limiti stabiliti dal c.c.” (ART 421 c.2).
L’ampliamento dei poteri istruttori del giudice del lavoro va quindi valutato, sia con
riferimento alle disponibilità delle prove, sia con riferimento ai limiti di ammissibilità
previsti ex legge.
Quanto al primo aspetto (sub a), invertendo la regola dell’ART 115, nel rito del lavoro è
regola generale l’ammissibilità d’ufficio di qualunque mezzo istruttorio; l’eccezione
riguarda i casi in cui il mezzo istruttorio è nella sola disponibilità delle parti.
Appartengono alle eccezioni il giuramento decisorio e l’acceso suol luogo del lavoro,
entrambi ammissibili solo su istanza di parte (NOTA: Quanto all’accesso sul luogo del
lavoro esso costituisce un mezzo di prova che rientra nella categoria delle ispezioni.
L’ispezione è un mezzo di prova ammissibile d’ufficio e non rimesso alla disponibilità
delle parti. Esso invece nel rito del lavoro è sottoposto alla regola opposta: disponibilità
solo delle parti).
Il secondo ampliamento dei poteri istruttori del giudice è nel senso che egli può
ammettere tutti i mezzi di prova anche al di fuori dei limiti stabiliti dalla legge significa
che il giudice ha il potere di operare una valutazione di ammissibilità del mezzo
istruttorio che prescinde dalle regole di legge. La questione di pone soprattuto per l’uso
della prova testimoniale, spesso limitato o precluso con riferimento ai contratti.
L’ampliamento dell’ambito di ammissibilità della prova testimoniale riguarda il
superamento sia dei limiti soggettivi che quelli oggettivi. Riguardo a quelli soggettivi, il
giudice può “ordinare la comparizione, per interrogarle liberamente sui fatti della causa,
anche di quelle persone che siano incapaci di testimoniare a norma dell’ART 246 o a cui
sia vietato a norma dell’ART 247”. Qui non siamo di fronte ad un vero e proprio mezzo di
prova: potendo il giudice “interrogarle liberamente” tali soggetti, egli può utilizzare le
loro dichiarazioni solamente come argomento di prova e non come vere e proprie
dichiarazioni testimoniali. Inoltre l’ART 247 è stato dichiarato incostituzionale per cui il
divieto di testimoniare per i soggetti ivi indicati non sussiste più (coniuge, coniuge
separato, figli, parenti, ecc.); con l’eliminazione della norma, tali soggetti hanno acquistato
il pieno potere di testimoniare non solo nel processo ordinario, ma anche nel processo del
lavoro.
Un ultimo accenno meritano le c.d. ordinanze interinali. Nel rito del lavoro esiste
un’apposita norma, l’ART 423, che contempla la possibilità che il giudice, nel corso
dell’istruttoria, pronunci delle ordinanze a carattere anticipatori in quanto destinate ad
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anticipare gli effetti condannatoti della sentenza. Di un analogo tipo di ordinanze ne
abbiamo già parlato, quando si è affrontato il tema dell’ART 182-bis-ter-quater. Da questo
punto di vista, il processo del lavoro ha aperto la strada a quello ordinario, in quanto la
decisione di inserire le ordinanze anticipatori anche nel rito ordinario di cognizione nasce
proprio dal fatto che esse erano state sperimentate nel rito del lavoro.
In linea generale, lo schema è praticamente lo stesso iim entrambi i riti, con la differenza
che i c.2-3 ART 423 si distinguono dal tre e quater in quando la prima è un’ordinanza
pronunciabile solo a favore del lavoratore, per il pagamento di somme di denaro, quando
si è raggiunta la prova dell’esistenza del diritto e nei limiti della quantità per la quale tale
prova è stata raggiunta.
6. Differenze tra rito ordinario e rito del lavoro nella fase decisoria
Si devono a questo punto analizzare le differenze tra rito ordinario e rito del lavoro
relative alla fase decisoria.
Anche nel rito del lavoro è possibile la pronuncia di sentenze non definitive, quando il
giudice istruttore ritiene idonee a definire il giudizio talune questioni di rito o di merito,
le quali si rivelino poi infondate al momento della decisione: l’ART 420 c.4 prevede infatti
che il giudice possa pronunciare sentenza se “sorgono questioni attinenti alla
giurisdizione o alla competenza o ad altre pregiudiziali la cui decisione può definire il
giudizio” (NOTA: Il meccanismo è lo stesso di quello che si applica nel rito ordinario,
occorrono però alcune precisazioni. In primo luogo l’ART 420 c.4 sembrerebbe
richiamare solo le questioni pregiudiziali di rito e non anche di merito; sicché si era posto
in passato il dubbio se fosse contemplata anche nel processo del lavoro la possibilità di
una sentenza non definitiva di merito. Il dubbio è oramai pacificamente eliminato a favore
dell’ammissibilità anche si sentenze non definitive di merito, oltre che di rito. In secondo
luogo, la norma stabilisce che “il giudice invita le parti alla discussione” sulla questione
pregiudiziale eventualmente sorta; perciò, mentre nel processo ordinario, anche quando è
domandata la remissione in decisione su una questione pregiudiziale, le parti sono
invitate a precisare interamente le conclusioni su tutto il merito, lo stesso non può dirsi
per il rito del lavoro: quando la causa è rimessa in decisione su una questione
pregiudiziale di rito, le parti sono chiamate a formulare le conclusioni solo quella
questione e non su tutto il merito).
Vediamo ora le caratteristiche proprie della sentenza nel rito del lavoro. Anzitutto la
decisione dovrebbe avvenire all’esito dell’udienza di discussione.
Non si esclude però la possibilità di un rinvio dell’udienza: la sentenza andrà pronunciata
all’esito di tale successiva udienza con lettura del dispositivo e dell’esposizione delle
ragioni di fatto e di diritto della decisione.
La sentenza dovrà essere depositata successivamente in cancelleria entro 15 giorni dalla
sua lettura in udienza.
La lettura in udienza dà peraltro al lavoratore, che ottenga la condanna del datore, un
immediato titolo esecutivo: lo si ricava dal combinato risposto del c.1 ART 431: “Le
sentenze che pronunciano condanna a favore del lavoratore per crediti derivanti dai
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rapporti di cui all’ART 409 sono provvisoriamente esecutive” e del c.2: “All’esecuzione si
può procedere con la sola copia del dispositivo, in pendenza del termine per il deposito
della sentenza”.
La sentenza resa su rapporti di lavoro presenta poi una sua particolarità sul piano
sostanziale. L’ART 429 c.3 stabilisce che “il giudice, quando pronuncia la sentenza di
condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, deve determinare, oltre
gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per
la diminuzione di valore del suo credito, condannando al pagamento della somma relativa
con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto”.
Si tratta di una disposizione il cui contenuto non è di carattere strettamente processuale,
ma sostanziale, in quanto deroga alla regola generale dell’ART 1224 c.c., secondo la quale
il maggior danno da svalutazione monetaria spetta a colui che vanta un credito di denaro
solo qualora esso sia specificatamente provato. Più precisamente, quando il credito è “di
lavoro”, la disposizione dell’ART 1124 c.c. non si applica in quanto il giudice è tenuto a
condannare al maggior danno da svalutazione monetaria, cumulandolo alla condanna al
pagamento degli interessi legali, anche a prescindere dalla dimostrazione effettiva del
maggior danno subito dal lavoratore. La norma è stata peraltro interpretata in senso
ampio dalla giurisprudenza: a) le somme da rivalutazione spettano al lavoratore in via
automatica, dovendo in questo senso provvedere il giudice d’ufficio, anche in assenza di
una specifica domane; b) la rivalutazione decorre, come gli interessi, “dal giorno della
maturazione del diritto”, non essendo necessario alcun atto di costituzione in mora; c)
non ha rilievo alcuno la situazione soggettiva di dolo o colpa del datore di lavoro-debitore
nel ritardato adempimento, sicché tale situazione soggettiva non deve essere dimostrata
dal lavoratore-creditore; d) il cumulo si applica a qualunque credito di lavoro, sia di
natura indennitaria che risarcitoria, e non solo al diritto alla retribuzione.
7. Differenze tra rito del lavoro e rito ordinario in appello
Una particolare disciplina è dettata anche con riferimento all’appello nel rito del lavoro, a
differenza degli altri mezzi di impugnazione che restano assoggettai alle regole ordinarie.
Giudice competente in appello è la Corte d’Appello territorialmente competente: ART 433.
Atto introduttivo è il ricorso. L’appello si costituisce con memoria difensiva; il termine per
la costituzione tempestiva è 10 giorni prima dell’udienza. Entro tale termine egli dvd
proporre l’appello incidentale, il quale a sua volta va notificato all’appellante a cura
dell’appellato.
Anche l’appello dovrebbe svolgersi in una sola udienza, ma sappiamo già che non è così.
Veniamo ai nova ammissibili in appello. Prima della riforma del 1990 si potevano
ravvisare sensibili differenze tra rito ordinario e rito del lavoro, essendo l’appello del rito
ordinario caratterizzato da una maggiore apertura verso l’introduzione di novità. Con la
riforma del 1990, invece, nel trasformare il giudizio di appello del processo ordinario in
un giudizio “chiuso”, tale procedimento è stato assimilato a quello del lavoro, già da
tempo fondato sul divieto di nova.
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Non sono ammesse quindi domande nuove; tuttavia, in simmetria con quanto previsto
per il rito ordinario dell’ART 345, anche nel rito del lavoro sono ammesse le domande che
hanno carattere consequenziale, relative ai frutti, accessori o al risarcimento del danno
maturati dopo la sentenza di primo grado. Come nel rito ordinario, vi è poi il divieto di
eccezioni nuove, ma anche qui il divieto non si estende alle eccezioni processuali e di
merito rilevabili d’ufficio.
Anche i nuovi mezzi di prova non sono ammessi, ad eccezione del giuramento decisorio e
di quelli che il collegio ritiene indispensabili ai fini della decisione della causa. La nozione
di indispensabilità, tenuto conto della genericità dell’espressione, ha da subito suscitato
dubbi interpretativi, i quali, si sono riversati poi nella riformulazione dell’ART 345, per il
rito ordinario.
Una peculiarità dell’appello del rito del lavoro è la possibilità di proporre il c.d. appello
con riserva di motivi. Ciò dipende dalla tecnica di pronuncia della sentenza di primo
grado e dall’efficacia immediatamente esecutiva della sua lettura in udienza per crediti a
favore del lavoratore. Contro la sentenza di primo grado come documento pubblicato in
cancelleria, l’appello può essere proposto secondo regole e termini ordinari decorrenti
dal deposito, e la sospensione della provvisoria esecuzione può essere domandata quando
ricorrono “gravi motivi”, non diversamente da quanto avviene per la sentenza di primo
grado del processo ordinario.
Particolare è invece l’appellabilità della sentenza di condanna per crediti a favore del
lavoratore, provvisoriamente esecutiva, a seguito della sua lettura in udienza, prima del
deposito in cancelleria. In questo caso, viene data la possibilità al datore di lavorosoccombente di impugnare subito senza attendere il successivo deposito. Il datore di
lavoro-soccombente potrebbe infatti avere tutto l’interesse a proporre immediatamente
appello per domandare che sia sospesa l’esecuzione già iniziata. “Riserva dei motivi”
significa che i motivi specifici del gravame potranno e dovranno essere depositati
successivamente, solo dopo il deposito della sentenza; l’atto di integrazione dei motivi
non costituisce quindi un vero e proprio atto di impugnazione, ma contiene solo le ragioni
di doglianza che l’appellante non ha potuto esporre prima.
I presupposti per la sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza di condanna
a favore del lavoratore consistono nella prova di un “gravissimo danno”.
Un’ultima considerazione, con riferimento all’appello con riserva dei motivi. Presupposto
per domandare la sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado
è che “l’esecuzione sia iniziata”. Cosa si intende per esecuzione iniziata? E’ necessario che
sia stato compiuto il pignoramento o basta la sola notifica dell’atto di precetto? La
giurisprudenza della Corte sembra indirizzata verso il primo senso.
8. Le controversie previdenziali
Il rito del lavoro trova applicazioni anche nelle controversie in materia di previdenza e di
assistenza obbligatorie. Competente è il tribunale nella cui circoscrizione ha residenza
l’attore (ART 444), salvo che per le controversie relative agli obblighi dei datori di lavoro
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e all’applicazione delle sanzioni civili per l’inadempimento di tali obblighi per le quali è
competente il tribunale del luogo in cui ha sede l’ufficio dell’ente.
Le domande relative alle controversie previdenziali sono assoggettate ad alcune
condizioni di procedibilità. In linea generale, la causa può essere trattata solo dopo
l’esaurimento dei procedimenti previsti dalla legge per la composizione in sede
amministrativa, o il decorso dei termini fissati per il compimento dei procedimenti stessi,
o dopo che siano comunque decorsi 180 giorni dalla data in ciii è stato proposto ile
incorso amministrativo. L’avveramento della condizione di procedibilità è accertato dal
giudice alla prima udienza; l’eventuale riscontro dell’improcedibilità della domanda
impone di sospendere il giudizio e di fissare all’attore un termine perentorio di 60 giorni
per presentare il ricorso in via amministrativa; il processo deve esser riassunto nel
termine perentorio di 180 giorni decorrenti dalla cessazione della causa di sospensione.
Per alcune specifiche controversie (invalidità, ad esempio) la condizione di procedibilità è
particolare. In tali casi l’attore è infatti tenuto a proporre istanza di accertamento tecnico
per la verifica preventiva delle condizioni sanitarie che possono giustificare la pretesa
fatta valere. In altre parole egli non può proporre direttamente domanda di accertamento
del proprio diritto, ma deve procedere attraverso la richiesta di accertamento tecnico
preventivo di cui all’ART 696-bis e sottoporsi quindi ad una consulenza tecnica in via
preventiva. Terminate le operazioni di consulenza il giudice fissa alle parti un termine
entro il quale queste debbono comunicare in cancelleria se intendono contestare le
conclusioni raggiunte dal consulente tecnico. In caso di mancato accordo, la parte che
dichiari di contestare le conclusioni del consulente ha l’onere di depositare il ricorso
introduttivo del giudizio entro il termine perentorio di 30 giorni dalla formulazione della
dichiarazione di dissenso specificando, a pena di inammissibilità, i motivi della
contestazione.
In assenza di contestazione, viceversa, il giudice omologa con decreto l’accertamento del
requisito sanitario secondo le risultanze probatorie indicate nella relazione del
consulente tecnico, provvedendo sulle spese. La ratio di questo meccanismo è
evidentemente quella di permettere di trattare in sede di giurisdizione contenziosa solo i
casi in cui residui una genuina controversia dopo l’accertamento tecnico ante causam.
CAPITOLO 49. IL PROCEDIMENTO SOMMARIO DI COGNIZIONE
1. La natura del procedimento
Tra i procedimenti speciale il c.p.c. colloca l rito sommario di cognizione regolato dagli
ARTT. 702-bis a 702-quater. Tuttavia, al di là del nomea, il procedimento in questione di
veramente “sommario” ha poco, dal momento che esso riproduce molte delle
caratteristiche proprie del rito ordinario di cognizione disciplinato dagli ARTT. 163 ss.
Non vi sono dubbi invece sul fatto che si tratti di rito facoltativo alternativo a quello
ordinario, nel senso che spetta a chi deve proporre la domanda scegliere liberamente tra
questo procedimento e quello ordinario.
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(Sicuramente, chi vuole proporre una domanda ordinaria può scegliere, in
alternativa, le forme sommarie dell’ART 702-bis e ss. Più difficile è pensare che la
medesima alternativa si apra a chi deve introdurre una controversia assoggettata
ad un rito speciale quale, ad esempio, lo speciale rito a cognizione piena del
lavoro).
A prescindere dalla sua natura, la logica è quella di costruire un modello veloce che
consenta di ottenere la decisione in tempo brevi.
Queste le linee di fondo:
a) l’ambito di applicazione è ampio;
b) il provvedimento segue all’espletamento del contraddittorio;
c) l’istruttoria è semplificata, ma non al punto di sottrarre dall’onere della prova alcuni
elementi della fattispecie;
d) la decisione è resa con ordinanza;
e) l’ordinanza è impugnabile e se non impugnata, essa è idonea alla formazione della cosa
giudicata non diversamente dalla sentenza pronunciata nel giudizio ordinario,
f) ove manchino le condizioni per la pronuncia sommaria, il procedimento può seguire
secondo modalità e tecniche del giudizio ordinario.
2. L’ambito di applicazione e la competenza
Di regola la costruzione di modello sommari trova giustificazione nell’esigenza di
ottenere nel breve un titolo esecutivo, ed è perciò funzionale al conseguimento rapido di
provvedimenti di condanna.
Diversamente, questo rito ha una portata molto più ampia, potendo la relativa ordinanza
avere tanto un contenuto di condanna, quanto di accertamento o costitutivo. In pratica,
esso opera per tutte le cause che rientrano nella competenza del tribunale in
composizione monocratica, a prescindere dal contenuto della domanda: ART 702-bis.
Argomentando a contrario, esso non si applica alle cause di competenza del giudice di
pace, a quelle di competenza del tribunale in composizione collegiale, e a quelle della
Corte d’Appello.
La competenza per territorio si determina invece secondo gli ordinari criteri degli ARTT
18 ss.
3. La fase introduttiva
La domanda si introduce con ricorso. Il ricorso deve contenere tutti gli elementi propri
dell’atto di citazione, nonché l’avvertimento che in caso di mancata tempestiva
costituzione, il convenuto incorrerà nelle decadenza di cui agli ARTT 38 e 167.
Come nel processo ordinario, anche qui, in ipotesi di mancata tempestiva costituzione,
maturano le preclusioni per il convenuto, il quale, se si costituisce tardivamente, perde il
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potere di eccepire domanda riconvenzionale, eccezioni in senso stretto, eccezione di
competenza. Non maturano invece preclusioni quanto all’articolazione di mezzi di prova.
Atto di costituzione è la comparsa di risposta depositata in cancelleria.
Come in tutti i procedimenti introdotti da ricorso, anche qui, l’atto introduttivo va prima
di tutto depositato in cancelleria; il cancelliere forma il fascicolo d’ufficio e lo presenta al
presidente del tribunale, il qual designa il magistrato che deve svolgere la trattazione.
Spetta poi allo stesso giudice fissare l’udienza di comparizione delle parti, nonché il
termine per la costituzione del convenuto, la quale deve avvenire non oltre 10 giorni
prima dell’udienza. Ricorso e decreto di fissazione dell’udienza devono essere notificati al
convenuto almeno 30 giorni prima della sua costituzione.
4. L’udienza e i suoi esiti
L’udienza è la sede in cui sono sentite le parti, senza formalità. Il giudice che ha cioè un
ampio potere discrezionale di disciplinare lo svolgimento, sia quanto alla necessità di
assicurare il contraddittori, sia quanto allo svolgimento dell’istruttoria, quando richiesta.
Questi i possibili esiti:
a) il giudice può ritenersi incompetente. La relativa decisione è resa con ordinanza;
b) sempre con ordinanza, il giudice chiude la causa in rito quando rileva la sussistenza di
un vizio processuale insanabile o sanabile ma non sanato, nonché quando deve dichiarare
l’estinzione del processo;
c) con ordinanza non impugnabile dichiara l’inammissibilità della domanda quando è
proposta nelle forme sommarie una domanda che fuoriesce dal suo ambito di
applicazione;
d) l’ordinanza non impugnabile anche la forma per disporre la conversione del processo
sommario in processo ordinario quando “le difese svolte dalle parti richiedono una
istruzione sommaria”. In questo caso, la complessità della causa impedisce la decisione
con ordinanza e impone, al contrario, la prosecuzione del professe nelle forme ordinarie,
nonché la sua conclusione con sentenza;
e) la causa può essere esaminata e decisa nelle forme sommaria.
Qui si pongono in risalto i caratteri propri della natura sommaria del rito: il giudice
procede “omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, nel modo che ritiene
più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento
richiesto”.
f) quando nel processo è proposta una domanda riconvenzionale, la quale richiede
un’istruzione non sommaria, piuttosto che conservare il cumulo, la legge preferisce
conservare la trattazione sommaria, laddove possibile; sicché il giudice dispone la
separazione delle cause, consentendo la decisione sommaria della causa principale, e la
prosecuzione nelle forme ordinarie della domanda che non consente un’istruzione
sommaria.
5. L’ordinanza e la sua efficacia
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Tenuto contro del vasto ambito applicativo del procedimento sommario, l’ordinanza che
accoglie nel merito la causa può essere tanto di condanna, quanto costitutiva o di
accertamento. Nella prima ipotesi, essa, oltre ad essere titolo esecutivo, è anche titolo per
l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale. La sua funzione corrisponde a quella del decreto
ingiuntiva, anche se mutano presupposti per la concessione.
Quando decide di domande trascrivibili, l’ordinanza è anche titolo per la trascrizione.
Dal momento poi che si tratta di ordinanza a contenuto decisorio, che chiude il processo
davanti al giudice adito operano per essa le tegole sulla condanna alle spese; sicché, essa
conterrà sempre il capo relativo alla liquidazione delle spese di giudizio ai sensi degli
ARTT. 91 ss.
Quanto alla stabilità del provvedimento, la legge è chiara nel disporre che tale ordinanza
“produce gli effetti di qui all’ART 2909 c.c. se non è appellata entro 30 giorni dalla sua
comunicazione o notificazione”. (ART 702-quater). Si tratta quindi di ordinanza che non
sol decide su diritti, ma è anche potenzialmente stabile in quanto idonea a passare in
giudicato come avviene per qualsiasi sentenza di equivalente contenuto.
6. Le impugnazioni
L’ART 702-quater regola l’appello, ma con una disciplina piuttosto scarna e insufficiente.
L’ordinanza sommaria è appellabile entro 30 giorni dalla sua comunicazione o
notificazione. Ancorché nulla dica la legge, pare potersi ritenere che si tratti di un appello
ordinario, la cui disciplina è mutabile da quella degli ARTT 339 ss. ma con delle modifiche.
Tenuto contro del carattere sommario del primo grado, il giudizio di secondo grado è, ad
esempio, aperto all’introduzione di nova, a differenza di quanto avviene nuovi mezzi di
prova e nuovi documenti “quando il collegio li ritiene rilevanti per la decisione, o la parte
dimostra di non aver potuto proporli nel corso del procedimento sommario per causa ad
essa non imputabile”.
Il criterio della “rilevanza” consente di ammettere qualsiasi mezzo di prova, secondo le
regole ordinerei. Non si capisce perciò che bisogno ci sia di dimostrare di non aver potuto
proporre le prove nel corso del procedimento sommario per causa non imputabile. In altri
termini quali prove possono essere ammesse secondo quest’ultimo criterio di carattere
soggettivo che non siano contestualmente anche “rilevanti”. Si deve perciò ritenere che la
precisione della remissione in termini per causa non imputabile sia superflua e che,
piuttosto, sia consentita in appello l’introduzione di qualsiasi richiesta istruttoria a
condizione che superi positivamente il vaglio di ammissibilità e rilevanza.
Se l’appello punta a restituire una cognizione piena che è mancata in primo grado si deve
pensare, anche se nel silenzio della legge, che la decisione sia resa con sentenza, a sua
volta impugnabile in C. ai sensi dell’ART 360.
(La forma dell’appello, non è chiaro se l’impugnazione debba essere fatta nella
forma del ricorso o della citazione. A favore dl ricorso si è considerato che la
domanda introduttiva in primo grado è un ricorso, e che la forma dell’appello
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dovrebbe ricalcare quella della domanda originaria. In contrario si sostiene che la
previsione del ricorso avrebbe solo per il primo grado ma non per l’appello ce
conserverebbe il suo carattere di appello a rito ordinario; a questo punto si
aggiunge che, dove la legge ha voluto ricalcare in appello le forme del primo grafo,
essa ha espressamene imposto l’impiego del ricorso).
50. IL PROCEDIMENTO D’INGIUNZIONE
1. Condizioni di ammissibilità
La tecnica dell’ingiunzione dà luogo ad uno speciale procedimento, detto “monitorio”,
opzionale rispetto al processo a cognizione ordinaria. Esso può essere azionato dal
creditore di una somma liquida di denaro, o di una determinata quantità di cose fungibili,
o ancora della consegna di una cosa mobile determinata che sia in possesso della prova
scritta del proprio diritto.
La prova scritta da allegare al ricorso per decreto ingiuntivo non coincide
necessariamente con la prova documentale del processo a cognizione ordinaria.
Infatti, ai sensi dell’ART 634, sono prove scritte idonee alla connessione di un decreto
ingiuntivo anche le polizze e le promesse unilaterali per scrittura privata ed i telegrammi,
anche se privi dei requisiti previsti dal c.c; nonché, per i crediti relativi a somministrazioni
di merci e di denaro e per le prestazioni di servizi fatte da imprenditori commerciali,
anche agli estratti autentici delle scritture contabili previste dal c.c., purché bollate,
vidimate e regolarmente tenute.
Il successivo ART 635, per i crediti dello Stato, considera prove idonee anche i libri e
registri della PA, quando un pubblico funzionario autorizzato o un notaio ne attesti la
regolare tenuta e, per i crediti derivanti da omesso versamento dei contributi agli enti
previdenziali, gli accertamenti dell’ispettorato del lavoro.
In alcune ipotesi particolari è possibile accedere al procedimento d’ingiunzione anche se
manca la prova scritta del credito. Si tratta dei crediti per onorari e spese di chi (es.
avvocati) ha prestato la sua opera nel corso di un processo. In gli casi è sufficiente allegare
al ricorso la parcella elle spese e prestazioni sottoscritta dal creditore.
2. La domanda e il procedimento
Il procedimento monitorio si caratterizza per la sua estrema semplificazione. Esso inizia
con un ricorso presentato la giudice che sarebbe competente a decidere la controversia in
sede di cognizione ordinaria (e quindi GDP o tribunale), che, oltre ai requisiti richiesti per
gli atti di parte, deve contenere l’enunciazione del diritto di cui si chiede tutela e
l’indicazione della prova scritta di questo diritto. Ove si faccia valere un credito
condizionato o collegato a duna controprestazione, il ricorso deve altresì contenere
elementi dai quali risulti l’avveramento della condizione o l’adempimento della
controprestazione; laddove invece si chieda la consegna di cose fungibili, è necessaria
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l’indicazione della somma di denaro che il creditore è disposto ad accettare in mancanza
della prestazione di natura.
Il ricorso, che non è notificato alla controparte, ma è depositato unitamente ai documenti
giustificativi nella cancelleria del giudice competente, contiene la richiesta di pronunciare
senza contraddittorio, sulla sola base della prova scritta offerta, un decreto che ingiunga
alla controparte di eseguire la prestazione dovuta.
La proposizione del ricorso non produce gli effetti tipici della domanda giudiziale: non
interrompe la prescrizione, non impedisce le decadenza, ecc. Tali effetti (di pendenza
della lite) sono ricollegati dalla legge al successivo evento della notificazione del decreto
ingiuntivo eventualmente pronunciato in accoglimento del ricorso.
Se il giudice, dalla lettura del ricorso e dei documenti allegati ritiene non sufficientemente
provata la richiesta del creditore, lo invita ad integrare la documentazione. Se questi non
procede ad integrare la documentazione, il giudice rigetta la domanda con decreto
motivato non impugnabile, senza che ciò pregiudichi la riproposizione della domanda sia
in sede ingiuntiva che in sede ordinaria.
Al contrario, se il giudice ritiene provata l’esistenza del diritto, pronuncia inaudita altera
parte un decreto di condanna, con il quale ingiunge al debitore di adempiere nel termine
di 40 giorni, con l’avvertimento espresso che, entro il medesimo termine, è possibile
proporre opposizione e che, in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata.
Tale decreto, che viene redatto in calce al ricorso, è, al pari di una sentenza di condanna,
un provvedimento idoneo a consolidarsi ove non tempestivamente impugnato. Esso
normalmente non è esecutivo ma diventa tale a seguito dell’inutile decorrenza del
termine per proporre opposizione.
In alcuni casi, tuttavia, il decreto può nascere già provvisoriamente esecutivo nel senso
dell’ingiunzione al debitore di adempiere immediatamente con l’autorizzazione al
creditore a procedere, in mancanza, ad esecuzione forzata. In tal caso l’esecutività non è
subordinata al decorso del termine di 40 giorni dalla notifica del decreto, onde il termine
servirà solo a segnare il momento in cui non sarà più possibile proporre opposizione.
La concessione dell’esecuzione provvisoria è, a seconda delle circostanze, dovuta ovvero a
soggetta ad una valutazione discrezionale da parte del giudice. Ricorre la prima ipotesi
quando il credito è fondato su cambiale, assegno, certificato di borsa o atto notarile;
ricorre invece la seconda ipotesi quando il giudice ritenga sussistente il pericolo di un
grave pregiudizio nel ritardo, ovvero il ricorrente alleghi al ricorso un documento
sottoscritto dal debitore dal quale risulti l’esistenza del credito.
Poiché il decreto ingiuntivo è emesso inaudita altera parte, al fine di consentire la
realizzazione del contraddittorio con il debitore ingiunto, il decreto deve essere notificato
a quest’ultimo entro 60 giorni dalla sua concessione, altrimenti diventa inefficace.
Con la notificazione del decreto, che determina tra l’altro la pendenza della lite, il debitore
ingiunto è messo in condizione di reagire: se intende farlo, egli deve opporsi al decreto nel
termine di 40 giorni dal ricevimento della notifica; in mancanza di tempestiva
opposizione il decreto diventa esecutivo e comunque definitivo. In tal caso si realizza
pienamente l’esigenza di semplificazione che presiede al procedimento ingiuntivo: alla
notifica del decreto non seguita dall’opposizione nei 40 giorni prescritto dall’ART 645,
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corrisponde il massimo della semplificazione con realizzazione piena dello scopo
dell’istituto.
3. L’opposizione
Qualora il debitore ingiunto voglia contestare l’esistenza o l’ammontare della pretesa del
creditore, deve attivarsi instaurando nel termine di 40 giorni dalla notificazione del
decreto, il giudizio di opposizione. Tale giudizio va proposto davanti allo stesso ufficio
giudiziario che ha emesso il decreto, ed è introdotto con atto di citazione, o con ricorso. Il
seguito del giudizio di opposizione, si svolge pertanto secondo la tipologia di processo
imposta dal diritto imposta dal diritto fatto valere (NOTA: l’ART 645 stabiliva che “i
termini di comparazione sono ridotti alla metà. Tale previsione è stata prevalentemente
interpretata dalla giurisprudenza nel senso che il termine di costituzione dell’opponente a
decreto ingiuntivo sia ridotto a 5 giorni rispetto ai normali 10 allorché abbia egli
assegnato all’opposto un termine di comparizione inferiore a quello ordinario).
Caratteristica del giudizio di opposizione è l’inversione formale dei ruoli delle parti:
nell’opposizione l’originario creditore ingiungente assume la veste formale di convenuto,
malgrado egli abbia formulato la doma di tutela del credito, e debba essere dunque
considerato attore sul piano sostanziale; viceversa il debitore ingiunto, prendendo
l’iniziativa dell’opposizione, assume la veste formale di attore, malgrado la sua posizione
di convenuto in senso sostanziale, trattandosi di colui nei cui confronti la domanda di
condanna è stata proposta. Tale inversione formale si riflette anche sul contenuto degli
atti, nel senso cioè che la citazione in opposizione ha il contenuto della comparsa di
risposta, e dunque comprende i fatti modificativi, estintivi, e impeditivi del diritto fatto
valere la eventuali domande riconvenzioni.
L’inversione dell’iniziativa processuale non determina però una inversione dell’onere
della prova: il creditore (convenuto in opposizione) deve provare i fatti costitutivi del suo
diritto, il debitore ingiunto (attore in opposizione) deve provare i fatti motificativi,
impeditivi, e estintivi del suo diritto.
Oggetto del giudizio di opposizione è lo stesso diritto di credito per il quale è stato emesso
il decreto ingiuntivo; a differenza però di quanto accade nella fase sommaria, il giudice,
nel corso del giudizio di opposizione, deve accertare l’esistenza del diritto secondo le
norme della cognizione piena. Pertanto il creditore, in questa sede non può avvalersi delle
semplificazioni probatorie ammesse nella fase sommaria, ma deve utilizzare solo i mezzi
di prova previsti per il giudizio a cognizione ordinaria.
Qualora il decreto ingiuntivo non sia stato dichiarato provvisoriamente esecutivo ex 642,
il giudice che ne sia richiesto può concedere, alla prima udienza del giudizio di
opposizione, la provvisoria esecuzione del decreto quando l’opposizione non è fondata su
prova scritta o di pronta soluzione, o se l’istante offre cauzione.
Specularmente, se il decreto ingiuntivo comporta anzitutto l’uscita di scena del credito
ingiuntivo che perde ogni efficacia, compresa quella esecutiva qualora ne fosse già
munito. La regolamentazione dei rapporti tra le parti resta affidata alla sentenza di
accoglimento. La sentenza che definisce il giudizio sostituisce integralmente il decreto
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ingiuntivo anche nel caso di accoglimento parziale dell’opposizione; sarà essa a fungere
da titolo esecutivo per la minore somma o quantità riconosciuta, ma gli atti di esecuzione
eventualmente già compiuti sulla base del decreto provvisoriamente esecutivo
conservano la loro efficacia nei limiti della minor somma o quantità riconosciuta.
Il decreto ingiuntivo sopravvive invece, quale titolo del credito, alla sentenza che rigetta
in toto l’opposizione: se l’opposizione è rigettata “con sentenza passata in giudicato o
provvisoriamente esecutiva … il decreto, che non ne sia già munito, acquista efficacia
esecutiva” I(ART 653).
Il decreto sopravvive anche in caso di estinzione del procedimento di opposizione.
4. L’opposizione tardiva e le altre impugnazioni straordinarie
Il decreto ingiuntivo non opposto nei termini diventa esecutivo e definitivo; potrebbe
però accadere che la mancata opposizione non sia dipesa da scelta consapevole del
debitore ingiunto, ma da circostanze a questi non impugnabili. Se infatti il debitore prova
che, a causa di irregolarità nella notificazione o per caso fortuito o per fora a maggiore,
non ha avuto conoscenza del decreto, può proporre opposizione anche dopo che sia
decorso il termine di 40 giorni, purché siano decorsi 10 giorni dal primo atto di
esecuzione di decreto.
La C.C. ha ampliato i casi in cui è possibile proporre una opposizione tardiva,
riconoscendo altresì al debitore la possibilità di proporla quando abbia avuto conoscenza
del decreto ingiuntivo ma non sia riuscito a proporre opposizione tempestiva per caso
fortuito e forza maggiore.
Anche nel giudizio tardiva, in presenza di un decreto ingiuntivo definitivo , l’ART 656
ammette, quali impugnazioni straordinarie, la revocazione nei casi indicati nei numeri 1)
2) 5) e 6) ART 395 , da parte dei soggetti individuati dall’ART 404 c.2, l’opposizione di
terzi c.d revocatoria.
CAPITOLO 51. IL PROCEDIMENTO PER CONVALIDA DI LICENZA O DI SFRATTO
1. I presupposti di ammissibilità
Il procedimento per convalida di licenza o sfratto presenta, come quello per ingiunzione,
forti differenze di struttura rispetto al processo di cognizione regolato, al Libro II del
codice, dagli ARTT. 163 ss. Esso mira a permettere al locatore o concedente in affitto di
procurarsi velocemente un titolo esecutivo per il rilascio dell’immobile locato o affittato,
dietro verifica dei presupposti stabiliti dalla legge per il rilascio.
La sua disciplina è dettata dagli ARTT. 657-669, collocati nel Libro IV del codice, intitolato
ai “Procedimenti speciali”, a cui si aggiungono altre disposizioni esterne al codice, in
quanto contenute nella L. 392/1978. (c.d. “legge sull’equo canone).
Il procedimento è alternativo all’ordinario processo di cognizione e si può utilizzare per la
tutela del diritto alla restituzione di un bene immobile concesso in locazione, in affitto a
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coltivatore diretto, oppure conferito in esecuzione di alcuni contratti agrari di tipo
associativo.
Queste ipotesi sono tassative: il procedimenti non può essere utilizzato se il diritto alla
restituzione derivi da un contratto diverso da quelli elencati, con la conseguenza che, in
quest’ultimo caso, si potrà perseguire la restituzione solo con un ordinario processo di
cognizione.
Parti del processo saranno perciò il locatore o il concedente (attore); il conduttore /
affittuario / mezzadro / colono (convenuto).
Secondo gli ARTT. 657 (intimazione di licenza e di sfratto per finita locazione) e 658
(intimazione di sfratto per morosità), l’attore può intimare al convenuto:
a) licenza per finita locazione; l’ipotesi ricorre quanto il rapporto di locazione è ancora in
corso al momento dell’intimazione, ma l’attore vuole ottenere subito un titolo esecutivo
per il rilascio dell’immobile da far valere quando il contratto sarà scaduto;
b) sfratto per finita locazione; l’ipotesi ricorre, a differenza della precedente, quando il
contratto è già scaduto al momento dell’intimazione, e non è stato tacitamente rinnovato;
c) sfratto per morosità; l’ipotesi ricorre quando il convenuto non ha corrisposto il canone
alla scadenza pattuita. L’ART 5 della L del 1998 stabilisce che, se il conduttore ritarda di
20 giorni nel pagamento del canone o degli oneri accessori, il locatore gli può intimare lo
sfratto. In tal caso il locatore può anche chiedere che il giudice pronunci, insieme alla
convalida dello sfratto, anche un decreto ingiuntivo per il pagamento dei canoni.
2. Il procedimento. Forma ed effetti della domanda
La domanda si propone con citazione, cioè con l’atto descritto all’ART 163. L’ART 660
precisa però che la citazione per la convalida di licenza o di sfratto deve contenere, invece
dell’invito al convenuto a costituirsi almeno 20 giorni prima dell’udienza, e
dell’avvertimento che in difetto incorrerà nelle decadenza previste dall’ART 167, una
diversa indicazione: se non compare all’udienza indicata, o, pur comparendo non si
oppone, il giudice convalida la licenza o lo sfratto.
La competenza appartiene, al tribunale, mentre il foro (inderogabile) è quello del luogo in
cui si trova la cosa locata (ART 661).
L’atto introduttivo ha un contenuto complesso: è un involucro unico che cumula insieme
un atto di natura sostanziale ed un atto di natura processuale.
Carattere sostanziale riveste l’intimazione quale atto di volontà inteso a risolvere il
contratto; esso dunque può considerarsi equivalente, da questo punto di vista a
qualunque atto avente lo stesso contenuto.
Carattere processuale riveste invece la citazione volta alla convalida degli effetti
dell’intimazione, quale forma della domanda giudiziale di accertamento della conformità
alla legge dell’esercizio del potere e di concessione del titolo esecutivo per il rilascio.
La citazione va notificata al destinatario dell’intimazione (intimato) che assume così il
ruolo di convenuto.
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Poiché il procedimento è molto formalizzato e poiché l’assenza dell’intimato può
condurre ad un provvedimento immediato di convalida, la legge predispone alcune
cautele allo scopo di evitare il più possibile che l’intimato resti ignaro della citazione, e
conseguentemente non compaia all’udienza, facendo scattare il meccanismo della
convalida. A tale fine l’ART 660 prevede che la citazione sia notificata al domicilio reale e
non a quello eletto.
La notifica della citazione apre una fase del procedimento che si definisce “monitoria”: le
modalità del giudizio sono strettamente formalizzate ed il giudizio di merito è fortemente
condizionato dalla posizione assunta dalle parti valutata secondo precisi criteri formali,
predeterminati dalla legge. Si tenga però presente che qui il termine monitorio non si
riferisce ad un procedimento senza contraddittorio: nel procedimento per convalida di
sfratto il contraddittorio è garantito in ogni fase, come appare chiaro dall’impiego del
meccanismo della citazione notificata all’intimato.
2.1. La fase sommaria
Esaminiamo ora la posizione delle parti.
Se l’intimante non compare all’udienza per la quale è stato citato, gli effetti
dell’intimazione cessano: così l’art 662.
La natura anfibia dell’atto impone di precisare che la cessazione riguarda i soli effetti
processuali, non quelli sostanziali della citazione, con la conseguenza che viene meno la
pendenza del processo, e con essa la possibilità di ottenere un titolo esecutivo per il
rilascio. Restano invece in vita gli effetti sostanziali relativi alla disdetta: il contratto deve
considerarsi quindi come venuto meno.
(Attenzione. Ciò accade purché non si tratti di sfratto per morosità. Qui infatti la
risoluzione del contratto per il mancato pagamento di canoni ed oneri accessori
nella misura indicata dall’ART 5 L 1978, si ottiene solo con il procedimento speciale
che culmina nell’ordinanza di convalida. Se l’ordinanza non viene emessa, o gli
effetti dell’intimazione cessano, viene meno anche l’effetto risolutivo).
Se invece all’udienza contemplata in citazione non compare l’intimato, o esso, pur
comparendo non contesta la domanda, il giudice dispone, con ordinanza, la convalida
della licenza o dello sfratto.
In tal caso l’attore, oltre ad aver ottenuto la risoluzione del contratto, ha anche ottenuto
subito un titolo esecutivo per il rilascio dell’immobile. Tale titolo è costituito dall’originale
dell’ordinanza di convalida, in calce alla quale il giudice ordina di apporre la formula
esecutiva: così l’ART 663.
Nell’ipotesi in cui lo sfratto sia stato intimato, ai sensi dell’ART 658, per morosità, affinché
il giudice possa emettere l’ordinanza è necessario un ulteriore requisito: il locatore deve
attestare che la morosità persiste, cioè che nel periodo tra la notifica della citazione e
l’udienza i canoni e/o le spese accessorie dovute non sono state comunque pagate.
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Se invece il pagamento è avvenuto, sia pure dopo l’iniziativa processuale dell’attore e
persino all’udienza, il giudice non può emettere la convalida. Il legislatore preferisce
infatti evitare di privare il contenuto del bene se egli ha comunque pagato il dovuto.
Proprio a causa dei gravi effetti legati alla mancata comparizione all’udienza, la legge
impone però al giudice lacune verifiche prima di convalidare la licenza o lo sfratto a
seguito dell’assenza dell’intimato.
In particolare egli ve verificare, secondo le norme generali, che durante il subprocedimento notificatori non si sia verificata alcuna nullità, e che siano comunque state
rispettate le disposizioni particolari dettate dall’ART 660. In caso contrario, deve ordinare
la rinnovazione della notifica.
La rinnovazione va inoltre ordinata anche in assenza di nullità, se risulta dagli atti, o
appare comunque probabile, che l’intimato non abbia avuto conoscenza dell’intimazione
o, pur avendone avuto conoscenza, non abbia potuto opporvisi, per un caso fortuito o per
fora a maggiore.
La rinnovazione si accompagna alla fissazione di una nuova udienza, prima della quale
nessuna conseguenza negativa si verifica per l’intimato.
Anche se il giudice non ha riscontrato dagli atti elementi che portano a desumere la
mancata conoscenza della citazione da parte dell’intimato, ed abbia dunque pronunciato
la convalida, questi potrà comunque proporre l’opposizione tardiva prevista dall’ART
668, allegando l’esistenza dei motivi che gli hanno impedito di conoscere l’esistenza
dell’intimazione o comunque di comparire all’udienza per opporvisi.
2.2. L’opposizione dell’intimato ed in conseguente passaggio dal procedimento
speciale al giudizio a cognizione piena. La condanna con riserva
Accade spesso che l’intimato si presenti in udienza si opponga all'emissione
dell'ordinanza, assumendo che ne sono assenti i presupposti. In tal caso la legge prevede
la conversione del procedimento speciale in un procedimento cognizione piena. La
trasformazione avviene ad opera di leggi, senza bisogno di apposita istanza di parte: la
fase monitorio passa in un regolare giudizio di cognizione che assume le forme del rito del
lavoro. Nelle forme di tale giudizio di cognizione verrà quindi accertato se il locatore ha
diritto vantato ad ottenere il rilascio dell'immobile per la scadenza del contratto o in virtù
della sua risoluzione per inadempimento. La forma della decisione finale assumerà la
forma della sentenza.
Se però l'udienza per la convalida, il convenuto si difende allegando eccezioni non fondate
su prova scritta, il giudice, su richiesta dell'attore e se non ricorrono gravi motivi
incontrarlo, emette immediatamente ordinanza di rilascio dell'immobile, riservandolo
svolgimento del giudizio di merito l'accertamento della fondatezza delle eccezioni. Si
tratta di un'ordinanza non impugnabile ed immediatamente esecutiva; essa configura una
pronuncia allo stato degli atti, cioè una condanna con riserva delle eccezioni del
convenuto, eccezioni che verranno trattati in sede di cognizione. Il provvedimento resta
efficace finché non sia stata sostituita dalla sentenza di merito.
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3. L’efficacia dell’ordinanza ed il suo regime di impugnazione. L’opposizione
tardiva
L'ordinanza che convalida la licenza volo sfratto funge anzitutto da titolo esecutivo per il
rilascio dell'immobile. Inoltre, poiché mi sono confronti non sono previste impugnazioni,
la si deve considerare stabile e definitiva fin dalla sua pronuncia. Si capisce allora perché
la si annoveri tre provvedimenti provvisti della forza di giudicato: essa fa stato suo
rapporto dedotto in giudizio non diversamente da come farebbe stato una sentenza di
uguale contenuto.
La stabilità dell'ordinanza comunque collegata al presupposto che la non contestazione
dell'intimato sia stata frutto di una scelta volontaria. Per questo l’ART 668 prevede la
possibilità di una opposizione successiva alla convalida, La cosiddetta opposizione tardiva
dell'intimato che dimostri che, per irregolarità della notifica, o per caso fortuito o forza
maggiore, durante tutto conoscenza dell'intimazione o che, pur avendo avuto conoscenza,
non è potuto comparire all'udienza per caso fortuito o forza maggiore.
L'opposizione apro normale giudizio di cognizione cosiddetta piena che si conclude con
sentenza, proprio come nel caso in cui l'opposizione dell'intimato si verifica in udienza.
Con l'intervento della corte costituzionale è stata inoltre superato l'orientamento
restrittivo della giurisprudenza di legittimità che aveva sempre negato l'riscrivibilità,
contro l'ordinanza, sia della revocazione che dell'opposizione di terzo, in base ad una
interpretazione letterale rispettivamente degli articoli 395 e 404, che fanno riferimento
alle sole sentenze. Oggi non questa inibire contro l'ordinanza sia l'opposizione di terzo
che la revocazione, quest'ultima però solo per errore di fatto.
CAPITOLO 52. I PROCEDIMENTI POSSESSORI
1. Le azioni possessorie
L’ART 703 disciplina lo svolgimenti dei c.d. procedimenti possessori, cioè dei
procedimento conseguenti all’esercizio dell’azione di reintegrazione e dell’azione di
manutenzione del possesso.
E’ detta azione “di reintegrazione” l’azione concessa a chi è stato “vi et clam spogliato del
possesso”. Questi, entro l’anno dallo spoglio sofferto, può chiedere “contro l’attore di esso
la reintegrazione del possesso medesimo”. Dal punto di vista della legittimazione attiva,
l’ART 1168 c.2 c.c. riconosce azione altresì al detentore della cosa, “tranne il caso che
abbia per ragioni di servizio o di ospitalità”: si distingue peraltro tra il detentore
qualificato legittimato ad agire in tutela possessoria, ed il detentore non qualificato non
legittimato.
L’azione di manutenzione spetta invece a chi è stato “molestato” nel possesso; questi può,
“entro panno dalla turbativa, chiedere la manutenzione del possesso medesimo”. La
condanna è concessa a colui il cui possesso dora da oltre un anno, in maneira continua ed
interrotta. Il possesso inoltre non deve essere acquistato vi et clam.
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Le azioni possessorie sono date a tutela dello jus possessionis, cioè del diritto
dell’effettivo possessore, di continuare a godere della situazione possessoria vanificando i
tentativi di spossessamento o di disturbo nel godimento della res.
Lo jus possessionis è un vero e proprio diritto.
2. Il procedimento possessorio
La peculiarità dei diritti tutelati e delle relative azioni dà ragione della peculiarità delle
forme processuali che caratterizzano il procedimento possessorio Infatti, con lo stesso
atto introduttivo la parte che lamenti la lesione della sua situazione possessoria introduce
un unico giudizio che si svolge in due fasi: la prima sommaria, la seconda a cognizione
ordinaria.
Atto introduttivo di tali giudizi è il ricorso, da depositare presso la cancelleria del giudice
“del luogo nel quale è avvenuto il fatto denunciato”. Il giudice provvede secondo le forme
previste dal rito cautelare uniforme, in quanto compatibili, alla pronuncia di un’ordinanza
che statuisce provvisoriamente sulla situazione possessoria. Si parla di “provvedimento
interdittale”, intendendosi un provvedimento concesso su cognizione sommaria e
destinato a essere immediatamente eseguito.
L’ordinanza è soggetta al mezzo di gravame de reclamo cautelare regolato dall’ART 669.
terdecies.
Conclusa la fase sommaria, il procedimento possessorio entra in uno stato di quiescenza,
dal quale necessariamente deve uscire. Ciò può verificarsi in due modi, di cui dà conto il
c.4 ART 703: o per l’inutile decorso del termine perentorio di 60 giorni concesso alle parti
per la prosecuzione del giudizio nel merito; o attraverso l’istanza, proposta enti tale
termine perentorio, con la quale una delle parti chiede al medesimo giudice di fissare
l’udienza per la prosecuzione del giudizio di merito.
Tale termine perentorio decorre dalla comunicazione dell’ordinanza di cui al c.3 ART 703,
a meno che non sia stato proposto reclamo avverso tale ordinanza,nel qual caso il termine
inizierà a decorrere dalla pronuncia o dalla comunicazione dell’ordinanza che decide sul
reclamo.
Il c.4 ART 703 conclude prevedendo l’operativià, nel procedimento possessorio, della
previsione dell’ART 669-novies c.3, a norma del quale si ricorda “Il provvedimento
cautelare perde altresì efficacia se non è stata versata la cauzione di cui all’ART 669undecies, o se con sentenza, anche non passata in giudicato, è dichiarato inesistente il
diritto a cautela del quale è stato concesso”.
La mera facoltatività della prosecuzione del giudizio di merito, nonché l’evocazione del
solo c.3 art 669-novies, rendono palese che, qualora le parti non proseguano al giudizio,
l’ordinanza di cui al c.3 ART 703 acquista stabilità. Ciò significa che essa continua a
regolare la situazione possessoria dedotta in giudizio anche una volta estinto il processo a
cognizione piena: le ordinanze possessorie sono indubbiamente anch’esse provvedimenti
a carattere anticipatori, nel senso precipuo in cui il termine è usato nell’ambito del
procedimento cautelare.
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Qualora invece la parte interessata chieda la fissazione dell’udienza per il giudizio, essa
deve farlo depositando l’apposita istanza in cancelleria. Il giudice assegnerà quindi
termine per deposito di memoria integrativa, fissando contestualmente l’udienza dell’ART
183. Il processo che segue è dunque un ordinario giudizio di cognizione volto
all’accertamento dell’esistenza e della lesione dello jus possesionis e degli obblighi
concessi.
3. I rapporti tra procedimento possessorio e giudizio petitorio
Lo jus possessionis prevale sullo jus possidenti (diritto del non possessore all’acquisto del
possesso) in caso di conflitto. Beninteso, si tratta di una prevalenza immediata e
provvisoria, nel senso che il titolare di diritto real sulla cosa non può invocare il proprio
diritto per privare del possesso chi tale possesso sta esercitando. Di qui la regola
tradizionale per cui nel giudizio possessorio l’eccezione del venuto di aver agitò nel
legittimo esercizio del proprio diritto non è ammissibile quanto tenda a far valere non lo
jus possessioni, ma lo jus possidenti, e quindi il diritto a possedere dello spogliatore
medesimo.
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