PROCEDURA CIVILE SECONDA PARTE. CAPITOLO 37. LE FASI DI QUIESCENZA DEL PROCEDIMENTO 1. Le fasi di quiescenza del procedimento Le fasi di quiescenza del procedimento è uno stato di arresto della procedura, un periodo nel corso del quale il processo pende ma non possono venir compiuti i normali atti della serie procedimentale. La quiescenza è sempre uno stato provvisorio: l’arresto del processo può venir meno attraverso specifici atti di impulso; in mancanza di tali atti, alla scadenza di un determinato lasso di tempo, il processo è destinato ad estinguersi. Il procedimento di cognizione può restare quiescente per varie cause: 1) Sospensione; 2) Interruzione; 3) Cancellazione della causa dal ruolo. 2. Sospensione La sospensione del processo di cognizione è uno stato di quiescenza del procedimento: ART 298, c.1, che prescrive che “durante la sospensione non possono essere compiuti atti del procedimento”. La sospensione interromper i termini in corso (c.2): questi torneranno a decorrere dalla ripresa della procedura. L’effetto sospensivo è unitario, ma le cause della sospensione sono molteplici e varie. nella sezione dedicata all’istituto, il codice prevede agli ARTT 295-296, due figure di sospensione: una c.d. necessaria, e una c.d. concordata dalle parti. A stare alla legge, le parti possono ottenere di comune accordo, una sospensione del processo (ART 296). Questa sospensione concordata è un istituto praticamente morto per la misura temporale ridicola del periodo massimo di sospensione: tre mesi. In un sistema in cui i singoli gradi del processo duranti anni, e dove i tempi fra un’udienza ed un’altra, sono in media superiori a 4 mesi, la sospensione concordata si è ridotta ad una mera possibilità teorica. Messa da parte la sospensione dell’ART 296, le figure di sospensione appaiono molto eterogenee: se proprio se ne vuole trovare un comune denominatore, le si può dire genericamente accomunate dall’opportunità da una pausa procedurale in attesa di un eventi rilevante per il processo o per la decisione. Proviamo intanto ad elencare le principali figure di sospensione previste dalla legge, oltre a quelle contemplate dal 295 e 296: 1) Sospensione per rimessione alla Corte di Giustizia Europea; 2) Sospensioni previste dal’ART 27 del Regolamento del 2001, per preventiva pendenza di un identico giudizio di fronte all’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro; 3) Sospensione per pendenza di un processo straniero ai sensi dell’ART 7, L. 1995; 1 Etc. Etc. 3. Sospensione necessaria E veniamo alla sospensione c.d. necessaria, dalla rubrica dell’ART 295. Il giudice “dispone che il processo sia sospeso” quando occorre “risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa”. Qui l’esigenza di arrestare il corso del processo è legata al fatto che un altro giudice deve decidere un’altra causa, che si presenta pregiudiziale rispetto a quella considerata. La pregiudizialità consiste nel fatto che la decisione nel merito del processo passabile di sospensione dipende giuridicamente dalla decisione della causa pregiudiziale. Esempio tipico è la causa di riconoscimento della paternità rispetto alla causa di alimenti. Gli alimenti chiesti al congiunto sono infatti dovuto solo se sussiste il rapporto di parentela addotto quale elemento dell’obbligo: se il rapporto di filiazione non sussiste, la domanda di alimenti deve essere rigettata. Di norma, il giudice della causa alimentare conosce solo incidentalmente del rapporto di filiazione; se però di fronte ad un altro giudice e tra le stesse parti, pendesse un autonomo giudizio su tale rapporto, egli dovrebbe ordinare la sospensione del processo per attendere il passaggio in giudicato della relativa sentenza. Il tenore dell’ART 295 è generale, ma bisogna tenere conto che, nella pratica, può facilmente mancare qualcuno degli elementi indispensabili per imporre la sospensione. Cominciamo a scartare l’idea che sospensione possa aversi quando la causa pregiudiziale pende di fronte allo stesso giudice della causa “pregiudicata”: in questo caso il giudice non può sospendere il processo. Quando infatti la causa pregiudiziale pende di fronte allo stesso ufficio giudiziario perché essa è stata instaurata con domanda autonoma (rispetto alla causa pregiudicata), dovrà farsi applicazione dell’ART 274, cioè della riunione di procedimenti relativi a cause connesse. Quando invece la causa pregiudiziale sorge nel corso della trattazione della causa dipendente (attraverso il meccanismo della trasformazione della questione in causa di cui all’ART 34), il processo non subisce alcuna sospensione in quanto il giudice dovrà trattare nell’unico processo davanti a lui, entrambe le cause (c.d. simultaneus processus). Ovvero, se incompetente sulla causa pregiudiziale, dovrà rimettere al giudice competente, ambedue le cause. Per avrsi sospensione, la causa pregiudiziale deve quindi pendere di fronte ad un giudice diverso rispetto a quello davanti a cui pende la causa dipendente. Nemmeno questo, però, basta: anche in ipotesi di due cause legate da nesso di pregiudizialità e proposte a giudice diversi, per aversi sospensione occorre che sia impossibile l’applicazione del meccanismo dell’ART 40 c.1, cioè della riunione di fronte al giudice preventivamente adito delle due cause. Occorre cioè che questa riunione sia resa in concreto impossibile per tardività della rilevazione, ovvero per impossibilità di proficua trattazione delle due cause. 2 Aggiungiamo poi che, malgrado l’ampio significato di “altro giudice”, non si può generalizzare la pregiudizialità al di fuori della giurisdizione ordinaria. Tanto per cominciare è difficile trovare ipotesi di pregiudizialità tra il processo amministrativo e quello civile. Infatti il giudice civile ha sempre il potere di disapplicare l’atto amministrativo illegittimo, sicché tutte le volte in cui un diritto dipende da un atto impugnato per le vie della giurisdizione amministrative di legittimità, la controversia su tale diritto non dovrà affatto essere sospesa, potendo il giudice semplicemente limitarsi a disapplicare l’atto in questione. Rispetto alla giurisdizione amministrativa esclusiva, in astratto nulla impedisce di concepire una pregiudizialità amministrativa quale fattispecie di obbligo di sospensione, ma la realtà presenta casi del genere abbastanza raramente. Quanto alla giurisdizione penale, malgrado la rilevanza sul piano civile della condanna o dell’assoluzione dell’imputato, il sistema sancisce una generale libertà del giudizio vivile rispetto a quello penale. Il rapporto tra la giurisdizione civile e quella penale è cioè regolato nel senso di una tendenziale separazione dei giudizi, con esclusione quindi della sospensione del processo civile anche quando la decisione di quest’ultimo dipenda dall’esito del processo penale. Fanno eccezione le seguenti ipotesi: a) trasferimento i sede civile dell’originaria domanda (restitutoria o risarcitoria) proposta nella forma della costituzione di parte civile nel processo penale. Qui il processo civile pende ma resta soppeso in attesa della decisione del giudice penale; b) proposizione della domanda in sede civile dopo la sentenza penale di primo grado. In caso di appello di tale sentenza, il processo civile resta sospeso in attesa della decisione dei successivi gradi del giudizio penale. Veniamo infine al procedimento reso in materia di sospensione: quale organo è abilito a pronunciarlo; quale è la forma; se vi sono mezzi di controllo. I provvedimento relativi alla sospensione hanno forma di ordinanza. L’ordinanza viene pronunciata dal collegio se la causa di sospensione viene rilevata nella fase decisoria. L’ordinanza è di regola non impugnabile; è però impugnabile con il solo mezzo del regolamento di competenza l’ordinanza che dispone la sospensione necessaria del processo (ART 42). Ciò significa che restano non impugnabili: a) le ordinanze che rigettano l’istanza di sospensione; b) le ordinanze che accolgono l’istanza di sospensione ma fuori dalle ipotesi di sospensione necessaria ai sensi dell’ART 295. La Corte di Cassazione, in sede di regolamento di competenza, è chiamata a valutare se la sospensione necessaria stata correttamente disposta dal giudice; per far questo essa deve valutare l’effettiva sussistenza del nesso di pregiudizialità tra le decisione del processo “a monte” (pregiudicante) e la decisione del processo sospeso (pregiudicato). L’ordinanza 3 verrà confermata, e il processo rimarrà sospeso, se il nesso viene riconosciuto tale da imporre la sospensione, e verrà viceversa annullata se il nesso non viene considerato talmente forte da imporre la sospensione. 4. L’interruzione L’interruzione è un arresto del procedimento, in sé e per sé non dissimile dalla quiescenza che consegue alla sospensione, ma diverso nei presupposti e nella ratio. L’istituto dell’interruzione mira infatti a permettere il rispetto dell’effettività del contraddittorio di fronte ad eventi che possono concretamente compromettere tale effettività. Gli eventi considerati dalla legge quali fattispecie di interruzione, sono: a) morte della persona fisica / estinzione della persona giuridica; b) perdita di capacità della parte, o b1) perdita di capacità del rappresentante legale, o b2) cessazione della rappresentanza legale. Si noti che la rappresentanza in parola è esclusivamente la “rappresentanza legale” mentre restano escluse dall’area dell’interruzione le vicende estintive tanto della rappresentano volontaria quanto della c.d. rappresentanza organica. Una forma di perdita della capacità in corso di causa di grandissimo rilievo pratico nel processo è il sopravvenire del fallimento (o la sottoposizione a liquidazione coatta amministrativa o a amministrazione straordinaria) della parte che sia imprenditore commerciale. Il processo non può proseguire nei confronti di questo soggetto e ad esso succederà normalmente il curatore fallimentare. Si tratta in questo caso di una interruzione automatica, dal momento che “L’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo”. In tutti i casi previsti, la legge ritiene opportuno impedire il compimento di atti processuali che potrebbero danneggiare la parte colpita dall’evento, allo scopo di permettere una nuova costituzione dei soggetti a cui spetta di proseguire validamente il processo. Ciò spiega perché in certe fasi procedurali, o in certi tipi di procedimento, non si dia luogo a interruzione: non si considerano infatti soggetti ad interruzione il giudizio di cassazione, i procedimenti di esecuzione forzata, il procedimento monitorio. Sul piano procedurale si distinguono morte e perdita della capacità avvenuti prima del termine per la costituzione tempestiva (ART 299), da morte e capacità della parte costituita o della parte dichiarata contumace (ART 300). Ai sensi dell’ART 299, se, prima della costituzione, “sopravviene la morte oppure la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti o del suo rappresentante legale o la cessazione di tale rappresentanza, il processo è interrotto”. Ai sensi dell’ART 300, se uno degli eventi previsti dall’ART 299 “si avvera nei riguardi della parte che si è costituita a mezzo di procuratore, questi lo dichiara in udienza o lo notifica alle altre parti”. In tal caso l’interruzione non consegue automaticamente 4 all’evento, ma necessita di apposita dichiarazione del difensore della parte colpita dell’evento. In mancanza di tale dichiarazione, il processo continua regolarmente. Nel caso in cui l’evento interruttivo colpisca la parte dichiarata contumace, l’ART 300 c.4 prevede che il processo è interrotto dal momento in cui il fatto interruttivo è documentato dall’altra parte, o è “notificato o certificato dall’U.G., nella relazione di notificazione di uno dei provvedimento di cui all’ART 292”. L’interruzione della procedura ha un senso finché spetti alle parti compiere atti, vale a dire fino alla scadenza del termine per il deposito dell’ultimo atto dimensionale: scaduto tale termine all’attività delle parti si sostituisce solo il dovere decisorio del giudice e non resta da garantire alcuna esigenza di salvaguardino del contraddittorio. Eventi in grado di provocare l’interruzione del processo possono colpire anche il procuratore della parte, cioè il suo avvocato. L’ART 301 (morte o impedimento del procuratore) prescrive che, se la parte è costituita a mezzo di procuratore, il processo è interrotto dal giorno della morte, radiazione o sospensione. L’interruzione è automatica, non richiedendosi alcune previa dichiarazione, ma la rilevanza dell’evento è anche qui subordinata al suo verificarsi anteriormente al termine per il compimento dell’ultimo atto difensivo della parte: dopo tale momento non vi è più alcuna esigenza di contraddittorio da salvaguardare. Il c.3 ART 301 specifica che non sono cause di interruzione “la revoca della procura o la rinuncia ad essa”. La norma è il logico svolgimento del principio di ultrattività della procura fissato dall’ART 85, secondo cui “la revoca o la rinuncia non hanno effetto nei confronti dell’altra parte finché non sia avvenuta la sostituzione del difensore”. Ne segue che fino al momento della sostituzione tutte le comunicazioni e notificazioni continueranno legittimamente a farsi al procuratore costituito ai sensi dell’ART 170. Il periodo di interruzione può concludersi con la ripresa del procedimento ovvero con la sua estinzione. L’art 305 stabilisce che “il processo deve essere proseguito o riassunto entro iil termine perentorio di 3 mesi dall’interruzione, altrimenti si estingue”. Si ha “prosecuzione” quando l’iniziativa di rimettere in moto il procedimento è presa dalla parte toccata dall’evento interruttivo, ovvero dai suoi eredi o comunque dal nuovo soggetto a cui spetta prenderne il posto. Prosecuzione significa quindi nuova e volontaria costituzione di tale soggetto con ripristino della regolarità del contraddittorio. Si ha invece “riassunzione” quando è la controparte a prendere l’iniziativa di rimettere in moto il procedimento. In tal caso, tramte “atto di riassunzione”, verrà effettuata la vocativo in jus dei soggetti che debbono costituirsi per proseguire il processo. Il soggetto che procede alla prosecuzione deve provvedere a costituirsi; la sua costituzione potrà avvenire direttamente all’udienza o in cancelleria. Se il processo non vene riavviato con il meccanismo della prosecuzione, l’altra parte può riassumere il processo (art 305). L’atto di riassunzione assume la forma della citazione se vi sia un’udienza già fissata, e la forma del ricorso se, mancando fissazione di udienza, occorre stabilirne la data. Il ricorso va depositato presso la cancelleria del giudice, il quale provvederà con decreto alla fissazione di udienza e assegnerà un termine per la notifica a coloro che debbono 5 costituirsi per proseguire il processo. La citazione verrà notificata: personalmente alle parti mutate a seguito dell’evento interruttivo. In caso di morte della parte “il ricorso deve contenere gli estremi della domanda, e la notificazione entro un anno dalla morte può essere fatta collettivamente e impersonalmente agli eredi, nell’ultimo domicilio del defunto”: L’u.c. del 303 prevede che “se la parte che ha ricevuto la notificazione non compare all’udienza fissata si procede in sua contumacia”. Tanto la prosecuzione quanto la riassunzione debbono essere compiute entro il termine perentorio di 3 mesi; in mancanza il processo si estingue. CAPITOLO 38. L’ESTINZIONE 1. Introduzione L’estinzione del processo è il fenomeno per cui il rapporto processuale instaurato non si conclude con la sentenza di merito, ma con un provvedimento che chiude il processo senza pronunciare sulla domanda. Le cause dell’estinzione del giudizio ordinario di cognizione di primo grado sono due: la rinuncia agli atti del giudizio (ART 306) e la inattività delle parti (art 307). Quando si verifica una di tali fattispecie il processo si estingue; la parte interessata alla dichiarazione di estinzione è abilitata a servirsi della relativa eccezione ma, in mancanza, lo stesso giudice è tenuto a dichiarare l’estinzione (Nota: la rilevabilità d’ufficio dell’eccezione di estinzione èsytata introdotta dalla L. 69/2009. In precedenza, non solo l’eccezione era riservata alla parte interessata ma addirittura questa doveva necessariamente servirsene nella sua prima difesa, pena la presunzione di abbandono. La disciplina previgente esprimeva, dunque, un netto favore per la continuazione del giudizio, e, quindi, per la definizione nel merito della controversia. Nel nuovo regime, viceversa, la mancata dichiarazione dell’estinzione diviene oggi correttamente denunciabile quale motivo di impugnazione). 2. La rinunzia agli atti L’attore può rinunciare agli atti del giudizio in corso con effetto estintivo dello stesso. La rinuncia non può provenire ovviamente dal convenuto: sarebbe paradossale che il chiamato in giudizio possa sottrarsi alla sua soggezione al giudizio rinunciandovi. Il processo si estingue se la rinuncia è accettata dalle parti costituite che potrebbero avere interesse alla prosecuzione del processo. L’ART 306 c.1 specifica che l’accettazione non è efficace se contiene riserve o condizioni. Che significa questo? L’esperienza insegna che l’attore può decidere ad un certo momento di lasciar perdere, di ritirassi dal processo. Le cause possono essere vare: la consapevolezza sopravvenuta del proprio torto, una qualche difficoltà insorta, eccetera. A prescindere dalle ragioni che spingono l’attore a rinunciare alla tutela giurisdizionale ottenibile con quel processo, la rinuncia è comunque un atto “puro”, non legato 6 casualmente alla propria ragione psicologica: da punto di vista processuale, cioè, non occorre indagare sulle motivazioni oche portano l’attore a rinunciare. Questo effetto è appunto l’estinzione del processo, cioè la chiusura del rapporto processuale in corso: in sé considerata la rinuncia agli atti significa rinuncia al processo ma non all’airone, non cioè al diciotto tutelato dal processo e, quindi, non alla possibilità di proporre daccapo la domanda giudiziale. In tal senso la rinuncia agli atti viene distinta dalla rinuncia all’azione, cioè al diritto azionato. La rinuncia all’azione comporta la non riproponibilità della relativa domanda giudiziale. L’ART 306 impone che la rinuncia debba provenire dalla parte personalmente, o dal procuratore speciale. Non si tratta quindi i un atto normalmente rientrante nei poteri del difensore: per rinunciare efficacemente questi deve essere autorizzato ad hoc. La dichiarazione di rinuncia può essere fatta verbalmente all’udienze, o “con atti sottoscritti e notificati alle altre parti” (ART 306 c.2). Per essere efficace, inoltre, la rinuncia deve essere “accettata dalle parti costituite che potrebbero aver interesse alla prosecuzione”. E’ necessaria invece l’accettazione delle parti costituite, ma non di tutte ma solo di quelle che “potrebbero avere interesse, alla prosecuzione”. Chi sono queste? Possiamo considerare subito che non hanno interesse alla prosecuzione le parti che si sono limitate a chiedere il rigetto della domanda in punto di rito, in quanto non può avere interesse alla prosecuzione chi vuole far morire il processo. Ne consegue che, per l’efficacia della rinuncia agli atti, non è necessaria alcuna accettazione del convenuto che si è limitato a sollevar eccezioni processuali. Invece, la parte che si è difesa entrando le merito della domanda, rivela in tal modo di aver interesse alla prosecuzione del processo. Mostra, cioè, di avere anch’essa interesse ad una sentenza di merito, una sentenza di segno contrario a quella dell’attore ma comunque incisene sulle situazioni stanziali coinvolte nel processo: sappiamo infatti che la sentenza di rigetto ha la stessa idoneità al giudicato sostanziale della sentenza di accoglimento. Possiamo pertanto dire che vanno considerati “interessati” alla prosecuzione del giudizio e devono pertanto accettare la rinuncia a pena di inefficacia dell’atto, le controparti dell’attore che hanno esperito difese di merito nel processo. Si pone il problema se debbano considerarsi interessate le pratiche si sono contemporaneamente difese in rito e in merito. La risposta è dubbia, ma si tende a dire che questo convenuto non manifesta un vero interesse alla prosecuzione del processo: le eccezioni di rito sarebbero di per sé pregiudiziali rispetto a quelle di merito, e la loro proposizione indicherebbe inequivocabilmente ce egli si ritiene a priori soddisfatto della chiusura del processo senza esame del merito, cioè di un effetto equivalente a quello della rinuncia agli atti. 3. L’inattività delle parti L’altra fattispecie di estinzione è data dall’inattività delle parti nei casi previsti dalla legge. Un primo gruppo di casi di inattività è descritto dal c.1 ART 307. 7 Si tratta di casi in cui un processo in stato di quiescenza deve essere riassunto entro il termine perentorio di tre mesi dalla data in cui è entrato in quiescenza. E la quiescenza può dipendere da una intervenuta cancellazione dal ruolo o dal fatto che il processo, pur pendendo, non è mai stato iscritto al ruolo. Quest’ultimo caso è quello della mancata costituzione di ambedue le parti nei termini stabiliti dalla legge, mentre i casi in cui il giudice ordina la cancellazione dal ruolo sono: - quello in cui nessuna delle parti costituite è compara all’udienza “di recupero” fissata dal giudice quando la prima udienza è andata deserta; - quello in cii nessuna delle parti costituite è comparsa all’udienza “di recupero” fissata dal giudice quando una qualunque udienza successiva alla prima è andata deserta (ART 309); - quello in cui nessuna delle parti ha provveduto alla citazione del terzo ordinata dal giudice (ART 270 c.2); - quello in cui, costituitosi tardivamente l’attore, anche il convenuto si sia costituito fuori termine eccependo l’intempestività della costituzione del primo. Il processo deve essere riassunto davanti allo stesso giudice nel termine perentorio di tre mesi. In mancanza di tempestiva riassunzione, il processo si estingue. In tutti questi casi, una volta riassunto, il processo si estingue “se nessuna delle parti si sia costituita”; l’estinzione si verifica alla data della scadenza del termine per la costituzione della parte nei cui confronti è operata la riassunzione. Il processo si estingue inoltre se “nei casi previsti dalla legge il giudice ordini la cancellazione della causa dal ruolo” (ART 307 c.2). In altri termini, se il processo è stato già riassunto dopo un termine di quiescenza, una nuova, eventuale cancellazione della causa dal ruolo determinerà sempre estinzione immediata, anche se si tratti di un tipo di cancellazione che di per sé porterebbe ad un nuovo periodo di quiescenza: la legge non ammette quindi che un secondo periodo di quiescenza possa succedere al primo. Un secondo gruppo di casi è contemplato dall’ART 307 c.3, che richiama il comportamento inerte delle parti “alle quali spetta di rinnovare la citazione o di proseguire, riassumere o integrare il giudizio”: il processo, infatti, si estingue immediatamente ove queste “non vi abbiano provveduto entro il termine perentorio stabilito dalla legge, o dal giudice che dalla legge sia autorizzato a fissarlo”. Rientrano in tali previsioni: - ART 164 c. 2 (mancata rinnovazione della citazione nulla nel termine perentorio fissato dal giudice che riscontri una vizio nella vocativo in jus); - ART 291 (mancata rinnovazione della notificazione della citazione, nel termine perentorio fissato dal giudice che riscontro un vizio della notificazione che potrebbe giustificare la mancata costituzione del convenuto); - ART 102 c.2 (mancata integrazione del contraddittorio nel termine fissato dal giudice); - ART 305 (mancata riassunzione o prosecuzione del processo interrotto entro 3 mesi); 8 - ART 290 (mancata costituzione dell’attore non correlata ad istanza di prosecuzione del processo da parte del convenuto), - ART 181 c.2 (mancata comparizione dell’attore all’udienza fissata ad hoc dal giudice a seguito della mancata comparizione dell’attore già costituito alla prima udienza). Possiamo quindi fissare una duplice casistica di estinzioni per inattività: Nella prima serie di casi (art 370 c.1), l’estinzione consegue ad una doppia inattività: la primitiva inattività considerata dalla legge è idonea a provocare solo un provvedimento di cancellazione della causa dal ruolo; occorrerà poi che passi un trimestre senza una successiva attività di riassunzione perché possa prodursi l’estinzione. Nella seconda serie di casi (ART 307 c.3), fattispecie dell’estinzione è una singola inattività: l’estinzione è immediata e consegue alla cancellazione della causa dal ruolo. 4. Rilevazione e pronuncia di estinzione L’ultimo comma dell’ART 307 afferma che “l’estinzione opera di diritto ed è dichiarata, anche d’ufficio”. L’espressione “opera di diritto” sta ad indicare che l’estinzione non è l’effetto della pronuncia che la dichiara, pronuncia che assume il valore di mero provvedimento ricognitivo di una situazione già avveratasi (seppur non dichiarata), con la conseguenza che la dichiarazione retroagisce al momento in cui si è perfezionata la fattispecie estintiva (es. la dichiarazione di estinzione viene pronunciata il 27 Dicembre, ma l’assenza bilaterale che, ai sensi dll’ART 309, ha provocato l’estinzione, ha riguardato l’udienza del 21 Settembre l’estinzione si considera a tutti gli effetti avveratasi il 21 Settembre). L’u.c. ART 307 prescrive che l’estinzione è dichiarata “con ordinanza del g.i. ovvero con sentenza del collegio”. L’ART 308 c.1 prevede ancora che l’ordinanza che pronuncia l’estinzione sia reclinabile al collegio. Come si può vedere, la legge si limita a richiamare la struttura classica istruttore-collegio, nulla dicendo del caso normale in cui il processo sia a decisione monocratica. Dobbiamo operare dunque alcuni chiarimento. Struttura collegiale: l’accoglimento dell’eccezione di estinzione sollevata nella fase istruttoria prende forma di ordinanza del g.i. reclinabile al collegio. Il c.2 ART 308 aggiunge che il collegio provvede in camera di consiglio con sentenza se respinge il reclamo, e con ordinanza non impugnabile se l’accoglie. In altre parole, il rigetto del reclamo (e quindi la conferma dell’estinzione) viene deciso con pronuncia impugnabile, mentre l’accoglimento del reclamo viene deciso con un provvedimento definitivo. Ciò consente di dire che la legge favorisce la prosecuzione del processo e la sua conseguente conclusione in merito. Il rigetto dell’eccezione viene pronunciato dal g.i. con ordinanza, ma tale ordinanza non è autonomamente reclinabile: il processo prosegue e la questione dell’estinzione si potrà ritualmente riproporre al collegio in sede di precisazione delle conclusioni. Struttura monocratica: nella forma dell’ordinanza sarà reso il solo provvedimento che nega che si sia verificata l’estinzione emesso in fase istruttoria. Il provvedimento che 9 dichiara l’estinzione assume invece la forma della sentenza: essendo importante che il provvedimento sia controllabile da un diverso giudice, e non essendo possibile il reclamo, occorre che l’estinzione sia dichiarata con un provvedimento impugnabile. La sentenza, che è appellabile per regola generale, si presta perfettamente allo scopo. Se però il giudice di fronte a cui è sollevata l’eccezione di estinzione la rigetta, la forma di tale rigetto resta quella dell’ordinanza. In tale caso l’ordinanza che rigetta l’eccezione di estinzione non è autonomamente impugnabile: se la parte interessata a far dichiarare l’estinzione vuole insistere, deve riproporre la propria eccezione in sede di precisazione delle conclusioni. Se l’eccezione è sollevata ad istruttoria conclusa la pronuncia del g.i. che decide in veste di giudice monocratico, rivestirà sempre forma di sentenza, sia che rigetti l’eccezione di estinzione decidendo il merito della causa, sia che l’avvolga e declini quindi la decisione nel merito: in ambedue i casi la questione sarà riproponibile con l’appello. 5. Gli effetti dell’estinzione Gli effetti dell’estinzione sono stabiliti dall’ART 310. Ad estinguersi è il processo: consistendo questo in una serie coordinata di atti, l’estinzione da un lato impedisce di compiere ulteriori atti della serie, dall’altro “rende inefficaci gli atti compiuti” (ART 310 c.2). L’estinzione non estingue l’azione. Sappiamo già cosa questo vuol dire: l’estinzione sancisce la chiusura del processo in corso senza decidere però dei diritti fatti valere con la domanda, sicché tali diritti saranno ancora “azionabili”. Si dddi, cioè, potrà ancora eventualmente decidersi in un nuovo processo generato da autonoma domanda che li riguardi; nessun giudicato dunque colpisce l’azione. Come regola generale dunque, gli atti del processo perdono la loro efficacia, non sopravvivono cioè al venir meno della serie procedimentale che dava loro un senso ed una funzione. Questo vale in linea di principio per gli atti delle parti e per quelli degli uffici, con l’eccezione di alcuni provvedimento. Così non vengono travolte dall’estinzione le sentenze di merito e le pronunce “che regolano la competenza”: esse mantengono la loro efficacia tra le parti negli eventuali nuovi processi che dovessero avere luogo tra queste sulla medesima situazione litigiosa. L’espressione “pronunce che regolano la competenza” india i provvedimenti della Corte di Cassazione che decidono la questione di competenza sia pronunciando sullo specifico rimedio del regolamento di competenza, sia pronunciando sulla competenza all’esito di ricorso ordinario. Le altre pronunce che conservano la loro efficacia oltre il processo estinto sono “le sentenze di merito”. Sappiamo che nel corso del processo possono aversi sentenza che decidono in qualche modo del merito della domanda proposta al giudice ma che non concludono il grado di giudizio, cioè non “definiscono il giudizio”. Se il giudizio, che prosegue dopo la loro pronuncia, si estingue, tali sentenze sopravvivono all’estinzione restando efficaci, e quindi imponendosi al giudice dell’eventuale, futuro processo sul medesimo oggetto e tra le stesse parti. 10 Non sopravvivono all’estinzione invece le ordinanze istruttorie e le sentenze meramente processuali. Vi sono però delle apparenti eccezioni alla perdita di efficacia delle ordinanze: abbiamo già visto, infatti, che le ordinanze di condanna anticipatori emesse nel corso del giudizio conservano la loro efficacia se il processo si estingue. Secondo l’ART 310 c.3 “le prove raccolte sono valutate dal giudice a norma dell’ART 116 c.2”. Questo significa anzitutto che le prove proveniente dal processo estinto non scompaiono: esse saranno valutabili nell’eventuale, successivo processo che dovesse riaprirsi tra le stesse parti dopo l’estinzione. La norma introduce peraltro un a limitazione alla loro efficacia: piuttosto che essere valutate secondo la regola generale del “prudente apprezzamento”, esse dovrebbero valere quali “argomento di prova”. Una volta stabilito però che il nuovo giudice deve tenere conto delle precedenti risultanze istruttorie, la differenza appare limitata: il giudice che si serva di tali risultanze istruttorie sarà semplicemente onerato di uno sforzo argomentativi maggiore, nel senso che egli è invitato a dare conto in maniera più analitica della convinzione fondata sulla loro base. Infine, l’u.c. ART 310 sancisce che “le spese del processo estinto stanno a carico delle parti che le hanno anticipate”. Si ha quindi una sorta di “chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto”, che dipende dal fatto che manca una parte soccombente condannabile al rimborso delle spese, in quando manca la sentenza con cui il giudice “chiude il processo davanti a lui” (ART 91) e regola le speme. (Nota bene: la disciplina degli effetti dell’estinzione esposta riguarda, come accennato, il giudizio ordinario di primo grado! Attenzione quindi a non fare confusione con le norme che regolano invece gli effetti dell’estinzione - dell’appello e della revocazione ordinaria; - del giudizio conseguente ad opposizione a decreto ingiuntivo; - del giudizio di rinvio.) CAPITOLO 39. LE IMPUGNAZIONI 1. Le impugnazioni in generale Delle impugnazioni in generale si occupa il gruppo di norme che va dall’ART 323 all’ART 338. Il sistema delle impugnazioni è l’organizzazione dei rimedi contro gli eventuali errori; esso si articola in “mezzi” specifici di impugnazione, cioè in procedure volte a denunciare l’erroneità, l’illegittimità o l’ingiustizia delle sentenze, con conseguente trasmigrazione del giudizio ad un successivo “grado” nel quale si esercita una funzione lato sensu di controllo dell’esito del grado precedente. Nel passaggio da un grado all’altro, si ha continuazione del processo originariamente sorto dalla domanda giudiziale; l’impugnazione della sentenza è quindi un episodio del 11 processo e la tutela dei diritti di azione e di difesa garantiti dall’ART 24 Cost, si manifesta anche attraverso il suo esercizio. Secondo la legge processuale i mezzi per impugnare le sentenze sono (ART 323): - regolamento di competenza; - appello; - ricorso per cassazione; - revocazione; - opposizione di terzo. (Non rientra invece nel novero delle impugnazioni in senso tecnico il rimedio della correzione degli errori materiali. Le sentenze e le ordinanze non revocabili possono essere corrette, su ricorso della parte, dallo stesso giudice che le ha pronunciate qualora esso sia incorso in omissioni o in errori materiali o idi calcolo. L’errore deve essere ictu oculi ma non deve incidere sulla portata e sul contenuto concettuale della decisione). 2. La soccombenza Il meccanismo delle impugnazioni è retto dal principio della soccombenza in virtù del quale è legittimata ad impugnare la parte soccombente, intendendosi per tale la parte che ha subito l’accoglimento delle altri richieste nei propri confronti, o che ha formulato richieste che siano state rigettate dalla sentenza. La soccombenza può essere totale o parziale( Esempio totale: mi citano per restituire 100, mi obbligano a restituire 100. Esempio parziale: Mi citano per restituire 100, mi condannano a restituire 50). Con riguardo a quali atti e rispetto a quale momento si valuta il rapporto tra il chiesto e il pronunciato e si misura, quindi, la soccombenza? Si ha riguardo alle conclusioni contenute in citazioni (quanto all’attore), o in comparsa (quanto al convenuto), oppure si devono valutare le conclusioni finali? Sappiamo già che gli atti introduttivi debbono congenere le conclusioni a pena di nullità, ma sappiamo anche che le conclusioni, originariamente contenute nell’atto introduttivo sono soggette ad una eventuale precisazione nel corso del giudizio. La risposta quindi è che si considerano le conclusioni finali. 3. Forma del provvedimento e impugnazione: l’impugnazione del provvedimento decisorio in forma erronea Oggetto precipuo dell’impugnazione sono i provvedimenti in forma di sentenza ( l’ART 323 indica i mezzi per impugnare “le sentenze”, infatti). In linea di principio non costituiscono quindi oggetto di impugnazione i provvedimento in forma diversa dalle sentenze (NOTA: in verità ci sono varie eccezioni: fanno eccezione l’ordinanza con cui il giudice pronuncia sulla competenza che è soggetta a regolamento di 12 competenza, e l’ordinanza si sospensione di cui all’ART 295 che l’ART 42 assoggetta parimenti al regolamento di competenza). La prassi presenta, però, alcuni problemi. La regola della non assoggettabilità del decreto e dell’ordinanza ai mezzi di impugnazione in senso proprio, vige infatti nei casi in cui è la legge stessa a prevedere che l giudice pronunci ordinanza o decreto. Può però capitare che il giudice sbagli la forma del provvedimento, pronunciando, ad esempio, un’ordinanza per assumere una decisione che richiederebbe invece la forma della sentenza. Ci si è quindi posti il problema del rimedio esperibile contro il provvedimento che doveva essere reso in forma di sentenza ma, per errore ha preso un’altra forma. Il problema non trova una risposta diretta nel codice, e la soluzione che ha prevalso proviene dalla giurisprudenza. Secondo quest’ultima, le forme di controllo proprie dell’ordinanza o del decreto (revoca, reclamo, ecc) sono proponibili solo nel caso in cui la legge consente al giudice di decidere nella forma dell’ordinanza o del decreto quando invece la decisione, presa in tali forme, doveva invece rivestire la forma della sentenza, il provvedimento resta comunque soggetto al tipo di impugnazione prescritta dalla legge per quest’ultima. E’ questa la teoria della c.d. prevalenza della sostanza sulla forma del provvedimento: ai fini dell’identificazione del rimedio, sulla forma erroneamente adottata, prevale la forma che la legge prescrive per l’oggetto trattato e cioè la forma non rispettata. L’impugnazione non va modulata sulla forma effettiva del provvedimento, ma sulla forma che doveva esserci ed è mancata. 3.1. Forma del provvedimento di impugnazione: l’impugnazione del provvedimento decisorio prescritto dalla legge Diverso è il problema dell’impugnabilità con i mezzi specificamente previsti per l’impugnazione delle sentenze, dei provvedimento che, per legge, non rivestono la forma di sentenza. Si tratta di casi in cui un provvedimento a carattere decisorio prende forma di decreto o di ordinanza. Sono invero frequenti i casi, soprattutto al di fuori del processo ordinario di cognizione, in cui determinati diritti sono decisi con un provvedimento in forma di ordinanza o decreto. Nulla quaestio quando è la legge a prevedere un rimedio specifico; dove invece essa taccia e nulla prevede, soggiace la regola per cui il provvedimento in questione è comunque soggetto a ricorso in cassazione qualora esso presenti contestualmente i requisiti della decisorietà e della definitività. Questa regola deriva dall’interpretazione dell’ART 111 c.7 Cost. 4. I termini per le impugnazioni ed il giudicato L’ART 324 qualifica come “passata in giudicato” la sentenza “che non è più soggetta né a regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione per motivi di cui ai numero 4 e 5 dell’ART 395”. Ciò vuol dire che, poiché le impugnazioni ivi elencate vanno esperite entro precisi termini, l’inutile scadenza del relativo termine 13 stabilizza la sentenza rendendo definitiva la decisione: in questo senso, definitività significa impossibilità di ottenere una rivisitazione del caso ed una differente decisione sulla controversia. Il contenuto di una sentenza impugnabile è quindi, per definizione, insanabile perché potenzialmente surrogabile dal diverso contenuto dalla distinta sentenza pronunciata all’esito del giudizio di impugnazione. Questa è la dinamica fisiologica dei processi di cognizione: le sentenze sono, almeno di norma, impugnabili sicché esse mancano di definitività. Solo quando la potenziale modificabilità della sentenza si arresta, essa diventa definitiva nel senso del giudicato formale. (Quanto detto rispetto all’idoneità dell’impugnazione ad impedire il passaggio in giudicato della sentenza vale per le c.d. impugnazioni ordinarie. Il codice prevede però anche alcuni mezzi di impugnazione a carattere straordinario. Si tratta delle opposizioni di terzo e della revocazione c.d. straordinaria. qualificabili sotto alcuni aspetti quali mezzi di impugnazione, ma che, sotto altri aspetti, presentano carattere di autonome azioni di accertamento esercitate nella forma delle impugnazioni: a differenza delle impugnazioni c.d. ordinarie, esse non danno luogo ad un prolungamento del processo attraverso un nuovo grado dello stesso, così imprendendo il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, ma vengono invece esperite contro sentenza già passata in giudicato). Il sistema delle impugnazioni si regge dunque su un meccanismo di termini perentori deputati a regolar e l’esperimenti dei singoli mezzi: per evitare la decadenza dall’impugnazione che determina il passaggio in giudicato della sentenza, occorre impugnare entro precisi termini. E’ quindi molto importante conoscere approfonditamente tale meccanismo, secondo il dettato degli ARTT 325-326-327-328. 4.1 Il termine breve L’ART 325 stabilisce : a) un termine di 30 giorni per esperire l’appello contro la sentenza di primo grado, nonché per proporre la revocazione e l’opposizione di terzo di cui all’ART 404 c.2 (c.d. opposizione revocatoria); b) un termine di 60 giorni per esperire il ricorso contro le sentenze ricorribili in cassazione. Si tratta di termini perentori. Ma da quale momento decorrono questi termini? La risposta è data dall’ART 326: “I termini stabiliti dall’articolo precedente..decorrono dalla notificazione della sentenza”. Decorrenza dalla notificazione della sentenza significa che tali termini decorrono da una data mobile perché la notificazione della sentenza è un atto meramente facoltativo, compiuto a discrezione di parte. Sappiamo che la sentenza viene ad esistenza attraverso 14 la sua “pubblicazione”, preceduta dal deposito in cancelleria. La notifica della sentenza è un atto successivo al deposito in cancelleria, e un atto eventuale, in quanto dipendente dalla volontà della parte che sceglie di notificare la sentenza alla controparte, proprio al fine di far scattare nei confronti di questa il termine perentorio, a seconda dei casi, di 30 o 60 giorni. Ai fini del decorso del termine breve, la notificazione della sentenza va fatta al procuratore della parte costituita nel giudizio a quo, ai sensi dell’ART 170. Per far sì che decorra il termine la parte interessata deve dunque notificare non personalmente alla controparte, ma a questa presso il procuratore domiciliatario (cioè al domicilio di quest’ultimo). Ne segue che la notifica della sentenza fatta personalmente alla parte non è idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione. 4.2. Il termine lungo L’ART 326 però, non può essere letto separatamente dal successivo articolo 327, il quale si occupa del caso in cui non si abbia alcuna notificazione della sentenza, E mira ad evitare che, in assenza di notificazione, la sentenza resti impugnabile perennemente con conseguente instabilità del giudizio in essa contenuto. L'articolo 327 c.1 stabilisce infatti che decorsi sei mesi dalla sua pubblicazione, La sentenza non è più soggetta ad impugnazione. Possiamo questo punto considerare che la legge appresta due ordini di termini, il quali in qualche modo possono intrecciarsi. La sentenza, una volta depositata in cancelleria, deve comunque essere impugnata entro sei mesi, termine cosiddetto lungo, dopodiché essa assume la definitività della cosa giudicata. Tuttavia, all'interno di questo arco temporale, se una parte vuole accelerare il passaggio in giudicato della sentenza, essa può modificare la sentenza stessa a controparte, per far scattare il termine breve. Dal momento della notifica, chi vuole impugnare non può più contare sul termine semestrale. 4.3. Interruzione del termine breve e regime del termine lungo Durante la decorrenza del termine breve di cui all’ART 325 può però sopravvenire, in capo al notificatori, uno degli eventi previsti nell’ART 299 (morte, incapacità, ecc): l’evento produce interruzione del termine per l’impugnazione e un nuovo termine breve inizia a decorrere dal giorno in cui venga rinnovata la notificazione della sentenza. Per semplificare il compito alla parte onerata della rinnovazione, questa può essere fatta agli eredi collettivamente ed impersonalmente, nell’ultimo domicilio del defunto. 4.4. L’eccezione al termine semestrale L’ART 327 c.2, stabilisce che la disposizione del c.1 (cioè il limite finale dei sei mesi dalla pubblicazione) “non si applica quando la parte contumace dimostra di non avere abuso conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa, e per nullità della notificazione degli atti di cui all’ART 292”. 15 La regola per cui la sentenza possa comunque in giudicato decorso il semestre dal deposito, non si applica dunque nell’ipotesi di contumacia involontaria del convenuto, quando cioè la contumacia di questi dipende dal fatto che nei suoi confronti era stata proposta una citazione nulla, ovvero era nulla la notificazione della citazione: si tratta di un’ipotesi in cui si è radicato un processo nei confronti di un soggetto che non fu correttamente messo in condizione di partecipare al processo stesso. Una sentita esigenza di tutela del contraddittorio e del diritto di difesa fa sì che questi possa impugnare la sentenza anche dopo la scadenza dei sei mesi (e quindi senza limiti di tempo), con l’avvertenza che l’ammissibilità della relativa impugnazione dipende dalla prova che la nullità dedotta affettante l’atto introduttivo gli ha impedito la conoscenza del processo. La presenza della nullità degli atti contemplati nell’ART 327 c.2 non è quindi da sola sufficiente a rendere ammissibile l’impugnazione tardiva: la prova della mancata conoscenza del processo deve essere offerta da chi esperisce l’impugnazione tardiva e tale prova, lungi dall’esaurirsi nella dimostrazione della nullità della notifica dell’atto introduttivo, deve consistere nel fatto che, in conseguenza della dedotta nullità, la parte non abbia avuto la conoscenza effettiva del processo concluso dalla sentenza impugnata. 5. L’acquiescenza (A.) L’impugnazione può diventare improponibile, oltre che per scadenza dei termini, anche per sopravvenuta acquiescenza (ART 329). Facendo A. alla sentenza, la parte socco,gente esprime la propria volontà di non impugnarla e, quindi, ne fa accettazione. La manifestazione di A. può consistere in una dichiarazione di accettazione espressa della pronuncia giudiziale o di formale rinuncia a sottoporla a gravame (c.d. A. espressa), o in un comportamento concludente (c.d. A. tacita). Questo comportamento deve consistere in “atti incompatibili con la volontà di avvalersi dell’impugnazione”. Giustamente la giurisprudenza è molto prudente nell’attribuire ai comportamenti della parte il valore di acquiescenze tacita della sentenza. Emblematico è il caso dell’esecuzione spontanea della sentenza da parte del soccombente: unanimemente si nega che in tale caso si possa parlare di A. tacita. 5.1. A. parziale o impropria Il c.2 ART 329 prevede a sua volta che la proposizione di una impugnazione parziale importi A. alle parti della sentenza non impugnate (c.d. A. parziale o impropria). In altri termini, se la parte risulti soccombente, per es. rispetto a due capi della sentenza, l’impugnazione di uno solo di essi, fa sì che il giudice dell’impugnazione non possa decidere dell’altro, con la conseguenza che, all’atto di impugnazione, sul campo non impugnato si formerà automaticamente il giudicato. Questa riduzione dell’ambito dell’impugnazione però si produce purché le parti della sentenza non impugnate possano considerarsi autonome e non dipendenti dal capo impugnato. A complicare le cose sta infatti la disposizione dell’ART 336 c.1, secondo cui 16 “la riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata”. La norma sancisce il c.d. “effetto espansivo interno” dell’impugnazione per cui i capi di sentenza non impugnati (e quindi apparentemente passati in giudicato), ma dipendenti dal capo riformato o cassato, risentono comunque della riforma o dalla cassazione parziali della sentenza. 6. La notificazione dell’impugnazione La notificazione dell’atto di impugnazione avviene di norma presso il procuratore domiciliatario della parte contro cui essa è stata proposta. Quando invece l’impugnazione deve notificarsi ad una parte contumace, essa dovrà essere fatta ad essa personalmente. La legge consente peraltro, nell’atto di notificazione della sentenza, di dichiarare la propria residenza o di eleggere domicilio nella circoscrizione del giudice che tale sentenza ha pronunciato: in tal caso l’impugnazione non dovrà avvenire presso il procuratore domiciliatario per il grado precedente, ma dovrà essere notificata nel luogo di residenza o di domicilio indicato nella notifica della sentenza. Trascorso però sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, l’impugnazione si notifica comunque personalmente, a norma degli ARTT 137 ss. 7. Le impugnazioni incidentali Si è già accennato all’ipotesi della pluralità di impugnazioni contro la stessa sentenza, ed al fatto che questo evento necessita di una pluralità di soccombenti; non è infatti possibile che un singolo soccombente frazioni la sentenza, impugnandone in primo momento un capo di decisione e successivamente un altro: lo impedisce il principio dell’ A. parziale derivato dall’ART 329 c.2. Quando invece la soccombenza è distribuita tra le parti, ognuna di esse è legittimata ad impugnar i capi della sentenza ad essa sfavorevoli, con la conseguente possibilità di più impugnazioni contro la stessa sentenza. La dinamica delle impugnazioni plurime contro la stessa sentenza è regolata dal codice attraverso la disciplina delle impugnazioni incidentali. Disciplina che ha come presupposto comune la soccombenza sia “parziale”: non stia tutta quindi da una parte sola. Consideriamo esemplificativamente ciò che può accadere. L’attore è parzialmente soccombente in caso di unica domanda non integralmente accolta, ma tale è anche il convenuto. In un esempio già visto, l’attore Tizio chiede 100 a carico di Caio ma la sentenza condanna Caio a pagare solamente 50. Tizio è vincitore quanto all’accertamento del credito e quanto alla condanna di 50, ma è soccombente sul residuo 50. Caio è sicuramente soccombente per l’accertamento del debito, ma non lo è rispetto alla residua somma domandata nei suoi confronti: la soccombenza, quindi, si distribuisce tra le parti. In tutti questi casi le più impugnazioni che possono riguardare la sentenza vanno inderogabilmente trattate e decise unitariamente, cioè nello stesso procedimento. In tal senso, proposta la prima impugnazione (c.d. impugnazione principale), tutte le 17 impugnazioni successiva devono assumere la forma dell’impugnazione accidentale, cioè dell’impugnazione successiva ed interna allo stesso procedimento di impugnazione derivante dall’impugnazione principale, nelle forme prescritte dal mezzo di impugnazione considerato. Contro l stessa sentenza non possono quindi avere luogo procedimenti distinti che rendono concretamente possibili decisioni tra loro contrastanti. Principio fondamentale è quello della c.d. unitarietà del processo di impugnazione, per cui una volta aperto un procedimento di impugnazione contro una data sentenza, esso deve fungere da contenitore di tutte le ulteriori, possibili impugnazioni di essa. Questo principio si ricava agevolmente dall’ART 333: “Le parti alle quali siano state fatte le notificazioni previste dagli articoli precedenti debbono proporre a pena di decadenza le loro impugnazioni in via incidentale nello stesso processo”: Malgrado però il divieto di distinte impugnazioni principali resta possibile sempre che contro la stessa sentenza siano concretamente proposte più impugnazioni in questa forma: si pensi, per fare il caso più semplice, all’ipotesi in cui ognuno dei soccombenti parziali notifica alla controparte il proprio atto di appello, magari lo stesso giorno e nell’ignoranza del contegno altrui. Qui si hanno due separati appelli principali contro la stessa sentenza, a cui seguono due distinte iscrizioni a ruolo e due distinti procedimenti d’appello. Occorre quindi ristabilire a posteriori quell’unitarietà del procedimento di impugnazione che è mancata a priori, ed in tal senso dispone l’ART335 imponendo la riunione delle plurime impugnazioni principali. Si tratta di una norma di chiusura del sistema che garantisce il simultaneus processus altrimenti pregiudicato dalla pluralità di iniziative impugnatorie. La riunione delle impugnazioni separate è obbligatoria ed è obbligo che grava sul giudice, il quale deve ordinarie la riunione. 7.1. L’impugnazione incidentale tardiva Veniamo adesso all’ART 334 (Impugnazioni accidentali tardive), norma chiave che risolve un problem apatico connesso all’impugnazione incidentale. La norma consente di proporre impugnazione incidentale anche quando siano scaduti i termini per impugnare, o la parte legittimata ad impugnare abbia prestato A, sicché la sentenza potrebbe considerarsi tecnicamente passata in giudicato. Le parti destinatarie dell’impugnazione principale possono quindi a loro volta impugnare la sentenza in via incidentale anche quando per esse sarebbe scaduto il termine per impugnarla in via principale. Ciò vuol dire, per es. che se non sia stato proposto appello nei 30 giorni dalla notifica della sentenza, nessun autonomo appello è più proponibile. Se però un’altra parte abbia invece regolarmente notificato il proprio appello nei termini, gli altri soccombenti vengono automaticamente rimessi in termini per appellare con la modalità dell’impugnazione incidentale, che viene qualificata tardiva. Qual’è il perché di una simile disciplina? Immaginiamo cosa potrebbe succedere una assenza di una norma come l’ART 334: accadrebbe che chi, in assenza di impugnazione proveniente dalla controparte, ha deciso di soprassedere all’impugnazione del capo di 18 sentenza a lui sfavorevole (“se il mio avversario on impugna il capo che mi dà ragione, rinuncio anche io ad impugnare il capo che mi dà torto”) si troverebbe a disagio di fronte all’altrui impugnazione che, se effettuata all’ultimo minuto, non gli darebbe il tempo per impugnare a propria volta! E succederebbe, di conseguenza, che il soccombente parziale impugnerebbe sempre, precauzionalmente e solo per timore di non avere tempo sufficiente in caso di iniziativa dell’altro. La cosa è, come può intuirsi, poco auspicabile. Per questa ragione la legge rende possibile proporre l’impugnazione nella forma incidentale tardiva, cioè dopo anche l’eventuale scadenza del termine. Senza la possibilità dell’impugnazione tardiva, coloro che, trovandosi nella condizione della parte parzialmente vittoriosa, accetterebbero la situazione di soccombenza reciproca come il minor male, sarebbero sempre e comunque indotti ad impugnare tempestivamente, per il timore che la controparte, non accettando a sua volta la situazione, impugni in un momento tale che essa non abbia più il tempo per proporre la propria impugnazione. (vedi es. pag 486). Possono sempre proporre impugnazione incidentale tardiva nei confronti dell’impugnante principale, le parti contro le quali è stata proposta l’impugnazione. In ipotesi di pluralità di parti occorre distinguere: l’impugnazione tardiva è consentiva alle parti necessarie, nei cui confronti occorre integrare il contraddittorio a norma dell’ART 331 per inscindibilità o dipendenza di cause. L’impugnazione tardiva è invece preclusa alle parti non necessarie, nonché nei confronti delle stesse. La stretta dipendenza dell’impugnazione incidentale tardiva dall’impugnazione principale è sancita dalla norma per cui, se l’impugnazione principale è dichiarata inammissibile, l’impugnazione tardiva perde ogni efficacia. 8. Impugnazioni in senso stretto e gravami Si suole distinguere tra due categorie generali di impugnazione con riguardo ai poteri del giudice chiamato a decidere l’impugnazione. La prima categoria è quella delle c.d. “impugnazioni in senso stretto”. In essa l’ambito cognitivo del giudice dell’impugnazione è limitato ai vizi della sentenza e, più in generale, agli errori del giudice del grado precedente. Si tratta di impugnazioni che si risolvono sostanzialmente nel controllo della correttezza del giudizio operato nella sentenza impugnata, o della legalità del procedimento anteriore alla sentenza. L’accogliemnto dell’impugnazione è strettamente subordinato al riscontro del vizio denunciato. A questo genere di impugnazioni appartiene il ricorso per cassazione, mezzo di impugnazione c.d. a critica vincolata: è “vincolata” la critica che il ricorrente svolge nei confronti della sentenza impugnata, perché essa deve necessariamente esprimersi attraverso motivi legalmente predeterminati; simmetricamente l’ambito dei poteri cognitorii e decisori della Cassazione subisce significative limitazioni. L’altra categoria di impugnazioni è quella dei c.d. “gravami”. Gravame è l’appello mezzo che è fisiologicamente utilizzato per ottener una nuova decisione del merito della controversia. Qui, al giudice dell’impugnazione nona i chiede di limitarsi a giudicare 19 specifici errori del giudice del grado precedente, ma piuttosto di assumere su di sé la responsabilità di decidere di nuovo della controversia. Ed è in quanto gravame che l’appello riapre il giudizio, fungendo così da sorta di prosecuzione del primo grado. Questa differenza tra i due tipi fondamentali di impugnazione si riflette sul potere del giudice che è abbastanza differente in un caso e nell’altro: il giudice d’appello (quale giudice di gravame) è chiamato a ri-decidere la controversia con poteri sostanzialmente omogenei a quelli del giudice di primo grado. Il giudice di appello rinnova il giudizio sul merito della controversia, contrariante a quanto accade nel giudizio di cassazione in cui l’accoglimento del ricorso è subordinato ad alcune precise condizioni: qui la Corte deve preliminarmente verificare che il vizio denunciato sia ricompreso in uno dei motivi specificamente stabiliti dalla egre per ricorrere; deve poi procedere all’individuazione in concreto di tale vizio; al riscontro positivo segue un necessario momento invalidativo della sentenza, momento che può essere o meno seguito da un nuovo giudizio a carattere ricostruttivo entro i limiti fissati dalla cassazione della sentenza. 9. Conseguenze sterne dell’accoglimento dell’impugnazione L’ART 336 c.2 stabilisce che la riforma della sentenza o la sua cassazione “estende i suoi effetti ai provvedimento e agli atti dipendenti dalla semenza riformata o cassata”. La norma disciplina la sorte degli atti o provvedimento che trovano il loro titolo nel contenuto ella sentenza impugnata: trattandosi di atti dipendenti essi subiscono il venir meno del titolo. Vari ed eteorgenei sono gli atti e i provvedimenti che, dipendendo dalla sentenza, risentono del suo venir meno. Cerchiamo di dare esempi. Una prima categoria di atti dipendenti è quella degli atti di esecuzione allorché la sentenza è usata come titolo esecutivo: se la sentenza è annullata o cassata gli atti esecutivi perdono la loro giustificazione giuridica. Così, per es. se un atto di pignoramento si fonda su titolo esecutivo costituito dalla sentenza di condanna di primo grado, una volt intervenuta la riforma in appello della sentenza, l’atto di pignoramento resta privo di titolo con decadenza dei vincoli esecutivi con tutte le conseguenze ripistinatorie restitutorie. Un distinto campo di applicazione dell’ART 336 c.2 è quello del rapporto tra sentenze non definitive e sentenze definitive, tutte le volte in cui la semenza definitiva si presenta come logicamente e giuridicamente dipendente dal conteuto della non definitiva. In tal caso il provvedimento definitivo risente della riforma della sentenza non definitiva. Così, per esempio, se viene riformata in sello la sentenza di condanna generica a cui era seguita una sentenza di liquidazione del danno, quest’ultima sentenza resta travolta dalla cancellazione della prima sentenza in cui essa trovava il suo presupposto. Provvedimenti dipendenti possono darsi anche in processi diversi da quello in cui è stato pronunciata la sentenza cassata o riformata: è il caso, per esempio, del decreto ingiuntivo di pagamento chiesto ed ottenuto sulla base di una sentenza di mero accertamento del 20 credito; venuta meno la sentenza all’esito dell’impugnazione, resta travolto anche il decreto ingiuntivo. Altro ambito di applicazione è quello relativo alla sorte dei provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa assunti con l’ordinanza accoppiata alla sentenza che non definisce il giudizio, qualora questi siano dipendenti dal contenuto della sentenza non definitiva poi riformata in appello. Anche tali atti vengono travolti dal venir meno di tale sentenza. CAPITOLO 40. IL REGIME DELLE IMPUGNAZIONI NEI GIUDIZI CON PLURALITA’ DI PARTI 1. Il litisconsorzio nelle impugnazioni La pluralità di parti in primo grado si riflette sull’appello e, più in generale, sui procedimenti di impugnazione. Non ci sono problemi quando l’impugnazione della sentenza che ha pronunciato nei confronti di più di due parti viene proposta da una parte contro ognuna delle altre, o da più parti contro le rimanenti: il giudizio di impugnazione si svolgerà nei confronti di tutti, e la pluralità originaria di soggetti verrà mantenuta. E’ il caso dell’appello di Tizio proposto contro Caio e Sempronio, dopo essere rimasto soccombente nei confronti degli stessi Caio e Sempronio: in questa ipotesi le tre parti del primo grado coincideranno con le tre parti del grado successivo, sicché la sentenza d’appello pronuncerà nei confronti di tutte e questo elimina ogni problema alla radice. I problemi sorgono quando invece l’impugnazione non viene fin dall’inizio proposta da tutti o nei confronti di tutti: se in primo grado il rapporto processuale intercorreva tra Tizio, Caio e Sempronio quid juris se il soccombente impugna nei soli confronti di Tizio senza chiamare in giudizio Sempronio? In linea di principio, l’ambito del giudizio è rimesso alla volontà della parte soccombente, la quale può peraltro scegliere “cosa” impugnare rispetto a quanto deciso, e nei confronti di chi impugnare. Potrebbe essere così appellato un capo di sentenza che pronuncia tra A e B ma non un altro capo reso tra A e C. Alla mancata impugnazione di questo secondo capo di sentenza corrisponde il suo passaggio in giudicato nei confronti di C. Questa situazione discende dall’art 329 c.2 per cui le parti della sentenza non espressamente impugnate non diventano oggetto dell’impugnazione sicché diventano definitive, con conseguente divaricazione delle sorti dei rapporti originariamente decisi dalla sentenza di primo grado. Talora, però, la scissione non è possibile e l’impugnazione deve necessariamente coinvolgere tutti i soggetti. Occorre quindi capire quando il giudizio di impugnazione deve svolgersi tra tutte le parti e quando invece esso può svolgersi tra alcune di esse. A tal proposito, la prima distinzione da fare è quella tra: a) sentenza che decide un processo unico con pluralità di parti, e 21 b) sentenza che decide un processo cumulato cioè sentenza che decide contestualmente più cause distinte. Nel primo caso è naturale che in appello la causa resti unica e “inscindibile”. L’oggetto del procedo e della sentenza, si manterrà tale per tutte le successive fasi di giudizio, fasi che dovranno necessariamente coinvolgere tutti i soggetti del rapporto, del processo e della sentenza. Il caso più evidente è quello della sentenza che ha pronunciato tra più parti in ipotesi di litisconsorzio necessario: quando la pluralità di parti è necessaria, essa deve permanere per tutto il giudizio, in quando non avrebbe senso che fosse limitata ad un determinato grado e non mantenuta negli altri. Quindi… o tutti o nessuno! Il problema relativo a se l’impugnazione soggettivamente incompleta possa o meno dare luogo a separazione delle cause originariamente cumulate, si pone, allora, nelle ipotesi in cui il processo ha avuto ad oggetto non un’unica causa, ma più cause tra loto cumulate. In tal caso la separazione è possibile se il cumulo delle cause decise è scindibile, mentre non è possibile se le cause cumulate risultano tra loro interdipendenti. Il cumulo è scindibile quando l’accoglimento dell’impugnazione soggettivamente incompleta non interferisce con il passaggio in giudicato della decisione non impugnata, nel senso che la riforma del capo di sentenza impugnato tra A e B potrebbe tranquillamente convivere con il capo di sentenza restato immutato tra B e C. Il cumulo è invece inscindibile quando l’eventuale riforma del capo di sentenza impugnato tra A e B appare incompatibile con il capo di sentenza tra B e C, così rivelando un rapporto di interdipendenza tra le decisioni che ne rende inscindibile la trattazione. 2. Scindibilità di cumulo La sentenza ha pronunciato tra: - A, attore che fa valere i vizi di un bene acquistato, - B, venditore-convenuto, e - C, chiamato da B in garanzia. Accolta la domanda di A nei confronti di B, e accolta la domanda di B nei confronti di C, quest’ultimo appella nei soli confronti di B invocando l’insussistenza o l’inefficacia dell’obbligo di garanzia imputatogli e chiedendo la riforma della sentenza nella parte in cui ha accertato la sua responsabilità. E’ possibile questo appello soggettivamente limitato, cioè non coinvolgente A? La risposta è positiva, considerando che la possibile riforma dell’accertamento del rapporto di garanzia tra B e C è compatibile con il permanere del rapporto principale tra A e B, e con gli accertanti obblighi di B verso A. Se C vincerà l’appello sarà libero dalla responsabilità verso B. 2.1. Inscindibilità di cumulo 22 Stessi soggetti, stesse domande, stessa stessa sentenza. Appella il chiamato in garanzia C nei soli confronti del convenuto B, ma stavolta sostenendo l’inaccoglibilità della domanda principale per tardività della denuncia dei vizi e, quindi, per intervenuta decadenza dell’azione fondata sui vizi della cosa venduta: egli, in altre parole, fa valere l’ingiustizia della propria condanna a tenere indenne il convenuto perché mancavano i presupposti della condanna a quest’ultimo. E’ possibile questo appello soggettivamente limitato, cioè non coinvolgente A? No, se si considera che C qui sottopone al giudice dell’impugnazione una questione propria del capo di sentenzi che ha deciso il rapporto principale tra A e B. Questo capo deve necessariamente essere rideciso nei confronti di A: se la sentenza d’appello accogliesse infatti l’appello di C dichiarando che A era decaduto dall’azione, si avrebbe un risultato incompatibile con l’accoglimento avutosi in primo grado della domanda di A e, quindi, con il suo passaggio in giudicato. Se si ammettesse questo, il convenuto B potrebbe alla fine risultare doppiamente soccombente, sulla base di una diversa soluzione della stessa questione. La riforma domandata appare quindi incompatibile con la conservazione della decisione, e il processo di impugnazione deve svolgersi nei confronti di tutti i soggetti del primo grado. 2.2. Criterio distintivo Da quanto detto si ricava che il criterio distintivo tra cumulo scindibile e cumulo inscindibile è quello della compatibilità tra la possibile modifica del rapporto sostanziale oggetti dell’impugnazione e la cristallizzazione del rapporto sostanziale che riguarda il soggetto che non partecipa al giudizio di impugnazione. Nel caso in cui la modifica del primo può giuridicamente convivere con la conservazione del secondo, il giudizio di impugnazione può corretta ente svolgersi tra in assenza della parte / delle parti di quest’ultimo; laddove invece la modifica del primo e la conservazione del secondo entrano in contraddizione, l sparti dell’impugnazione debbono coincidere con quelle contemplate dalla sentenza impugnata. Vediamo il regime processuale. 3. Regime processuale L’ART 332 (notificazione dell’impugnazione relativa a cause scindibili) regola la seconda ipotesi. Se l’impugnazione di una sentenza pronunciata in cause scindibili è stata proposta soltanto da una delle parti o nei confronti di alcuna di esse, “il giudice ne todina la notificazione alle altre, in confronto delle quali l’impugnazione non è preclusa o esclusa, fissando il termine in cui la notificazione deve essere fatta”. Si segnalano due cose: la prima è che la notificazione di cui parla la norma non è una chiamata in causa delle parti mancanti, ma una denuntiatio litis, cioè un mero invito a partecipare al giudizio di impugnazione in corso; la seconda riposa sull’espressione “in confronto delle quali l’impugnazione non è preclusa o esclusa”, e indica che la notificazione alle parti mancanti 23 va fatta solo se ancora possibile, cioè se per esse l’impugnazione non sia divenuta impossibile per acquiescenza o decadenza temporale. L’ordine di notificazione non è dunque un ordine di integrazione del contraddittorio, tanto è vero che il capoverso dell’ART 332 prescrive che, se la notificazione ordinata non avviene, “il processo rimane sospeso fino anche non siano decorso i termini previsti negli ARTT 325 e 327 c.1” (cioè termine breve e termine lungo). Scaduti tali termini, il giudizio di impugnazione riprende regolarmente a procedere tra le sue parti mentre il capoc i sentenza che riguarda le parti estranee all’impugnazione passa in giudicato. L’ART 331 (integrazione del contraddittorio in cause inscindibili) regola, invece, la fattispecie della corrispondenza necessaria tra le parti dei differenti gradi di giudizio. Se la sentenza pronunciata tra più parti “in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti non è stata impugnata nei confronti di tutte, il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio, fissando il termine nel quale la notificazione deve essere fatta”. La norma è chiara: quando il giudice dell’impugnazione ritiene che manchino parti necessarie, il processo non può svolgersi; nella logica del “o tutti o niente”, il contraddittorio deve estendersi a queste e, in un termine perentorio, esse devono essere chiamate a ena di declaratoria di inammissibilità. Il capoverso dell’ART 331 prescrive infatti che l’impugnazione “è dichiarata inammissibile se nessuna delle parti provvede all’integrazione nel termine fissato”. La declaratoria di inammissibilità implica il passaggio in giudicato della sentenza. Nelle ipotesi di causa unica inscindibile o di cumulo inscindibile per interdipendenza della cause, l’atto originario di impugnazione può dunque pretermettere taluna delle parti contemplate in sentenza senza incorrere nella declaratoria di inammissibilità, in quanto sarò il giudice a provvedere all’ordine di integrazione del contraddittorio. Il rapporto processuale nasce dunque viziato ma le parti interessate all’impugnazione hanno il potere di regolarizzarlo nel corso del relativo procedimento, chiamando la parte originariamente pretermessa. CAPITOLO 41. L’APPELLO L’appello è il mezzo concesso dalla legge per l’impugnazione della sentenza di primo grado e costituisce pertanto il secondo grado del giudizio. Esso è regolato abbastanza in dettaglio, ma la sua disciplina soggiace comunque ad una norma di chiusura: per quanto non specificatamente previsto, l’ART 359 rinvia alle norme relative al procedimento di primo grado di fronte al tribunale “in quanto applicabili”. 1. Il giudice dell’appello L’ART 341 individua il giudice commettente a conoscere e decidere dell’appello. Nei confronti delle sentenze del giudice di pace, l’appello si propone al tribunale nel cui ambito territoriale si situa l’ufficio che ha pronunciato la sentenza (NOTA: Fa eccezione l’ipotesi del c.d. “giudice erariale”. Quando è parte un’amministrazione dello Stato, l’appello non va proposto al tribunale ordinariamente competente, ma, a sensi dell’ART 24 25, al tribunale dove ha sede l’avvocatura dello Stato coincidente con il tribunale della città dove ha sede la Corte d’Appello). Nei confronti delle sentenze del tribunale, l’appello si propone alla Corte d’Appello, nel cui distretto cade la circoscrizione del tribunale che ha pronunciato la sentenza. Quando esercita la funzione di giudice dell’appello, la Corte d’appello giudica sempre in formazione collegiale. Questo indipendentemente dal fatto che in primo grado la sentenza sia stata pronunciata dal tribunale in formazione collegiale o dal g.i. monocraticamente. E’ però previsto che il presidente del collegio possa” delegare per l’assunzione di mezzi istruttori uno dei componenti del collegio” (ART 350 c.1). Rispetto alle sentenze del giudice di pace, funge invece da giudice d’appello il tribunale in formazione monocratica. Si intende: il tribunale nella cu circoscrizione cade l’ufficio del giudice di pace da cui proviene la sentenza. 2. Le sentenze appellabili Sono soggette ad appello “le sentenze pronunciate in primo grado, purché l’appello non sia escluso dalla legge o dall’accordo delle parti a norma dell’ART 360 c.2”. (art 339). L’appello è escluso dalla legge, anzitutto nei confronti dei provvedimenti che pronunciato solo sulla competenza: contro essi è ammesso solo il regolamento di competenza, ex ART 42. Sono viceversa appellabili le sentenze che pronunciano contemporaneamente sulla competenza e sul merito, con il solo limite che l’appello non può limitarsi alla statuizione relativa alla competenza (ART 43): l’appello può dunque avere ad oggetto il solo merito, oppure avere congiuntamente ad oggetto competenza e merito. Non sono soggette ad appello le sentenze pronunciate in quei particolari procedimenti di cognizione che vanno sotto il nome di opposizione agli atti esecutivi (ART 618). In verità la legge non qualifica specificamente queste sentenze come “non appellabili”, ma le definisce “Non impugnabili”; tuttavia la previsione della “non impugnabilità” per i provvedimenti che insistono su diritti soggettivi, va propriamente intesa come “inappellabilità”, poiché alle parti resta sempre garantita la ricorribilità in Cassazione ex ART 111 c.7. Non appartengono poi al novero delle sentenze di primo grado, e quindi la legge esclude il loro appello, le sentenze c.d. in unico grado. Sono rese in unico grado: a) la sentenza “che il giudice ha pronunciato secondo equità a norma dell'articolo 114” definita espressamente inappellabile dall'articolo 339; b) __ lasse le sentenze rese dalla corte d'appello che giudica non in funzione di giudice d'appello ma quale giudice competente su domanda ad essa immediatamente proposta. Anche queste sentenze sono ricorribile per cassazione, ma non in virtù dell'articolo 111 in virtù dell'articolo 360, Secondo cui “possono essere impugnate con ricorso per cassazione le sentenze pronunciate in unico grado”. Il ricorso contro di esse non è quindi ricorso straordinario ma ricorso ordinario; 25 c) le sentenze contenenti “accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità, interpretazione dei contratti e accordi collettivi; d) le sentenze rese dal tribunale in funzione del giudice del lavoro sulle controversie in materia di invalidità assoggettate dalla legge ad accertamento tecnico obbligatorio preventivo. _Sono invece appellabili, ma con appello soggetto specifici limiti, “le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità A norma dell'articolo 113 c.2__”. L'appello è dato esclusivamente per violazione di norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie, ovvero dei principi regolatori della materia. Ciò è conforme alla natura equitativa del giudizio espedito in primo grado dal giudice di pace. E veniamo all'articolo 360 c.2, che prevede l'inappellabili tardi una sentenza appellabile del tribunale, se le parti sono d'accordo per omettere l'appello a favore dell’esperibilità diretta del ricorso per cassazione. Il caso configura un accordo processuale che comporta non la nuda rinuncia ad impugnare la sentenza, ma piuttosto la scelta di un diverso mezzo di impugnazione che permette la sottoposizione della sentenza al giudizio di cassazione (c.d. ricorso per saltum). L'articolo 360 aggiungi che “tal caso l'impugnazione può proporsi soltanto a norma del primo comma”, Cioè per violazione o falsa applicazione di norme di diritto. 2.1. Appellabilità delle sentenze non definitive e riserva d’appello Oltre alle sentenze conclusive del rapporto processuale, sono appellabili: a) le sentenze c.d. “parzialmente definitive”, cioè non conclusive del processo ma decisore di domanda (cioè esaurienti uno dei più oggetti controversi cumulati nel processo); b) le sentenze non definitive in senso proprio, cioè le sentenze che non solo non chiudono il processo, ma non definiscono neppure il giudizio sul diritto fatto valere; c) la sentenza di condanna generica, ex ART 278. Quanto alla loro appellabilità, le sentenze non definitive nonché la sentenza di condanna generica, soggiacciono ad una particolare disciplina. L’ART 340 consente infatti alla parte soccombente di non appellare tali sentenze, senza peraltro che ne consegua il loro passaggio in giudicato, attraverso il meccanismo della c.d. riserva di appello: il soccombente dichiara di voler proporre comunque appello ma se ne riserva l’effettiva proposizione in un momento successivo. La sorte della sentenza resta pertanto sospesa: essa sarà impugnabile unitamente alla sentenza che definisce il giudizio. La riserva va fatta, “ a pena di decadenza, entro il termine per appellare e, in ogni caso, non oltre la prima udienza dinanzi al giudice istruttore successiva alla comunicazione della sentenza stessa” (ART 340 c.1). La riserva peraltro “non può più farsi, e se già fatta rimane priva di effetto, quando contro la stessa sentenza da alcuna delle parti sia proposto immediatamente appello” (ART 340 c.3). 26 Piuttosto che frazionare il processo proponendo un’impugnazione immediata contro la sentenza non definitiva, il legislatore ha lasciato la parte soccombente libera di impugnare in un secondo momento: essa potrebbe valutare più conveniente dolersi della prima sentenza solo dopo la pronuncia definitiva, mentre per l’intanto potrebbe essere più conveniente proseguire il processo. Infatti, la sentenza finale potrebbe soddisfar e l’interesse in gioco nonostante il segno negativo dalla prima udienza. Rispetto alle sentenze appellabili ex ART 340, la parte soccombente ha quindi tre scelte: a) appellare immediatamente la sentenza; b) restare inerte; c) fare riserva di appello: la parte soccombente non impugna nei termini, e la sentenza tuttavia non passa in giudicato. La parte “prenota” la successiva impugnazione da esperire quando giungerà la sentenza finale. Se, fatta la riserva, al momento dell’impugnazione della sentenza definitiva non sopravviene l’impugnazione della non definitiva, la riserva perde effetto con una sorta di passaggio in giudicato retroattivo: la sentenza il cui passaggio in giudicato era restato sospeso, passerà in giudicato retroattivamente. La riserva è sotto condizione risolutiva: essa vale ma a condizione che sia seguita nei termini prestabiliti dall’impugnazione, altrimenti non ha alcun effetto. Se la riserva è stata regolarmente fatta ma un’altra parte a sua volta appella immediatamente la sentenza, viene meno anche la riserva della parte che aveva preferito questa strada rispetto all’impugnazione immediata: la riserva funziona quindi a condizione che l’altra parte non impugni a sua volta immediatamente la sentenza, poiché in questo caso la riserva perde la sua efficacia, per cui alla parte che ha fatto la riserva resta l’alternativa o di disinteressassi dell’impugnazione, ovvero proporre anch’essa l’impugnazione immediata. 3. Effetto devolutivi ed effetto sostitutivo L’appello è caratterizzato da alcuni effetti peculiari che lo caratterizzano quale gravame: il c.d. effetto devolutivo e il c.d. effetto sostitutivo. Effetto devolutivi significa “trasferimento della controversia in appello”. A scanso di equivoci, occorre precisare che la materia del contendere non è trasferita automaticamente per il solo fatto che si sia proposto un qualunque appello. Per far sì che l’oggetto del giudizio di primo grado corrisponda all’oggetto del giudizio di appello, è necessario poter escludere che l’appellante si sia limitato a proporre un appello ad ambito più ristretto. Oltre infatti alla generale possibilità di acquiescenza parziale, occorre considerare lo specifico meccanismo dell’ART 346 che impedisce che il semplice appello della sentenza comporti nuovo giudizio sull’eccezioni non accolte in primo grado. La devolutività della controversia in appello fa sì che il giudice di secondo frano riesamini l’intera vicenda nel complesso dei suoi aspetti, purché tale indagine non travalichi i margini della richiesta. In ogni caso la pronunzia resa in appello ha natura ed effetto sostitutivo della pronunzia gravata. L’effetto sostitutivo è l’attitudine della sentenza d’appello a sostituirsi 27 integralmente alla sentenza impugnata, non solo nel caso in cui questa venga riformata, ma anche in caso in cui venga confermata: la pronuncia d’appello toglie rilievo alla decisione di primo fado e si impone come regola del rapporto intercorrente tra le parti. E’ per l’effetto sostitutivo della sentenza d’appello che il giudice di secondo grado, investito della censura di nullità della sentenza di primo grado, non può limitarsi a dichiarare la nullità ma deve decidere nel merito. 4. L’ambito dell’appello Cosa accade quando una parte soccombente decide di appellare una sentenza ? Riprendiamo la fondamentale norma sull’A. parziale (ART 329 c.2: “L’impugnazione parziale importa A alle parti della sentenza non impugnate”) per osservare il funzionamento nell’appello: tutte le volte in cui sia possibile suddividere la sentenza in più parti / capi, l’appello di uno di questi capi fa sì che automaticamente si debbano intendere rinunciati gli altri capi, che passano automaticamente in giudicato. Non sarà possibile per il giudice d’appello tornare a giudicare su d’essi. Torniamo all’esempio della sentenza che ha accolto sia la domanda di condanna al pagamento del capitale, sia la domanda di condanna al pagamento di interessi convenzionale. Un’unica sentenza si scinde in due capi di decisione: il primo relativo al capitale e il secondo relativo alla condanna ed al pagamento degli interessi. E’ sufficiente impugnare la sola condanna al pagamento del capitale per sottoporre tutta la sentenza al giudizio d’appello? La risposta è negativa. L’appellante può infatti limitarsi ad impugnare la condanna al pagamento del capitale confidando sul fatto che, se il secondo giudice accoglie l’appello contraddicendo quello di primo grado sulla degenza del capitale, la questione degli interessi resterà assorbita, sicché cadrà automaticamente il relativo capo di condanna. Ma l’appello può venire rigettato: in tal caso la conferma della condanna al capitale impedisce al giudice di occuparsi del capo che sugli interessi. E’ evidente allora che la strada dell’appello limitato al solo capo del capitale ha un senso quando l’appellante non ha interesse a contestare specificatamente la decisione sul tipo e sulla modalità del calcolo degli interessi. Se invece il soccombente ha un interesse specifico alla contestazione delle modalità di calcolo degli interessi, se cioè egli ritiene erronea la decisione che riconosce interessi convenzionali differenti dall’interesse legale, non sarà sufficiente impugnare il solo capo sul capitale: a questo fine, l’atto d’appello deve specificamente censurare il capo degli interessi sotto il profilo della loro natura e delle modalità di calcolo. 4.1. L’ambito dell’appello e la riproposizione delle eccezioni Le cose finirebbero qui se si dovessero tenere in conto solo l’ART 329 c.2. A complicare il quadro sta però il fatto che, in appello, la norma generale dell’ART 329 va contemplata dell’ulteriore prescrizione dell’ART 346 ( “Le domande e le eccezioni non accolte nella 28 sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate”). Ci spieghiamo. Il caso appena esemplificato ricade nella previsione dell’ART 329 c.2: doppia soccombenza rispetto a due domande, cumulate tra loro e accolte con due distinte statuizioni cumulate in sentenza. Ma immaginiamo che sia l’attore a risultare soccombente: è stata rigettata la sua domanda di condanna perché è stata accolta l’eccezione di nullità del contratto sollevata dal convenuto. Al convenuto è stata però a sua volta rigettata l’eccezione di prescrizione dell’obbligazione. Qui il contenuto decisorio della sentenza consiste in un rigetto secco della domanda: solo l’attore è il soccombente reale, sicché solo egli può impugnare, non essendo il convenuto soccombente. Ora, di fronte all’attore appellante, il convenuto-appellato ha tutto l’interesse a riproporre l’eccezione di prescrizione che gli era stata rigettata in primo grado. Glielo impone l’ART 346: se non lo facesse, l’eventuale accoglimento dell’appello in punto di nullità, impedirebbe al giudice di rivedere la questione della prescrizione: per la legge l’eccezione è “rinunciata”. In altre parole, la questione della prescrizione può assumere rilevanza a seguito della contraria decisione adottabile dal giudice di secondo grado sulla nullità del contratto ( “se il contratto non è nullo, il diritto che ne deriva è però prescritto”) il giudice di secondo grado, però, non può d’ufficio trattare la questione della prescrizione se la relativa eccezione, rigettata in primo grado, non è stata espressamente riproposta in appello. Pertanto l’onere di riproposizione in appello vige non solo per le eccezioni rigettate, ma anche per le eccezioni che, proposte in primo grado, non sono state decise per il meccanismo dell’assorbimento. Esso vige poi per le domande che, proposte in primo grado, non siano state esaminate: su queste domande non vi è infatti un soccombente e quindi non trova spazio né l’appello principale, né l’appello incidentale. 5. Forme e modalità dell’appello Nel giudizio di cognizione ordinaria, l’appello si propone con atto di citazione ad udienza fissa: “L’appello di propone con citazione contenente l’esposizione sommaria dei fatti ed i motivi specifici dell’impugnazione, nonché le indicazioni prescritte nell’ART 163”. Si ha quindi rinvio alla norma generale sulla citazione. Viceversa, nei processi iniziati da ricorso, l’appello si propone con ricorso. Ricorso che va depositato in cancelleria della Corte d’Appello; il presidente nomina il giudice relatore e fissa l’udienza di discussione davanti al collegio, e l’appellante provvede alla notifica del ricorso e del decreto di fissazione all’appellato. L’ART 342 prescrive che l’atto di appello deve contenere, oltre l’esposizione sommaria dei fatti, “i motivi specifici dell’impugnazione”. Ciò significa che l’appellante deve indicare le ragioni per cui viene chiesta la riforma della pronuncia di primo grado, con i rilievi di fatto e di diritto posti a fase dell’impugnazione. Lo scopo è quello di precisare esattamente il contenuto e la portata delle relative censure. 29 I motivi sono peraltro liberamente determinabili, a differenza che nel ricorso per cassazione, in cui la tipologia dei motivi è prestabilita dalla legge; essendo inoltre l’appello un mezzo di gravame con carattere devolutivo pieno, il principio della specificità dei motivi prescinde da qualsiasi particolare rigore di forme, essendo sufficiente che al giudice siano indicate, anche sommariamente, le ragioni di fatto e di diritto su cui si fonda l’impugnazione. Trova applicazione l’ART 163-BIS: i termini minimi a comparire per l’appellato sono determinati in 90 giorni, il che vuol dire che l’appellante deve fissare la data dell’udienza a non meno di 90 giorno dalla notifica (150 se all’estero). Anche i modi della costituzioni sono quelli della costituzione in primo grado (ART 347 c.1): “La costituzione in appello avviene secondo le forme e i termini per i procedimenti davanti al tribunale”; la procedura è pertanto quella dell’iscrizione a ruolo, a cura dell’appellante, entro 10 giorni dalla notifica, con applicazione dell’ART 165 e, quanto all’appellato, degli ARTT 166-167. L’appellante deve “inserire nel proprio fascicolo copia della sentenza appellata” (ART 347 c.2). Il c.3 detta gli obblighi del cancelliere in funzione di coordinamento tra il giudice di primo grado e quello d’appello: “Il cancelliere provvede a norma dell’ART 168 e richiede la trasmissione del fascicolo d’ufficio al cancelliere del giudice di primo grado”: Effetto della mancata costituzione dell’appellante nel termine prescritto è la sopravvenuta improcedibilità dell’impugnazione (ART 348: “L’appello è dichiarato improcedibile anche d’ufficio se l’appellante non si costituisce in termini”). Come si vede, la differenza è molto netta rispetto a quanto accade in primo grado, dove la scadenza del termine fissato all’attore per costituirsi, lascia la possibilità che sia ancora il convenuto a costituirsi nel proprio termine; anche in assenza di tale costituzione, il processo non si estingue ma può essere riassunto nel termine di tre mesi dalla scadenza del termine per la costituzione del convenuto. Scaduto invece il termine per la costituzione dell’appellante, il giudice non potrà fare altro che dichiarare l’improcedibilità dell’appello stesso. Declaratoria di improcedibilità impedisce la riproposizione dell’appello anche se non è decorso il termine fissato dalla legge. Il che significa, in sostanza, passaggio in giudicato della sentenza. Altra fattispecie di specifica improcedibilità dell’appello è quella prevista dall’ART 348: ove l’appellante non compaia alla prima udienza, “il giudice con ordinanza non impugnabile rinvia la causa ad una prossima udienza, della quale il cancelliere dà comunicazione all’appellante”. In caso di mancata comparizione dell’appellante alla nuova udienza, “l’appello è dichiarato improcedibile anche d’ufficio”. L’appellato si costituisce depositando in cancelleria una comparsa di risposta negli stessi termini prescritti per il primo grado: la costituzione è tempestiva se rispettato il termine previsto dall’ART 166. Il deposito della comparsa di risposta può peraltro anche essere successivo, e potrebbe avere luogo anche alla prima udienza. Nella comparsa di risposta l’appellato inserirà le sue difese rispetto all’appello: inammissibilità, improcedibilità ex ART 348m infondatezza. Nella comparsa di risposta, l’appellato potrà inserire eventuali nuove eccezioni e la richiesta di nuove prove ammissibili nei limiti dell’ART 345 e potrà inoltre riproporre le eccezioni già spese in primo grado, ex ART 346. 30 6. L’appello incidentale L’appellato che sia a sua volta soccombente, può impugnare la sentenza proponendo il proprio appello in via incidentale. L’appello incidentale si propone nella comparsa di risposta, “all’atto della costituzione in cancelleria ai sensi dell’ART 166” (ART 343); il termine è quello della comparsa di risposta tempestiva, d è perentorio essendo stabilito “a pena di decadenza”. Peraltro l’interesse a proporre l’appello incidentale può sorgere dall’impugnazione proposta da altra parte diversa dall’appellante principale: in tal caso si propone nella prima udienza successiva alla proposizione dell’altrui impugnazione. L’appello incidentale è una vera e propria impugnazione incidentale: esso a) ha ad oggetto una decisione in senso proprio, vale a dire il rigetto di singole domande o di capi specifici di domanda; esso non serve quindi per sottoporre al giudice d’appello mere ragioni non condivise dal giudice di primo grado. b) può essere tardino, cioè proposto anche in un momento in cui sarebbe già scaduto il termine per l’appello in via principale. 7. Trattazione e decisione Nella prima udienza di trattazione il giudice verifica la regolare costituzione del giudizio e, se necessario, ordina l’integrazione di esso o la notificazione prevista dall’ART 332; ove occorra, dispone che si rinnovi la notificazione dell’atto di appello. Nella stessa udienza il giudice dichiara contumacia dell’appalto, provvedere alla riunione degli appelli proposti contro la stessa sentenza e procede al tentativo di conciliazione ordinando, quando occorre, la comparizione personale delle parti (ART 350 c.3). Negli stretti limiti fissati dall’ART 345, il giudice d’appello può disporre l’assunzione di nuove prove, ovvero ordinare la rinnovazione totale o parziale dell’assunzione già avvenuta in primo grado; egli può comunque dare disposizioni per effetto delle quali il procedimento deve continuare. In tutti questi pronuncia ordinanza e provvede a norma degli ARTT 191 ss. Resta ferma l’applicabilità della norma di cui al numero 4 del c.2 ART 279. Esaurita l’attività prevista negli ARTT 350-351 il giudice invita le parti a precisare le conclusioni e dispone lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica a norma dell’ART 190. Se di fronte alla Corte d’appello è proposta querela di falso, il giudice è incompetente a deciderne; pertanto, quando ritiene il documento impugnato rilevante per la decisione della causa, egli sospende con ordinanza il giudizio, e fissa alle parti un termine perentorio entro il quale debbono riassumere la la causa di falso davanti al tribunale. CAPITOLO 42. (SEGUE) L’APPELLO 31 1. I nova in appello: il divieto di nuove domande Il nome di nova” designa il tema delle possibili novità della materia del contendere in appello rispetto al primo grado di giudizio. Nel giudizio di appello non sono proponibili domande nuove rispetto alle domande già proposte in primo grado: questo divieto, posto dall’ART 345, è generalmente considerato “di ordine pubblico”, sicché si ritiene irrilevante anche l’eventuale accettazione del contraddittorio su tali domande che provenga dalle controparti. Le domande nuove proposte in appello sono dichiarate inammissibili anche d’ufficio. Questo vuol dire che esse non sono rigettate nel merito, ma che non sono affatto trattate, sul presupposto che non spetta al giudice d’appello occuparsene. Si tratta, quindi, di domande che anche dopo la declaratoria di ammissibilità in appello, possono essere riproposte in primo grado al giudice competente. Al divieto fanno eccezione le nuove domande cc.dd. “consequenziali”, cioè quelle che tutelano diritti direttamente discendenti dalla sentenza di primo grado: l’ART 345 lascia la possibilità di domandare “gli interessi, i frutti, gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danno sofferti dopo la sentenza stessa”. Si tratta, come si vede, di quelle domande il cui titolo è strettamente dipendente dalla decisione di primo grado, domande che potrebbero proporsi autonomamente tramite un nuovo giudizio di cognizione in primo grado e che solo un’esigenza di economia processuale rende proponibili in appello: appare congruo che le parti dell’appello possano coltivare queste domande in tale grado piuttosto che dar luogo ad un autonomo processo di primo grado. 1.1. I nova in appello: i limiti alle nuove eccezioni e alle nuove prove Occorre ora chiedersi se in appello siano per la prima volta proponibili nuove eccezioni, cioè eccezioni non sollevate in primo grado. C’è, per esempio, spazio in appello per un’eccezione di prescrizione non dedotta in precedenza? La risposta è nell’ART 345 c.2, secondo qui “non possono proporsi nuove eccezioni che non sia rilevabili anche d’ufficio”. Così disponendo, il giudice ha scelto una via intermedia tra la proponibilità incondizionata di tutte le nuove eccezioni ed il suo divieto assoluto: non trovano ingresso in appello le nuove eccezioni che potrebbero essere dedotte solo su istanza di parte; sono invece ammesse le nuove eccezioni rilevabili anche d’ufficio. L’eccezione di prescrizione non è quindi rilevabile d’ufficio: o la si solleva in primo grado o non la si può più riproporre; viceversa, l’eccezione di nullità del contratto può proporsi per la prima volta in appello. Veniamo alle nuove prove (cioè a quelle non richieste in primo grado). Mentre il sistema precedente ammetteva in generale nuove prove in appello, la L. 353/1990 ha imposto una disciplina restrittiva: “Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa, ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile” (ART 345 c.3). In linea di 32 principio l’appello deve dunque configurare una fase di giudizio priva di attività probatoria, salva l’indispensabilità del mezzo di prova. Ciò porta a chiedersi: quando è indispensabile una prova? Il quesito è ambiguo e la risposta incerta: la dottrina si è affannata a delineare il concetto di indispensabilità, come qualcosa “di più della rilevanza” che deve caratterizzare ogni prova ma, in termini definitori, ha concluso ben poco. L’esperienza ci dice solo che il collegio talora ammette nuove prove dietro valutazione discrezionale dell’insieme delle circostanze, valutazione che spinge a ritenere opportuno che, nel caso di specie, si superi la rigidezza del divieto di nuove prove. Quanto detto vale naturalmente per la prova dei fatti costitutivi, modificativi, estintivi ed impeditivi già oggetto effettivo di giudizio in primo grado: è nei confronti di questi fatti che non è ammessa una nuova procedura probatoria. Quando invece in appello si apre per la prima volta il discorso su questioni che in primo grado non furono trattate, relativamente a tali questioni viene a porsi per la prima volta un problema istruttorio e ciò impone il rispetto del contraddittorio sotto il profilo del “diritto alla prova”. Ne consegue che nei confronti di tali questioni la prova dovrà considerarsi sempre indispensabile. L’altra eccezione al divieto di nuove prove si ha quando la parte dimostra di non aver potuto produrre la prova in primo grado per causa ad essa non imputabile. E’ la logica della remissione in termini, già vista in generale parlando dell’ART 153 c.2. Sarebbe ingiusto che, persa incolpevolmente la possibilità di dare una prova in primo grado, questa possibilità non gli sia concessa in appello. Ovviamente occorre poter dimostrare che la mancata prova in primo grado non è dipesa da una scelta volontaria o da negligenza del richiedente. Non è peraltro considerata mezzodì prova in senso stretto, la consulenza tecnica d’ufficio. 2. L’inammissilbità dell’appello per motivi di solo rito Si sono già esaminati gli effetti sostitutivo e devolutivi dell’appello: la controversia passa al nuovo grado di giudizio con il dovere del giudice d’appello di statuire sul merito attraverso una decisione che, anche in caso di conferma, si sostituirà integralmente a quella impugnata. Queste caratteristiche dell’appello comportanti l’onere dell’appellante di censurare sempre nel merito la sentenza di primo grado. L’appello è quindi inammissibile se limitato a motivi processuale se cioè esso si limita a denunciare nullità del procedimento o della sentenza di primo grado senza prospettare una diversa decisione nel merito. In questo caso infatti manca l’interesse al gravame: la sola censura di nullità non può assumere autonoma rilevanza, potendo la censura rilevare solo se si assume che da essa dipende un vizio di giudizio. La deduzione della sola nullità del processo o della sentenza di primo grado non basterebbe. La denuncia di tali nullità configura certamente legittimo motivo di appello: l’ART 161 c.1 stabilisce anzi che la nullità, diretta o riflessa, della sentenza di primo grado non può denunciarsi per altra via se non per mezzo dell’appello, ma a condizione che 33 l’appellante sia in grado di riconnettere alla nullità di un vizio della decisione relativo al merito della controversia. Il giudice di appello deve infatti decidere la causa nel merito, ma in tanto può farlo, in quanto siano state debitamente dedotte questioni di merito, per cui l’appello fondato esclusivamente sui motivi di nullità, senza contestuale gravame contro l’ingiustizia della sentenza di prono grado, risulta inammissibile per non rispondenza al modello legale o tipo di impugnazione. 2.1. Le eccezioni alla regola: la remissione della causa al giudice La regola dell’inammissibilità dell’appello limitato a soli vizi processuali subisce peraltro talune eccezioni. Vi sono infatti casi particolari in cui legittimamente l’appello è limitato alla denuncia di motivi di nullità. Si tratta di casi tassativi, specificamente individuati dal codice, in cui si è ritenuto che la nullità del giudizio di primo grado sia talmente grave da rendere inopportuno che l’appello possa direttamente concludersi con decisione di merito. Qui il giudice di appello, rilevata la nullità e dichiarata, deve limitarsi ad annullare la sentenza per rimettere la causa al giudice di primo grado, che viene re-investito del compito di pronunciare nel merito. Contrariamente al regime generale del gravame, il giudizio si scinde così in due fase: una prima fase di annullamento della sentenza (c.d. momento rescindente) a cui segue una seconda fase intesa ad un nuovo giudizio (c.d. momento rescissorio) ed attribuita allo stesso giudice da cui era stata pronunciata la sentenza annullata. I casi in cui questo avviene sono tutti molto particolari. Iniziamo dalla previsione dell’ART 353 (Rimessione al primo giudice per motivi di giurisdizione) c.1: “Il giudice d’appello, se riforma la sentenza di primo grado dichiarando che il giudice ordinario ha sulla causa la giurisdizione negata dal primo giudice, pronuncia sentenza con la quale rimanda le parti davanti al primo giudice”. Si tratta del caso in cui, proposta domanda al giudice ordinario, questi si era dichiarato sprovvisto di giurisdizione pronunciando una sentenza conclusiva del processo davanti a sè. L’appello contro tale sentenza ha invece ribaltato la decisione accertanti la sussistenza della giurisdizione ordinaria: applicando la regola generale a questo punto il giudice d’appello avrebbe dovuto decidere nel merito, ma le parti avrebbero seccamente perduto un grado di giudizio, sicché il legislatore ha preferito riportarle alla posizione originaria, affondando la pronuncia nel merito al giudice che si era erroneamente spogliato della causa. Altre ipotesi di eccezioni alla regola della necessaria decisione in merito sono quelle previste dall’ART 354 (Rimessione al primo giudice per altri motivi) :”Fuori dei casi previsti dall’articolo precedente, il giudice d’appello non può rimettere la causa al primo giudice; - tranne che dichiari nulla la notificazione della citazione introduttiva, - oppure riconosca che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il contraddittorio 34 - o non doveva essere estromessa una parte, - ovvero dichiari la nullità della sentenza di primo grado a norma dell’ART 161 c.2”. I. Vediamoci la previsione secondo la quale: il giudice riconosce che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il contraddittorio. E’, questa, l’ipotesi del litisconsorzio necessario. Sappiamo che quando la sentenza non può essere pronunciata che nei confronti di più parti, queste devono tutte partecipare al giudizio e, in difetto, l sparti mancanti vanno chiamate ad integrare il contraddittorio. Sappiamo anche che ci sono rimedi preventivi ma, nonostante tutto, può sempre aversi una sentenza che non pronuncianti confronti di tutte le parti. Se, appellata tale tale sentenza, il giudice del gravame riconosce che effettivamente è mancata una parte necessaria, egli non può ordinare la chiamata in causa di questa, ma deve annullare la sentenza e rimettere la causa al primo giudice affinché il processo di primo grado possa ricominciare da capo nei confronti anche della parte necessaria assente. L’esigenza di integrità del contraddittorio è talmente forte che impone di ricominciare da capo. Il processo deve potersi svolgere nei confronti di tutte le parti necessarie senza possibilità di sanatoria del vizio in appello perché la parte sopravvenuta ha diritto ad un doppio grado pieno di giudizio. II. Ipotesi speculare è quella dell’intervenuta estromissione in primo grado di una parte necessaria: anche in questo caso la sentenza appellata non ha pronunciato nei confronti di tutti i legittimi contraddittori. III. Altra remissione della causa al primo giudice si ha quando il giudice d’appello dichiara nulla la notificazione della citazione introduttiva. Ritorna qui il caso del contumace involontario che la legge tutela in modo vigoroso. L’accoglimento del gravame di chi ritiene di essere stato danneggiato dal mancato rilievo della nullità della notifica, comporta l’annullamento della sentenza di primo grado seguita da remissione della causa al primo giudice. IV. Ulteriore caso di divieto di giudicar sin merito, con obbligo di remissione al primo giudice, è la declaratoria della nullità della sentenza di primo grado a norma dell’ART 161 c.2, cioè della sua nullità insanabile. In realtà, il c.2 ART 161 si limita a richiamare l’ipotesi della mancata sottoscrizione della sentenza. Si ritiene però che la previsione della mancata sottoscrizione non esaurisca le ipotesi di inesistenza, e si finisce così per attribuire all’ART 161 c.2 un ruolo meramente esemplificativo delle possibili figure di inesistenza della sentenza. La casistica giurisprudenziale è varia in proposito; vale la pena di ricordare che la norma è stata, per esempio, applicata: a) quando la sentenza ha pronunciato nei confronti di persona già defunta al momento della proposizione della domanda; 35 b) quando la sentenza difetta di parti essenziali alla sua identificazione secondo il modello dell’atto-sentenza (es: motivazione); c) quando la decisione risulta pronunciata da un collegio giudicante diverso da quello davanti al quale si è svolta la discussione. V. Ultima ipotesi di remissione al primo giudice è quella, prevista dall’ART 354 c.2, in cui il giudice d’appello riscontra la mancanza dei presupposti dell’estinzione pronunciata in prono grado. Anche in tal caso la legge impedisce la decisione in merito del giudice d’appello imponendo il ritorno del processo al giudice che ha erroneamente sancito la chiusura del processo in punto di rito. 3. L’estinzione del giudizio d’appello Anche il grado d’appello soggiaci alla possibilità di estinzione, potendosi verificare, in corso di giudizio, inattività delle parti ovvero rinuncia agli atti. L’ART 338 regola gli effetti dell’estinzione statuendo che “L’estinzione del procedimento d’appello…fa passare in giudicato la sentenza impugnata, salvo che ne siano stati modificati gli effetti con provvedimento pronunciati nel procedimento estinto”. La declaratoria di estinzione impedisce la pronuncia della sentenza d’appello, ed impedisce dunque il verificarsi dell’effetto sostitutivo rispetto alla sentenza appellata; ne consegue il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado. Il passaggio in giudicato resta peraltro escluso nei casi in cui risultavo “modificati” gli effetti di tale sentenza a ragione di provvedimenti pronunciati nel corso del procedimento estinto. Il riferimento è ad atti di carattere non meramente ordinatorio che abbiano inciso sulle statuizioni della sentenza di primo grado, operandone una sostituzione o una parziale modificazione. 4. L’intervento di terzi in appello L’atto di appello può provenire solo da parti del giudizio di primo grado ed essere diretto nei confronti di parti dello stesso giudizio. Eccezione è il potere di proporre appello attribuito al successore a titolo particolare nel diritto controverso. Resta il problema dell’eventuale partecipazione di terzi alla fase d’appello in via successiva, che è affrontato da due distinte norme: a) dall’ART 334 che ammette l’intervento di coloro che sarebbero legittimati a proporre l’opposizione di terzo ai sensi dell’ART 404. Tale opposizione configura un rimedio successivo e, rispetto ad essa, l’ART 334 appresta uno strumento di tutela anticipata, consentendo ai terzi di far valere le proprie ragioni ancor prima che sia emessa la sentenza che potrebbe pregiudicarli e nei cui confronti sarebbero legittimati a proporre l’opposizione di cui all’ART 404. Pertanto, può intervenire in appello colui che potrebbe subire pregiudizio nei suoi diritti da un determinato esito del giudizio. 36 b) dall’ART 111 c.3, che, prevedendo che “in ogni caso” il successore a titolo particolare possa intervenire nel giudizio, si applica evidentemente anche al grado d’appello. CAPITOLO 43. IL GIUDIZIO DI CASSAZIONE E LA FASE DI RINVIO 1. Il giudizio di Cassazione L’altro grande mezzo generale di impugnazione delle sentenze è il ricorso per cassazione (Nota: talvolta si dice ricorso in cassazione, ma il c.p.c. parla di ricorso per cassazione. La differenza è questa: il ricorso IN cassazione è il ricorso fatto alla Corte di Cassazione, vista come organo; nel ricorso PER Cassazione invece, la parola cassazione sottende all’attività di cassazione), ricorso che dà vita al giudizio di fronte alla Corte Suprema di Cassazione. (La Corte di Cassazione (CDC) all’origine non rivestiva affatto natura di organo giurisdizionale, presentandosi piuttosto quale organo ausiliario del potere legislativo opto al controllo esterno dell’attività giurisdizionale. Molto approssimativamente possiamo ricordare che nella Francia rivoluzionaria era fortemente temuta la possibilità di arbitri e sconfinamenti da parte degl organi giudiziari: l’idea che i giudizi dovessero applicare la legge e null’altro che la legge, portò ad ipotizzare un controllo sull’attività giurisdizionale da affidarsi ad un organo ad hoc. Da questa esistenza nacque il Tribunal de Cassation, adibito solamente a “cassare”. Dopo, in epoca napoleonica, si chiamò Cour de Cassation). La CDC è un giudice centralizzato, con sede in Roma, ed è un organo investito di molteplici funzioni istituzionali, quali in particolari il controllo della giurisdizione e la c.d. funzione nomofilattica. Con questa parola si vuole indicare il compito che l’ordinamento attribuisce alla CDC di garantire la corretta osservanza della legge e l’uniformità dell’interpretazione e dell’applicazione del diritto oggettivo, secondo la formula dell’ART 65 del Testo Unico sull’Ordinamento Giudiziario. 2. I provvedimento impugnabili Ricorribili per CDC sono fondamentalmente le sentenze di appello, sicché nella maggioranza dei casi, il giudizio di cassazione configura una peculiare “terza istanza”. Sono quindi ricopribili le sentenze della Corte d’Appello che ha pronunciato come giudice d’appello delle sentenza del tribunale, e le sentenze del tribunale che ha deciso in secondo grado nei confronti delle sentenze del GDP. Sono poi ricopribili per cassazione le sentenza “in unico grado” (ART 360): a) le sentenze del tribunale inappellabili in quanto pronunciate sfondo equità; b) le sentenze del tribunale dichiarate dalla legge “non appellabili”; c) le sentenze della Corte d’appello investita dalla controversia non quale giudice d’appello ma quale giudice di unico grado. E’ ricopribile ancora per cassazione la sentenza pronunciata dal Tribunale quando le parti abbiamo concordemente rinunciato all’appello. La rinuncia all’appello è ammessa anche 37 anteriormente alla pronuncia della sentenza e permette alla parte soccombente di portare la sentenza direttamente in cassazione, ma solo per violazione o falsa applicazione delle norme di diritto, cioè attraverso il solo n.3) delle cinque tipologia di ricorso per cassazione. Sono infine ricopribili per C. le sentenze del giudice del lavoro contenenti “accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti ed accordi collettivi”: l’art 420-bis prescrive che queste sentenze siano impugnabili “soltanto con ricorso immediato per C”. Il regime del ricorso contro le sentenze non definitive non coincide con quello dell’ART 340 dettato per l’appello. Ai sensi del c.3 ART 360 non sono passibili di ricorso immediato e diretto le sentenze “non definitive” in senso proprio, cioè la sentenze “che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio”: il ricorso verso talis estense può essere proposto solo “allorché sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente, il giudizio” ma “senza necessità di riserva”. La doppia prerogativa dell’autonoma ricorribilità immeritata e della ricorribilità differita all’impugnazione della sentenza definitiva, riguarda invece solo gli altri tipi di “sentenze parziali”, doppia prerogativa che lascia intatta la necessità di previa riserva per la ricorribilità differita (ART 361). A parte vanno considerati quei provvedimenti emessi in forma diversa dalla sentenza, che decidono su diritti nei cui confronti non è prevista alcuna specifica impugnazione. Contro tale tipo di provvedimenti è serpe ammesso il ricorso per C. c.d. “straordinario” in forza dell’applicazione diretta dell’ART 111 c.7 Cost. Il ricorso per C. ha ricevuto un considerevole impulso proprio dall’ART 111 c.7. Sappiamo già che l’ambito di tale norma è stato molto dilatato dalla C. fino al punto di ricomprendervi tutti i provvedimenti, anche in forma diversa dalla sentenza, incidenti su diritti soggettivi e non altrimenti impugnabili. Si tratta di provvedimenti che hanno attitudine ad incidere su diritti soggettivi delle parti e che possiedono il requisito della definitività. Il ricorso per C., originariamente confinato alle sentenze previste dall’ART 360, è oggi il mezzo di controllo dei provvedimenti decisori e non altrimenti impugnabili nelle materie più disparate. L’ART 360 u.c. è la sola norma del codice a registrare l’istituto del ricorso straordinario, nel suo riferimento alle sentenze e ai provvedimenti diversi dalla sentenza “contro i quali è ammesso il ricorso per C. per violazione di legge”. La norma è importante non solo per la ricognizione che essa fa di tale tipo di ricorso, ma per la piena parificazione di ricorso straordinario e ordinario quanto ai motivi di ricorso. Nello statuire che le disposizioni “di cui al primo comma e terzo comma” si applicano in pieno ai ricorsi contro quelle sentenze e quei provvedimenti, essa impedisce di ridurre la “violazione di legge” di cui parla l’ART 111 c.7 Cost, al solo motivo di “violazione o falsa applicazione di norma di diritto” di cui al n.3 ART 360, con esclusione degli altri motivi. La cosa è rilevante in quanto la norma stronca la tendenza, manifestata in precedenza dalla Cassazione, ad escludere il ricorso straordinario per il motivo del vizio di motivazione sancito dal n.5 ART 360. 3. I motivi di ricorso 38 A differenza dell’appello, il ricorso per C. si presenta come una tecnica specifica di impugnazione che potremmo chiamare “impugnazione a motivi obbligati”. Per l’appello manca una norma che subordini a motivi specifici di impugnabilità. L’appellante deve certamente “motivare” l’appello, ma qualunque ragione di critica alla sentenza di primo grado, purché qualunque ragione di critica alla sentenza di primo grado, purché astrattamente idonea a dar luogo ad una differente decisione nel merito, può fungere da motivo di appello. Ciò corrisponde alla natura dell’appello che conduce ad una nuova ed autonoma decisione della controversia. Nel giudizio di C. le cose stanno diversamente. Per essere ammissibile, il ricorso deve poter ricondurre le censure mosse alla sentenza ad uno, o più, dei motivi ammessi dall’ART 360. L’avvocato della parte soccombente deve quindi indagare in che termini, e in che limiti, il vizio della sentenza possa tradursi in uno dei motivi elencati dall’ART 360: la C. infatti verificherà pregiudizialmente che la censura alla sentenza corrisponda ad uno dei motivi ammessi. Ne segue che le censure non inquadrabili in alcuno dei motivi contemplati dalla legge verranno dichiarate inammissibili. La C. non è quindi chiamata a “giudicare un’altra volta “ della controversia, poiché i suoi poteri di cognizione sono instradati secondo specifici motivi di controllo della pronuncia impugnata. Inoltre l’accoglimento del ricorso si concreta nella C della sentenza impugnata, e solo in seguito a tale cassazione potrà procedersi ad eventuale nuova decisione. Ciò comporta che il giudizio di cassazione consta di una prima fase necessaria, a carattere demolitori della pronuncia impugnata, che prende il nome tecnico di “giudizio rescindente”, e di una seconda fase, eventuale, a carattere ricostruttivo, che prende il nome di “giudizio rescissorio”. I motivi contemplati dall’ART 360 danno luogo a cinque distinte figure, ma si possono ricondurre a tre tipo fondamentali: a) violazione di legge, cioè alla violazione e alla falsa applicazione delle norme sostanziali utilizzate quale metro di giudizio per le situazioni soggettive coinvolte (c.d. errores in giudicando); b) violazione di norme processuali. Per giudicare il giudice deve seguire le regole del processo: l’errore nell’applicazione di queste regole comporta un vizio censurabile in C. (c.d. errores in procedendo); c) soluzione delle questioni relative ai fatti di causa, sotto il profilo della correttezza del ragionamento degusto dal giudice: si trtta degli errori connessi al mancato rispetto dei principi del corretto argomentare ricavabili dall’esposizione del giudizio di fatto compiuto dalla motivazione. Più in particolare, il ricorso è ammesso: 1) “per motivi attinenti alla giurisdizione”. Quando la parte soccombente ritenga violate le norme che presiedono all’attribuzione della giurisdizione del giudice italiano, ovvero, al riparto della giurisdizione tra i vari ordini giurisdizionali nazionali, può ricorrere per C. 39 per richiedere che, applicate correttamente tali norme, la Corte cassi la sentenza che le ha violate; 2) “per violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza”. La parte soccombente può chiedere la cassazione della sentenza quando ritenga violate le norme sulla competenza del giudice, e sempre che l’incompetenza non sia sanata per mancata o tardiva rilevazione. Le sentenze ricopribili per cassazione con il mezzo ordinario sotto il profilo della competenza sono le sentenze che hanno pronunciato contemporaneamente sul merito e sulla competenza affermativamente, o hanno pronunciato solo sul merito, con ciò implicitamente riconoscendo la competenza. 3) “per violazione o falsa applicazione di norme di diritto”. Il terzo motivo ci porta nella dimensione dell’errore attinente alla formulazione del giudizio. Questo accade anzitutto per l’interpretazione e l’applicazione della legge e del diritto c.d. sostanziale, cioè delle norme che regolano il rapporto giuridico oggetto del processo e della decisione. Ma l’interpretazione e l’applicazione della legge può riguardare anche regole del processo: questo accade allorché oggetto di disputa sia appunto una norma processuale e la decisione adottata dipende dall’interpretazione o dall’applicazione di essa. Per esempio, sciogliendo la questione se la notifica di un dato atto si perfezione in un certo momento, ovvero in un momento diverso, il giudice d’appello, interpretando la norma, adotta la prima soluzione; il ricorso con cui si censura tale scelta invocherà il motivo del n.3, cioè la violazione di norma di diritto. Si parla, in tal caso, di error in giudicando de jure procedendi. Alla violazione e falsa applicazione delle norme di diritto, l’ART 360 n.3 espressamente assimila le norme poste dai contratti ed accordi collettivi di lavoro (si tratta delle c.d. clausole normative. L’errore del giudice di merito nell’interpretazione o applicazione di tale normativa è quindi parimenti denunciabile con ricorso per C. “Violazione” e “falsa applicazione” sono le due possibili manifestazioni di questo tipo di errore. Si può dire, semplificando, che con violazione ci si riferisce all’erronea interpretazione della norma, intesa come l’erronea ricostruzione della fattispecie astratta, mentre con falsa applicazione ci si riferisce all’inesatta applicazione della norma ai fatti rilevanti nel caso considerato, cioè all’erronea riconduzione della c.d. fattispecie concreta alla sua fattispecie normativa. 4) “per nullità della sentenza o del procedimento”. Con il motivo n.4 usciamo dalla denuncia del vizio proprio dell’atto di giudicare per entrare nella dimensione del vizio riconducibile al compimento di atti viziati o all’omissione di atti necessari. Ricorribilità “per nullità della sentenza o del procedimento” significa ricorribilità per mancato rispetto delle norme che regolano tanto l’attività processuale delle parti quanto l’attività del giudice. Le sentenze ricopribili per C. possono quindi essere censurate per i vizi propri e per i vizi degli atti precedenti che si sono riflessi su di esse. Questo vuol dire che contro una sentenza d’appello, oggetto normale del ricorso per C. potrà ricorrersi per nullità che dipende da un vizio del primo rado di giudizio, o per nullità dipendente da un vizio dell’atto di appello, o ancora per nullità dipendente da un vizio suo proprio. Si ricorsi che la rilevabilità della nullità della sentenza è disciplinata dall’ART 161 c.1, secondo cui la 40 nullità delle sentenza soggette ad appello o a ricorso per C. “può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi di impugnazione”. 5) “per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”. Con questo quinto motivo, usciamo dall’errore di diritto, e ci spostiamo su vizi di motivazione della sentenza, cioè sui difetti di giustificazione di quanto deciso. Va anzitutto precisato che, parlando di “omessa motivazione” ai sensi del n.5 non ci si riferisce alla sentenza materialmente pira di motivazione, cioè una sentenza esaurentesi nel solo dispositivo. In questo caso avremmo un vizio documentale della sentenza, una nullità che ricadrebbe nel n.4 ART 360: la sentenza difetterebbe di uno dei requisiti formali prescritti dalla legge. Parlando invece di omessa motivazione si intende dire che le spiegazioni addotte per motivare…non spiegano nulla, non giustificano cioè la conclusione a cui è giunta la sentenza. La motivazione è omessa tutte le volte in cui si riscontra un salto dalle premesse alla conclusione, sicché quest’ultima appare arbitraria perché apodittica. Accanto all’omissione, rilevano: - l’insufficiente motivazione, che si ha quando la sentenza prospetta una giustificazione della conclusione attinta che però non appare plausibile per l’incompleto sviluppo logico o argomentativo, cioè per l’assenza di uno o più passaggi necessari della dimostrazione, e - la contraddittoria motivazione, che si verifica quando le conclusioni appaiono logicamente incompatibili con le loro premesse. I vizi di omissione, insufficienza o contraddizione della motivazione debbono riguardare la ricostruzione delle circostanze che formano la base fattuale del giudizio di diritto, e debbono cadere “su un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, cioè su un punto di fatto che non si debba considerare espressamente o implicitamente riconosciuto. 3.1. Il controllo del giudizio di fatto L’esame del motivo contemplato dal n.5 ART 360 ci permette di chiarire un punto fondamentale, e cioè il significato dell’espressione tradizionalmente ripetuta, secondo cui la C. non è “giudice del fatto”, ma è “giudice del solo diritto”. Quando si impugna la sentenza per vizio della motivazione, il controllo esercitato dalla C. non può andare al di là della verifica della correttezza del ragionamento espresso in sentenza: la C. non può così giudicare in via diretta dell’avveramento o meno dei fatti in questione. Al giudice di C. si può chiedere solo di verificare che il giudice di merito, nel ricostruire il fatto controverso, abbia ben giustificato la propria confusione, cioè sia stato in grado di rappresentar in maniera plausibile il suo convincimento, spiegando in modo sufficiente e non contraddittorio il perché della propria scelta. La C. è chiamata a verificare quindi la correttezza dei criteri logici e argomentativi utilizzati dal giudice in motivazione: verrà quindi cassata la sentenza in cui la C. avrà 41 ravvisato una stortura nella giustificazione ricostruttiva del fatto, non potendo essa invece verificare se il fatto si sia effettivamente prodotto o no. Sotto questo profilo, ipotesi della C. sono più ristretti rispetto ai poteri del giudice d’appello, che invece può esprimere il suo autonomo giudizio sulle vicende fattuali sottostanti ai diritti fatti valere in giudizio. (Va peraltro segnalato che la C. riconduce stabilmente al controllo della motivazione, ai sensi del n.5, anche i giufidizi che il giudice formula quando è chiamato ad applicare i c.d. “concetti indeterminati” (per es. buona fede, correttezza, giusta causa). L’esito dell’applicazione di tali concetti non è infatti strettamente determinato: è nella loro natura rendere possibili più soluzioni la sui scelta è affidata alla discrezionalità del giudice del merito secondo circostanze che egli solo può correttamente apprezzare. Per questa ragione, la C. limita il suo controllo ala congruità e logicità del relativo giudizio). 3.2. L’ammissibilità dei motivi di ricorso La trattazione del merito del ricorso ai vini dell’accoglimento o del rigetto, è peraltro subordinata ad un giudizio di ammissibilità dei suoi motivi. L’ART 360-bis, introdotto dalla L. 69/2009, sanziona con l’inammissibilità il ricorso proposto contro il provvedimento che “ha deciso le questione di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte” quando “l’esame dei motivi non offre elemento per confermare o mutare l’orientamento della stessa”, nonché “quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo”. Il n.1 conferisce un crisma di ufficialità al c.d. “precedente giudiziale”, seppur non nel senso precipuo dei sistemi di common law. La norma in sostanza dice che, quando la Corte ha già in passato speso i propri poteri decidenti in modo stabile una certa questione di diritto ed il provvedimento impugnato si è adeguarti a tale soluzione, il ricorrente non può limitarsi a censurare la soluzione ma deve impegnarsi a trovare ed esporre i motivi per i quali sarebbe opportuno un ripensamento della Corte. In altre parole, occorre non solo che il ricorso esprima la consapevolezza del suo contrasto con la giurisprudenza della Corte, ma anche che l’invito a cambiare giurisprudenza sia sorretto da una motivazione ragionevolmente idonea a stimolare il ripensamento. Il n.2 ART 360-bis introduce un requisito di ammissibilità di non immediata comprensione. Che vuol dire che il ricorso è inammissibile quando è manifestamente infondata “la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusti processo”? La domanda è legittima perché una censura del genere non corrisponde a nessuno dei cinque motivi contemplati dall’ART 360 e la prassi utilizza la denuncia della violazione dei canoni del “giusto processo” come “coloritura” di specifici motivi. In mancanza di prolungata esperienza applicativa, le risposte sono ancora incerte. Se ne possono qui segnalare due, l’una opposta all’altra. 42 La prima risposta è che la prescrizione in realtà ha allargato i motivi di ricorso nel senso che, a fianco delle nullità vere e proprie, diviene motivo di cassazione anche la violazione delle regole del giusto processo che non abbiano comportato vere e proprie nullità. L’inammissiblità sanzionata dell’ART 360-bis n.2 riguarderebbe quindi la manifesta infondatezza di una doglianza legittima. L’altra opzione interpretativa può essere così riassunta: denunciabili ai sensi dell’ART 360 n.4 solo le nullità che importano violazione del principio del giusto processo, mentre cessano di essere denunciabili con ricorso per C. le nullità che non incorrono in tale violazione. Si tratta di una tesi che restringe l’ambio del motivo del n-4, ma che pone non pochi problemi e la cui adozione necessita di correttivi e distinguo la cui elaborazione appare prematura allo stato. Sarà quindi la concreta applicazione della norma da parte della C. a fornire in futuro la sua chiave interpretativa. La L. 69/2009 ha inoltre aggiunto all’ART 373 c.1 l’inciso secondo cui la dichiarazione di inammissibilità del ricorso in camera di consiglio può avvenire “anche per mancanza dei motivi previsti dall’ART 360”. La norma si riferisce al caso in cui il motivo concretamente speso dal ricorrente non integra la fattispecie legale del motivo. 4. La funzione c.d. nomofilattica Si à già detto della funzione nomofilattica della C., cioè del suo compito istituzionale di assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge”. Alcuni istituti particolari nella disciplina del ricorso per C. confermano questa particolare funzione, evidenziando l’esigenza che la C. curi la corretta interpretazione della legge anche al di là del caso deciso. Nella disciplina positiva del giudizio di C. spiccano quattro norma in cui si rifletta la funzione nomofilattica. a) Art 384 c.1 La norma obbliga la Corte ad enunciare sempre il principio di diritto quando decide il ricorso ai sensi del n.3 ART 360; decidendo invece dei motivi di cui ai numero 1,2 e 4 ART 360, la pronuncia del principio è subordinata alla “particolare importanza” della questione di diritto. Per principio di diritto si intende qui la regola giuridica del caso deciso, opportunamente esplicitata affinché possa valere per futuri giudizi su casi omologhi. Per particolare importanza della questione si intende, da un lato, l’idoneità della soluzione contenuta nel principio del diritto ad applicarsi ad una casistica aperta; dall’altro la “particolare importanza” andrà valutata anche alla lice della novità del principio rispetto alla giurisprudenza della Corte. L’enunciazione del principio di diritto non consegue solo all’accoglimento del motivo di ricorso, ma si ricollega alla decisione comunque del motivo di impugnazione e, quindi, anche sul rigetto. b) ART 363. Il procuratore generale presso la C. “può chiedere che la C. enunci nell’interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi”, non solo “quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato” ma anche “quando il provvedimento non è ricopribile in C. e non è 43 altrimenti impugnabile”. La richiesta del Procuratore generale, contenente una sintetica esposizione del fatto e delle ragioni di diritto poste a fondamento dell’istanza, è rivolta al primo presidente, il quale “può disporre che la Corte si pronunci a sezione unite se ritiene che la questione è di particolare importanza”. Presupposto di esercizio di questo potere è l’esigenza che la Corte rimedi ad un principio di diritto errato posto alla base di una decisione non più ricopribile, o non ricopribile affatto per C. E’ il caso in cui la sentenza non sia stata impugnata nel termine per proporre ricorso, ovvero in cui il provvedimento non sia di per sé ricopribile per C. Il procuratore generale presso la C. ha un potere che supera sia la volontà delle parti che il limite della non impugnabilità del provvedimento. Oltre al potere di iniziativa del Procuratore Generale, l’ART 363 prevede anche la possibilità di autonoma pronuncia della Corte di principi di diritto in funzione nomofilattica quando il ricorso della parte “è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importanza”. La norma significa che la declaratoria di inammissibilità del ricorso non impedisce alla Corte di poter giudicare delle questioni la cui decisione riveste quella importanza particolare che significa idoneità a riflettersi sulla corretta osservanza della legge e sull’uniformità di interpretazione ed applicazione del diritto. La cassazione della sentenza non può però giocare al ricorrente in quanto l’accoglimento del ricorso avviene nel solo interesse della legge: le parti quindi resteranno soggette alla pronuncia cassata. E’ evidente qui la funzione strettamente nomofilattica dell’istituto che non tutela il diritto del ricorrente, ma consente la sostituzione del principio di diritto errato con quello corretto. c) ART 384 c.4: “Non sono soggette a C. le sentenze erroneamente motivate in diritto, quando il dispositivo sia conforme a diritto; in tal caso la C. si limita a correggere la motivazione”. E’ il caso della sentenza che ha deciso bene ma ha motivato male sul piano giuridico, sicché da essa scaturisce una distorta rappresentazione della norma o dell’istituto. In tal caso, la Corte rigetta il ricorso dato che la conclusione (dispositivo), in sé è conforme a diritto, ma provvede a correggerne la motivazione. d) ART 374 c.2: “Il primo presidente può disporre che la Corte pronunci a sezione unite sui ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, e su quelli che presentano una questione di massima di particolare importanza”. Il primo presidente della Corte può disporre che su determinate questioni non decida una sezione semplice, cioè una delle sezioni a cui normalmente è rimesso il ricorso attraverso un meccanismo interno di distribuzione. Può accadere che certe questioni di diritto ricevano talvolta una soluzione in un senso da una sezione e una soluzione opposta da un’altra sezione; si determinano così dei conflitti che contraddicono i beni primari della corretta interpretazione della legge e dell’uniformità del diritto nazionale. 44 Se la sezione I ha fissato un principio di diritto che la sezione III ha contraddetto risolvendo la stessa quesitone, evidentemente non è stato tutelato il bene della certezza ed uniformità del diritto. E’ quindi sommamente opportuno che, sulla questione che ha ricevuto soluzioni contrastanti, decida un tipo di collegio più qualificato rispetto ai normali collegi che si formano nelle sezioni in cui si è sviluppato il conflitto. Con “Sezioni unite” si designa infatti una speciale conformazione di collegio decidente che, per numero di membri e peculiarità della sua composizione, appare atta ad esprimere la posizione della C. con la massima autorevolezza. Questa particolare solennità della decisione della causa si ha anche quando si deve decidere su ricorsi che “presentano una ustione di massima di particolare importanza”. Quando il primo presidente ritiene che sia opportuno che un orbano così qualificato sciolga consapevolmente una questione di diritto di particolare importanza, cioè quando dalla soluzione della questione giuridica che il ricorso porta all’attenzione dei giudici supremi possono scaturire conseguenze particolarmente significative per l’ordinamento. Particolare è l’organo e particolare è la sua autorevolezza. Al punto che, se una sezione semplice non ritiene di poter condividere un principio di diritto proveniente dalle sezioni unite, essa non può decidere difformemente ma “rimette a quest’ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”. La questione torna quindi alle sezioni unite che dovranno decidere dell’opportunità di conservare la propria precedente giurisprudenza p di dar spazio alle contrarie ragioni motivatamente espresse dall’ordinanza di remissione. 5. Il procedimento Passiamo ora ad esaminare le forme degli atti del giudizio di cassazione. I termini per proporre il ricorso sono 60 giorni dalla notificazione della sentenza (c.d. termine breve), o 6 mesi dalla pubblicazione previsto dall’ART 327 c.1 (termine lungo). Il termine breve differisce da quello dell’appello che è solo di 30 giorni, mentre il termine lungo è uguale sia per l’appello che per la C. A pena di inammissibilità il ricorso deve contenere l’indicazione delle parti, l’individuazione della decisione impugnata, l’esposizione sommaria dei fatti della causa, i motivi per i quali si chiede la C. con l’indicazione delle norme di diritto su cui essi di fondano, l’indicazione della procura se conferita con atto separato, la specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali esso si fonda (ART 366). Ancora a pena di inammissibilità, il ricorso deve essere sottoscritto da un avvocato iscritto nell’apposito albo speciale dei patrocinanti di fronte alle giurisdizioni superiori, munito di procura speciale (ART 365). Il ricorso per C. deve essere previamente notificato alla controparte. Il termine per ricorrere si intende rispettato se l’atto è notificato prima della sua scadenza. Ai senti dell’ART 366 c.2 il ricorrente ha l’onere di eleggere domicilio a Roma: in caso contrario le notificazioni sono fatte presso la cancelleria della C. Il ricorso viene notificato secondo le regole generali al procuratore costituito, e, quindi, a colui che è stato procuratore della controparte, per il giudizio d’appello. 45 Una volta notificato, il ricorso deve essere depositato in cancelleria entro 20 giorni, a pena di improcedibilità, dall’ultima notificazione alle parti. Ai sensi dell’ART 369 c.2, assieme al ricorso notificato deve essere depositata la copia autentica della sentenza impugnata. Il ricorso presuppone procura speciale ( successiva alla sentenza e anteriore al ricorso), che deve essere depositata assieme agli atti e documenti su cui il ricorso di fonda. I fascicoli d’ufficio dei precedenti gradi di giudizio vengono trasferiti, per vie interne, dalla cancelleria del giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato a quella della Corte. Allo scopo, occorre chiedere la trasmissione del fascicolo alla cancelleria del giudice a quo che vidima la relativa istanza, anch’essa da depositarsi insieme al ricorso. Nel giudizio di C. non è ammesso il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi di giudizio. Fanno eccezione gli atti e i documenti riguardanti la nullità della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso e del controricorso. I documenti relativi all’ammissibilità di questi possono essere depositati anche oltre il termine per il loro deposito ma in tal caso l’ART 372 .2 prescrive che il depositante deve notificare l’elenco alle altre parti. 5.1. Controricorso e ricorso incidentale Esaminiamo ora la difesa dell’intimato, cioè del soggetto a cui è stato notificato il ricorso. L’intimato può replicare con controricorso, cil con un atto di risposta da notificarsi al ricorrente nel domicilio da questi eletto per il giudizio di C. Per notificare il controricorso, la legge concede un termine di 40 giorni (ART 370 c.1), dallo scadere del quale decorre un successivo termine di 20 giorni per il deposito. Simmetricamente al ricorso, il controricorso deve essere redatto da un avvocato iscritto all’albo dei patrocinanti davanti alle magistrature superiori (avvocato “cassazionista”) munito di procura speciale, e deve contenere i requisiti formali prescritti dall’ART 366 per il ricorso. Con esso il controcorrente opporrà le ragioni di rigetto dei motivi esposti nel ricorso o contesterà, se del caso, l’ammissibilità o la procedibilità del ricorso stesso. Solo il resistente che, nel rispetto dei termini per la notifica ed il deposito, abbia proposto controricorso, potrà poi presentare l’apposita “memoria illustrativa” prevista dall’ART 378. Anche però in mancanza di controricorso, egli potrà partecipare alle discussione orale. Una volta istaurato il giudizio di C. con la proposizione del ricorso, il procedimento si svolge senza necessità di atti di impulso di parte. A tempo debito verrà fissata un’udienza di discussione di cui verrà dato avviso alle parti che potranno, fino a 5 giorni prima, depositare un’apposita memoria esplicativa senza possibilità di aggiungere altri motivi. All’udienza il giudice relatore riferisce i fatti rilevanti e il contenuto della decisione impugnata, i motivi del ricorso e del controricorso, indi il presidente invita le parti a svolgere le proprie difese. Segue l’esposizione orale delle conclusioni motivate dal PM (cioè il Procuratore Generale della Corte), e la Corte, al termine della discussione di tutte le cause trattate nel giorno di udienza “delibera, nella stessa seduta, la causa in camera di consiglio”. 46 Il processo di C. è denominato dall’impulso d’ufficio, e da questo consegue che in esso non trova spazio l’estinzione per inattività delle parti; rileva invece l’estinzione per rinuncia al ricorso. L’impugnazione incidentale nel giudizio di C. viene proposta nella forma del c.d. ricorso incidentale. SI tratta di un’impugnazione incidentale materialmente contenuta nel controricorso ( il “controricorso con ricorso incidentale” è un atto complesso fungente quindi da atto introduttivo della difesa del resistente e da veicolo del ricorso incidentale). Con il semplice controricorso non possono impugnarsi capi della sentenza d’appello: se intende far questo il resistente deve proporre ricorso incidentale. Ma il controricorso non è idoneo neppure a contenere la richiesta di un nuovo giudizio su altre questioni decise nella sentenza impugnata: anche in tal caso è necessario proporre ricorso incidentale. Il ricorso incidentale è dunque necessario non solo in caso di soccombenza effettiva su capi di domanda. (Sul punto la differenza con l’appello è netta: mentre l’appellato non ha bisogno di proporre appello incidentale per le questioni risolte sfavorevolmente, essendo sufficiente la loro riproposizione ex ART 346, con il controricorso ci si deve limitare a chiedere che la sentenza sia tenuta ferma perché i mitici dedotti dal ricorrente sono infondati. Il controcorrente che infatti voglia sottoporre a nuovo giudizio questioni per lui negativamente decise dalla sentenza che gli ha dato conclusivamente ragione, è tenuto a proporre ricorso incidentale, cioè a dolersene con apposito motivo. La prassi ha introdotto in proposito la figura del ricorso incidentale condizionato, cioè del ricorso proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito che ne subordina l’esame al riconoscimento della fondatezza del ricorso principale. Solo in questo caso infatti il ricorrente incidentale acquista l’interesse alla decisione a proprio favore della questione sollevata con il ricorso incidentale. La giurisprudenza più recente delle Sezioni Unite ritiene che il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito baia natura di ricorso condizionato, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte, e che perda il “condizionamento” solo se le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito investite dal ricorso stesso, siano non solo rilevabili d’ufficio, ma non siano neppure state oggetto di decisione esplicita o implicita da parte del giudice di merito). 5.2. La sospensione dell’esecuzione della sentenza L’esigenza di evitare l’esecuzione immediata della sentenza nei cui confronti è stato proposto ricorso per C, rende possibile la sospensione della sua esecutività o la sospensione dell’esecuzione già intrapresa: il ricorrente può simmetricamente domandare l’una o l’altra cosa, in simmetria con il soccombente in primo grado che ha proposto appello. 47 Prevede l’ART 373 che, in caso di grave e irreparabile danno derivante dall’esecuzione, la parte condannata può chiedere la sospensione dell’esecuzione ovvero dell’esecutorietà della sentenza, ovvero chiedere che sia prestata “congrua cauzione”. Il requisito dell’irreparabilità del danno viene comunemente inteso come pericolo oggettivo di distruzione o perdita delle qualità essenziali del bene sottoposto ad esecuzione, laddove il requisito della gravità viene visto nell’eccezionale sproposizione tra il vantaggio del procedente e il pregiudizio dell’esecutato. A decidere della sospensione non è però il giudice dell’impugnazione, ma lo stesso giudice della sentenza impugnata. La legge non ha gravato la C. del compito di verificare la sussistenza del pericolo: quale giudice di legittimità ad essa sono istituzionalmente estranee le valutazioni di opportunità che presiedono a tale giudizio, valutazioni i rimesse al giudice di merito da cui proviene la sentenza impugnata per C. L’istanza di sospensione si propone quindi con ricorso a questo giudice che, con decreto in calce al ricorso, ordina la comparizione delle parti in camera di consiglio e decide con ordinanza non impugnabile. Con lo stesso decreto, in caso di eccezionale urgenza, può essere disposta provvisoriamente l’immediata sospensione dell’esecuzione. 6. Le decisioni della C. La forma norma delle decisioni della C. è la sentenza. Se però la C. riconosce di dover dichiarare l’inammissibilità, o la manifesta infondatezza del ricorso, essa pronuncia ordinanza all’esito della procedura della camera di consiglio. Allo scopo di permettete un’immediata scrematura dei ricorsi trattabili con la procedura normale e dei ricorso palesemente inammissibili, l’ART 374 c.1 conferisce al primo presidente il compito di assegnare i ricorsi ad una apposita sezione che “verifica se sussistono i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell’ART 375, c.1”. L’ART 375 impone l’adozione della procedura della camera di consiglio anche nel caso in cui la Corte riconosce di dover accogliere il ricorso per manifesta fondatezza. La procedura della camera di consiglio si distingue da quella della pubblica udienza. Ai sensi dell’ART 380, il relatore che ravvisi la ricorrenza di un delle ipotesi dell’ART 375 e ritenga quindi che il ricorso vada deciso in camera di consiglio “deposita in cancelleria una relazione con la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto in base ai quali ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio”. Una volta fissata, con decreto presidenziale, la seduta della Corte, decreto e relazione vengono comunicati al PM e notificati agli avvocati delle parti almeno 20 giorni prima della data stabilita per la seduta stessa. La decisione in camera di consiglio avviene nella forma dell’ordinanza. Se la Corte riscontra l’infondatezza del ricorso, lo rigetta con sentenza. Il non accoglimento del ricorso rende definitiva la sentenza impugnata. Quando la Corte riconosce invece la fondatezza del ricorso lo accoglie cassando la sentenza impugnata. Ovviamente l’accoglimento del ricorso può essere totale, o parziale; in quest’ultimo caso le parti della sentenza corrispondenti alle parti del ricorso rigettato divengono definitive. Nell’ipotesi che la Corte accolga il ricorso essa cassa la sentenza impugnata. 48 Alla cassazione della sentenza seguono varie possibilità: 1) E’ possibile che l’accoglimento del ricorso renda necessario un nuovo giudizio sulla controversia. E’ il caso, per es., in cui, cassata la sentenza per errata interpretazione di una norma, occorre valutare di nuovo i fatti alla luce della corretta interpretazione della norma indicata dalla sentenza di C. In un caso del genere, il più delle volte la C. non decide direttamente del torto o della ragione delle parti, ma “rinvia” la causa al giudice del merito affinché sia esso a formulare il giudizio finale dopo aver valutato le circostanze di fatto e di diritto in conformità alle indicazioni provenienti dalla sentenza di cassazione. 2) Quando questo avviene, si vede chiaramente la scissione del giudizio in due fase: una prima fase detta rescindente (di cassazione della sentenza) e una seconda fase a carattere ricostruttivo, c.d. rescissoria, affidata ad un giudice diverso da quello che ha annullato la sentenza, il c.d. giudice del rinvio. L’ART 383 c.1 prescrive che “la Corte quando accoglie il ricorso per motivi diversi da quelli richiamati nell’articolo precedente, rinvia la causa ad un altro giudice di grado pari a quello che ha pronunciato la sentenza cassata”. Il procedimento viene quindi rinviato, per lo svolgimento della fase rescissoria, non allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza cassata, ma ad un organo di pari grado. Quando cassa con rinvio, la Corte deve pronunciare il c.d. principio di diritto “al quale il giudice di rinvio deve uniformarsi”. Il principio di diritto si risolve nella formulazione della corretta regola giuridica specificamente applicabile al caso da decidere: spetterà al giudice del rinvio curarne l’applicazione ai fatti della controversia, in luogo della regola erronea fatta propria dalla sentenza cassata. La pronuncia del principio di diritto è prescritta sempre quando la Corte decide di ricorso proposti a norma dell’ART 360 c.3m e in ogni altro caso in cui la Corte decidendo su altri motivi del ricorso, risolve una questione di diritto di particolare importanza. All’esigenza di formulare un nuovo giudizio sulla controversia dopo la cassazione della sentenza può però talvolta sopperire la C. stessa. Si tratta del caso in cui l’attività ricostruttiva può essere agevolmente compiuto senza bisogno che la causa sia rimessa ad un giudice di merito. A norma dell’ART 384 c.1, la Corte, quando accoglie il ricorso, “decide la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto”. In tanto infatti vi + bisogno di un autonomo e separato giudizio di merito, in quando vi sia ancora necessità di autonomi accertamenti in fatto, accertamenti che, come sappiamo, sono istituzionalmente negati alla Corte, la quale non svolge attività istruttorie. Ne segue che in tutte le ipotesi in cui il giudizio rescissorio si risolve nell’elaborare il giudizio di diritto su fatti già accertati o pacifici, tale giudizio può ben essere formulato dalla stessa C. In tali casi, rinviare la causa al giudice di rinvio sarebbe infatti un spreco di tempo, denaro e energia e contrasterebbe con i principi di ragionevole durata del processo e di economia processuale. Si parla di “cassazione sostitutiva”: decidendo in rescissorio, la Corte opera il completamento del giudizio reso necessario dalla cassazione della sentenza, e così 49 facendo si sostituisce al giudice del rinvio nell’accertamento dei diritti e degli obblighi delle parti. Non basta naturalmente che si sia avuto un accertamento dei fatti, ma occorre anche che dalla decisione della C. non derivi la rilevanza di altri e diversi fatti rispetto a quelli accertati: in tal caso il rinvio è sempre necessario, non potendo la C. procedere al loro accertamento. Resta degno di nota che nella cassazione sostitutiva la fase rescindente resta concettualmente separata dalla fase rescissoria, ancorché tutto si svolga nell’ambito del giudizio di cassazione: la C. prima cassa la sentenza e poi decide della controversia. (Di “ulteriori accertamento di fatto” non vi è bisogno quando i fatti sono stati effettivamente oggetto di accertamento e decisione nel giudizio di merito e la cassazione è caduta su un punto della sentenza che tale accertamento non rimette in discussione. Da un po’ di tempo però, la C. ha iniziato a decidere nel merito anche in casi in cui, pur essendo mancato un effettivo accertamento, la decisione appare comunque possibile perché un nuovo accertamento di fatto appare fondamentalmente superfluo. Si può approvare questa tendenza, in nome del principio della ragionevole durata del processi, ma non senza notare che la C. ha l’obbligo di provocare il contraddittorio sul punto: il fatto può essere infatti pacifico ma le parti hanno il pieno diritto di interloquire in punto di diritto sul suo inquadramento giuridico). La cassazione sostitutiva dà luogo ad una forma di cassazione senza rinvio perché la fase rescissoria ha luogo presso la Corte stessa; il rinvio può però mancare nelle ipotesi in cui non vi è affatto bisogno di una fase rescissoria bastando a regolare definitivamente il processo la cassazione della sentenza. La Corte cassa senza rinvio in presenza del c.d. difetto assoluto di giurisdizione. Questo si verifica quando sulla pretesa vantata dall’attore non sussisteva alcuna potestà giurisdizionale del giudice italiano, in quando la materia era riservata al giudice straniero, ovvero si trattava di questione riservata alla potestà discrezionale della PA. Appare chiari che in queste ipotesi non vi è alcun giudice a cui sia possibile rinviare la causa. L’altra ipotesi richiamata dalla legge è quella in cui la domanda “non poteva essere proposta”. Si tratta della c.d. “improponibilità oggettiva” della domanda configurabile quando l’ordinamento non accorda neppure in astratto la tutela giurisdizionale richiesta. Esempio di scuola è quello della cassazione della sentenza pronunciata prima del 1970, visto che lo scioglimento civile del matrimonio si è avuto nel 1970, con la legge dell’anno stesso). Questo tipo di cassazione senza rinvio viene però praticato anche in casi meno estremi: si tratta di ipotesi in cui, nonostante la proponibilità della domanda, in realtà il giudice del rinvio non resterebbe nulla da aggiungere alla cassazione della sentenza. Nella giurisprudenza della Corte l’art 382 c.3 è applicato in casi in cui il giudice della sentenza cassata ha, per es: 50 - pronunciato su oggetti non richiesti, incorrendo in vizio di c.d. ultrapetizione; - accolto la domanda in difetto di legittimazione dell’attore. E’ evidente come la sola cassazione sia sufficiente nel primo caso ad eliminare l’ultrapetitum, e nel secondo caso ad eliminare la pronuncia su una domanda che non avrebbe dovuto essere proposta. La cassazione senza rinvio si ha parimenti se il processo non poteva essere “proseguito”. Se si è verificato un evento che imponeva necessariamente la chiusura del processo in punto di rito, e malgrado ciò il processo è proseguito fino a decidere del merito, la cassazione ella sentenza dovrà essere necessariamente senza rinvio, non essendo possibile alcuna sentenza di merito. Tutte le ipotesi di cassazione senza rinvio possono dar luogo ad obblighi di restituzione o di riduzione in pristino; in questi casi le relative domande, in pristino, nonché ogni altra domanda conseguente alla cassazione, vanno proposte al giudice che ha pronunciato la sentenza cassata. Per il loro carattere di “decisioni in ultima istanza”, le sentenze della C. presentano la caratteristica di non essere normalmente sottoponibili a successive impugnazioni. Fanno però eccezione alcuni speciali mezzi di impugnazione. In particolare le decisioni della C. sono assoggettate: - da un lato, al procedimento volto alla correzione di errori materiali o di calcolo ai sensi dell’ART 287, e alla revocazione per errore di fatto ai sensi dell’ART 395; - dall’altro, alle impugnazioni c.d. straordinarie, cioè alla revocazione per i numeri 1,2,3,6 ART 395, ma limitatamente al “provvedimento con il quale la Corte ha deciso la causa nel merito”. La revocazione ordinaria per errore di fatto e la correzione degli errori materiali sono regolati congiuntamente dall’ART 391-bis, che prescrive la forma del ricorso, ai sensi dell’ARTT 365 ss., da notificare entro il termine di 60 giorni dalla notificazione della sentenza, o di 1 anno della pubblicazione della sentenza stessa. La C. decide in camera di consiglio con ordinanza sul ricorso per correzione dell’errore materiale; quanto al ricorso per revocazione pronuncia ordinanza se lo dichiara inammissibile, altrimenti rinvia alla pubblica udienza. La pendenza del termine per la revocazione della sentenza non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza impugnata con ricorso per cassazione respinto. I ricorso per i motivi dei numero 1,2,3,6 ART 395 e quelli con cui il terzo si oppone alla sentenza di C. si propongono alla C. stessa e debbono contenere gli elementi, rispettivamente, degli ARTT 398 c.2-5 e 405 c.2. Quando pronuncia la revocazione o accoglie l’opposizione di terzo, la Corte “decide la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto”; altrimenti, pronunciata la revocazione, o dichiarata ammissibile l’opposizione di terzo, “rinvia la causa al giudice che ha pronunciato la sentenza cassata” (ART 391-ter). 7. Il giudizio di rinvio 51 Quando all’esaurimento della fase rescindente con la cassazione della sentenza deve seguire un’attività rescissoria, questa avviene in sede di rinvio tutte le volte in cui occorre procedere all’accertamento di fatti, siano essi fatti “ulteriori”, cioè fatti in precedenza non accertati, ma resi rilevanti dalla sentenza di cassazione, ovvero elementi di fatto in precedenza già istruiti ma su cui è necessario giudicare di nuovo sempre alla luce della sentenza di cassazione. A maggior ragione l’attività rescissoria dovrà svolgersi in sede di rinvio quando alla sentenza di cassazione deriva la necessità del rinnovo di singoli atti o addirittura di intere fasi del processo. Quando la C. cassa con rinvio, il processo va riassunto di fronte al giudice specificatamente designato a fungere da giudice del rinvio nella decisione di cassazione. La riassunzione può essere fatta da ciascuna parte non oltre 3 mesi dalla pubblicazione della sentenza della C. E’ quindi onere della parte interessata alla pronuncia in rinvio riassumere in tempo il giudizio. La domanda si propone con citazione notificata personalmente alla parte. Al giudice di rinvio si propongono anche le domande di restituzione o di riduzione in pristino, nonché ogni altra domanda conseguente alla sentenza di cassazione (ART 389). Effetto della mancata o intempestiva riassunzione è la totale estinzione del processo. Prescrive infatti l’ART 393 che se la riassunzione non avviene nel termine trimestrale, ovvero, se dopo la riassunzione si verifica una causa di estinzione del giudizio di rinvio, “l’intero processo si estingue”. In tal caso non sopravvive più alcune efficace decisione di merito. L’ART 393 assume dunque il ruolo di norma speciale rispetto all’ART 310 c.2, che invece salva dall’estinzione “le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo”. Dal naufragio dell’intero procedimento conseguente all’estinzione si slva perà la parte percettiva delle sentenza di cassazione (ART 393 “… ma la sentenza della C. conserva in suo effetto vincolante anche nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda”). Se l’azione esercitata nel processo estinto è riproposta, il giudice deve dare seguito alle prescrizioni ed indicazioni della C., ed, in particolare, applicare il “principio di diritto”, cioè la parte della sentenza che fissa la regola giuridica da applicare al caso di specie. Lo specifico principio di diritto pronunciato in sede di cassazione vincola pertanto ogni altor giudice chiamato in furto a giudicare sul medesimo rapporto giuridico. Il giudizio di rinvio si svolge secondo le modalità del procedimento che la legge prescrive per la trattazione davanti al tipo di organo investito del rinvio (Corte d’appello, tribunale, GDP). La posizione delle parti resta quella che esse avevano nel procedimento in cui fu pronunciata la sentenza cassata. Inoltre, essendo il giudizio di rinvio esclusivamente riservato allo svolgimento della fase rescissoria resa necessaria dalla cassazione della sentenza, le parti “non possono prendere conclusioni diverse da quelle prese nel giudizio nel quale fu pronunciatala sentenza cassata” (ART 394). Il giudizio di rinvio è quindi un giudizio tendenzialmente “chiuso”, in cui le parti non possono normalmente introdurre nuovo materiale probatorio. Lo stesso ART 394 consente però alle parti di mutare le conclusioni allorché “la necessità delle nuove conclusioni sorga della sentenza di cassazione”. Può infatti accadere che la 52 ragione dell’intervenuta cassazione sia tale da imporre uno svolgimento del giudizio all’esito del quale sorga l’esigenza di conclusioni diverse da quelle sulle quali aveva pronunciato la sentenza poi cassata. L’ambito del giudizio di rinvio non è infatti determinabile a priori, ma è determinato dal motivo che ha condotto alla cassazione. Si pensi, ad esempio, ad una cassazione per violazione delle norme sulla competenza, ovvero all’accoglimento del motivo di cui al n.4 per vizi della sentenza c.d. derivati, cioè dipendenti da precedenti nullità non sanate del procedimento: in sede di rinvio il procedimento andrà ripreso, e dovrà svolgersi, a partire dal punto momento in cui si è manifestato il vizio. Così, se la C. ha cassato la sentenza perché il giudizio è svolto in assenza di una parte necessaria, in sede di rinvio le parti si troveranno nella posizione di partenza: al riscontrato vizio di contraddittorio non rimedia la mera presenza nel giudizio di rinvio della parte necessaria pretermessa, in quando è necessario che la trattazione della causa si svolga ex novo nel contraddittorio di questa. Così ancora, cassata la sentenza per violazione delle regole di competenza e riassunta la causa davanti al giudice competente, il processo in rinvio dovrà svolgersi integralmente ex novo. Il vizio a cui si pone rimedio attiene infatti ad un presupposto processuale che si proietta su tutti gli atti successivi. (Quando il rinvio segue alla cassazione per il motivo di cui al n.5, al giudice di rinvio è rimesso il compito di sostituire un giudizio convincente e privo di errori logici a quello viziato del giudice della sentenza cassa. Potrebbe allora darsi che attraverso il nuovo giudizio, il giudice del rinvio giunga alle stesse conclusioni a cui è giunta la sentenza cassata, in quanto la sostituzione della motivazione difettosa con una motivazione ineccepibile, non garantisce necessariamente un diverso dispositivo: pur mancando di giustificazione logico-giuridica, la decisione adottata dal primo giudice potrebbe infatti risultare corretta, sicché è ben possibile che dalla fase di rinvio emerga una conclusione equivalente a quella risultante dalla sentenza cassata). La sentenza del giudice di rinvio è impugnabile secondo le regole proprie del grado in cui essa è pronunciata. Nel caso normale del rinvio al grado d’appello, la sentenza sarà quindi ricorribile per C. Le sentenze pronunciate in rinvio sono naturalmente impugnabili anche dai terzi con il mezzo dell’opposizione (ART 404). CAPITOLO 44. LA REVOCAZIONE 1. introduzione Ai rimedi generali dell’appello e del ricorso per C. l’ordinamento affianca a quello particolare della revocazione della sentenza. Della revocazione può dirsi che: 53 1) E’ un mezzo di impugnazione a critica vincolata, perché è proponibile solfano per motivi specificatamente ordinati; 2) E’ un mezzo di impugnazione proponibili su istanza delle parti soccombenti e, per altri motivi, del PM; 3) Si atteggia talora a mezzo di impugnazione ordinaria e talaltra a mezzo di impugnazione straordinaria: la distinzione dipende dai motivi di revocazione adottati. 2. Motivi di revocazione Sono motivi di revocazione ordinaria l’errore di fatto ed il contrasto della sentenza con altro precedente giudicato. Essi sono detti ordinari perché possono farsi valere solo contro sentenze non ancora passate in giudicato. Il che è logico se si considera che consistono vizi palesi: la loro evidenza consente di ancorare la decorrenza dei termini per impugnare ad una data certa, collegabile al provvedimento stesso. Più in dettaglio: - l’errore di fatto revocatorio si dà quando la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o dai documenti della causa (ART 394 n.4). La norma precisa che vi è questo errore “quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verrà è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare”. Resta quindi dalla prescrizione che, per aversi errore di fatto revocatorio, si deve poter parlare di una svista del giudice, obiettivamente e immediatamente rilevabile dalla lettura degli atti di causa che abbia portato il giudice ad affermare l’esistenza di un fatto che invece è inesistente, o viceversa. Solo il c.d. errore di percezione, dunque ha natura revocatoria, natura che non ha il c.d. errore di giudizio, che è eventualmente denunciabile in cassazione ex ART 360. L’errore percettivo incide su un punto decisivo su cui la sentenza non ha pronunciato ( = non è il risultato di apposito giudizio); l’errore di giudizio invece verte su un punto decisivo della controversia che il giudice ha scientemente considerato; verte cioè su un fatto espressamente valutato, sicché viene ad essere denunciata l’erroneità del giudizio stesso. L’errore di fatto revocatorio vizia la sentenzi aperchè l’abbaglio percettivo ha fatto ricostruire la realtà fattuale in modo errato, ed ha così prodotto una decisione errata. (L’errore revocatorio può cadere anche su un fatto di natura processuale. Per esempio, il giudice ha dichiarato l’inammissibilità dell’appello incidentale sul presupposto che la comparsa di risposta che lo contiene sia stata depositata tardivamente; si tratta però di un errore di lettura della data facilmente evincibile dall’esame della comparsa. L’errore è idoneo a provocare la revocazione della sentenza). 54 E’ importante inoltre distinguere sempre l’errore di fatto revocatorio da quello materiale, il quale consiste, appunto, in omissioni o errori materiali o di calcolo, che però non condiziona la scelta del giudice, cioè non è determinante della soluzione che il giudice adotta in sentenza. L’errore materiale è infatti un errore di scrittura, cioè un errore nella trasmissione del pensiero. Esso è correggibile con l’apposito procedimento di cui agli ARTT 287 ss. (es: condanno a 1000€, anche se effettivamente dovevo condannare a 10000€ ma il giudice ha scordato di mettere uno zero). L’ordinamento intende evitare che convivano due pronunce tra loro contrastanti, tanto che consente di far valere il giudicato, sia nel corso del processo con l’eccezione, sia anche con un apposito mezzo, che è appunto la revocazione. L’impugnazione per revocazione non è possibile quando l’eccezione è stata sollevata nel corso del processo; in questo caso, sull’eccezione il giudice deve avere già deciso e la relativa decisione, eventualmente, deve avere già deciso e la relativa decisione, eventualmente, deve essere impugnata con l’appello o con il ricorso in C. Si noti infine che se poi il giudice non ha deciso sull’eccezione, la sentenza è sempre appellabile o ricopribile in C, ma per il vizio di omissione di pronuncia (ART 112). 3. Motivi di revocazione straordinaria Dolo della parte, falsità della prova, decisività di documenti, dolo del giudice. Sono detto motivi straordinari perché possono farsi valere anche contro sentenze già passate in giudicato. Si tratta infatti di vizi per la cui scoperta non basta leggere il provvedimenti impugnato, né gli atti di causa. Vediamoli nel dettaglio: - dolo della parte. Si dà questo motivo di revocazione quando la sentenza è effetto del dolo di una parte in danno all’altra (ART 395). Si deve trattare di un comportamenti illecito deliberatamente fraudolento; - falsità della prova. Si dà questo motivo di revocazione quando la sentenza si fonda su prove false. La scoperta della falsità delle prove può avvenire nei seguenti modi: a) dopo la pronuncia della sentenza, la parte vincitrice riconosce la falsità delle prove; b) dopo la pronuncia della sentenza, la falsità delle prove è dichiarata con una sentenza, penale o vivile, passata in giudicato; c) sia il riconoscimento (sub a), sia la dichiarazione (sub b) possono essere antecedenti alla pronuncia della sentenza, ma alla condizione che la scoperta di ciò sia svenuta, incolpevolmente, solo dopo la sentenza; - decisività di documenti. Si dà questo motivo di revocazione quando, dopo la pronuncia della sentenza, sono ritrovati documenti decisivi che la parte non ha potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario; - dolo del giudice. Si dà questo motivo di revocazione quando la sentenza è l’effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato. 4. I provvedimenti revocabili 55 Veniamo ora ai provvedimento revocabili. Attraverso la revocazione sono anzitutto impugnabili le sentenza pronunciate in grado di appello e le sentenza pronunciate in unico grado. La revocazione ordinaria sarà esperibile purché tali sentenze non siano definitive. Ciò vuol dire che non deve essere decorso il termine di 30 giorni dall’eventuale notificazione della sentenza, ovvero il termine lungo di cui all’ART 327 c.1. Non sono invece mai revocabili per notavi del n.4-5 ART 395 le sentenza di primo grado per le quali è pendente il termine per proporre appello. Infatti in quest’ultimo caso, i motivi che giustificherebbero la revocazione ordinaria si convertono necessariamente in motivi di appello, con la conseguenza che, scaduti i relativi termini, essi non saranno più invocabili. Le sentenze pronunciate in grado di appello e le sentenze pronunciate in unico grado sono impugnabili anche se passate in giudicato per i motivi di revocazione straordinaria. In via straordinaria sono parimenti revocabili le sentenze di primo grado ma solo se non più soggette ad appello per scadenza dei relativi termini. I motivi dei n. 1-2-3-6 ART 395 superano quindi la barriera del giudicato, ma devono pur sempre essere fatti valere con l’appello quando vengono alla luce in pendenza del termine per proporre questo gravame. Come si può notare, l’ordinamento vede nella revocazione un rimedio residuale, utilizzabile quando non è utilizzabile il rimedio generale: nell’alternativa tra revocazione ed appello, va infatti sempre preferito l’appello: tutti i motivi di revocazione sono anche potenziali motivi di appello, e finché il mezzo generale è esperibile esso assorbe il rimedio particolare. Anche le decisioni della C. sono soggette a revocazione, ma con le seguenti precisazioni: - tutte le sentenze della C. sono soggette alla revocazione per il motivo di cui all’ART 395 n.4. Resta quindi escluso l’altro motivo di revocazione ordinaria di cui al n.5 ART 395; - le sentenze di merito della C. sono soggette ai motivi di revocazione straordinaria. Oltre alle sentenze, sono inoltre impugnabili per revocazione i seguenti provvedimenti: - il decreto ingiuntivo non opposto, ma solo per i motivi n. 1-2-5-6 ART 395; - il lodo arbitrale; - l’ordinanza di convalida di licenza o sfratto, ma solo per i motivi xi cui ai n. 1-4 ART 395. L’impugnazione per revocazione è stata estesa a questo provvedimento in virtù di alcuni interventi della C; - le ordinanze che la C. pronuncia a seguito dell’adozione della procedura della camera di consiglio. 5. La revocazione del PM Oltre ai motivi di revocazione concessi alle parti secondo la disciplina esaminata, la legge conferisce un potere speciale di impugnazione per revocazione ad un organo pubblico. Ai sensi dell’ART 397 il PM, nelle cause in cui il suo intervento è obbligatorio ex ART 70, può agire per la revocazione di tutte le sentenze proveniente dai giudici di merito, passate o 56 no che siano in giudicato. Si tratta di un potere di impugnazione contra partes per due ordini di motivi: - violazione del contraddittorio, se la sentenza è stata pronunciata senza che il PM sia stato sentito (ART 397); - collusione fraudolenta, se la sentenza è l’effetto di una collusione tra le parti per frodare la legge. Il termine per proporre la revocazione è di 30 giorni e decorre “dal giorno in cui … il PM ha avuto conoscenza della sentenza”. 6. Il procedimento La revocazione si propone con citazione davanti allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (ART 398). A pena di inammissibilità, la citazione deve indicare non solo il motivo di revocazione, ma anche le prove relative “alla dimostrazione dei fatti di cui ai numero 1-2-3-6 ART 395, del giorno della scoperta o dell’accertamento del dolo o della falsità, o del recupero dei documenti”. Se rivolta contro sentenze di appello non passate in giudicato, la revocazione finisce per concorrere con il ricorso per C., per l’intrinseca alternatività tra i suoi motivi e i motivi di cassazione. Per l’ART 398 u.c. la proposizione della revocazione non solo “non sospende il termine per proporre il ricorso per C”, ma neppure ne sospende il relativo procedimento. Tuttavia, il giudice davanti a cui è pendente il giudizio di revocazione può, su istanza di parte, sospendere il termine o il procedimento di C fino alla comunicazione della sentenza che ha pronunciato la revocazione. E’ questo un caso di sospensione dei termini non automatico, ma discrezionale: il giudice della revocazione deve infatti valutare che la revocazione proposta non sia manifestamente infondata. Davanti al giudice investito della revocazione “si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti a lui” (ART 400); in camera di consiglio il giudice può autorizzare la sospensione dell’esecuzione della sentenza (ART 401). L’accoglimento dell’impugnazione obbliga il giudice a revocare anzitutto la sentenza, attraverso un giudizio di tipo rescindente a cui segue, senza soluzione di continuità, la decisione del merito della causa se non è+ necessario disporre nuovi mezzi istruttori. Se invece un’istruzione probatoria è ritenuta necessaria, il giudice “pronuncia, con sentenza, la revocazione della sentenza impugnata e rimette con ordinanza le parti davanti all’istruttore” 8ART 402). Quanto infine all’impugnazione della sentenza pronunciata nel giudizio di revocazione, l’ART 403 ammette “i mezzi di impugnazione ai quali era originariamente soggetta la sentenza impugnata per revocazione”. E’ invece tassativamente negata la proponibilità di un altor giudizio di revocazione contro la sentenza pronunciata nel giudizio di revocazione. CAPITOLO 45. LE OPPOSIZIONI DEL TERZO 57 1. Introduzione Le impugnazioni sono prerogativa delle parti del giudizio: quando parliamo del “soccombente” ci riferiamo alla parte a cui il provvedimento del giudice non ha accordato la tutela domandata; e così, per es. quando parliamo di “appellato”, ci riferiamo ad una parte contemplata dalla sentenza di primo grado e nei cui confronti viene proposto l’appello. Eccezionalmente però i terzi possono impugnare, con lo specifico mezzo della “opposizione di terzo”, una sentenza resa tra altri soggetti, una sentenza, quindi, che non si rivolge a loro. Questo accasa nei casi previsti dall’ART 404. 2. L’opposizione ordinaria Secondo il c.1 ART 404, un terzo può “fare opposizione contro la sentenza passata in giudicato o comunque esecutiva pronunciata tra altre persone quando pregiudica i suoi diritti”. Questa opposizione è chiamata “opposizione di terzo ordinaria”. Come è possibile che una sentenza può pregiudicare un terzo, visto che la sentenza si limita a far stato tra le parti, senza riguardare il terzo? La risposta è che talora è proprio il “fare stato tra le parti” che può collidere con i diritti del terzi, sicché la legge consente a quest’ultimo di opporsi alla sentenza invocando un proprio diritto assertivamente incompatibile con il rapporto accertato tra le parti. Facciamo un semplice esempio: il sig. Rossi conviene la signora Bianchi per l’accertamento della proprietà del fondo Vignaclara posseduto da quest’ultima e per la condanna alla restituzione. La domanda viene accolta con condanna di Bianchi che deve quindi rilasciare il fondo a Rossi. Il sig. Neri, terzo rispetto al processo ed alla sentenza, ritiene però che Bianchi dovrebbe restituire a lui il fondo Vignaclara, sul presupposto di essere egli titolare di un diritto reale da cui deriva il suo diritto alla restituzione del bene da parte del possessore. E’ vero che la sentenza non incide direttamente su questo suo diritto poiché produce i suoi effetti solo tra Rossi e Bianchi, ma, dovendo quest’ultima rilasciare il fondo a Rossi, Neri subisce una sostanziale retrocessione del proprio diritto rispetto a quello riconosciuto in sentenza a Rossi: ce n’è abbastanza perché l’ordinamento gli consenta di reagire. Ma reagire come, e contro cosa? Contro l’atto (sentenza di accoglimento) che ha conferito al titolo di Rossi la prevalenza di fatto sul proprio titolo (usucapione): per ottenere qualcosa che gli consenta di prevalere sull’ordine di restituire a Rossi. In tal senso egli può impugnare la sentenza resa tra Rossi e Bianchi per dimostrare che l’usucapione del bene, autonomamente intervenuta a suo favore, prevale legittimamente sul diritto di Rossi accertato in sentenza. L’impugnazione sarà appunto un’opposizione di terzo a quella sentenza “pronunciata tra altre persone” perché nella realeà essa interferisce con un proprio diritto, pregiudicandolo. Come lo pregiudica? Pur non decidendo nulla del suo diritto su quel bene, la sentenza di fatto lo pospone alla realizzazione di un diritto altrui: Bianchi può restituire il fondo ad un solo soggetto e questo è individuato in Rossi da un titolo 58 giudiziale (la sentenza). Per ottenere legalmente la prestazione di Bianchi, Neri deve preventivamente eliminare il tutolo di Rossi, cioè deve fare opposizione alla sentenza e convincere il giudice che il proprio diritto reale sul fondo deve prevalere su quello di Rossi. E’ anche vero che Neri potrebbe aspettare che avvenga la restituzione a Rossi e poi agire contro questi, ma l’ordinamento ritiene equo dargli la possibilità prevenire questo esito. In fondo, abbiamo già visto che egli avrebbe potuto intervenire, a norma dell’ART 105, nel processo tra Rossi e Bianchi per far valere nei confronti di ambedue la propria intervenuta usucapione: in quel caso la sentenza avrebbe dovuto valutare comparativamente la reciproche posizioni di tutti i soggetti. A ben guardare, quindi, l’opposizione di terzo qui espleta la stessa funzione dell’intervento principale ad excludendum, solo che invece di farlo preventivamente, lo fa successivamente. Nell’esempio visto, il terzo fa valere dunque una propria affermata situazione consistente in un diritto autonomo e prevalente nei confronti delle parti della sentenza. Egli non era parte necessaria del processo: poteva intervenire, ma non lo ha fatto, , poiché egli non è soggetto al giudicato (res inter alios), potrebbe ancora agire autonomamente in accertamenti nei confronti del vincitore, ma la legge gli concede di impugnare la sentenza con l’opposizione dell’ART 404 c.1. Oltre a questa categoria di terzi, la legittimazione all’opposizione alla sentenza inter alios viene riconosciuta a quei terzi che, pur dovendosi considerare contraddittori necessari nel relativo processo, non vi parteciparono. Si tratta, come si può comprendere, di ipotesi di litisconsorzio necessario incompleto e non sanato dall’integrazione del contraddittorio dell’ART 102. E’ questa l’opposizione del litisconsorzi pretermesso. Si è detto a suo tempo che la sentenza che non pronunci nei confronti di tutti i litisconsorti necessari è irrimediabilmente viziata, e questo significa che il litisconsorzi necessario pretermesso potrà in ogni tempo far valere i propri diritti senza essere vincolato dalla sentenza. Egli potrà però impugnare in via di opposizione di terzo tale sentenza, ed in tal modo rientrare nel processo a cui avrebbe dovuto necessariamente partecipare. La legittimazione all’opposizione di terzo ordinaria del c.1 ART 404 è quindi riconosciuta tanto: a) al titolare dei diritti incompatibili e prevalenti rispetto al diritto oggetto del processo e della sentenza, quanto b) al terzo che doveva partecipare al processo a pena di invalidità della sentenza. Nel caso sub a) l’opposizione alla sentenza non è un attacco al processo, in quanto il processo si è svolto ritualmente in assenza del terzo, il quale dovrà provare la prevalenza sostanziale del proprio diritto rispetto al diritto attribuito al vincitore. Nel caso sub b) l’opposizione alla sentenza esprime, in realtà, la contestazione del vizio di un procedimento che, in quanto privo di un contraddittore necessario, non poteva sfociare nella sentenza di merito. 59 Al terzo opponente basterà provare questo fatto per ottenere l’annullamento della sentenza; una volta riuscitovi dovrà seguire daccapo uno svolgimento processuale di cui egli sia parte, in modo che la sentenzi pronunci infine anche nei suoi confronti. 3. L’opposizione di terzo revocatoria Una seconda categoria di opposizione di terzo, l’opposizione detta “revocatoria”, è prevista dal c.2 art 404. Le differenze con l’opposizione ordinaria risultano abbastanza evidenti alla lettura del c.2 nel quale non si parla genericamente di un terzo leso in un propri diritto, ma di due categorie di soggetti legittimati ad opporsi: “creditori” ed “aventi causa”. Inoltre si richiede che la sentenza opposta sia frutto di dolo o collusione ai danni dell’opponente. Questa opposizione è detta “revocatoria” per la sua simmetria funzionale con l’azione revocatoria dell’art 2091 cc. Si tratta infatti di un mezzo per contrastare una sentenza preordinata a provocare danno ingiusto ad un soggetto estraneo al processo. Il danno che possono subire i creditori consiste tipicamente nella perdita della garanzia patrimoniale (ART 2720 cc.): come il trasferimento per contrasto a Caio della proprietà del bene di Tizio che ne garantisce il debito nei confronti di Sempronio può costituire frode, così l’accertamento giudiziale che Caio è divenuto proprietario del bene che garantiva il debito di Tizio nei confronti di Sempronio, si presta ad essere opposto da questi sotto il profilo del dolo o della collusione a suo danno. In pratica l’ordinamento assimila la sentenza “pilotata” delle parti al contratto in frode ai creditori: il mezzo è diverso ma la tipologia di danno è la stessa del c.d. eventus damni, requisito dell’azione revocatoria ex ART 2091 cc. Il danno che l’avente causa di una delle parti del processo può subire, consiste a sua volta nella c.d. efficacia riflessa che la sentenza talora manifesta nei suoi confronti. Sappiamo già che certi rapporti dipendenti dal rapporto oggetto del processo svoltosi inter alios, pur essendo tecnicamente terzi possono in qualche modo subire effetti della sentenza. In tali casi i diritti o gli obblighi del terzo restano conformati dalla pronuncia sul rapporto pregiudiziale, sicché essi finiscono col risentire negativamente della pronuncia sfavorevole al loro dante causa. Si pensi al caso del sub-conduttore Tizio, di fronte alla sentenza che risolve il contratto di locazione principale tra il conduttore Caio e il locatore Sempronio: il sub-conduttore è il tipico avente causa, il cui rapporto risente sfavorevolmente della sentenza resta tra il conduttore e il locatore perché la risoluzione del rapporto a monte comporta l’automatica risoluzione del rapporto a valle (ART 1595 cc.). Di fronte allora alla risoluzione del rapporto a locazione prodotta dal dolo di una delle parti, ovvero dal dolo di ambedue le parti, la legge riconosce al sub-conduttore l’opposizione di terzo revocatoria. In caso di accoglimento dell’opposizione, la dottrina ha discusso a lungo se la sentenza venga integralmente meno o venga semplicemente neutralizzata nei confronti del terzo che non travolga il giudicato tra le parti. La giurisprudenza ha peraltro decisamente imboccato la via dell’annullamento pieno, ed erga omnes, della sentenza tanto nell’opposizione ordinaria che nell’opposizione revocatoria. 60 Naturalmente l’accoglimento dell’opposizione non rimuoverà gli eventuali capi della sentenza che non tocchino la situazione del terzo. 4. Tipi di provvedimenti opponibili Sentenza impugnabile con l’opposizione di terzo è non solo quella passata in giudicato, ma anche la sentenza “comunque esecutiva” (ART 404 c.1). All’epoca di scrittura della norma, esecutive erano normalmente le sentenze d’appello: oggi che l’ART 282 conferisce normale esecutività anche alle sentenze di primo grado, occorre chiedersi se possa proporsi opposizione anche contro tali sentenze. La lettera della legge sembra orientare per la soluzione positiva, ma non bisogna dimenticare che, una volta appellata la sentenza, e finché l’appello pende, è sempre possibile che il terzo esplichi intervento nel relativo procedimento, si sensi dell’ART 344. L’ART 344 era stato originariamente concepito sul presupposto della normale esperibilità dell’opposizione contro la sentenza d’appello, sicché prima di tale sentenza il terzo avrebbe potuto far valere i suoi diritti solo con l’intervento nel procedimento; oggi chi ammette l’opposizione alla sentenza di primo grado, si trova alle prese con il serio problema del coordinamento tra opposizione e intervento in appello. L’unica soluzione ragionevole sembra allora quella di ritenere che, in pendenza di appello, il terzo debba usare il mezzo dell’intervento. L’opposizione del terzo è stata ammessa dalla giurisprudenza costituzionali anche nei confronti di provvedimenti diversi dalla sentenza, ma assimilabili a questa per gli effetti: così per l’ordinanza di convalida di sfratto per finita locazione e per l’ordinanza di convalida di sfratto per morosità; così per il decreto ingiuntivo esecutivo. Si può pertanto affermare la regola che l’opposizione deve considerarsi esperibile contro i provvedimenti avventi contenuto decisorio, a prescindere dalla loro forma. Ai sensi dell’ART 391-ter, ambedue i tipi di opposizione sono esperibili contro le decisioni della C. che, a seguito di cassazione senza rinvio, abbiano pronunciato nel merito. Resta quindi esclusa l’esperibilità delle opposizioni di terzo contro tutte le altre categorie di decisione della C. 5. Il procedimento L’opposizione va proposta davanti allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza, e secondo le forme prescritte per il procedimento proprio di tale organo (ART 405 c.1). Davanti al giudice adito si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti a lui (ART 406). La citazione deve contenere, oltre ai suoi elementi propri), anche l’indicazione della sentenza impugnata. Nel caso di opposizione revocatoria deve altresì contenere l’indicazione del giorno in cui il terzo è venuto a conoscenza del dolo o della collusione, e della relativa prova. Si ricordi, infatti, che l’ART 325 prescrive il termine perentorio di 30 giorni per proporre opposizione revocatoria, e che tale termine “decorre dal giorno in cui è stato scoperto il dolo o la collusione” (ART 326 c.1). 61 L’ART 407 consente al giudice dell’opposizione il potere di pronunciare, su istanza di parte contenuta nell’atto introduttivo dell’opposizione e nella forma della camera di consiglio, ordinanza di sospensione dell’esecuzione della sentenza. Il richiamo all’ART 373 impone al giudice di subordinare la sospensione al riconoscimento di un danno “grave e irreparabile”. La sentenza che decide sull’opposizione è impugnabile con gli stessi mezzi con cui era impugnabile la sentenza opposta. Se la sentenza opposta era di primo grado, rimedio contro la sentenza che pronuncia sull’opposizione è l’appello. Viceversa, se si trattava di sentenza d’appello, la sentenza resa in opposizione sarà impugnabile solo con ricorso per C. CAPITOLO 46. LA TUTELA CAUTELARE 1. La tutela cautelare Di fronte all’urgenza del provvedere che talora si manifesta, e sul presupposto che una tutela immediata in via ordinaria è praticamente impossibile, l’ordinamento processuale appronta i mezzi per ottenere in tempi brevi misure di anticipazione o di garanzia della tutela finale. Appronta cioè una tutela che viene definita “cautelare” perché essa, in via rapida, soddisfa provvisoriamente l’interesse fatto valere o ne garantisce le possibilità di futura tutela evitando che la macchina della giustizia possa girare a vuoto. Lo scopo è appunto quello di evitare che l’avente diritto, quando finalmente ottenga la sentenza che gli dà ragione, non sappia più che farsene perché nel frattempo si è consumata una definitiva lesione del suo interesse alla tutela, ovvero non riesca più a trovare soddisfazione perché nel frattempo è venuta meno l’utilità perseguita. (La tutela cautelare non va confusa con l’anticipazione di tutela propria della ordinanze che, nel corso del processo ordinario di cognizione, possono essere concesse in caso di mancata contestazione di una somma di denaro (ART 168-bis), in caso di prova scritta (tre), o all’esito dell’istruzione probatoria (quater). Queste ordinanze sono meri espedienti tecnici di anticipazione della decisione su diritti controversi e non hanno natura cautelare). I provvedimento cautelari sono, almeno normalmente, legati da un nesso di strumentalità con l’oggetto dell’ordinaria tutela giurisdizionale, servendo ad anticiparne, in modo tendenzialmente provvisorio, il contenuto, o ad assicurare il successo pratico dei provvedimenti che verranno (se e quando verranno). E la non definitività è legata al fatto che essi sono concessi non sulla base di un giudizio di certezza (volta appunto all’accertamento del diritto), ma sulla base di giudizi di ragionevole probabilità della ragione dell’istante. In altri termini, se il tempo stringe e occorre fare qualcosa per evitare che la situazione peggiori o precipiti, è necessario che il giudice decida velocemente, allo stato degli atti e sulla base della verosimiglianza. I provvedimenti cautelari forniscono il 62 rimedio agli ostacoli derivanti dalla durata dei processo e così garantiscono l’efficacia della tutela giurisdizionale. I provvedimenti cautelari sono concessi a seguito di procedimenti agili ed idonei a sfociare in tempi brevi in provvedimenti che hanno la caratteristica o di anticipare il contenuto della pronuncia di merito, o di garantire la conservazione della situazione di fatto o di diritto, su cui opererà la sentenza di accoglimento, per evitare che la ragione ottenuta si riveli infruttuosa. Il provvedimenti cautelare, definito spesso “misura cautelare”, può quindi consistere: a) nell’anticipazione del contenuto o degli effetti della sentenza di merito. Normalmente anticipatori è il provvedimento c.d. d’urgenza concesso ai sensi dell’ART 700; b) nella produzione di un esito funzionale alla realizzazione degli effetti della futura sentenza di accoglimento e distinto da questi. L’esempio più significativo è quello del creditore che, in attesa della sentenza di condanna, è esposto al rischio che nel frattempo il debitore comprometta la garanzia patrimoniale del credito: qui, più che una anticipazione della condanna, serve un provvedimento idoneo a neutralizzare il potere del debitore di disporre del proprio patrimonio in danno del creditore. Da un lato quindi abbiamo un primo genus di provvedimento cautelari che anticipano gli effetti della sentenza, e da un altro un secondo genus di provvedimenti cautelari che operano assicurando che la futura ed eventuale sentenza di accoglimenti non si riveli inutile al tempo della sua pronuncia. Si parla, in questo secondo caso di provvedimenti a funzione assicurativo-conservativa. Ne sono figure tipiche i sequestri. La distinzione tra a) e b) è importante in quanto, mentre in b) l’efficacia della misura cautelare è strettamente legata alle vicende del processo di merito, nel caso di provvedimento anticipatori, il nesso di strumentalità con la tutela di merito è fortemente attenuato dalla circostanza che la misura cautelare non decade se adesca non fa seguito il giudizio di merito: ARTT 669octies. 2. Fumus boni juris e periculum in mora I presupposti per la concessione del provvedimento sono il c.d. fumus boni juris e il c.d. periculum in mora. Con il humus…. si designa la probabilità dell’esistenza del diritto del quale si chiede tutela; l’esistenza del diritto, alla cui tutela è intesa l’istanza cautelare, viene infatti valutata con un giudizio di verosimiglianza attraverso la cognizione sommaria delle ragioni del ricorrente. Sulla base di un’istruttoria velocizzata e demoralizzata, il giudice esegue una prognosi di ragionevole fondatezza della domanda, senza pregiudizio di eventuali, più ponderati accertamenti futuri. L’altro elemento, il perciulum in mora, è il rischio conseguente al ritardo della tutela. Il giudice deve poter considerare che la mancata concessione del provvedimento cautelare comporta una ragionevole probabilità di danno. Quindi, il giudice è chiamato a porre a 63 presupposto dell’accoglimenti la possibilità concreta del sopravvenire di fatti lesivi del diritto controverso. Conviene ora procedere ad una panoramica dei principali provvedimenti cautelari, e per quale tipo di tutela essi sono contemplati. Previsioni di provvedimenti cautelari sono sparse in tutto l’ordinamento. Il c.p.c. contempla alcuni modelli classici di provvedimento cautelare, ma altre misure arricchiscono il codice civile, e molte sono le leggi speciali che a loro volta prevedono cautele giudiziarie. Il primo tipo è rappresentato dal sequestro. 3. Il sequestro giudiziario Due sono le categorie fondamentali di sequestro: il sequestro giudiziario e il sequestro conservativo, figure distinte per funzione per modus procedendo. Partiamo dal sequestro giudiziario che è a sua volta da distinguere in due sottotipi. Secondo l’ART 670 : “il giudice può autorizzare il sequestro giudiziario”: 1) Di beni mobili o immobili o aziende o altre universalità di beni, quando ne è controversa la proprietà o il possesso, ed è opportuno provvedere alla loro custodia o alla loro gestione temporanea; 2) Di libri, registri, documenti, modelli, campioni e di ogni altra cosa da cui si pretende desumere elementi di prova, quando è controverso il diritto all’esibizione o alla comunicazione, ed è opportuno provvedere alla loro custodia temporanea”. I primi due numeri ART 670, dimostrano che vi sono due diverse forme di sequestro giudiziario: l’una ha a oggetto cose da custodire temporaneamente perché una lite insiste su diritti relativi ad esse, l’altra riguarda cosa la cui utilità risiede e si esaurisce nel loro valore probatorio. La prima configura una misura cautelare che serve ad evitare che si possa alienare, trasferire, danneggiare o distruggere il bene, un bene su cui si potrà esercitare il diritto riconosciuto ad una delle parti in causa. La seconda serve a fare sì che possano essere utilizzate come prove nel processo cose che normalmente consistono in libri, registri, documenti, modelli. La figura contemplata dal n.2 ART 670 garantisce in via cautelare il “diritto della prova”. Talvolta è controverso il diritto all’esibizione, alla comunicazione di beni e cose che possono essere utilizzate come mezzi di prova ed è opportuno che si crei un vincolo su queste cose affinché non spariscano o vengano rese inservibili. Tutto in funzione del possibile giudizio che il giudice potrà trarre dall’esame di queste cose e, quindi, del diritto della parte alla prova. L’altro sottotipo di sequestro giudiziario è legato alla controversia sulla proprietà o sul possesso di cose determinate e viene concesso quando è opportuno provvedere alla custodia o alla gestione temporanea di “beni mobili, immobili, aziende e altre univer. di 64 beni”. L’esigenza sottostante al sequestro è quella alla conservazione o alla corretta gestione del bene. Il primo presupposto del sequestro è che si disputi su diritti inesistenti su uno specifico bene: la disputa può afferire tanto al profilo della proprietà, quanto alla più generica spettanza del bene o del diritto. L’opportunità del sequestro giudiziario può dunque aversi anche in caso di disputa sulla titolarità di diritti obbligatori alla consegna o al rilascio di una cosa. Si pensi alla questione se a taluno spetti o non spetti il rilascio di un immobile per averlo preso in locazione: il locatario, per esempio, può essere costretto a domandare il sequestro dell'immobile di fronte ad altri soggetti che mirano ad esercitare i propri titoli di godimento dello stesso immobile. In realtà, il termine proprietà va meglio inteso quale appartenenza; e una controversia sull'appartenenza posso urgente per un credito, quando vi sia contesa sulla titolarità di esso. Così, controvertendosi sull'opponibilità della cessione di canoni a terzo acquirente di un immobile, appare ragionevole consentire il sequestro dei canoni stessi. Così, ancora, si ammette correntemente il sequestro delle azioni sociali: per esempio, al fine di impedire al possessore materiali di azioni che si affermano comuni, il diritto esclusivo di voto. La lite può, però, perché anche sul mero possesso: di sequestro giudiziario può esserci bisogno se si discute A chi spetti il possesso materiale di un determinato bene. Naturalmente la controversia sul possesso non deve emergere nel quadro delle azioni possessori di cui agli articoli 1168 seguenti; Non deve sue integrare una autentica controversia possessoria, Perché tale tipo di controversia assume necessariamente la forma della tutela possessoria, che comporta i caratteristici provvedimenti cautelari scaturenti dall'esercizio delle azioni possessori. Si deve trattare piuttosto della necessità di mettere sotto custodia una cosa che taluno possiede senza titolo e che non restituisce pur senza contestare il titolo giuridico di richiedente. In tutti i casi visti può essere opportuno che i beni sia sottratto, in via provvisoria preventiva, alla disponibilità materiale della parte, e che esso sia messo sotto custodia. In questo modo si evita anche il possessore, trasferendo il possesso di un terzo, ponga in essere una fattispecie di acquisto a titolo originario da parte di quest'ultimo, In tal modo vanificando la stessa disciplina del inopponibilità della successione del diritto controverso. Nel disporre il sequestro giudiziario, il giudice nomina il custode e, aggiunge l’ART 676, “stabilisce i criteri e i limiti dell’amministrazione delle cose sequestrate”. Nella pratica succede talora che venga investito dalla custodia dello stesso possessore del bene: invero il giudice “può nominare custode quello dei contendenti che offre maggiori garanzie e dà cauzione” (ART 676 c.2). Naturalmente in tal caso cambia il titolo del possesso, passandosi dal possesso in proprio nome ad una forma di detenzione alieno iure, una sorta di munus pubblico che viene conferito al precedente possessore. Vine conservato il rapporto diretto con il bene ma con un vincolo giuridico che obbliga il possessore rispettare la materialità del bene, a non alienarlo, e a non disporre. Il sequestro giudiziario si esegue nelle forme dell’esecuzione per consegna o per il rilascio. 65 4. Il sequestro conservativo Pur essendo in buona parte regolato dal codice di rito, il sequestro conservativo trova il suo fondamento in una norma del c.c.: ART 2905. Il sequestro conservativo ci porta nel campo dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale, cui appartengono l’azione surrogatorie quella revocatoria. Secondo l’ART 2095: “ Il creditore può chiedere il sequestro conservativo dei beni del debitore, secondo le regole stabilite nel codice di proced. civile”: A sua volta l’ART 2096 fissa gli effetti del sequestro. Dobbiamo quindi considerare congiuntamente la previsione generale dell’ART 2095 c.c., l’ART 671 che dice quali i sono i presupposti del sequestro conservativo e l’ART 2096 che ne identifica gli effetti. Il sequestro conservativo può essere concesso quando il creditore ha “fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito”. In questo caso il giudice “può autorizzare il sequestro conservativo di beni mobili o immobili del debitore o delle somme e cose a lui dovute, nei limiti in cui la legge ne permette il pignoramento”. (ART 671). E qui possiamo osservare una nette differenza con il sequestro giudiziario per poter chiedere il quale occorre aver già identificato le cose da sequestrare. Potenziale oggetto di sequestro conservativo è invece qualunque cespite patrimoniale: la richiesta di sequestro conservativo non è infatti richiesta di sequestrare beni previamente specificati piuttosto che altro, ma richiesta dell’autorizzazione a vincolare il patrimonio del debitore fino a concorrenza della somma da esso garantita. Il sequestro conservativo è dunque un mezzo per garantire indirettamente l’obbligazione pecuniaria attraverso il blocco dei beni del debitore. L’effetto del sequestro è indicato nell’ART 2096 c.c.: non hanno effetto in pregiudizio del creditore sequestrante le alienazioni e gli altri atti che hanno per oggetto la cosa sequestrata “in conformità delle regole che hanno per oggetto il pignoramento”. Il sequestro opera dunque rendendo inefficaci per il sequestrante gli atti di disposizione del bene e, conseguentemente, a lui inopponibili i relativi acquisti di terzi. Gli atti di disposizione del bene sequestrato eventualmente compiuti non sono affetti da nullità, ma sono inefficaci, cioè inopponibili al creditore. Il sequestro, quindi, crea un vincolo che si identifica con l’inopponibilità dell’atto di disposizione al creditore. Così funzionando, il equestri anticipa il pignoramenti al punto che l’ART 676 prevede che il vincolo del sequestro conservativo si converta nel vincolo del pignoramento al momento della pronuncia della sentenza di accoglimento esecutiva. Si può quindi dire che il sequestro conservativo costituisce un vincolo transitorio in funzione del futuro pignoramento così giungendo da anticipazione degli effetti di questo. Il sequestro conservativo garantisce quindi gli effetti della futura ed eventuale sentenza di condanna esecutiva, sicché, nel momento in quo queste viene pronunciata, esso non ha più ragione di essere, onde la legge ne prevede l’automatica trasformazione in pignoramento. Il tutto senza soluzione di continuità: gli effetti di inopponibilità degli atti di disposizione prodotti dal sequestro perdurano, ma da quel momento andranno considerati alla stregua di effetti 66 del pignoramento, essendosi prodotta una conversione automatica del sequestro in quest’ultimo. Oltre ai sequestri conservativo e giudiziario, nel codice (ART 687) è regolato anche il c.d. “sequestro liberatorio”, figura connessa alla mora credendi ed alla previsione dell’offerta della prestazione ex ART 1208 cc. Possono essere assoggettate a sequestro le somme o le cose oggetto dell’obligazione che il debitore abbia offerto al creditore, allorché siano controversi l’obbligo o le modalità del pagamento, o l’idoneità della cosa offerta. 5. I provvedimento d’urgenza I provvedimenti di urgenza sono previsti dall’ART 700 che recita: “Fuori dai casi regolati nelle precedenti sezioni di questo capo, chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti di urgenza che appaiono, secondo le circostanze, più idonei a assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito”. Si tratta di un istituto che risponde al bisogno dell’adeguata e puntuale soddisfazione della specifica esigenza cautelare fatta valere; esso consente al giudice di individuare caso per caso il provvedimento più adatto, senza limitarne la scelta a provvedimenti che, in quanto predeterminati nel contenuto, potrebbero non essere adeguati alle circostanze. Sotto questo profilo, dunque, l’ART 700 è una sorta di valvola dell’ordinamento. Condizione della pronuncia in via d’urgenza è che l’esigenza cautelare concretamente fatta valere non trovi già tutela in un istituto previsto dalla legge. SI suole caratterizzare cioè come “residualità” o “sussidiarietà” della tutela d’urgenza, concessa solo in assenza di rimedi cautelari tipici. Il giudice dovrà pertanto verificare se l’ordinamento non offra un tipo di rimedio che soddisfi in via fisiologica l’interesse alla cautela: la risposta positiva impone di esperire tale rimedio; se invece, la tutela imposta dalle circostanze non appare garantita da un rimedio già contemplato dall’ordinamento, opererà la tutela di urgenza in via sussidiaria e residuale. (Un esempio: Se occorre bloccare la disponibilità di un cespite patrimoniale posto a garanzia di un diritto di credito, occorre ricorrere ad un sequestro conservativo: non sarebbe ammissibile domandare un provvedimento innominato d’urgenza ex art 700, in quanto in tal caso la legge offre la modalità cautelare del sequestro). Non basta però la presenza in astratto del rimedio cautelare tipico per escludere l’operatività dell’ART 700. Ordinariamente i diritti di credito di somme di denaro sono cautelarmente tutelati dal sequestro conservativo, ma quid juris se, in un normale rapporti di credito, l’esigenza cautelare del creditore non coincide con la conservazione della garanzia patrimoniale? Il periculum in mora può infatti riguardare un’esigenza diversa rispetto al depauperamento del debitore che provoca, per il creditore, il rischio di una mancata soddisfazione delle proprie pretese. Il fine del creditore potrebbe non essere la precostituzione di una futura esecuzione fruttosi, ma piuttosto il conseguimento 67 immediato di una fonte finanziaria; in tal caso la tutela normale del diritto di credito non riveste specifica utilità: al creditore occorre un’anticipazione cautelare della condanna, cioè un ordine celere di pagamento di somma di denaro che gli permetta di soddisfare le proprie esigenze alimentari. A tale scopo soccorre l’ordine immediato di pagamento della somma nella forma del provvedimento di urgenza. Nella logica della tutela d’urgenza, il giudice caso per cos dovrà oltre che valutare le ragioni di inopportunità del provvedimento, procedere anche a forgiare il contenuto del provvedimenti d’urgenza, contenuto che non è predeterminato dalla legge. Spetterà al giudice riconnettere al provvedimenti gli effetti più specificatamente idonei a tutelare l’esigenza cautelare concretamente fatta valere. Normalmente si tratterà dell’anticipazione del futuro e probabile contenuto della sentenza di merito, ma non è raro il caso di tutele d’urgenza che si risolvono in provvedimenti a valenza conservativoassicurativa. Il ricorso al provvedimento d’urgenza è diffuso in tutti gli ambiti: dalla protezione del diritto al nome alla protezione del diritto dell’immagine, nel campo dei diritti di vicinato e delle immissioni, ecc. La fantasia degli avvocati si è esercitata a tutto campo tanto che oggi la maggior parte della casistica in materia cautelare è occupata dai provvedimenti d’urgenza. Nella giurisprudenza meno recente prevaleva la tendenza leggere in senso molto stretto la prescrizione dell’irreparabilità del pregiudizio contenuta nell’ART 700. L’irreparabilità del pregiudizio limitata molto la concessione del provvedimento ex ART 700, poiché il più delle volte l’assolutezza dell’irreparabilità poteva essere posta in dubbio. Con il passare del tempo e il mutare del costume giudiziario, questo concetto è stato relativizzato. Oggi, se si guarda attentamente alla giurisprudenza, si scopre che, malgrado l’uso dell’aggettivo “irreparabile”, si fa spesso a meno della dimostrazione rigorosa di una vera e propria irrimediabilità del pregiudizio, consideratose piuttosto se, nel caso di specie, il pregiudizio denunciato si presenti effettivamente come grade ed imminente. Quanto alle modalità del relativo procedimento, il provvedimento di urgenza non presenta regole particolari, da quanto la L. 353/1990 ha abrogato le originarie norme procedurali dettate dagli ARTT. 701 e 702, sicché si applicano in generale le regole del procedimento cautelare uniforme. 6. Altri provvedimenti cautelari nel c.p.c. Grande interesse rivestono i provvedimenti cautelari accessori alle azioni possessorie (ART 1168 ss. c.c.) provvedimento emessi nel corso dei procedimenti possessori (reintegrazione e spoglio). Le azioni nel corso delle quali tali provvedimento sono pronunciabili non sono, in sé prese, azioni cautelari: le azioni possessorie sono vere e proprie azioni di merito esperibili a tutela dello jus possessionis, si tratta di azioni di merito: pur non tutelando un diritto reale in senso stretto, esse garantiscono sempre una posizione giuridicamente protetta, quale il possesso. All’interno delle azioni possessorie, tuttavia, è spesso prioritaria l’esigenza di una tutela cautelare ed urgente. Si veda infatti l’ART 1168 c.c. u.c., il quale afferma che la reintegrazione deve ordinarsi dal giudice “sulla 68 semplice notorietà del fatto e scena dilatazione”. Ossia: un’azione di merito porta con sé un proprio specifico provvedimento cautelare: si tratta di una misura cautelare a tutti gli effetti, al punto che, nella disciplina sui procedimenti possessori, si prevede che, una volta proposta la domanda di reintegrazione e di manutenzione del possesso, il giudice deva provvedere “ai sensi dell’ARTT 669-bis e ss.” (art 703 c.2): vale a dire che l’autorità giurisdizionale provvede secondo l’ordinaria disciplina del procedimento cautelare uniforme”. Altre forme di cautele regolate dal c.p.c. sono i provvedimenti pronunciabili nel corso di esercizio delle c.d. azioni di enunciazione (nuova opera e danno temuto). Si tratta di norme che forniscono tutela cautelare ai diritti del proprietario e del possessore minacciati da nuove opere o da danno grave e prossimo all’immobile. Il c.p.c. tratta di un altro gruppo di provvedimento cautelari: i provvedimenti c.d. di istruzione preventiva (ART 692 ss.). Questi provvedimenti sono certamente cautelari, ma in un senso speciale perché tutelano non direttamente il diritto sostanziale oggetto di giudizio, ma il diritto strumentale alla prova di fatti nel processo. Attraverso essi viene anticipato lo svolgimento di procedure probatorie che dovrebbero esperirsi in seguito nel corso dell’istruzione probatoria, ed in tale modo viene garantita l’effettività del diritto alla prova, inteso a sua volta quale elemento indispensabile per la garanzia del diritto di azione. La peculiarità di queste cautele ha fatto sì che, di fronte alla disciplina uniforme del procedimento cautelare intervenuta con la L. 353/1990, esse mantenessero la disciplina ad hoc dettata dal testo originario del codice: infatti gli ARTT. da 692 a 699 continuano a regolare la disciplina dell’istruzione preventiva, mentre è significativo che gli ARTT. 701 e 702 che regolavano specificamente la disciplina dei provvedimenti d’urgenza sono stati abrogati perché sostituiti dalla disciplina generale. L’ART 692 prescrive che “Chi ha fondato motivo di temere che siano per mancate uno o più testimoni, le cui deposizioni possono essere necessarie in una causa da proporre, può chiedere che ne sia ordinata l’audizione a futura memoria”. Se chiamato a deporre è un malato a rischio vira alla parte interessata alla testimonianza conviene fare sì che il teste sia sentito prima che un evento irreparabile impedisca definitivamente o renda manifestamente gravoso il suo ascolto nel futuro giudizio. La legge concede la possibilità di proporre istanza al giudice affinché sia sentito il teste “a futura memoria”, cioè allo scopo precipuo i valersi della sua deposizione in un momento successivo. Lo stesso vale per gli accertamenti tecnici e per le ispezioni giudiziali (ART 696). Se le prove vanno ricercate da un’attività istruttoria ad hoc, e appare fondata la preoccupazione che al momento opportuno non si sia più in tempio per esperirla, si può chiedere al giudee in via cautelare di assumere senza indugio al mezzo di prova. L’istanza si propone con ricorso al giudice che sarebbe competente perla causa di merito (ART 693). In caso di “eccezionale urgenza” i provvedimento possono essere pronunciati con decreto, ed il ricorrente può essere dispensato dalla notificazione alle altre parti. E’ degno di nota che l’assunzione preventiva dei mezzi di provano pregiudica la possibilità di una normale e successiva assunzione di prove nel corso del giudizio di 69 merito: stabilisce l’ART 698 c.2 che essa non pregiudica le questioni relative all’ammissibilità delle prove, “né impedisce la loro rinnovazione nel giudizio di merito”. Naturalmente l’urgenza che caratterizza l’esigenza di istruzione preventiva può presentarsi non solo prima sella proposizione della domanda ma anche in seguito: l’ART 699 consente la proposizione della relativa istanza in corso di causa, specificando che non osta ad essa lo stato di interruzione o di sospensione del giudizio. CAPITOLO 47. IL PROCEDIMENTO CAUTELARE UNIFORME 1. Il procedimento cautelare uniforme: ambito di applicazione La riforme del 1990 ha dedicato un notevole impegno alla riscrittura in chiave universitaria del procedimento cautelare. Fino alla L. 353/1990 la disciplina dei procedimenti cautelari era frammentaria e incompleta: alcuni istituti erano sufficientemente regolati, mentre la disciplina di altri era carente, con soluzioni opposte su problemi fondamentali. A questo stato di cose il legislatore reagì offrendo un modello procedimentale uniforme, disciplinando una casistica che fino a quel momento era stata affidata alla buona volontà della giurisprudenza e della dottrina. Per fare ciò si è creato uno spazio tra l’ART 679 e l’ART 670, che ha dilatato il codice inserendo 13 articoli (da bis a quaterdeces) che hanno fissato le forme che deve assumere in concreto il procedimento cautelare, la competenza del giudice, le modalità di introduzione, le possibilità di dolersi della concessione o della mancata concessione, le sorti successive in relazione al giudizio di merito, l’esecuzione del provvedimento e l’ambito di applicazione della disciplina. L’unificazione della materia permette di avere un quadro sistematico chiaro. L’ultima delle norme, l’ART 669-quaterdecies, descrive l’ambito di applicazione del procedimento stabilendo che “Le disposizioni della presente sezione si applicano ai provvedimenti previsti nelle sezioni II, III, e V di questo capo, nonché in quanto compatibili, agli altri provvedimenti cautelari previsti dal c.c. e dalle leggi speciali. L’ART 669-septies applica altresì ai provvedimenti di istruzione preventiva previsti dalla sezione IV di questo capo”. Sono dunque assoggettai alla disciplina del procedimento uniforme i sequestri, i provvedimenti di urgenza, i provvedimenti di nuova opera e danno temuto, a cui vanno aggiunte le fasi cautelari del giudizio possessorio. Mentre però per i provvedimenti contemplati nel c.p.c. l’applicazione è piena e diretta, problemi sorgono invece per tutti i numerosi provvedimenti cautelari previsti dal c.c. e dalla legislazione complementare poiché gli articoli in questione si applicano “in quanto compatibili”. Molti sono invero i rimedi cautelari non compresi nelle sezioni II, III e V del capo III titolo I libro IV del c.p.c. A mero titolo esemplificativo possiamo ricordare: - i provvedimenti di sospensione dell’efficacia delle delibere assembleari; - il sequestro dei beni del coniuge allontanatosi dalla residenza familiare. 70 Quali regole della procedura cautelare generale si applicano quando si ricorre a questi istitutil visto che gli ARTT. 669-bis e seguenti son applicabili a condizione di compatibilità? La risposta non è facile; si può tuttavia approssimativamente rispondere: a) che per tutto ciò che non è specificatamente regolato, trova applicazione la disciplina generale; b) che le disposizioni specificatamente dettate per i singoli istituti, anche se in ipotesi divergenti dal modello unitario, sono tendenzialmente fatte salve; c) che però le norme speciali vanno armonizzate con il sistema, nel senso che esse risulteranno in concreto applicabili, se c1) il mantenimento della divergente rgola speciale sia essenziale alla ratio ed alla funzione dell’istituto, e se c2) tale regola non collida con esigenze intrinseche della tutela cautelare. Vediamo ora la discipilna specifica del procedimento cautelare uniforme. 2. La domanda e la competenza Per sua natura l’esigenza cautelare può sopravvivere in ogni momento, ed in ogni momento potrà proporsi la relativa domanda. L’istanza cautelare potrà quindi formularsi: a) contestualmente alla domanda di merito, ovvero b) anteriormente all’instaurazione della causa, o c) a giudizio pendente e nel corso di questo. Nel primo caso essa sarà contenuta nell’atto di citazione, o nel ricorso introduttivo; negli altri casi assumerà la forma del ricorso autonomo. Il ricorso cautelare proposto ante causa, andrà depositato nella cancelleria del giudice competente (ART 669-bis); quando invece vi è già causa pendente per il merito, “la domanda deve essere proposta al giudice della stessa” (ART 669-quater). Ci si chiede se, in quest’ultimo caso, la domanda debba sempre assumere le forme del ricorso, o se possa essere proposta nella forma breve dell’istanza dettata a verbale di udienza. La seconda soluzione è preferibile, perché più ragionevole: essa appare conforme al criterio generale della libertà delle forme per cui l’atto processuale può rivestire la “forma più idonea al raggiungimento del loro scopo” (ART 121). Principio tendenziale è che la competenza a decidere del rimedio cautelare spetta al giudice che deve decidere del merito. L’ART 669-ter c.1 stabilisce infatti che, prima dell’inizio della causa di merito, “la domanda si propone al giudice competente a conoscere del merito”: il giudice della cautela viene individuato dunque per relationem. Ciò manifesta lo stretto legame tra merito e cautela ed esprime un’esigenza di stretta coordinazione tra il momento della cautela e quello del giudizio finale. La competenza cautelare in corso di causa spetta al gudice già investito del merito. L’ART 669-quater statuisce che, “quando vi è causa pendente per il merito, la domanda deve essere proposta al giudice della stessa”. Ma a quale organo? Se la causa pende davanti al tribunale, la domanda si propone all’istruttore, e se l’istruttore non è ancora designato la domanda si propone al Presidente del Tribunale. Lo stesso vale anche se il giudizio è 71 sospeso o interrotto, se cioè il giudizio sta vivendo una delle fasi di quiescenza nelle quali non c’è un istruttore in attività. Se però la causa pende davanti al giudice di pace, la domanda non si può proporre a questi ma dovrà proporsi al tribunale, nella cui circoscrizione è situato l’ufficio del GDP di fronte a cui pende il processo. Altra ipotesi in cui manca il GI è quella in cui il tribunale ha già deciso la causa con sentenza definitiva e corrono i termini per l’appello. Il processo pende, però non c’è un giudice attualmente investito del rapporto processuale, né tantomeno c’è alcun istruttore designato. Qui, in pendenza dei termini per proporre l’impugnazione, “la domanda si propone al giudice che ha pronunciato la sentenza”. (NOTA: Ci si chiede se competente a provvedere sull’istanza cautelare sia sempre e comunque il giudice del merito, o se competente a concedere la cautela sia solo il giudice effettivamente competente sul merito. La cos ha un suo rilievo perché la soluzione per cui anche il giudice in competente per il merito potrebbe concedere provvedimenti cautelari potrebbe indurre a scegliere un foro piuttosto che un altro in funzione della maggiore probabilità di concessione: se devo rivolgermi, per es. al tribunale di Perugia, competente in via esclusiva, ma sospetto che, data la giurisprudenza di quel tribunale, difficilmente otterrà il provvedimento cautelare richiesto, mentre mi risulta che a Orvieto la giurisprudenza del tribunale è più accondiscendente, posso proporre la causa a Orvieto e chiedere a quel giudice di pronunciare il provvedimento cautelare? Giudice competente per il cautelare è il giudice che l’attore ha invocato come competenze per il merito o è il giudice effettivamente competente per il merito? Basta cioè che penda la causa per il merito perché si possa chiedere al GI il provvedimento cautelare, o occorre che questi verifichi preventivamente la propria competenza sul merito anche per poter concedere il cautelare? La soluzione preferibile sembra quella per cui il giudice del merito può conoscere dell’istanza cautelare solo previo riconoscimento della propria competenza per il merito. Non basta che il processo sia comunque in vita di fronte a qualunque giudice, perché questo sia automaticamente competente per il cautelare: esso deve pendere di fronte al giudice competente). Ci sono però casi in cui il giudice del merito non ha competenza cautelare. Si ha quindi scissione tra il giudice della cautela e quello del merito, scissione che si verifica: a) Quando la competenza per la causa di merito appartiene al GDP. Per scelta del legislatore, che ha inteso riservare i relativi poteri al giudice togato, il GDP non ha compenetra cautelare. In caso quindi sia esso competente per il merito “la domanda si propone al tribunale”: b) Quando la competenza per la causa di merito appartiene al giudice straniero. La legge mira a rendere possibile che il giudice italiano pronunci misure cautelari anche quando la giurisdizione spetti ad un giudice straniero: in tal caso “la domanda si propone al giudice che sarebbe competente per materia o per valore, del luogo in cui deve essere eseguito il provvedimento cautelare”. La norma abilita evidentemente il giudice italiano a 72 pronunciare in luogo del giudice del merito appartenente ad altri ordinamento, quando si richiedono provvedimenti cautelari da eseguirsi in Italia. c) Quando la competenza per la causa di merito appartiene ad arbitri. Quando le parti hanno concordemente rinunciato alla giurisdizione statuale avendo compromesso in arbitrato la lite, ed hanno quindi investito del potere di decisione della controversia soggetti privati, si pone il problema della carenza del potere di pronunciare provvedimento cautelari in capo a quest’ultimi. Salvo infatti l’isolato potere di sospensione delle delibere delle assemblee societarie, gli arbitri si trovano nella stessa situazione del GDP: per scelta del legislatore, essi possono decidere il merito, ma non posson esercitate il potere di provvedere in materia cautelare. d) Quando la competenza per la causa di merito appartiene al giudice penale. Questo avviene allorché nel processo penale è esercitata l’azione civile per il risarcimento dei danni derivanti dal reato (c.d. costituzione di parte civile). La pronuncia di sequestro conservativo può in verità essere richiesta allo stesso giudice penale; è vedente però che possono sorgere altre e diverse esigenze cautelari alle quali potrebbe non rispondere la soluzione del sequestro conservativo. In questi casi la competenza cautelare spetta esclusivamente al giudice civile: in particolare, la domanda di cautela deve essere proposta al giudice che sarebbe competente per il merito se l’azione civile, fosse esercitata nella sua naturale sede civile. 3. Il procedimento Cosa deve fare il giudice investito dell’istanza cautelare? L’ART 669- sexies prescrive che il giudice “sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti ed ai fini del provvedimento richiesto, e provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto della domanda”. Risulta da questa norma, che: a) Il contraddittorio delle parti è essenziale, ma il suo svolgimento non è predeterminato attraverso l’imposizione di forme specifiche; b) il giudice non è vincolato a forme prefissare, poiché può procedere nel modo che ritiene più opportuno all’istruzione. Le tappe e le modalità dell’istruttoria non sono prestabilite e la disciplina che presiede alle fonti di priva ed all’efficacia dei mezzi di prova è allentata. Spesso il giudice assumerà le c.d. “sommarie informazione”, notizie sui fatti di causa raccolte senza particolari formalità che assumono valore di elementi indiziari, in virtù dei quali egli è autorizzato a formarsi il suo convincimento in ordine alla soluzione della controversia cautelare. Per quanto basilare, la regola del contraddittorio può però subire attenuazioni in certi casi. Talvolta infatti ci si trova di fronte ad esigenze la cui immediata soddisfazione è incompatibile con la previa provocazione del contraddittorio. Questo accade anzitutto quando la convocazione della controparte pregiudicherebbe l’attuazione del provvedimento. E’ facile capire che, in certi caos, avvertire 73 preventivamente la controparte significa rendere inutile la misura cautelare. Si pensi all’ipotesi in cui vi siano fondati sospetti che questa si stia liberando dei propri cespiti patrimoniali: avvertirla significherebbe invitarla ad accelerare la dismissione per mettere il richiedente davanti al fatto incompiuto. Si capisce perché in tal caso sia concesso chiedere in provvedimento cautelare inaudita altera parte: il giudice può provvedere sulla richiesta senza contraddittorio “con decreto motivato assunte ove occorra sommari informazioni”. L’altra ipotesi è quella dell’urgenza assoluta, dell’urgenza cioè che impone di provvedere immediatamente, senza poter attendere l’instaurazione del contraddittorio: per esempio, se sono in corso lavori di sbancamento in un fondo che stanno provocando smottamenti di terreno che minacciano un manufatto nel fondo limitrofo, il provvedimento di sospensione dei lavori potrà essere concesso immediatamente sulla base della sommaria rappresentazione dei fatti, non essendoci evidentemente il tempo per instaurare un contraddittorio e svolgere l’istruzione cautelare. Il provvedimento concesso ante causa in difetto di contraddittorio, è comunque un provvedimento ad efficacia temporale limitata. Esso assume la forma del decreto e contiene sempre la fissazione (“entro un termine non superiore a 15 giorni”) dell’udienza di comparizione delle parti davanti allo stesso giudice che l’ha pronunciato, con contestuale assegnazione all’istante di “un termine perentorio non superiore a 8 giorni per la notificazione del ricorso e del decreto”. Si tratta, come si vede, di un provvedimento intrinsecamente provvisorio, un provvedimento effimero perché necessariamente seguito dall’udienza in cui il giudice, con ordinanza, confermerà, modificherà o revocherà i provvedimenti concessi inaudita altera parte. L’ordinanza si sostituisce quindi al decreto in ogni caso: all’esito del contraddittorio, si avrà ordinanza di conferma se il giudice ribadisce la scelta della misura cautelare, ordinanza di revoca o di modifica se non riscontra la presenza dei presupposti della cautela, ovvero ne corregge la portata. Il decreto decade inoltre in caso di mancato rispetto del termine perentorio assegnato per la notifica. AL rigetto della domanda cautelare è dedicato l’ART 669-septies. Il rigetto può aversi tratto per ragioni di sostanza, quanto per ragioni processuali. Il rigetto non impedisce la riproposizione della domanda cautelare: se è stato motivato da ragioni di incompetenza basterà riproporre la domanda al giudice competente; negli altri casi, la riproposizione potrà avvenire “quando si verifichino mutamenti delle circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto”. Nella primitiva impostazione della legge, la possibilità di riproporre la domanda cautelare era legata alla possibilità del reclamo ex ART 669-terdecies nei confronti delle ordinanze di rigetto. Divenuti in seguito reclinabili tutti i provvedimenti resi sull’istanza cautelare, indipendentemente dal loro segno positivo o negativo, oggi il provvedimento di rigetto soggiace al regime del reclamo, ma, alternativamente, l’interessato potrà scegliere la strada della riproposizione della domanda cautelare. Il reclamo può esperirsi solo secondo i tempo ed i modi previsti per esso ma consente di addurre tutti i possibili motivi di fatti e di diritti per la revoca o modifica del provvedimento. La riproposizione del 74 ricorso non soggiace a termini di sorta, ma comporta l’onere di dedurre la sopravvenienza di mutamenti delle circostanze o di arricchirne la causa petendi con nuove ragioni di fatto i di diritto. L’ART 669-octies disciplina l’accoglimenti della domanda. Esso cura in particolare gli adempimento necessari in caso di accoglienti del ricorso cautelare ante causa: in tal caso l’ordinanza di accoglimenti “deve fissare un termine perentorio non superiore a 60 giorni per l’inizio del giudizio di merito”; in mancanza di fissazione del termine da parte del giudice, “la causa di merito deve essere iniziata nel termine perentorio di 60 giorni”. Il meccanismo del termine perentorio per l’inizio della causa di merito è la principale manifestazione della c.d. strumentalità della tutela cautelare rispetto alla tutela di merito. Dove tale strumentalità è mitigata, non si dà infatti luogo a fissazione di termini per l’instaurazione del giudizio di merito. Il giudice può peraltro subordinare l’accoglimento dell’istanza cautelare “valutata ogni circostanza” all’imposizione di una cauzione in capo all’istante “per il risarcimento dei danni. L’ordinanza di rigetto del ricorso cautelare pronunciata prima dell’inizio della causa di merito deve connettere la condanna alle spese. L’ART 669-septies c.2, stabilisce che in tal caso il giudice “provvede definitivamente sulle spese del procedimento cautelare”. Non contiene invece condanna alle spese l’ordinanza di accoglimento, anteriore alla causa, che fissa termine perentorio per l’inizio del giudizio di merito. Quanto alle decisioni rese sulle istanze cautelari proposte in caso di cause, esse non comportano regolamento delle spese: si tratta di ordinanze incidentali che non chiudono il rapporto processuale, e la liquidazione delle relative spese resta affidata alla sentenza conclusiva del giudizio di merito. Le disposizioni sulle spese sono reclinabili secondo la regola generale dell’ART 669terdecies. 4. La strumentalità al merito Nella previsione di un termine perentorio per l’instaurazione del merito si suole vedere sancito il c.d. “principio di strumentalità” della tutela cautelare rispetto al merito. Come però si è accennato, il principio non trova applicazione nell’ipotesi prevista dal c.6 ART 669-octies in virtù del quale la permanenza degli effetti dei provvedimenti cautelari a carattere anticipatorio resta svincolata dall’inizio del giudizio di merito: la sanzione dell’inefficacia della misura cautelare per inosservanza dell’onere di iniziare tempestivamente il giudizio di merito e del corrispondente onere di non lasciarlo estinguere, non si applica infatti “ai provvedimenti di urgenza emessi ai sensi dell’ART 70 e gli altri provvedimento cautelari idonei ad anticipare glie fletti della sentenza di merito, previsti dal c.c. o da leggi speciali”. I provvedimenti che anticipano il contenuto della sentenza di merito, non divengono quindi inefficaci se il ricorrente non inizia tempestivamente il giudizio di cognizione. La cosa si spiega considerando che, se la parte subisce il provvedimento si adegua ad esso, il ricorrente potrebbe non avere interesse all’accertamento pieno e definitivo del proprio 75 diritto; in tal caso, imporgli di domandare tale accertamento significa imporre un processo su una controversia che potrebbe essersi placata. Da questa constatazione nasce la possibilità che il provvedimento di accoglimenti resti fermo ed insensibile alla mancata proposizione della domanda di merito, o all’estinzione del giudizio eventualmente proposto. Questa stabilità dell’ordinanza cautelar neon va però confusa con la stabilità propria della cosa giudicata. La decisione cautelare non contiene alcun accertamento e nessun giudicato si forma in relazione al relativo provvedimento, il cui contenuto non può “fare stato” nel senso dell’ART 2909 c.c. Da un lato, infatti, l’ART 669-octies prevede che “ciascuna parte può iniziare il giudizio di merito”, dall’altra l’autorità del provvedimento cautelare non è mai invocabile in alcun giudizio. I soggetti interessati dalla misura cautelare conservano quindi tutte le proprie azioni ed eccezioni: non solo il ricorrente potrebbe in ogni tempo iniziare il giudizio sul proprio diritto, ma un simmetrico giudizio per l’accertamento negativo di tale diritto potrebbe nascere ad iniziativa della controparte. Inoltre, in ogni eventuale controversia sull’esistenza, inesistenza o conformazione del diritto a tutela del quale è concessa la misura cautelare, questa non potrà esplicare alcun effetto giuridico: “L’autorità del provvedimento cautelare non è invocabile in un diverso processo”. La strumentalità è invece piena per i provvedimenti a natura assicurativo-conservativa, la cui stabilità è strettamente dipendente dalle vicende del processo di merito. La conservazione della loro efficacia è infatti strettamente condizionata dall’assolvimento non solo dell’onere di iniziare il giudizio di merito tempestivamente, ma anche dell’onere di non lasciarlo estinguere in seguito. 5. Vicende del provvedimento cautelare Per sua natura il provvedimento cautelare è soggetto ad essere influenzato dagli eventi successivi, attraverso una disciplina volutamente intesa ad evitare la sua cristallizzazione ed a mantenerlo sensibile agli sviluppi dei fatti rilevanti e dei rapporti intercorrenti tra le parti. Anzitutto il provvedimento cautelare può diventare inefficace. L’inefficacia consegue al mancato inizio del giudizio di merito, nel termine perentorio. Sempre limitatamente alla prima categoria di provvedimenti, l’inefficacia consegue inoltre all’estinzione del giudizio di merito, non bastando evidentemente che un giudizio sia instaurato ma occorrendo anche che esso sia portato alla sua conclusione fisiologica, vale a dire alla decisione sul rapporto sostanziale: la conclusione del processo con un nulla di fatto travolge anche il sequestro ottenuto a garanzia del diritto che non è stato deciso. (L’estinzione dell’eventuale causa di merito, non tocca invece i provvedimento cautelari a carattere anticipatorio, rispetto alla conservazione dei quali non è imposto di instaurare il giudizio di merito: secondo l’ART 669-octies l’estinzione del giudizio di merito non determina l’inefficacia né i provvedimento d’urgenza 76 emessi ai sensi dell’ART 700 né dagli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito). Tutte le misure cautelari perdono sempre e comunque efficacia se viene rigetta in merito la domanda: il rimedio cautelare diviene infatti inefficace “se con sentenza, anche non passata in giudicato è dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale era stato concesso”. Non occorre quindi che la sentenza sia definitiva; basta la pronuncia di primo grado perché la cautela sia dichiarative subito inefficace: la dichiarazione di inefficacia, nonché le disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente sono pronunciati nella stesa sentenza o, in mancanza, con ordinanza a seguito di ricorso al giudice che ha emesso il provvedimento. L’inefficacia conseguente al rigetto nel merito della domanda riguarda indistintamente i provvedimento cautelari anticipatori e quelli a carattere “conservativoassicurativo”. Il provvedimento cautelare perde altresì la sua efficacia “se non è stata versata la cauzione di cui all’ART 669-undecies. Mentre in quest’ultimo caso la procedura per la declaratoria è la stessa vista per l’inefficacia conseguente alle sentenza di rigetto, per i casi di mancato o tardivo inizio della causa di merito e di estinzione della stessa, a pronunciare l’inefficacia sarà, su ricorso della parte interessata, il giudice “che ha pronunciato il provvedimento”. Questi, convocate le parti con decreto in calce al ricorso, con ordinanza esecutiva, dichiarerà “che il provvedimento è divenuto inefficace”, dando nel contempo “le disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente”. Tutto ciò, però, a condizione che l’inefficacia sia pacifica; in caso, viceversa, di contestazione, il procedimento dovrà formalizzarsi: anzitutto a decidere non sarà più il giudice che emise il provvedimento di cui si chiede la dichiarazione di inefficacia, ma “l’ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare”; in secondo luogo, invece della mera pronuncia di una ordinanza, si darà luogo ad un vero e proprio procedimento di cognizione, procedimenti destinato a concludersi con “sentenza provvisoriamente esecutiva”. Nel corso del procedimento contenzioso per la declaratoria di inefficacia mantengono comunque rilevanza le “circostanze sopravvenute che consentono modifica e/o revoca del provvedimento cautelare. 5.1. La revoca e la modifica Oltre alla possibilità di perdere l’efficacia per gli eventi appena visti, il provvedimento cautelare può essere anche revocato o modificato in funzione del mutamento delle circostanze che giustificarono la sua concessione. Queste circostanze possono con il tempo venire meno o cambiare, e l’ART 669-dices stabilisce che, se nel corso dell’istruzione “si verificano mutamenti nelle circostanze”, su istanza di parte il giudice istruttore della causa di merito può “modificare o revocare con ordinanza il provvedimento cautelare”. 77 Per “mutamenti nelle circostanze” si devono intendere tutti gli eventi sopravvenuti idonei ad influire sulla legittimità o opportunità del provvedimento: deve trattarsi di elementi che, se sussistenti e considerati al momento della concessione, avrebbero condotto il giudice a non concedere affatto il provvedimento, ovvero a concedere un altro differente nel contenuto o nelle modalità. Ma revoca o modifica si potranno ottenere non solo in caso di fatti nuoci, ma anche “se si allegano fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare”. In tal caso, peraltro, l’istante dovrà “fornire la prova del momento in cui ne è venuto a conoscenza”. La legge concede però il rimedio della revoca solo a condizione che non sia stato “proposto reclamo ai sensi dell’ART 669-terdecies)”. Si vuole, in altre parole, che i fatti nuovi idonei ad incidere sulla permanenza della misura cautelare, si facciano necessariamente valere attraverso il mazzo del reclamo fintantoché questo sia proponibile. Per il caso che manchi attualmente un GI della causa di merito, i provvedimento di revoca o modifica “devono essere richiesto dal giudice che ha emanato il provvedimento cautelare”. Resta da considerare l’ipotesi che l’esigenza di revoca o modifica si presenti prima dell’effettivo inizio del giudizio di merito, ovvero in ipotesi in cui tale giudizio non venga affatto proposto. In tal caso i mutamenti delle circostanze saranno valutati dal giudice ha provvrdito sull’istanza cautelare. Lo stesso avviene nel caso in cui il processo di merito sia iniziato, ma sia stato in seguito dichiarato estinto: evidentemente l’ipotesi da considerare è quella dell’estinzione del processo a qui non consegue l’inefficacia del provvedimento per la natura anticipatori di questo. In tal caso il provvedimento cautelare resta pur sempre esposto al mutamento delle circostanze e può quindi legittimamente essere revocato o modificato dal giudice che lo emise. 5.2. Il reclamo Un rimedio generale contro le ordinanze in sede cautelare è il reclamo, mezzo a carattere impugnatori che investe della controversia cautelare un giudice distinto rispetto al giudice del provvedimento reclamato. Cos’è il reclamo e a chi si propone? Esso sostanzialmente è un mezzo di impugnazione. Visto nella prospettiva dell’impugnazione esso appartiene inoltra ai mezzi provvisti di carattere devolutivi generale, essendo potenzialmente idoneo a riportare la controversia cautelare integralmente al giudice ad quem, senza limiti di motivi o di errori del giudice a quo. In altre parole, con il reclamo si possono sollevare tutte le doglianze utili ad eliminare la pronuncia reclamata e ad ottenere una pronuncia differente: errori di valutazione di fatti, violazioni ella legge sostanziale, vizi processuali, sopravvenienza di fatti nuovi. L’analogia con l’appello è evidente. Il reclamo si indirizza ad un diverso organo dello stesso ufficio giudiziario. Il reclamo contro i provvedimenti del giudice singolo del tribunale si propone infatti al collegio am 78 con la decisiva particolarità che di tale collegio “non può far parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato”. Quando il provvedimento cautelare è stato emesso dalla Corte d’Appello, il reclamo si propone ad altra sezione della stessa Corte, o in mancanza di altra sezione, alla Corte d’Appello più vicina. Per i termini di proposizione il c.1 ART 669-terdecies distingue a seconda che la pronuncia sia stata resa in udienza ovvero sia stata pronunciata fuori udienza. Nel primo caso il termine perentorio di 15 giorni decorre dalla data di udienza; nel secondo lo stesso terrine decorre dalla data della comunicazione o dalla data di ricezione della sua notifica. I commi successivi regolano la forma del reclamo ed il procedimento. Il c.3 richiama quali norme generali del procedimento gli ARTT 737-738, che peraltro vanno coordinati con i commi 4 e 5 ART 669-terdecies. Forma del reclamo è il ricorso; quanto al procedimento, il presidente del collegio nomina, tra i componenti del collegio un giudice relatore “che riferisce in camera di consigliO”: (ART 738). Il rispetto del contraddittorio è rigoroso anche in sede di reclamo: il collegio infatti deve decidere “convocate le parti”. Il giudice del reclamo può assumere informazioni e acquisire nuovi documenti. Esso pronuncia, non oltre 20 giorni dal deposito del ricorso, ordinanza non impugnabile con la quale “conferma, modifica o revoca il provvedimento cautelare”. (L’ordinanza del giudice del reclamo è dichiarata espressamente non impugnabile e la C. ha respinto fermamente il tentativo di sottoporla a ricorso straordinario ex ART 111 c.7). Il collegio investito del reclamo non può limitarsi ad un provvedimento meramente rescindente ma deve sempre decidere della controversia cautelare: è infatti vietata la remissione al giudice che ha pronunciato il provvedimento cautelare reclamato. Come si è già visto sopra, il rimedio della revoca è concesso solo a condizione che non sia stato “proposto reclamo ai sensi dell’ART 669-terdecies: invero il c.4 dell’ART 669terdecies prescrive che “le circostanze ed i motivi sopravvenuti al momento della proposizione del reclamo debbono essere proposti, nel rispetto del principio del contraddittorio”. 5.3. L’attuazione La fase dell’attuazione è successiva a quella della concessione del rimedio cautelare, ed è da tener distinta da questa. L’ART 669-duodecies regola l’attuazione dei provvedimento cautelari: detta cioè le regole per la loro esecuzione coatta in mancanza della collaborazione spontanea della parte contro cui la misura è concessa. Con la fase attuativa si realizza l’adeguamento della realtà sostanziale a ciò che il giudice ha deciso con il provvedimento cautelare. Ai sensi dell’ART 669-duodecies la fase attuativa si realizza secondo due tecniche generali ed alternative tra loro. 79 La prima tecnica è quella dell’ “espropriazione forzata” del libro III del codice che viene in gioco quando la misura cautelare da eseguire ha ad oggetto il pagamento di somme di denaro. In tal caso è prescritto il rispetto degli ARTT 491 ss. “in quanto compatibili”. Qui l’esecuzione avrà luogo nelle forme del pignoramento, con ciò facendosi salva la possibilità di tutela della par condicio creditorum, attraverso la possibilità della partecipazione dei creditori nella forma dell’intervento. Il legislatore ha inteso quindi dare una disciplina unitaria dell’esecuzione dei crediti di denaro, praticamente assimilando al titolo esecutivo di cui all’ART 474 il provvedimento cautelare. Sul piano pratico, le conseguenze di maggior rilievo riguarderanno l’individuazione del giudice competente, che verrà determinato ai sensi degli ARTT 16 e 26, e l’incanalamento delle contestazioni relative all’esecuzione ed ai suoi effetti nelle procedure delle opposizioni. La seconda tecnica è quella della c.d. “esecuzione in via breve”. Si realizzerà tale forma di esecuzione per le “misure cautelari aventi ad oggetti obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare”; in tal caso l’attuazione avverrà “sotto il controllo del giudice che ha emanato il provvedimento cautelare”: come si vede il legislatore ha evitato il rinvio delle norme delle corrispondenti esecuzioni forzate ma ha lasciato il giudice della cautela libero di regolarsi nella maniera ritenuta più opportuna. Questi infatti determinerà le modalità di attuazione, e, nel caso che “sorgano difficoltà o contestazioni”, darù “con ordinanza i provvedimenti opportuni”. CAPITOLO 48. IL RITO DEL LAVORO E LE CONTROVERSIE DI LAVORO 1. Il rito del lavoro e le controversie di lavoro Il processo ordinario di cognizione regolato dagli ARTT. 163 ss. è il rito generale per le controversie appartenenti alla giurisdizione civile. Esso però, da una lato non è sempre l’unico procedimento utilizzabile, dall’altro non si estende a tutte le controversie trattate dal giudice civile. Esistono alcuni procedimento che si distinguono da quello ordinario e che possono genericamente dirsi speciali, la cui specialità va valutata sotto diversi aspetti: a) alcuni procedimenti sono speciali in quanto destinati ad essere utilizzati in presenza di alcune particolari circostanze (esempio; il procedimento cautelare; b) in altri casi la specialità consiste nel fatto che l’ordinamento mette a disposizione meccanismi giurisdizionali concorrenti con quello ordinario, generalmente per conseguire il risultato in tempi più rapidi rispetto a quanto sarebbe necessario per ottenere la sentenza, o comunque secondo forme semplificate rispetto al processo ordinario (esempio: il procedimento per convalida di sfratto); c) esistono poi dei procedimenti la cui specialità sta nel rappresentare l’unica forma della cognizione di dati diritti. In questi casi, l’ordinamento ritiene che le dinamiche del processo ordinario non si addicano al tipo di diritti fatti valere o al particolare rapporto 80 tra le parti, e così sostituisce al rito ordinario altri riti, i quali costituiscono l’unico sistema processuale utilizzabile. Il processo del lavoro appartiene alla terza delle categorie, in quando non rappresenta né una particolare forma di tutela in presenza di specifiche circostanze sub a), né un rito concorrente a quello ordinario sub b), ma costituisce l’unico strumento processuale utilizzabile quando il diritto fatto valere rientra nell’ambito delle c.d. controversie di lavoro dell’ART 409. (Il rito del lavoro nasce quale rito specificamente destinato a regolare le controversie di lavoro di cui all’ART 409. La legge utilizza però il medesimo rito la soluzione di controversie che non sono “di lavoro”, in quanto non rientrano nell’ambito dell’ART 409 (es. materie agrarie). Una volta introdotto nell’ordinamento, esso è diventato infatti uno schema procedimentale astrattamente utilizzabile anche al di fuori delle controversie di lavoro. E’ nella discrezionalità del legislatore stabilire quale procedimento applicare ad un certo tipo di controversia e perciò è possibile che lo stesso legislatore ritenga opportuno disciplinare una certa fattispecie contenziosa con un dato rito speciale piuttosto che con quello generale degli ARTT. 163 ss.) Tornando alla “specialità” del rito del lavoro, occorre considerare che la scelta di elaborare un apposito processo di cognizione per le controversie di lavoro deriva dal fatto che, sul piano sostanziale, generalmente la posizione soggettiva delle parti in un rapporto di lavoro non è paritaria: si reputa che la ciondolone del lavoratore subordinato sia più debole di quella del datore di lavoro, e quindi quella condizione di debolezza sul piano sostanziale deve in qualche modo essere riequilibrata sul piano processuale, attraverso l’individuazione di un meccanismo ad hoc, con regole proprie. Vediamo quali sono le c.d. “controversie di lavoro” alle quali si applica il rito del lavoro integralmente. La norma di riferimento è l’ART 409. In linea generalissima, si può dire che rientrano nelle controversie di lavoro quelle individuali relative a rapporti di lavoro subordinato e parasubordinato. Non rientrano quelle collettive e quelle relative ai rapporti di lavori autonomi. A seconda della natura giuridica del soggetto datore di lavoro, si deve poi distinguere tra: 1) Rapporti di lavoro subordinato privato, anche se non inerenti all’esercizio dell’impresa; 2) Rapporti di lavoro subordinato alle dipendenze di enti pubblici economici; 3) Rapporti di lavoro subordinato alle dipendenze di enti pubblici non economici. Fino al 1998, tali controversie rientravano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in quanto il rapporto tra pubblico dipendente e PA era sottoposto ad un regime di carattere pubblicistico. A seguito di un lungo processo, si è poi ritenuto che avesser carattere civile e quindi si sono trasferite alla competenza del giudice ordinario. 81 Le controversie di lavoro parasubordinato sono quelle relative ai rapporti di collaborazione consistenti in una “prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale”. Elementi determinanti della parasubordinazione sono la coordinazione e la continuità; nei rapporti con i terzi, inoltre, l prestazione dell’opera deve risultare prevalentemente compiuta dal prestatore. Danno luogo inoltre a controversie di lavoro anche i rapporti agrari: quelli di lavoro subordinato, in quanto appartenenti alla categoria dell’ART 409 c.1e quelli associativi, in quanto rappresentanti nell’elencazione dell’ART 409 c.2. Peraltro, ai sensi dell’ART 11, L 150/2011, tali controversie si svolgono con il rito del lavoro ma sono riservate alla competenza delle sezioni specializzate agrarie di tribunale e di corte di appello (in secondo grado) e per esse non trovano applicazione alcune norme contenute negli ARTT. 409 ss. riservate alle sole controversie lavoristiche. 2. La competenza ed il mutamento di rito La specialità delle controversie relative ai rapporti di lavoro che ha indotto a disegnare un apposito rito, giustifica anche l’attribuzione di esse alla competenza per materia del tribunale in funzione del giudice del lavoro. Una speciale disciplina riguarda la competenza territoriale, peraltro inderogabile. Occorre distinguere a tale fine le controversie di lavoro subordinato alle dipendenze di un privato datore di lavoro da quelle alle dipendenze della PA, nonché ancora le controversie di lavoro parasubordinato. Per le prime, esistono le seguenti competenze concorrenti: a) luogo dove è sorto il rapporto di lavoro; b) luogo dove si trova l’azienda; c) luogo dove si trova una sua dipendenza alla quale è addetto o ha prestato la sua opera il lavoratore; d) in via sussidiaria si applica il foro generale dell’ART 18, nel caso in cui non sia individuabile secondo i criteri a) b) c). Per le controversie di lavoro subordinato alle dipendenze di un datore di lavoro pubblico, la competenza va individuata invece: a) con riferimento al luogo nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio al quale il lavoratore è addetto; b) anche qui, in via sussidiaria, si applica il foro generale. Inoltre, pur essendo parte una PA, non si applica la regola del foro erariale. Infine, per le controversie relative ai rapporti di lavoro parasubordinato, la competenza è individuata in relazione al luogo del domicilio del lavoratore parasubordinato. Veniamo a questo punto alle modalità ed ai termini del rilievo dell’eccezione di competenza. Dispone in proposito l’ART 428 che, nel caso di causa di lavoro proposta a giudice incompetente, “l’incompetenza può essere eccepita dal convenuto soltanto nella memoria difensiva di cui all’ART 416 o rilevata d’ufficio dal giudice non oltre l’udienza di cui all’ART 420”. Il c.2 dello stesso articolo prevede che, a seguito della rilevazione, “il giudice rimette la causa al tribunale in funzione del giudice del lavoro, fissando un termine perentorio non superiore a 30 giorni per la riassunzione con rito speciale”. Alle questioni di competenza occorre sovrapporre quelle di rito sbagliato (causa di lavoro, ma la 82 domanda è proposta con forme ordinarie o viceversa). Può accadere infatti che tale questione resti autonoma rispetto a quella di competenza, in quanto la causa è stata proposta al giudice competente, ma può anche accadere che la questione di rito porti con sé quella di competenza (domanda proposta con il rito sbagliato al giudice incompetente). Per analizzare correttamente le questioni di rito e quelle di competenza occorre considerare che il legislatore ha voluto dare una diversa qualificazione alle une e alle altre: mentre la competenza è un “presupposto processuale”, in quanto la proposizione di una domanda al giudice incompetente impedisce al giudice di decidere nel metto, il rito non è presupposto processuale perché quando il giudice è adito con le forme sbagliate deve disporre il mutamento di tali forme, ma se non lo fa egli non è privato del potere di decidere nel merito e la sentenza eventualmente pronunciata è una sentenza valida. (La pronuncia emessa all’esito di un procedimento svoltosi secondo un rito sbagliato è affetta da un vizio che può dirsi innocui. Immaginiamo infatti che la parte soccombente proponga appello avverso la sentenza pronunciata secondo il rito sbagliato. Anzitutto, ove fosse proposto in appello per il solo motivo del vizio attinente al rito, esso non sarebbe ammissibile, non potendo l’appello fondarsi solo su vizi attinenti al processo. In secondo luogo, anche se la parte impugna la sentenza non solo per il difetto di rito, ma anche per motivi di merito la sanatoria del vizio attinente al rito avviene per il solo effetto sostitutivo che produce la sentenza d’appello rispetto a quella appellata: basta cioè che il giudice d’appello applico il rito corretto perché il vizio sia sanato). Il vizio attinente al rito è regolati dagli ARTT 426-427, rispettivamente per il caso in cui la domanda sia proposta nelle forme ordinarie (citazione), ma la causa sia di lavoro, e per il caso in cui la domanda sia proposta nella forme di lavoro (ricorso), ma non rientri tra le controversie di lavoro. Nel primo caso, il giudice fissa con ordinanza l’udienza di discussione ed un termine entro il quale le parti devono provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi. L’integrazione possibile è quella relativa alle istanze probatorie: mentre infatti nel rito ordinario, all’udienza di comparizione e trattazione le parti conservano ancora la possibilità di chiedere un termine per l’indicazione di mezzi di prova e produzioni documentali, nel rito del lavoro la preclusione delle richieste istruttorie e del deposito di documenti si produce al momento del deposito del ricorso ed al momento della scadenza del termine per la costituzione tempestiva (per il convenuto). Quando la domanda è proposta per errore nelle forme del rito del lavoro, il giudice dispone “che gli atti siano messi in regola con le disposizioni tributarie”. Ciò perché per il processo del lavoro sono previste regole di imposizione tributaria meno gravose di quelle che operano nel rito ordinario (NOTA: prima del d.l. 111/2011, il processo del lavoro era totalmente esente dal versamento del c.d. contributo unificato. Dopo l’entrata in vigore del decreto, invece, l’esenzione dal contributo unificato opera solo ove il reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito delle parti sia inferiore a quello previsto dall’ART 76 d.p.r. 115/2002). Per ottenere la conversione da rito del lavoro in rito ordinario occorre quindi che vi sia anche la regolarizzazione egli atti dal punto di 83 vista fiscale. Nulla si prevede invece quanto all’integrazione degli atti, in quanto si presume che non vi siano ulteriori attività consentite nel rito del lavoro che siano già precluse nel rito ordinario In questo caso “le prove acquisite durante lo stato di rito speciale avranno l’efficacia consentita dalle norme ordinarie”. 3. Le differenze tra rito ordinario e rito del lavoro nella fase introduttiva della causa Per comprendere le dinamiche del rito del lavoro procederemo attraverso la comparazione tra questo e il rito ordinario, individuandone le relative differenze in ogni fase del processo: introduzione della causa, trattazione, decisione. Cominciamo dalle differenze relative alla fase introduttiva. L’idea che ha ispirato la riforma del processo del lavoro è che la durata del processo si riduce al minimo quando è ridotto al minimo il numero di udienze necessarie per giungere alla decisione; si prospetta così la possibilità che l’intero processo si svolga in una sola udienza (la c.d. “udienza di discussione”, tanto che le “udienze di mero rinvio sono vietate”), anche se la giurisprudenza ha poi ammesso e consentito le udienze di rinvio. L’esaurimento dell’intero processo in una sola udienza è comunque perseguito imponendo sin dall’inizio alle parti l’onere di presentare le proprie domande, eccezioni e difese, nonché di articolare le relative richieste istruttorie, in altri termini, di definire da subito il thema decidendum ed il thema probandum. La differenza con il processo ordinario di cognizione sta nel fatto che nel rito del lavoro le preclusioni sono più rigide. L’allegazione dei fatti deve avvenire tutta negli atti introduttivi, in quanto non solo il ricorrente deve esporre i fatti su cui si fonda la domanda, ma anche il convenuto deve proporre “a pena di decadenza, le eventuali domande in va riconvenzionale e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio”; inoltre sempre il convenuto nella stessa memoria deve “prendere posizioni in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda”, sicché anche le mere difese devono essere proposte nella memoria di costituzione. Va poi notato che le preclusioni relative all’attività assertiva e quelle relative alle articolazioni istruttorie maturano contemporaneamente, nel senso che ad ogni allegazione di fatti deve corrispondere la relativa richiesta istruttoria. Il ricorrente deve infatti fornire nel ricorso introduttivo l’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione; il convenuto a sua volta deve “indicare specificamente, a pena di decadenza, i mezzi di prova dei quali intende avvalersi ed in particolare i documenti che deve contestualmente depositare”. Qui si appezza una vistosa differenza rispetto al rito ordinario: mentre in quest’ultimo la maturazione della preclusione per l’allegazione dei fatti è autonoma, e anteriore alla maturazione della preclusione per le prove, nel processo del lavoro la preclusione è contestuale sia per l’allegazione dei fatti che per l’articolazione delle relative istanza istruttorie. Nel processo del lavoro, dune, ogni barriera preclusiva si impone alle parti prima che esse si presentino al giudice. Ciò, come si è detto, per far sì che l’udienza di discussione sia 84 anche il momento in cui l giudice, avendo di fronte tutti gli elementi della causa, sia già in grado potenzialmente di decidere. In altre parole, il processo del lavoro è strutturato nel senso che il thema decidendum e quello probandum si formino prima dell’incontro tra parti e giudice all’udienza di discussione. Il processo del lavoro può essere preceduto da una fase stragiudiziale destinata alla conciliazione tra le parti peculiare rispetto al rito ordinario. Si tratta del c.d. tentativo stragiudiziale di conciliazione, introdotto come obbligatorio nel processo del lavoro con il d.lgs. 80/1998, e poi diventato faocolativo con la L. 183/2019. Il tentativo facoltativo di conciliazione stragiudiziale può svolgersi in diverse sedi: le parti potranno scegliere tra il tentativo di fronte alle commissioni presso la Direzione provinciale del lavoro, il tentativo di fronte ad organismi sindacali, ed il tentativo di fronte ad organismi sindacali secondo le modalità previste dai contratti collettivi. La domanda di conciliazione proposta davanti alla Direzione provinciale del lavoro, ai sensi dell’ART 410, produce l’effetto sostanziale dell’interruzione della prescrizione e della sospensione, per la durata del tentativo e per i 20 giorni successivi alla sua conclusione, di ogni termini di decadenza. 4. Introduzione del giudizio; contumacia, riconvenzionale, interventi La domanda introduttiva de giudizio assume la forma del ricorso contenete l’insieme degli elementi identificativi della domanda giudiziale. Ai sensi dell’ART 414 il ricorso deve infatti contenere: 1) L’indicazione del giudice; 2) Il nome e gli estremi di identificazione dell’attore e del convenuto; 3) La determinazione dell’oggetto della domanda; 4) L’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioni; 5) L’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi ed in particolare dei documenti offerti in comunicazione. Il ricorso va depositato in cancelleria con i documenti ad esso allegati, e il giudice, entro cinque giorni dal deposito del ricorso, fissa con decreto l’udienza di discussione, “alla quale le parti sono tenute a comparire personalmente”; tra il giorno del deposito e la fasta dell’udienza di discussione non devono decorrere più di 60 giorni. A questo punto l’attore ha l’onere di notificare il ricorso, integrato dal decreto di fissazione dell’udienza, al convenuto entro 10 giorni dalla data di pronuncia del decreto. Tale termine non è considerato perentorio, ma meramente ordinatorio, a condizione che, tra la data di notificazione al convenuto e quella dell’udienza di discussione, intercorra “un termine non minore di 30 giorni”. (La necessità della previa costituzione in cancelleria del ricorrente rende impossibile la contumacia dell’attore). 85 La costituzione del convenuto avviene mediante deposito in cancelleria di una “memoria difensiva”. Il deposito di tale memoria va effettuato almeno 10 giorni prima dell’udienza fissata dal giudice se il convenuto intende proporre domande riconvenzioni, ricezioni non rilevabili d’ufficio, ovvero richiedere prove; la scadenza di tale termine è fissato in fatti a pena di decenza per le eccezioni processuali e le eccezioni di merito che non siano rilevabili d’ufficio, e per le istanze istruttorie. A pena di decadenza vanno anche depositati nello stesso termine i documenti dei quali il convenuto intende avvalersi. A differenza di quanto avviene nel rito ordinario, se il convenuto intende proporre una domanda riconvenzionale, egli deve chiedere al giudice lo spostamento della prima udienza e il giudice provvede con un nuovo decreto. Tale decreto è comunicato all’attore a cura dell’ufficio, unitamente alla memoria difensiva. Lo stesso accade nel caso di intervento volontario (ART 419): l’originario testo dell’ART 419 non prevedeva né un differimento dell’udienza, né alcun obbligo per l’ufficio. La norma è stata dichiarata incostituzionale nella parte in cui attribuisce al giudice il potere-dovere di fissare una nuova udienza e di disporre che il relativo provvedimento sia notificato alle parti originarie ad iniziativa dell’ufficio, nonché sia notificato all’interveniente il decreto che fissa la nuova udienza. La C.C.ha ritenuto di dover equiparare la posizione del terzo interveniente alle parti originarie, consentendo anche ad esso di usufruire di una nuova e successiva udienza per predisporre le proprie difese. Ai sensi dell’ART 419 l’intervento volontario è ammesso fino al termine stabilito per la costituzione del convenuto, cioè 10 giorni prima dell’udienza. Ciò riduce di molto l’utilità dell’intervento o almeno la sua pratica utilizzabilità: mentre i termini per intervenire sono assai ristretti, l’interesse a intervenire potrebbe maturare anche successivamente, o a seguito di domanda riconvenzionale, o seguito comunque dell’evolversi del procedimento; tale interesse non giustifica in ogni caso l’intervento, che resta inammissibile se non compiuto entro i termini. 5. Le differenze tra rito ordinario e rito del lavoro nella fase della trattazione Dobbiamo adesso porre a confronto la disciplina del rito del lavoro con quella del rito ordinario nella trattazione. Nel rito del lavoro devono sempre essere svolti l’interrogatorio libero delle parti, il tentativo di conciliazione e, dopo la L. 183/2010, deve essere formulata una proposta transattiva ad opera del giudice che, se rifiutata senza giustificato motivo, costituisce comportamento valutabile dal giudicante ai fini della decisione. Nel rito ordinario, invece, l’udienza per lo svolgimento dell’interrogatorio libero e del tentativo di conciliazione è solo eventuale, essendo subordinata, ai sensi dell’ART 185, alla richiesta congiunta delle parti. Alcune differenze sussistono quando all’allegazione di fatti ulteriori, cioè alla possibilità di precisare e/o modificare le domande già proposte. Nel rito ordinario (ART 183), “le parti possono precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate”; stando all’ART 420, invece, “le parti possono, se ricorrono gravi motivi, modificare le 86 domande, eccezioni e conclusioni già formulate, previa autorizzazione del giudice”. La differente espressione utilizzata nelle due norme sta a significare che, nel rito ordinario, vi è per le parti un potere più ampio che sta nel rito del lavoro incidente sulla materia del contendere già formatasi con gli atti introduttivi. Anzitutto, il potere delle parti è limitato alla semplice precisazione delle domande già proposte; è escluso quindi il libero esercizio del potere di modificazione delle domande. Ne rito del lavoro è necessario che le parti motivi le ragioni della modificazione, dimostrando la sussistenza di “gravi motivi”, e che ottengano dal giudice l’autorizzazione. L’aggiustamento del tiro, rispetto a quanto già domandato o eccepito, è quindi ammesso entro margini ristretti, non solo perché non sono proponibili domande o eccezioni nuove, né sono modificabili quelle già proposte, ma anche perché l’attività di precisazione è subordinata ad una verifica di ammissibilità e alla sussistenza di motivi che spetta al giudice valutare discrezionalmente. Altra differenza rivelante tra i due riti riguarda l’istruzione probatoria. Nel rito ordinario, come si è visto, esiste una apposita fase destinata all’istruzione probatoria, nella quale, in un primo momento, le parti articolano le richieste istruttorie, e successivamente, in un secondo momento, il giudice le ammette e ne dispone l’assunzione. Nel rito del lavoro le cose stanno diversamente, in quanto la fase di istruzione probatoria, si sovrappone e confonde con quella di trattazione in senso stretto: alla medesima udienza di discussione infatti le parti precisano le domande già proposte, ed il giudice “ammette i mezzi di prova già proposti dalle parti e quelli che le parti non abbiano potuto proporre prima, se ritiene che siano rilevanti, disponendo, con ordinanza resa all’udienza, per la loro immediata assunzione”. Possiamo da ciò ricavare alcune considerazioni: a) nel rito del lavoro non vi è distinzione tra trattazione in senso stretto e istruzione probatoria, entrambe destinate a svolgersi nella udienza di discussione; b) la preclusione relativa alle richieste istruttorie matura per entrambe le parti sin dagli atti introduttivi, dovendo esse formulare in questi le relative istanze: la possibilità che anche successivamente siano articolate “ulteriori” istanze all’udienza è infatti subordinata alla dimostrazione che non si sia potuto formularle prima; si tratta quindi di una remissione in termini possibile solo se si fornisce la prova della causa non imputabile della decadenza nella quale la parte è incorsa, e l’omesso deposito degli stesso contestualmente a tale atto determinano la decadenza dal diritto di produrli, salvo che i documenti si siano formati successivamente o la loro posizione sia giustificata dallo sviluppo del processo. Ne consegue che, ove i documenti siano stati prodotti in udienza, il giudice potrà dichiarare la decadenza della parte o, in alternativa, disporre l’ammissione d’ufficio dei documenti stessi ai sensi dell’ART 421 c.2, dovendosi ritenere, in tale ultima ipotesi, che il silenzio della controparte, comporti l’accettazione del provvedimento giudiziale riammissione e dovendosi escludere che l’ordine di esibizione, a norma dell’ART 210 c.p.c. possa supplire al mancato assolvimento dell’onere della prova a carico della parte istante. 87 Naturalmente, una volta ammessi nuovi mezzi di prova, deve ammettersi anche la controparte alla formulazione delle richieste istruttorie necessarie in relazione a quelli ammessi; in questo caso, il rinvio dell’udienza è espressamente previsto come necessario; c) alla stessa udienza il giudice non solo ammette le prove richieste, ma dispone anche per la relativa assunzione. L’istruttoria nel rito del lavoro si distingue da quella del rito ordinario anche per motivi diversi dalla tempistica, motivi piuttosto collegati ai poteri ufficiosi. Il giudice del lavoro dispone di poteri più ampi del giudice ordinario, almeno per due ragioni: il giudice del lavoro a) “può disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova; b) anche fuori dai limiti stabiliti dal c.c.” (ART 421 c.2). L’ampliamento dei poteri istruttori del giudice del lavoro va quindi valutato, sia con riferimento alle disponibilità delle prove, sia con riferimento ai limiti di ammissibilità previsti ex legge. Quanto al primo aspetto (sub a), invertendo la regola dell’ART 115, nel rito del lavoro è regola generale l’ammissibilità d’ufficio di qualunque mezzo istruttorio; l’eccezione riguarda i casi in cui il mezzo istruttorio è nella sola disponibilità delle parti. Appartengono alle eccezioni il giuramento decisorio e l’acceso suol luogo del lavoro, entrambi ammissibili solo su istanza di parte (NOTA: Quanto all’accesso sul luogo del lavoro esso costituisce un mezzo di prova che rientra nella categoria delle ispezioni. L’ispezione è un mezzo di prova ammissibile d’ufficio e non rimesso alla disponibilità delle parti. Esso invece nel rito del lavoro è sottoposto alla regola opposta: disponibilità solo delle parti). Il secondo ampliamento dei poteri istruttori del giudice è nel senso che egli può ammettere tutti i mezzi di prova anche al di fuori dei limiti stabiliti dalla legge significa che il giudice ha il potere di operare una valutazione di ammissibilità del mezzo istruttorio che prescinde dalle regole di legge. La questione di pone soprattuto per l’uso della prova testimoniale, spesso limitato o precluso con riferimento ai contratti. L’ampliamento dell’ambito di ammissibilità della prova testimoniale riguarda il superamento sia dei limiti soggettivi che quelli oggettivi. Riguardo a quelli soggettivi, il giudice può “ordinare la comparizione, per interrogarle liberamente sui fatti della causa, anche di quelle persone che siano incapaci di testimoniare a norma dell’ART 246 o a cui sia vietato a norma dell’ART 247”. Qui non siamo di fronte ad un vero e proprio mezzo di prova: potendo il giudice “interrogarle liberamente” tali soggetti, egli può utilizzare le loro dichiarazioni solamente come argomento di prova e non come vere e proprie dichiarazioni testimoniali. Inoltre l’ART 247 è stato dichiarato incostituzionale per cui il divieto di testimoniare per i soggetti ivi indicati non sussiste più (coniuge, coniuge separato, figli, parenti, ecc.); con l’eliminazione della norma, tali soggetti hanno acquistato il pieno potere di testimoniare non solo nel processo ordinario, ma anche nel processo del lavoro. Un ultimo accenno meritano le c.d. ordinanze interinali. Nel rito del lavoro esiste un’apposita norma, l’ART 423, che contempla la possibilità che il giudice, nel corso dell’istruttoria, pronunci delle ordinanze a carattere anticipatori in quanto destinate ad 88 anticipare gli effetti condannatoti della sentenza. Di un analogo tipo di ordinanze ne abbiamo già parlato, quando si è affrontato il tema dell’ART 182-bis-ter-quater. Da questo punto di vista, il processo del lavoro ha aperto la strada a quello ordinario, in quanto la decisione di inserire le ordinanze anticipatori anche nel rito ordinario di cognizione nasce proprio dal fatto che esse erano state sperimentate nel rito del lavoro. In linea generale, lo schema è praticamente lo stesso iim entrambi i riti, con la differenza che i c.2-3 ART 423 si distinguono dal tre e quater in quando la prima è un’ordinanza pronunciabile solo a favore del lavoratore, per il pagamento di somme di denaro, quando si è raggiunta la prova dell’esistenza del diritto e nei limiti della quantità per la quale tale prova è stata raggiunta. 6. Differenze tra rito ordinario e rito del lavoro nella fase decisoria Si devono a questo punto analizzare le differenze tra rito ordinario e rito del lavoro relative alla fase decisoria. Anche nel rito del lavoro è possibile la pronuncia di sentenze non definitive, quando il giudice istruttore ritiene idonee a definire il giudizio talune questioni di rito o di merito, le quali si rivelino poi infondate al momento della decisione: l’ART 420 c.4 prevede infatti che il giudice possa pronunciare sentenza se “sorgono questioni attinenti alla giurisdizione o alla competenza o ad altre pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio” (NOTA: Il meccanismo è lo stesso di quello che si applica nel rito ordinario, occorrono però alcune precisazioni. In primo luogo l’ART 420 c.4 sembrerebbe richiamare solo le questioni pregiudiziali di rito e non anche di merito; sicché si era posto in passato il dubbio se fosse contemplata anche nel processo del lavoro la possibilità di una sentenza non definitiva di merito. Il dubbio è oramai pacificamente eliminato a favore dell’ammissibilità anche si sentenze non definitive di merito, oltre che di rito. In secondo luogo, la norma stabilisce che “il giudice invita le parti alla discussione” sulla questione pregiudiziale eventualmente sorta; perciò, mentre nel processo ordinario, anche quando è domandata la remissione in decisione su una questione pregiudiziale, le parti sono invitate a precisare interamente le conclusioni su tutto il merito, lo stesso non può dirsi per il rito del lavoro: quando la causa è rimessa in decisione su una questione pregiudiziale di rito, le parti sono chiamate a formulare le conclusioni solo quella questione e non su tutto il merito). Vediamo ora le caratteristiche proprie della sentenza nel rito del lavoro. Anzitutto la decisione dovrebbe avvenire all’esito dell’udienza di discussione. Non si esclude però la possibilità di un rinvio dell’udienza: la sentenza andrà pronunciata all’esito di tale successiva udienza con lettura del dispositivo e dell’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. La sentenza dovrà essere depositata successivamente in cancelleria entro 15 giorni dalla sua lettura in udienza. La lettura in udienza dà peraltro al lavoratore, che ottenga la condanna del datore, un immediato titolo esecutivo: lo si ricava dal combinato risposto del c.1 ART 431: “Le sentenze che pronunciano condanna a favore del lavoratore per crediti derivanti dai 89 rapporti di cui all’ART 409 sono provvisoriamente esecutive” e del c.2: “All’esecuzione si può procedere con la sola copia del dispositivo, in pendenza del termine per il deposito della sentenza”. La sentenza resa su rapporti di lavoro presenta poi una sua particolarità sul piano sostanziale. L’ART 429 c.3 stabilisce che “il giudice, quando pronuncia la sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito, condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto”. Si tratta di una disposizione il cui contenuto non è di carattere strettamente processuale, ma sostanziale, in quanto deroga alla regola generale dell’ART 1224 c.c., secondo la quale il maggior danno da svalutazione monetaria spetta a colui che vanta un credito di denaro solo qualora esso sia specificatamente provato. Più precisamente, quando il credito è “di lavoro”, la disposizione dell’ART 1124 c.c. non si applica in quanto il giudice è tenuto a condannare al maggior danno da svalutazione monetaria, cumulandolo alla condanna al pagamento degli interessi legali, anche a prescindere dalla dimostrazione effettiva del maggior danno subito dal lavoratore. La norma è stata peraltro interpretata in senso ampio dalla giurisprudenza: a) le somme da rivalutazione spettano al lavoratore in via automatica, dovendo in questo senso provvedere il giudice d’ufficio, anche in assenza di una specifica domane; b) la rivalutazione decorre, come gli interessi, “dal giorno della maturazione del diritto”, non essendo necessario alcun atto di costituzione in mora; c) non ha rilievo alcuno la situazione soggettiva di dolo o colpa del datore di lavoro-debitore nel ritardato adempimento, sicché tale situazione soggettiva non deve essere dimostrata dal lavoratore-creditore; d) il cumulo si applica a qualunque credito di lavoro, sia di natura indennitaria che risarcitoria, e non solo al diritto alla retribuzione. 7. Differenze tra rito del lavoro e rito ordinario in appello Una particolare disciplina è dettata anche con riferimento all’appello nel rito del lavoro, a differenza degli altri mezzi di impugnazione che restano assoggettai alle regole ordinarie. Giudice competente in appello è la Corte d’Appello territorialmente competente: ART 433. Atto introduttivo è il ricorso. L’appello si costituisce con memoria difensiva; il termine per la costituzione tempestiva è 10 giorni prima dell’udienza. Entro tale termine egli dvd proporre l’appello incidentale, il quale a sua volta va notificato all’appellante a cura dell’appellato. Anche l’appello dovrebbe svolgersi in una sola udienza, ma sappiamo già che non è così. Veniamo ai nova ammissibili in appello. Prima della riforma del 1990 si potevano ravvisare sensibili differenze tra rito ordinario e rito del lavoro, essendo l’appello del rito ordinario caratterizzato da una maggiore apertura verso l’introduzione di novità. Con la riforma del 1990, invece, nel trasformare il giudizio di appello del processo ordinario in un giudizio “chiuso”, tale procedimento è stato assimilato a quello del lavoro, già da tempo fondato sul divieto di nova. 90 Non sono ammesse quindi domande nuove; tuttavia, in simmetria con quanto previsto per il rito ordinario dell’ART 345, anche nel rito del lavoro sono ammesse le domande che hanno carattere consequenziale, relative ai frutti, accessori o al risarcimento del danno maturati dopo la sentenza di primo grado. Come nel rito ordinario, vi è poi il divieto di eccezioni nuove, ma anche qui il divieto non si estende alle eccezioni processuali e di merito rilevabili d’ufficio. Anche i nuovi mezzi di prova non sono ammessi, ad eccezione del giuramento decisorio e di quelli che il collegio ritiene indispensabili ai fini della decisione della causa. La nozione di indispensabilità, tenuto conto della genericità dell’espressione, ha da subito suscitato dubbi interpretativi, i quali, si sono riversati poi nella riformulazione dell’ART 345, per il rito ordinario. Una peculiarità dell’appello del rito del lavoro è la possibilità di proporre il c.d. appello con riserva di motivi. Ciò dipende dalla tecnica di pronuncia della sentenza di primo grado e dall’efficacia immediatamente esecutiva della sua lettura in udienza per crediti a favore del lavoratore. Contro la sentenza di primo grado come documento pubblicato in cancelleria, l’appello può essere proposto secondo regole e termini ordinari decorrenti dal deposito, e la sospensione della provvisoria esecuzione può essere domandata quando ricorrono “gravi motivi”, non diversamente da quanto avviene per la sentenza di primo grado del processo ordinario. Particolare è invece l’appellabilità della sentenza di condanna per crediti a favore del lavoratore, provvisoriamente esecutiva, a seguito della sua lettura in udienza, prima del deposito in cancelleria. In questo caso, viene data la possibilità al datore di lavorosoccombente di impugnare subito senza attendere il successivo deposito. Il datore di lavoro-soccombente potrebbe infatti avere tutto l’interesse a proporre immediatamente appello per domandare che sia sospesa l’esecuzione già iniziata. “Riserva dei motivi” significa che i motivi specifici del gravame potranno e dovranno essere depositati successivamente, solo dopo il deposito della sentenza; l’atto di integrazione dei motivi non costituisce quindi un vero e proprio atto di impugnazione, ma contiene solo le ragioni di doglianza che l’appellante non ha potuto esporre prima. I presupposti per la sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza di condanna a favore del lavoratore consistono nella prova di un “gravissimo danno”. Un’ultima considerazione, con riferimento all’appello con riserva dei motivi. Presupposto per domandare la sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado è che “l’esecuzione sia iniziata”. Cosa si intende per esecuzione iniziata? E’ necessario che sia stato compiuto il pignoramento o basta la sola notifica dell’atto di precetto? La giurisprudenza della Corte sembra indirizzata verso il primo senso. 8. Le controversie previdenziali Il rito del lavoro trova applicazioni anche nelle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie. Competente è il tribunale nella cui circoscrizione ha residenza l’attore (ART 444), salvo che per le controversie relative agli obblighi dei datori di lavoro 91 e all’applicazione delle sanzioni civili per l’inadempimento di tali obblighi per le quali è competente il tribunale del luogo in cui ha sede l’ufficio dell’ente. Le domande relative alle controversie previdenziali sono assoggettate ad alcune condizioni di procedibilità. In linea generale, la causa può essere trattata solo dopo l’esaurimento dei procedimenti previsti dalla legge per la composizione in sede amministrativa, o il decorso dei termini fissati per il compimento dei procedimenti stessi, o dopo che siano comunque decorsi 180 giorni dalla data in ciii è stato proposto ile incorso amministrativo. L’avveramento della condizione di procedibilità è accertato dal giudice alla prima udienza; l’eventuale riscontro dell’improcedibilità della domanda impone di sospendere il giudizio e di fissare all’attore un termine perentorio di 60 giorni per presentare il ricorso in via amministrativa; il processo deve esser riassunto nel termine perentorio di 180 giorni decorrenti dalla cessazione della causa di sospensione. Per alcune specifiche controversie (invalidità, ad esempio) la condizione di procedibilità è particolare. In tali casi l’attore è infatti tenuto a proporre istanza di accertamento tecnico per la verifica preventiva delle condizioni sanitarie che possono giustificare la pretesa fatta valere. In altre parole egli non può proporre direttamente domanda di accertamento del proprio diritto, ma deve procedere attraverso la richiesta di accertamento tecnico preventivo di cui all’ART 696-bis e sottoporsi quindi ad una consulenza tecnica in via preventiva. Terminate le operazioni di consulenza il giudice fissa alle parti un termine entro il quale queste debbono comunicare in cancelleria se intendono contestare le conclusioni raggiunte dal consulente tecnico. In caso di mancato accordo, la parte che dichiari di contestare le conclusioni del consulente ha l’onere di depositare il ricorso introduttivo del giudizio entro il termine perentorio di 30 giorni dalla formulazione della dichiarazione di dissenso specificando, a pena di inammissibilità, i motivi della contestazione. In assenza di contestazione, viceversa, il giudice omologa con decreto l’accertamento del requisito sanitario secondo le risultanze probatorie indicate nella relazione del consulente tecnico, provvedendo sulle spese. La ratio di questo meccanismo è evidentemente quella di permettere di trattare in sede di giurisdizione contenziosa solo i casi in cui residui una genuina controversia dopo l’accertamento tecnico ante causam. CAPITOLO 49. IL PROCEDIMENTO SOMMARIO DI COGNIZIONE 1. La natura del procedimento Tra i procedimenti speciale il c.p.c. colloca l rito sommario di cognizione regolato dagli ARTT. 702-bis a 702-quater. Tuttavia, al di là del nomea, il procedimento in questione di veramente “sommario” ha poco, dal momento che esso riproduce molte delle caratteristiche proprie del rito ordinario di cognizione disciplinato dagli ARTT. 163 ss. Non vi sono dubbi invece sul fatto che si tratti di rito facoltativo alternativo a quello ordinario, nel senso che spetta a chi deve proporre la domanda scegliere liberamente tra questo procedimento e quello ordinario. 92 (Sicuramente, chi vuole proporre una domanda ordinaria può scegliere, in alternativa, le forme sommarie dell’ART 702-bis e ss. Più difficile è pensare che la medesima alternativa si apra a chi deve introdurre una controversia assoggettata ad un rito speciale quale, ad esempio, lo speciale rito a cognizione piena del lavoro). A prescindere dalla sua natura, la logica è quella di costruire un modello veloce che consenta di ottenere la decisione in tempo brevi. Queste le linee di fondo: a) l’ambito di applicazione è ampio; b) il provvedimento segue all’espletamento del contraddittorio; c) l’istruttoria è semplificata, ma non al punto di sottrarre dall’onere della prova alcuni elementi della fattispecie; d) la decisione è resa con ordinanza; e) l’ordinanza è impugnabile e se non impugnata, essa è idonea alla formazione della cosa giudicata non diversamente dalla sentenza pronunciata nel giudizio ordinario, f) ove manchino le condizioni per la pronuncia sommaria, il procedimento può seguire secondo modalità e tecniche del giudizio ordinario. 2. L’ambito di applicazione e la competenza Di regola la costruzione di modello sommari trova giustificazione nell’esigenza di ottenere nel breve un titolo esecutivo, ed è perciò funzionale al conseguimento rapido di provvedimenti di condanna. Diversamente, questo rito ha una portata molto più ampia, potendo la relativa ordinanza avere tanto un contenuto di condanna, quanto di accertamento o costitutivo. In pratica, esso opera per tutte le cause che rientrano nella competenza del tribunale in composizione monocratica, a prescindere dal contenuto della domanda: ART 702-bis. Argomentando a contrario, esso non si applica alle cause di competenza del giudice di pace, a quelle di competenza del tribunale in composizione collegiale, e a quelle della Corte d’Appello. La competenza per territorio si determina invece secondo gli ordinari criteri degli ARTT 18 ss. 3. La fase introduttiva La domanda si introduce con ricorso. Il ricorso deve contenere tutti gli elementi propri dell’atto di citazione, nonché l’avvertimento che in caso di mancata tempestiva costituzione, il convenuto incorrerà nelle decadenza di cui agli ARTT 38 e 167. Come nel processo ordinario, anche qui, in ipotesi di mancata tempestiva costituzione, maturano le preclusioni per il convenuto, il quale, se si costituisce tardivamente, perde il 93 potere di eccepire domanda riconvenzionale, eccezioni in senso stretto, eccezione di competenza. Non maturano invece preclusioni quanto all’articolazione di mezzi di prova. Atto di costituzione è la comparsa di risposta depositata in cancelleria. Come in tutti i procedimenti introdotti da ricorso, anche qui, l’atto introduttivo va prima di tutto depositato in cancelleria; il cancelliere forma il fascicolo d’ufficio e lo presenta al presidente del tribunale, il qual designa il magistrato che deve svolgere la trattazione. Spetta poi allo stesso giudice fissare l’udienza di comparizione delle parti, nonché il termine per la costituzione del convenuto, la quale deve avvenire non oltre 10 giorni prima dell’udienza. Ricorso e decreto di fissazione dell’udienza devono essere notificati al convenuto almeno 30 giorni prima della sua costituzione. 4. L’udienza e i suoi esiti L’udienza è la sede in cui sono sentite le parti, senza formalità. Il giudice che ha cioè un ampio potere discrezionale di disciplinare lo svolgimento, sia quanto alla necessità di assicurare il contraddittori, sia quanto allo svolgimento dell’istruttoria, quando richiesta. Questi i possibili esiti: a) il giudice può ritenersi incompetente. La relativa decisione è resa con ordinanza; b) sempre con ordinanza, il giudice chiude la causa in rito quando rileva la sussistenza di un vizio processuale insanabile o sanabile ma non sanato, nonché quando deve dichiarare l’estinzione del processo; c) con ordinanza non impugnabile dichiara l’inammissibilità della domanda quando è proposta nelle forme sommarie una domanda che fuoriesce dal suo ambito di applicazione; d) l’ordinanza non impugnabile anche la forma per disporre la conversione del processo sommario in processo ordinario quando “le difese svolte dalle parti richiedono una istruzione sommaria”. In questo caso, la complessità della causa impedisce la decisione con ordinanza e impone, al contrario, la prosecuzione del professe nelle forme ordinarie, nonché la sua conclusione con sentenza; e) la causa può essere esaminata e decisa nelle forme sommaria. Qui si pongono in risalto i caratteri propri della natura sommaria del rito: il giudice procede “omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto”. f) quando nel processo è proposta una domanda riconvenzionale, la quale richiede un’istruzione non sommaria, piuttosto che conservare il cumulo, la legge preferisce conservare la trattazione sommaria, laddove possibile; sicché il giudice dispone la separazione delle cause, consentendo la decisione sommaria della causa principale, e la prosecuzione nelle forme ordinarie della domanda che non consente un’istruzione sommaria. 5. L’ordinanza e la sua efficacia 94 Tenuto contro del vasto ambito applicativo del procedimento sommario, l’ordinanza che accoglie nel merito la causa può essere tanto di condanna, quanto costitutiva o di accertamento. Nella prima ipotesi, essa, oltre ad essere titolo esecutivo, è anche titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale. La sua funzione corrisponde a quella del decreto ingiuntiva, anche se mutano presupposti per la concessione. Quando decide di domande trascrivibili, l’ordinanza è anche titolo per la trascrizione. Dal momento poi che si tratta di ordinanza a contenuto decisorio, che chiude il processo davanti al giudice adito operano per essa le tegole sulla condanna alle spese; sicché, essa conterrà sempre il capo relativo alla liquidazione delle spese di giudizio ai sensi degli ARTT. 91 ss. Quanto alla stabilità del provvedimento, la legge è chiara nel disporre che tale ordinanza “produce gli effetti di qui all’ART 2909 c.c. se non è appellata entro 30 giorni dalla sua comunicazione o notificazione”. (ART 702-quater). Si tratta quindi di ordinanza che non sol decide su diritti, ma è anche potenzialmente stabile in quanto idonea a passare in giudicato come avviene per qualsiasi sentenza di equivalente contenuto. 6. Le impugnazioni L’ART 702-quater regola l’appello, ma con una disciplina piuttosto scarna e insufficiente. L’ordinanza sommaria è appellabile entro 30 giorni dalla sua comunicazione o notificazione. Ancorché nulla dica la legge, pare potersi ritenere che si tratti di un appello ordinario, la cui disciplina è mutabile da quella degli ARTT 339 ss. ma con delle modifiche. Tenuto contro del carattere sommario del primo grado, il giudizio di secondo grado è, ad esempio, aperto all’introduzione di nova, a differenza di quanto avviene nuovi mezzi di prova e nuovi documenti “quando il collegio li ritiene rilevanti per la decisione, o la parte dimostra di non aver potuto proporli nel corso del procedimento sommario per causa ad essa non imputabile”. Il criterio della “rilevanza” consente di ammettere qualsiasi mezzo di prova, secondo le regole ordinerei. Non si capisce perciò che bisogno ci sia di dimostrare di non aver potuto proporre le prove nel corso del procedimento sommario per causa non imputabile. In altri termini quali prove possono essere ammesse secondo quest’ultimo criterio di carattere soggettivo che non siano contestualmente anche “rilevanti”. Si deve perciò ritenere che la precisione della remissione in termini per causa non imputabile sia superflua e che, piuttosto, sia consentita in appello l’introduzione di qualsiasi richiesta istruttoria a condizione che superi positivamente il vaglio di ammissibilità e rilevanza. Se l’appello punta a restituire una cognizione piena che è mancata in primo grado si deve pensare, anche se nel silenzio della legge, che la decisione sia resa con sentenza, a sua volta impugnabile in C. ai sensi dell’ART 360. (La forma dell’appello, non è chiaro se l’impugnazione debba essere fatta nella forma del ricorso o della citazione. A favore dl ricorso si è considerato che la domanda introduttiva in primo grado è un ricorso, e che la forma dell’appello 95 dovrebbe ricalcare quella della domanda originaria. In contrario si sostiene che la previsione del ricorso avrebbe solo per il primo grado ma non per l’appello ce conserverebbe il suo carattere di appello a rito ordinario; a questo punto si aggiunge che, dove la legge ha voluto ricalcare in appello le forme del primo grafo, essa ha espressamene imposto l’impiego del ricorso). 50. IL PROCEDIMENTO D’INGIUNZIONE 1. Condizioni di ammissibilità La tecnica dell’ingiunzione dà luogo ad uno speciale procedimento, detto “monitorio”, opzionale rispetto al processo a cognizione ordinaria. Esso può essere azionato dal creditore di una somma liquida di denaro, o di una determinata quantità di cose fungibili, o ancora della consegna di una cosa mobile determinata che sia in possesso della prova scritta del proprio diritto. La prova scritta da allegare al ricorso per decreto ingiuntivo non coincide necessariamente con la prova documentale del processo a cognizione ordinaria. Infatti, ai sensi dell’ART 634, sono prove scritte idonee alla connessione di un decreto ingiuntivo anche le polizze e le promesse unilaterali per scrittura privata ed i telegrammi, anche se privi dei requisiti previsti dal c.c; nonché, per i crediti relativi a somministrazioni di merci e di denaro e per le prestazioni di servizi fatte da imprenditori commerciali, anche agli estratti autentici delle scritture contabili previste dal c.c., purché bollate, vidimate e regolarmente tenute. Il successivo ART 635, per i crediti dello Stato, considera prove idonee anche i libri e registri della PA, quando un pubblico funzionario autorizzato o un notaio ne attesti la regolare tenuta e, per i crediti derivanti da omesso versamento dei contributi agli enti previdenziali, gli accertamenti dell’ispettorato del lavoro. In alcune ipotesi particolari è possibile accedere al procedimento d’ingiunzione anche se manca la prova scritta del credito. Si tratta dei crediti per onorari e spese di chi (es. avvocati) ha prestato la sua opera nel corso di un processo. In gli casi è sufficiente allegare al ricorso la parcella elle spese e prestazioni sottoscritta dal creditore. 2. La domanda e il procedimento Il procedimento monitorio si caratterizza per la sua estrema semplificazione. Esso inizia con un ricorso presentato la giudice che sarebbe competente a decidere la controversia in sede di cognizione ordinaria (e quindi GDP o tribunale), che, oltre ai requisiti richiesti per gli atti di parte, deve contenere l’enunciazione del diritto di cui si chiede tutela e l’indicazione della prova scritta di questo diritto. Ove si faccia valere un credito condizionato o collegato a duna controprestazione, il ricorso deve altresì contenere elementi dai quali risulti l’avveramento della condizione o l’adempimento della controprestazione; laddove invece si chieda la consegna di cose fungibili, è necessaria 96 l’indicazione della somma di denaro che il creditore è disposto ad accettare in mancanza della prestazione di natura. Il ricorso, che non è notificato alla controparte, ma è depositato unitamente ai documenti giustificativi nella cancelleria del giudice competente, contiene la richiesta di pronunciare senza contraddittorio, sulla sola base della prova scritta offerta, un decreto che ingiunga alla controparte di eseguire la prestazione dovuta. La proposizione del ricorso non produce gli effetti tipici della domanda giudiziale: non interrompe la prescrizione, non impedisce le decadenza, ecc. Tali effetti (di pendenza della lite) sono ricollegati dalla legge al successivo evento della notificazione del decreto ingiuntivo eventualmente pronunciato in accoglimento del ricorso. Se il giudice, dalla lettura del ricorso e dei documenti allegati ritiene non sufficientemente provata la richiesta del creditore, lo invita ad integrare la documentazione. Se questi non procede ad integrare la documentazione, il giudice rigetta la domanda con decreto motivato non impugnabile, senza che ciò pregiudichi la riproposizione della domanda sia in sede ingiuntiva che in sede ordinaria. Al contrario, se il giudice ritiene provata l’esistenza del diritto, pronuncia inaudita altera parte un decreto di condanna, con il quale ingiunge al debitore di adempiere nel termine di 40 giorni, con l’avvertimento espresso che, entro il medesimo termine, è possibile proporre opposizione e che, in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata. Tale decreto, che viene redatto in calce al ricorso, è, al pari di una sentenza di condanna, un provvedimento idoneo a consolidarsi ove non tempestivamente impugnato. Esso normalmente non è esecutivo ma diventa tale a seguito dell’inutile decorrenza del termine per proporre opposizione. In alcuni casi, tuttavia, il decreto può nascere già provvisoriamente esecutivo nel senso dell’ingiunzione al debitore di adempiere immediatamente con l’autorizzazione al creditore a procedere, in mancanza, ad esecuzione forzata. In tal caso l’esecutività non è subordinata al decorso del termine di 40 giorni dalla notifica del decreto, onde il termine servirà solo a segnare il momento in cui non sarà più possibile proporre opposizione. La concessione dell’esecuzione provvisoria è, a seconda delle circostanze, dovuta ovvero a soggetta ad una valutazione discrezionale da parte del giudice. Ricorre la prima ipotesi quando il credito è fondato su cambiale, assegno, certificato di borsa o atto notarile; ricorre invece la seconda ipotesi quando il giudice ritenga sussistente il pericolo di un grave pregiudizio nel ritardo, ovvero il ricorrente alleghi al ricorso un documento sottoscritto dal debitore dal quale risulti l’esistenza del credito. Poiché il decreto ingiuntivo è emesso inaudita altera parte, al fine di consentire la realizzazione del contraddittorio con il debitore ingiunto, il decreto deve essere notificato a quest’ultimo entro 60 giorni dalla sua concessione, altrimenti diventa inefficace. Con la notificazione del decreto, che determina tra l’altro la pendenza della lite, il debitore ingiunto è messo in condizione di reagire: se intende farlo, egli deve opporsi al decreto nel termine di 40 giorni dal ricevimento della notifica; in mancanza di tempestiva opposizione il decreto diventa esecutivo e comunque definitivo. In tal caso si realizza pienamente l’esigenza di semplificazione che presiede al procedimento ingiuntivo: alla notifica del decreto non seguita dall’opposizione nei 40 giorni prescritto dall’ART 645, 97 corrisponde il massimo della semplificazione con realizzazione piena dello scopo dell’istituto. 3. L’opposizione Qualora il debitore ingiunto voglia contestare l’esistenza o l’ammontare della pretesa del creditore, deve attivarsi instaurando nel termine di 40 giorni dalla notificazione del decreto, il giudizio di opposizione. Tale giudizio va proposto davanti allo stesso ufficio giudiziario che ha emesso il decreto, ed è introdotto con atto di citazione, o con ricorso. Il seguito del giudizio di opposizione, si svolge pertanto secondo la tipologia di processo imposta dal diritto imposta dal diritto fatto valere (NOTA: l’ART 645 stabiliva che “i termini di comparazione sono ridotti alla metà. Tale previsione è stata prevalentemente interpretata dalla giurisprudenza nel senso che il termine di costituzione dell’opponente a decreto ingiuntivo sia ridotto a 5 giorni rispetto ai normali 10 allorché abbia egli assegnato all’opposto un termine di comparizione inferiore a quello ordinario). Caratteristica del giudizio di opposizione è l’inversione formale dei ruoli delle parti: nell’opposizione l’originario creditore ingiungente assume la veste formale di convenuto, malgrado egli abbia formulato la doma di tutela del credito, e debba essere dunque considerato attore sul piano sostanziale; viceversa il debitore ingiunto, prendendo l’iniziativa dell’opposizione, assume la veste formale di attore, malgrado la sua posizione di convenuto in senso sostanziale, trattandosi di colui nei cui confronti la domanda di condanna è stata proposta. Tale inversione formale si riflette anche sul contenuto degli atti, nel senso cioè che la citazione in opposizione ha il contenuto della comparsa di risposta, e dunque comprende i fatti modificativi, estintivi, e impeditivi del diritto fatto valere la eventuali domande riconvenzioni. L’inversione dell’iniziativa processuale non determina però una inversione dell’onere della prova: il creditore (convenuto in opposizione) deve provare i fatti costitutivi del suo diritto, il debitore ingiunto (attore in opposizione) deve provare i fatti motificativi, impeditivi, e estintivi del suo diritto. Oggetto del giudizio di opposizione è lo stesso diritto di credito per il quale è stato emesso il decreto ingiuntivo; a differenza però di quanto accade nella fase sommaria, il giudice, nel corso del giudizio di opposizione, deve accertare l’esistenza del diritto secondo le norme della cognizione piena. Pertanto il creditore, in questa sede non può avvalersi delle semplificazioni probatorie ammesse nella fase sommaria, ma deve utilizzare solo i mezzi di prova previsti per il giudizio a cognizione ordinaria. Qualora il decreto ingiuntivo non sia stato dichiarato provvisoriamente esecutivo ex 642, il giudice che ne sia richiesto può concedere, alla prima udienza del giudizio di opposizione, la provvisoria esecuzione del decreto quando l’opposizione non è fondata su prova scritta o di pronta soluzione, o se l’istante offre cauzione. Specularmente, se il decreto ingiuntivo comporta anzitutto l’uscita di scena del credito ingiuntivo che perde ogni efficacia, compresa quella esecutiva qualora ne fosse già munito. La regolamentazione dei rapporti tra le parti resta affidata alla sentenza di accoglimento. La sentenza che definisce il giudizio sostituisce integralmente il decreto 98 ingiuntivo anche nel caso di accoglimento parziale dell’opposizione; sarà essa a fungere da titolo esecutivo per la minore somma o quantità riconosciuta, ma gli atti di esecuzione eventualmente già compiuti sulla base del decreto provvisoriamente esecutivo conservano la loro efficacia nei limiti della minor somma o quantità riconosciuta. Il decreto ingiuntivo sopravvive invece, quale titolo del credito, alla sentenza che rigetta in toto l’opposizione: se l’opposizione è rigettata “con sentenza passata in giudicato o provvisoriamente esecutiva … il decreto, che non ne sia già munito, acquista efficacia esecutiva” I(ART 653). Il decreto sopravvive anche in caso di estinzione del procedimento di opposizione. 4. L’opposizione tardiva e le altre impugnazioni straordinarie Il decreto ingiuntivo non opposto nei termini diventa esecutivo e definitivo; potrebbe però accadere che la mancata opposizione non sia dipesa da scelta consapevole del debitore ingiunto, ma da circostanze a questi non impugnabili. Se infatti il debitore prova che, a causa di irregolarità nella notificazione o per caso fortuito o per fora a maggiore, non ha avuto conoscenza del decreto, può proporre opposizione anche dopo che sia decorso il termine di 40 giorni, purché siano decorsi 10 giorni dal primo atto di esecuzione di decreto. La C.C. ha ampliato i casi in cui è possibile proporre una opposizione tardiva, riconoscendo altresì al debitore la possibilità di proporla quando abbia avuto conoscenza del decreto ingiuntivo ma non sia riuscito a proporre opposizione tempestiva per caso fortuito e forza maggiore. Anche nel giudizio tardiva, in presenza di un decreto ingiuntivo definitivo , l’ART 656 ammette, quali impugnazioni straordinarie, la revocazione nei casi indicati nei numeri 1) 2) 5) e 6) ART 395 , da parte dei soggetti individuati dall’ART 404 c.2, l’opposizione di terzi c.d revocatoria. CAPITOLO 51. IL PROCEDIMENTO PER CONVALIDA DI LICENZA O DI SFRATTO 1. I presupposti di ammissibilità Il procedimento per convalida di licenza o sfratto presenta, come quello per ingiunzione, forti differenze di struttura rispetto al processo di cognizione regolato, al Libro II del codice, dagli ARTT. 163 ss. Esso mira a permettere al locatore o concedente in affitto di procurarsi velocemente un titolo esecutivo per il rilascio dell’immobile locato o affittato, dietro verifica dei presupposti stabiliti dalla legge per il rilascio. La sua disciplina è dettata dagli ARTT. 657-669, collocati nel Libro IV del codice, intitolato ai “Procedimenti speciali”, a cui si aggiungono altre disposizioni esterne al codice, in quanto contenute nella L. 392/1978. (c.d. “legge sull’equo canone). Il procedimento è alternativo all’ordinario processo di cognizione e si può utilizzare per la tutela del diritto alla restituzione di un bene immobile concesso in locazione, in affitto a 99 coltivatore diretto, oppure conferito in esecuzione di alcuni contratti agrari di tipo associativo. Queste ipotesi sono tassative: il procedimenti non può essere utilizzato se il diritto alla restituzione derivi da un contratto diverso da quelli elencati, con la conseguenza che, in quest’ultimo caso, si potrà perseguire la restituzione solo con un ordinario processo di cognizione. Parti del processo saranno perciò il locatore o il concedente (attore); il conduttore / affittuario / mezzadro / colono (convenuto). Secondo gli ARTT. 657 (intimazione di licenza e di sfratto per finita locazione) e 658 (intimazione di sfratto per morosità), l’attore può intimare al convenuto: a) licenza per finita locazione; l’ipotesi ricorre quanto il rapporto di locazione è ancora in corso al momento dell’intimazione, ma l’attore vuole ottenere subito un titolo esecutivo per il rilascio dell’immobile da far valere quando il contratto sarà scaduto; b) sfratto per finita locazione; l’ipotesi ricorre, a differenza della precedente, quando il contratto è già scaduto al momento dell’intimazione, e non è stato tacitamente rinnovato; c) sfratto per morosità; l’ipotesi ricorre quando il convenuto non ha corrisposto il canone alla scadenza pattuita. L’ART 5 della L del 1998 stabilisce che, se il conduttore ritarda di 20 giorni nel pagamento del canone o degli oneri accessori, il locatore gli può intimare lo sfratto. In tal caso il locatore può anche chiedere che il giudice pronunci, insieme alla convalida dello sfratto, anche un decreto ingiuntivo per il pagamento dei canoni. 2. Il procedimento. Forma ed effetti della domanda La domanda si propone con citazione, cioè con l’atto descritto all’ART 163. L’ART 660 precisa però che la citazione per la convalida di licenza o di sfratto deve contenere, invece dell’invito al convenuto a costituirsi almeno 20 giorni prima dell’udienza, e dell’avvertimento che in difetto incorrerà nelle decadenza previste dall’ART 167, una diversa indicazione: se non compare all’udienza indicata, o, pur comparendo non si oppone, il giudice convalida la licenza o lo sfratto. La competenza appartiene, al tribunale, mentre il foro (inderogabile) è quello del luogo in cui si trova la cosa locata (ART 661). L’atto introduttivo ha un contenuto complesso: è un involucro unico che cumula insieme un atto di natura sostanziale ed un atto di natura processuale. Carattere sostanziale riveste l’intimazione quale atto di volontà inteso a risolvere il contratto; esso dunque può considerarsi equivalente, da questo punto di vista a qualunque atto avente lo stesso contenuto. Carattere processuale riveste invece la citazione volta alla convalida degli effetti dell’intimazione, quale forma della domanda giudiziale di accertamento della conformità alla legge dell’esercizio del potere e di concessione del titolo esecutivo per il rilascio. La citazione va notificata al destinatario dell’intimazione (intimato) che assume così il ruolo di convenuto. 100 Poiché il procedimento è molto formalizzato e poiché l’assenza dell’intimato può condurre ad un provvedimento immediato di convalida, la legge predispone alcune cautele allo scopo di evitare il più possibile che l’intimato resti ignaro della citazione, e conseguentemente non compaia all’udienza, facendo scattare il meccanismo della convalida. A tale fine l’ART 660 prevede che la citazione sia notificata al domicilio reale e non a quello eletto. La notifica della citazione apre una fase del procedimento che si definisce “monitoria”: le modalità del giudizio sono strettamente formalizzate ed il giudizio di merito è fortemente condizionato dalla posizione assunta dalle parti valutata secondo precisi criteri formali, predeterminati dalla legge. Si tenga però presente che qui il termine monitorio non si riferisce ad un procedimento senza contraddittorio: nel procedimento per convalida di sfratto il contraddittorio è garantito in ogni fase, come appare chiaro dall’impiego del meccanismo della citazione notificata all’intimato. 2.1. La fase sommaria Esaminiamo ora la posizione delle parti. Se l’intimante non compare all’udienza per la quale è stato citato, gli effetti dell’intimazione cessano: così l’art 662. La natura anfibia dell’atto impone di precisare che la cessazione riguarda i soli effetti processuali, non quelli sostanziali della citazione, con la conseguenza che viene meno la pendenza del processo, e con essa la possibilità di ottenere un titolo esecutivo per il rilascio. Restano invece in vita gli effetti sostanziali relativi alla disdetta: il contratto deve considerarsi quindi come venuto meno. (Attenzione. Ciò accade purché non si tratti di sfratto per morosità. Qui infatti la risoluzione del contratto per il mancato pagamento di canoni ed oneri accessori nella misura indicata dall’ART 5 L 1978, si ottiene solo con il procedimento speciale che culmina nell’ordinanza di convalida. Se l’ordinanza non viene emessa, o gli effetti dell’intimazione cessano, viene meno anche l’effetto risolutivo). Se invece all’udienza contemplata in citazione non compare l’intimato, o esso, pur comparendo non contesta la domanda, il giudice dispone, con ordinanza, la convalida della licenza o dello sfratto. In tal caso l’attore, oltre ad aver ottenuto la risoluzione del contratto, ha anche ottenuto subito un titolo esecutivo per il rilascio dell’immobile. Tale titolo è costituito dall’originale dell’ordinanza di convalida, in calce alla quale il giudice ordina di apporre la formula esecutiva: così l’ART 663. Nell’ipotesi in cui lo sfratto sia stato intimato, ai sensi dell’ART 658, per morosità, affinché il giudice possa emettere l’ordinanza è necessario un ulteriore requisito: il locatore deve attestare che la morosità persiste, cioè che nel periodo tra la notifica della citazione e l’udienza i canoni e/o le spese accessorie dovute non sono state comunque pagate. 101 Se invece il pagamento è avvenuto, sia pure dopo l’iniziativa processuale dell’attore e persino all’udienza, il giudice non può emettere la convalida. Il legislatore preferisce infatti evitare di privare il contenuto del bene se egli ha comunque pagato il dovuto. Proprio a causa dei gravi effetti legati alla mancata comparizione all’udienza, la legge impone però al giudice lacune verifiche prima di convalidare la licenza o lo sfratto a seguito dell’assenza dell’intimato. In particolare egli ve verificare, secondo le norme generali, che durante il subprocedimento notificatori non si sia verificata alcuna nullità, e che siano comunque state rispettate le disposizioni particolari dettate dall’ART 660. In caso contrario, deve ordinare la rinnovazione della notifica. La rinnovazione va inoltre ordinata anche in assenza di nullità, se risulta dagli atti, o appare comunque probabile, che l’intimato non abbia avuto conoscenza dell’intimazione o, pur avendone avuto conoscenza, non abbia potuto opporvisi, per un caso fortuito o per fora a maggiore. La rinnovazione si accompagna alla fissazione di una nuova udienza, prima della quale nessuna conseguenza negativa si verifica per l’intimato. Anche se il giudice non ha riscontrato dagli atti elementi che portano a desumere la mancata conoscenza della citazione da parte dell’intimato, ed abbia dunque pronunciato la convalida, questi potrà comunque proporre l’opposizione tardiva prevista dall’ART 668, allegando l’esistenza dei motivi che gli hanno impedito di conoscere l’esistenza dell’intimazione o comunque di comparire all’udienza per opporvisi. 2.2. L’opposizione dell’intimato ed in conseguente passaggio dal procedimento speciale al giudizio a cognizione piena. La condanna con riserva Accade spesso che l’intimato si presenti in udienza si opponga all'emissione dell'ordinanza, assumendo che ne sono assenti i presupposti. In tal caso la legge prevede la conversione del procedimento speciale in un procedimento cognizione piena. La trasformazione avviene ad opera di leggi, senza bisogno di apposita istanza di parte: la fase monitorio passa in un regolare giudizio di cognizione che assume le forme del rito del lavoro. Nelle forme di tale giudizio di cognizione verrà quindi accertato se il locatore ha diritto vantato ad ottenere il rilascio dell'immobile per la scadenza del contratto o in virtù della sua risoluzione per inadempimento. La forma della decisione finale assumerà la forma della sentenza. Se però l'udienza per la convalida, il convenuto si difende allegando eccezioni non fondate su prova scritta, il giudice, su richiesta dell'attore e se non ricorrono gravi motivi incontrarlo, emette immediatamente ordinanza di rilascio dell'immobile, riservandolo svolgimento del giudizio di merito l'accertamento della fondatezza delle eccezioni. Si tratta di un'ordinanza non impugnabile ed immediatamente esecutiva; essa configura una pronuncia allo stato degli atti, cioè una condanna con riserva delle eccezioni del convenuto, eccezioni che verranno trattati in sede di cognizione. Il provvedimento resta efficace finché non sia stata sostituita dalla sentenza di merito. 102 3. L’efficacia dell’ordinanza ed il suo regime di impugnazione. L’opposizione tardiva L'ordinanza che convalida la licenza volo sfratto funge anzitutto da titolo esecutivo per il rilascio dell'immobile. Inoltre, poiché mi sono confronti non sono previste impugnazioni, la si deve considerare stabile e definitiva fin dalla sua pronuncia. Si capisce allora perché la si annoveri tre provvedimenti provvisti della forza di giudicato: essa fa stato suo rapporto dedotto in giudizio non diversamente da come farebbe stato una sentenza di uguale contenuto. La stabilità dell'ordinanza comunque collegata al presupposto che la non contestazione dell'intimato sia stata frutto di una scelta volontaria. Per questo l’ART 668 prevede la possibilità di una opposizione successiva alla convalida, La cosiddetta opposizione tardiva dell'intimato che dimostri che, per irregolarità della notifica, o per caso fortuito o forza maggiore, durante tutto conoscenza dell'intimazione o che, pur avendo avuto conoscenza, non è potuto comparire all'udienza per caso fortuito o forza maggiore. L'opposizione apro normale giudizio di cognizione cosiddetta piena che si conclude con sentenza, proprio come nel caso in cui l'opposizione dell'intimato si verifica in udienza. Con l'intervento della corte costituzionale è stata inoltre superato l'orientamento restrittivo della giurisprudenza di legittimità che aveva sempre negato l'riscrivibilità, contro l'ordinanza, sia della revocazione che dell'opposizione di terzo, in base ad una interpretazione letterale rispettivamente degli articoli 395 e 404, che fanno riferimento alle sole sentenze. Oggi non questa inibire contro l'ordinanza sia l'opposizione di terzo che la revocazione, quest'ultima però solo per errore di fatto. CAPITOLO 52. I PROCEDIMENTI POSSESSORI 1. Le azioni possessorie L’ART 703 disciplina lo svolgimenti dei c.d. procedimenti possessori, cioè dei procedimento conseguenti all’esercizio dell’azione di reintegrazione e dell’azione di manutenzione del possesso. E’ detta azione “di reintegrazione” l’azione concessa a chi è stato “vi et clam spogliato del possesso”. Questi, entro l’anno dallo spoglio sofferto, può chiedere “contro l’attore di esso la reintegrazione del possesso medesimo”. Dal punto di vista della legittimazione attiva, l’ART 1168 c.2 c.c. riconosce azione altresì al detentore della cosa, “tranne il caso che abbia per ragioni di servizio o di ospitalità”: si distingue peraltro tra il detentore qualificato legittimato ad agire in tutela possessoria, ed il detentore non qualificato non legittimato. L’azione di manutenzione spetta invece a chi è stato “molestato” nel possesso; questi può, “entro panno dalla turbativa, chiedere la manutenzione del possesso medesimo”. La condanna è concessa a colui il cui possesso dora da oltre un anno, in maneira continua ed interrotta. Il possesso inoltre non deve essere acquistato vi et clam. 103 Le azioni possessorie sono date a tutela dello jus possessionis, cioè del diritto dell’effettivo possessore, di continuare a godere della situazione possessoria vanificando i tentativi di spossessamento o di disturbo nel godimento della res. Lo jus possessionis è un vero e proprio diritto. 2. Il procedimento possessorio La peculiarità dei diritti tutelati e delle relative azioni dà ragione della peculiarità delle forme processuali che caratterizzano il procedimento possessorio Infatti, con lo stesso atto introduttivo la parte che lamenti la lesione della sua situazione possessoria introduce un unico giudizio che si svolge in due fasi: la prima sommaria, la seconda a cognizione ordinaria. Atto introduttivo di tali giudizi è il ricorso, da depositare presso la cancelleria del giudice “del luogo nel quale è avvenuto il fatto denunciato”. Il giudice provvede secondo le forme previste dal rito cautelare uniforme, in quanto compatibili, alla pronuncia di un’ordinanza che statuisce provvisoriamente sulla situazione possessoria. Si parla di “provvedimento interdittale”, intendendosi un provvedimento concesso su cognizione sommaria e destinato a essere immediatamente eseguito. L’ordinanza è soggetta al mezzo di gravame de reclamo cautelare regolato dall’ART 669. terdecies. Conclusa la fase sommaria, il procedimento possessorio entra in uno stato di quiescenza, dal quale necessariamente deve uscire. Ciò può verificarsi in due modi, di cui dà conto il c.4 ART 703: o per l’inutile decorso del termine perentorio di 60 giorni concesso alle parti per la prosecuzione del giudizio nel merito; o attraverso l’istanza, proposta enti tale termine perentorio, con la quale una delle parti chiede al medesimo giudice di fissare l’udienza per la prosecuzione del giudizio di merito. Tale termine perentorio decorre dalla comunicazione dell’ordinanza di cui al c.3 ART 703, a meno che non sia stato proposto reclamo avverso tale ordinanza,nel qual caso il termine inizierà a decorrere dalla pronuncia o dalla comunicazione dell’ordinanza che decide sul reclamo. Il c.4 ART 703 conclude prevedendo l’operativià, nel procedimento possessorio, della previsione dell’ART 669-novies c.3, a norma del quale si ricorda “Il provvedimento cautelare perde altresì efficacia se non è stata versata la cauzione di cui all’ART 669undecies, o se con sentenza, anche non passata in giudicato, è dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale è stato concesso”. La mera facoltatività della prosecuzione del giudizio di merito, nonché l’evocazione del solo c.3 art 669-novies, rendono palese che, qualora le parti non proseguano al giudizio, l’ordinanza di cui al c.3 ART 703 acquista stabilità. Ciò significa che essa continua a regolare la situazione possessoria dedotta in giudizio anche una volta estinto il processo a cognizione piena: le ordinanze possessorie sono indubbiamente anch’esse provvedimenti a carattere anticipatori, nel senso precipuo in cui il termine è usato nell’ambito del procedimento cautelare. 104 Qualora invece la parte interessata chieda la fissazione dell’udienza per il giudizio, essa deve farlo depositando l’apposita istanza in cancelleria. Il giudice assegnerà quindi termine per deposito di memoria integrativa, fissando contestualmente l’udienza dell’ART 183. Il processo che segue è dunque un ordinario giudizio di cognizione volto all’accertamento dell’esistenza e della lesione dello jus possesionis e degli obblighi concessi. 3. I rapporti tra procedimento possessorio e giudizio petitorio Lo jus possessionis prevale sullo jus possidenti (diritto del non possessore all’acquisto del possesso) in caso di conflitto. Beninteso, si tratta di una prevalenza immediata e provvisoria, nel senso che il titolare di diritto real sulla cosa non può invocare il proprio diritto per privare del possesso chi tale possesso sta esercitando. Di qui la regola tradizionale per cui nel giudizio possessorio l’eccezione del venuto di aver agitò nel legittimo esercizio del proprio diritto non è ammissibile quanto tenda a far valere non lo jus possessioni, ma lo jus possidenti, e quindi il diritto a possedere dello spogliatore medesimo. 105