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NII 22001133--22001144
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STATISTICHE SUI PREZZI AL CONSUMO A PARMA
Anni 2013-2014
a cura di:
dott. Raffaele Vaira
STATISTICHE SUI PREZZI AL CONSUMO A PARMA. ANNI 2013-2014
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Indice
1. L’INFLAZIONE E L’IMPORTANZA DELL’OSSSERVAZIONE DEI PREZZI
1.1 DALL’INDIVIDUO ALLA COMUNITÀ
1.2 SOCIETÀ CIVILE E SISTEMA ECONOMICO
1.3 LA MONETA
1.4 L’INFLAZIONE E L’EURO
2. L’INDAGINE SUI PREZZI AL CONSUMO:
DALLA FASE DELLA RACCOLTA AI NUMERI INDICI
2.1 EQUAZIONE KEYNESIANA: DAL PARADIGMA ALL’EVIDENZA EMPIRICA
2.2 STATISTICA E BRANCHE APPLICATE
2.3 PREZZI AL CONSUMO DEI PRODOTTI DEL PANIERE
2.4 IL PANIERE: PARTIZIONAMENTO, VARIABILITÀ E PONDERAZIONE
2.5 DOVE VIENE RILEVATO IL PREZZO: LA RACCOLTA DATI
2.6 SINTESI DEI DATI, SERIE STORICHE E NUMERI INDICI
3. PREZZI AL CONSUMO NEL COMUNE DI PARMA
3.1 ANNO 2013
3.2 ANNO 2014
3.3 ANALISI DEL TREND 2013-2014
Bibliografia
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1. L’INFLAZIONE E L’IMPORTANZA DELL’OSSERVAZIONE DEI PREZZI
L’essere umano, sin dalla sua origine è concepito non come un individuo solitario in un
universo infinito di opportunità di cui poter godere senza impedimenti e per un tempo
illimitato, bensì come parte di una pluralità di esseri viventi, della propria e di altre specie,
come parte integrante di uno o più gruppi interconnessi ed interagenti di esseri umani che
vivono (e devono sopravvivere) in una dimensione finita di spazio e tempo. Nella primitiva
esigenza di conservare, crescere e riprodurre la vita sino al suo termine naturale, l’uomo
sperimenta un’infinità di bisogni che possono essere soddisfatti solo in parte, da beni e
situazioni limitati, e per questo oggetto di decisioni, di scelte e rinunce. L’uomo quindi è un
individuo comunitario o meglio, sociale. La caratteristica della socialità presuppone una
comunità sviluppata nel tempo dal punto di vista della civiltà che come tale si è data e
quindi riconosce una serie di regole che disciplinano i rapporti tra gli individui che ne
fanno parte.
1.1 DALL’INDIVIDUO ALLA COMUNITÀ
Fin dal principio in cui l’uomo (Tizio) scoprì con cognizione che a fronte di bisogni
personali illimitati, sul proprio territorio non si disponeva totalmente, sempre e quanto se
ne volesse, di tutti i beni necessari a soddisfarli e che per ottenere tali beni utili a
soddisfare bisogni anzitutto primari (cacciare il cibo per sfamarsi) avrebbe dovuto
affrontare tanti sacrifici, talvolta rischiosi per la propria vita, in presenza di altri simili nelle
stesse sue condizioni, le risorse scarse e difficili da reperire, si sarebbero potute ottenere
con più facilità sottraendole agli altri (Caio) che avrebbero quindi già cacciato,
sacrificandosi e rischiando la vita. Tuttavia l’uomo comunitario, Tizio scoprì anche che lo
stesso pensiero era nutrito dal suo simile Caio. Allorché il destino naturale dell’uomo
sembrava aver stabilito una “guerra” costante tra simili, lo stesso scoprì anche che a fronte
di rischi e sacrifici simili, molti di questi erano prodotti da situazioni avverse
indistintamente alla comunità umana stessa. Perché allora non provare ad unire le forze
per debilitare l’avversione e procurarsi i beni con più facilità ? Ecco che il genere umano si
rese conto dell’intelligenza della solidarietà e della collaborazione. Questo fenomeno si
accompagnò ad un’altra fondamentale scoperta: a Tizio, cacciato e predato l’animale, una
volta soddisfatto il bisogno di nutrirsi, si presentava subito dopo la necessità di coprirsi dal
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freddo, magari utilizzando lo stesso tessuto organico che consentiva all’animale cacciato di
vivere all’aria aperta al freddo. Questo lavoro di rendere i tessuti “utilizzabili” allo scopo
umano, portava via a lui altre risorse scarse a disposizione come tempo ed energie che
l’individuo Tizio già spendeva per cercare il cibo; dopo essersi sfamato, Tizio si rese conto
che Caio non aveva ancora mangiato ed avrebbe dovuto spendere lo stesso tempo e le
stesse sue energie per cacciare un altro animale, ma tutto sommato Tizio per sfamarsi non
aveva mangiato tutta la carne ma questa ne era avanzata a sufficienza per sfamare anche
Caio che in quel momento avrebbe fatto di tutto per saziarsi; allora Tizio chiese a Caio se in
cambio della carne che gli era avanzata, per la quale Tizio si era già sacrificato ed era ora
pronta per Caio, di evitare di sacrificarsi “inutilmente” anche lui per cacciare la carne ma
piuttosto spendere quelle stesse energie per conciare la pelle e realizzare tessuti pronti e
disponibili per sé e per Tizio. Un terzo soggetto (Sempronio) si aggiunse alla comunità e
propose di costruire con la pietra attrezzi per tagliare il legno da scambiare, per cucinare la
carne, appendere i tessuti conciati…
1.2 SOCIETÀ CIVILE E SISTEMA ECONOMICO
Contestualizzando la parabola, la disciplina economica, che fa parte della famiglie delle
scienze sociali in quanto studia l’essere umano nei suoi comportamenti ed interazioni con
gli altri membri della comunità civile umana (società), fonda i suoi contenuti sull’evidenza
che ogni individuo presenta bisogni illimitati da soddisfare attraverso beni (intesi in senso
lato) finiti, ciascuno dei quali ha quindi una propria utilità cioè la capacità appunto di
soddisfare uno o più bisogni. I bisogni poi, a seconda dell’urgenza nel soddisfarli e
dell’importanza percepita, si dividono in bisogni primari (mangiare, bere, dormire,
coprirsi…), secondari, terziari… Uno stesso bene può soddisfare diversi bisogni via via di
priorità decrescenti: l’acqua ad esempio soddisfa il bisogno di bere quando si è assetati,
poi di cucinare il cibo, di lavarsi e pulire in generale… Di curare le piante di casa. In questo
senso si può affermare che un individuo, man mano che un bene in possesso soddisfa
necessità primarie ne avverte
un’utilità via via decrescente. Quando si è assetati “si
darebbe o farebbe qualsiasi cosa” per bere un bicchiere d’acqua fresca. In quel momento
per quell’individuo l’acqua (potabile) ha un’utilità altissima. Dopo aver bevuto quattro
bicchieroni di acqua, se all’individuo venisse offerta ancora dell’altr’acqua da bere, forse la
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rifiuterebbe o comunque percepirebbe un’utilità pari a 0. Si può quindi affermare che
anche l’u
utilità di un bene decresce con il diminuire delle priorità dei bisogni cui il bene è
destinato a soddisfare. Si può introdurre allora il concetto di utilità marginale, l’utilità cioè
dell’ultima parte di un bene che può essere più o meno alta a seconda che siano stati già
soddisfatti o meno i bisogni primari, secondari… Ne consegue che uno stesso bene in un
certo momento può avere per un soggetto un’utilità marginale diversa da un altro
soggetto: quel bicchiere di acqua aggiuntivo può essere inutile (utilità marginale tendente
a 0) per chi ha appena finito di pranzare dopo una bella doccia rinfrescante in un
soleggiato pomeriggio d’estate e risultare invece desideratissimo per una casalinga che
alla stessa ora pomeridiana sta tornando a piedi verso casa dal centro commerciale
lontano, costretta a lasciare parcheggiata l’automobile utilizzata per l’andata per guasti
imprevisti al motore. In quel momento quindi un bicchiere d’acqua vale più per la casalinga
sfortunata che per il primo soggetto. Ipotizziamo che la signora, presa dallo stress della
macchina che non partiva, abbia dimenticato il portafogli nell’auto e si trovi ormai
abbastanza distante da essa nel viaggio verso casa, e che si presenti un avaro signore con
in mano una bottiglietta d’acqua bella fresca chiusa, è probabile che la signora gli chieda
se è disposto a scambiarla con un prodotto appena acquistato. L’uomo tuttavia non trova
niente che gli possa essere utile in quel momento (o successivamente) e per cui sarebbe
disposto a cedere la bottiglietta. L’avaro se ne va cinicamente e la signora dovrà aspettare
il ritorno a casa. Cosa non ha funzionato in questa proposta di tipo baratto?
Sostanzialmente per la signora la bottiglietta valeva così tanto da esser disposta a cedere
anche un intero salame di Felino e due chili di mele Golden. Tuttavia, tutti i beni della
signora in quel momento ed in quel contesto per il passante non valevano almeno quanto
la sua bottiglietta d’acqua. In termini economici l’utilità marginale della bottiglietta che per
la signora valeva ad esempio 10, non corrispondeva (o comunque non era di entità
inferiore) all’utilità marginale che l’avaro assegnava al salame di Felino, alle mele Golden e
finanche a tutta la spesa della signora. Evidentemente il puro baratto non sempre è facile
da applicare. Durante il corso della storia le società civili hanno avvertito l’esigenza di
superare queste difficoltà, cercando di utilizzare uno strumento che potesse facilitare la
comparazione dei “valori” dei beni da scambiare. Nasce la moneta.
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1.3 LA MONETA
Monetizzare un generico prodotto (inteso in senso lato come bene materiale, immateriale
o come prestazione di servizio…), assegnare un valore monetario significa attribuire ad
esso una misura di scambio in riferimento ad uno specifico bene (ad es. pepita d’oro). Con
l’invenzione, viene innovato efficacemente il meccanismo di scambio poiché ogni bene è
misurabile in termini di quanta moneta ci vuole per scambiare quel determinato bene.
Esemplificando con la pepita d’oro, nell’ipotetico sistema in cui vi sono i soli due soggetti
economici, l’avaro e la casalinga, e l’oggetto prevalente dello scambio è la bottiglietta
d’acqua, la transazione sarebbe più semplice se ciascun bene proposto fosse misurato in
termini monetari: ad esempio se la bottiglietta da 50cl avesse il valore di 2 pepite ed 1 kg
di mele di ½ pepita, la casalinga dovrebbe scambiare 4 kg di mele per ottenere la
bottiglietta. Ma non solo un chilogrammo di mele vale ½ pepita. Si può ipotizzare che
nella semplice economia esemplificata vi sia un terzo soggetto, il mercante, che offre tanti
prodotti, oltre a quelli che ha venduto alla casalinga e probabilmente offre tazzine di caffè
del valore di 2 pepite ciascuna. Ora si può pensare che l’avaro cinico, ben satollo nel
pomeriggio d’estate stia proprio desiderando una bella tazza di buon caffè profumato da
gustare dopo pranzo comodamente seduto ai giardini pubblici. Il caffè vale esattamente
quanto la sua bottiglietta d’acqua. Alla proposta della casalinga di scambiare i 4 kg di mele
con la bottiglietta, l’avaro preferisce (in base alla propria struttura di priorità di bisogni ed
utilità marginali dei beni) non cederla e conservarla per scambiarla con il caffè. Il fallimento
dello scambio, nonostante vi fossero dei valori “certi” si è comunque ripresentato. La
transazione sarebbe riuscita quasi sicuramente se oggetto dello scambio non fossero stati
ancora i singoli meri beni ma il bene con il maggior valore contro il corrispettivo in pepite
d’oro, in moneta. Ecco che nel corso del tempo la comunità economica pensò di introdurre
la moneta circolante ossia un bene che anche se non avesse avuto un particolare valore
intrinseco (es. del materiale d’oro stesso), fosse uno strumento a cui fosse attribuito un
valore legale. Ecco che la moneta è stata coniata in metalli e leghe diverse e stampate su
carta di diversa misura e rifinitura, dall’oro “assaggiato” con i molari dei conquistadores
allo stagnetto delle 10 Lire, dai fogli dei dollaroni al roseo delle 10 Euro, sino a scomparire
materialmente nell’attuale sviluppo progressivo dell’ e-commerce.
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1.4 L’INFLAZIONE E L’EURO
Si è detto che l’introduzione della moneta nel sistema economico, di un bene cioè che
potesse essere un riferimento per determinare i valori di tutti gli altri beni e servizi di
proprietà o prodotti, oggetto dei rapporti giuridici tra gli operatori economici, ha
notevolmente facilitato gli scambi tra gli stessi, indipendentemente dal fatto che la moneta
si fosse presentata nel tempo come oro, metallo o altro materiale comunque circolante,
trasportabile, immediatamente cedibile e valida “al portatore”, quindi per questo
caratterizzata dalla massima liquidità possibile. Tutte queste notevoli peculiarità non
potrebbero reggere se la moneta non avesse essa stessa un valore legale, un corso legale
nel territorio in cui viene accettata e fatta circolare. Se ci facciamo caso, le generazioni che
hanno conosciuto il passaggio dalla Lira all’Euro, potrebbero ancora disporre di tantissime
lire. Escludendo tuttavia il contesto di collezionismo, tutti danno ormai per scontato che
possedere decine di miliardi di Lire italiane e percepire un reddito complessivo totale di
centocinquanta Euro al mese significa essere decisamente al di sotto del limite di povertà.
Questo in conseguenza proprio del fatto che l’Euro ha attualmente corso legale, la Lira l’ha
perso agli inizi di questo secolo. Tuttavia, nonostante questa sia un’evidenza del tutto
banale, negli ultimi periodi una certa parte dell’opinione pubblica (e persino della politica)
nutre la presunzione che la Lira “avrebbe più valore dell’Euro”, tanto da nutrire quasi odio
verso la nuova moneta avente corso legale in Italia, volendo “ritornare” alla precedente
moneta nazionale (ovvero alle precedenti Lira, Franco, Marco…). Come si spiegherebbe
allora questo rimpianto, dal momento che tutte e due le monete, come abbiamo visto non
possiedono un valore intrinseco ? Effettivamente va considerata la percezione di minore
possibilità di acquistare beni con l’Euro, ovvero che le merci ed i servizi siano diventati
diffusamente più cari rispetto ad una trentina o più di anni fa. Di guisa che i consumatori
(le famiglie e gli altri operatori economici) sentono di avere a che fare con una moneta
sfuggente, sempre insufficiente a soddisfare un po’ tutti i bisogni a cui ci si era abituati,
una moneta insomma di troppo poco valore. Questo sentimento è assolutamente vero. Ciò
che il consumatore infatti inconsciamente considera non è la moneta in sé, che come
abbiamo potuto notare avrebbe un mero valore relativo che servirebbe puramente da
riferimento per misurare gli altri prodotti scambiati, ma quello che viene chiamato nella
disciplina economica come “potere d’acquisto”. Considerando il caso più semplice del
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consumatore che percepisce per sé e per tutta la sua famiglia l’unico reddito complessivo
dato dal rendimento del proprio lavoro subordinato alle dipendenze di un datore di lavoro
(salario, stipendio), a parità di mensilità (minimo contrattuale più emolumenti vari, al netto
delle detrazioni), sempre uguali in un anno, considerando che lo stesso sia propenso a
consumare un po’ tutto lo stipendio (poiché ciò che percepisce non è tantissimo e la sua
famiglia è numerosa) e che tuttavia decida comunque di accantonare per prudenza sempre
la stessa minima parte a risparmio, ipotizzando anche che riesca a comperare tutti i tipi di
beni presenti sul mercato ma non in misura sufficiente per tutta la sua famiglia, il
lavoratore potrà acquistare da un mese all’altro una quantità degli stessi più o meno
variabile, a seconda che il costo totale di questi aumenti, diminuisca o rimanga uguale.
Semplificando, se W è il salario mensile netto percepito e P è il costo unitario complessivo
di tutti i tipi di beni che il consumatore acquisterebbe tutti i mesi, il suo potere d’acquisto
PA (che in questo contesto esplicativo coinciderebbe con la quantità acquistabile), può
essere indicato come il rapporto tra il valore nominale del salario a disposizione (stabilito
dalla contrattazione collettiva) ed il costo complessivo dei beni:
W
PA = —— .
P
__
Dal momento che il salario l’abbiamo ipotizzato costante W, il potere d’acquisto ovvero la
quantità di beni che il consumatore può comperare (quindi il Valore della moneta),
dipende dal costo degli stessi: PA = ƒ(P) . Sicché se ∆P   ∆PA  La relazione è inversa.
Ritornando al contesto reale, alcuni economisti, alcune parti sociali e buona parte
dell’opinione pubblica sostiene che nella fase di transizione dal corso legale della Lire a
quello dell’Euro, è stato deciso un cambio ufficiale che ha sostanzialmente portato di colpo
o in breve tempo a un aumento (raddoppio) generalizzato di prezzi (denominatore P), non
conseguendo tuttavia il corrispondente adeguamento dei salari e stipendi nominali
(numeratore W). Sulla base di questa considerazione si potrebbe spiegare la “confusione”
che si ingenera sull’opportunità o meno di mantenere l’Euro come moneta legale nazionale
e “rimanere o meno” nel sistema di cambi fissi della rispettiva Area Euro. Ma il vero
approccio al problema rimane il Potere d’acquisto (PA), non la moneta in sé.
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In generale il fenomeno di aumento generalizzato del livello dei prezzi,
registrato in un determinato intervallo di tempo, e in un ambito territoriale è
definito con il termine INFLAZIONE.
Viceversa il percorso inverso di decremento è denominato DEFLAZIONE.
Si è detto che attualmente la moneta non ha nella sostanza un’importanza intrinseca come
materiale da conio. E neppure la sua quantità in circolazione è sempre uguale. Spetta ad
una particolare autorità nazionale o sovranazionale la competenza su quella parte di
politica monetaria relativa al controllo, all’emissione (e/o ritiro) di moneta in circolazione e
alla determinazione di particolari parametri e strumenti di politica economica ad essa
relativi. Questa autorità è la Banca centrale che, durante il corso legale della Lira, era
rappresentata nella nostra nazione dalla Banca d’Italia con sede a Roma, con l’entrata del
corso legale dell’Euro la competenza in materia è stata (ed è) destinata da tutti gli Stati
membri adottanti la moneta unica, alla BCE, Banca Centrale Europea (o in termini
anglosassoni ECB – European Central Bank), che ha sede a Francoforte. A livello teorico (e
in particolare nella storia passata) la quantità di moneta in circolazione ed il suo valore
sottendono la disponibilità di una nazione di quantitativi di oro conservati in deposito
presso la propria banca centrale, denominati RISERVA AUREA.
La TEORIA QUANTITATIVA DELLA MONETA, di stampo classico, afferma che la banca centrale,
per ridare dello slancio ai consumi ed all’economia nazionale può decidere di immettere
nuova moneta in circolazione adottando momentaneamente politiche monetarie
espansive. Secondo la stessa Teorica quantitativa, già diffusa dal XIV secolo e che conobbe
la sua formulazione più rigorosa alla fine dell'Ottocento ad opera dell'economista
americano Fisher, questo aumento della quantità di moneta in circolazione determina un
aumento del livello generale dei prezzi, quindi provoca Inflazione e, secondo quanto
esposto in precedenza trattando il PA, potere d’acquisto, una diminuzione del valore della
moneta. Quindi:

causa dell’ INFLAZIONE è l’AUMENTO DELLA QUANTITÀ DI MONETA IN CIRCOLAZIONE.
In particolare Fischer ha determinato la seguente espressione:
MV = PQ ,
nota come EQUAZIONE DI FISHER.
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In termini di maggiore dettaglio, indicando con M la quantità di moneta esistente nel
sistema economico (e con V la velocità di circolazione della stessa, ossia il numero di volte
che la moneta passa di mano in mano; pi e qj (i,j=1,…n) rispettivamente la quantità
j-esima ed il rispettivo prezzo i-esimo di ciascun bene scambiato Se consideriamo tutti i
beni scambiati complessivamente, si può scrivere la seguente espressione:
MV =
oppure: MV = PQ
dove P rappresenta il livello generale dei prezzi e Q un “indice” delle quantità dei beni
scambiati. Quindi la quantità di moneta in circolazione, moltiplicata per il numero di volte
che essa passa di mano in mano (Q e V considerati da Fisher costanti nel breve periodo
dipendono dalle abitudini dei consumatori), è eguale alla somma delle quantità dei beni
scambiate, ciascuna moltiplicata per il rispettivo prezzo. Per cui, al variare di M, P muta
nella stessa proporzione: ∆M   ∆P  .
Dall’ equazione precedente otteniamo P=(V/Q) x M, ove (V/Q) è una costante e P= ƒ(M).
Una critica che si può a buon ragione avanzare sull’impostazione classica di Fisher è che
nella determinazione del livello generale dei prezzi non vengono considerati due aspetti
importanti (se non fondamentali) dell’economia reale:

la considerazione che l’analisi deve essere condotta in un contesto di Economia di
mercato in cui il Prezzo dei beni è determinato dalle dinamiche della domanda e
dell’offerta.

Si tratta inoltre di meccanismi che si sviluppano in un contesto di Economia aperta, non
strettamente limitata ai confini nazionali.
Effettivamente a livello microeconomico due operatori economici, sia che essi siano privati
consumatori, sia nel caso di un acquirente ed un venditore, ecc., concludono
quotidianamente contratti di compravendita, nella forma scritta o, nella maggior parte dei
casi verbalmente ed immediatamente in seguito ad accordi sulle rispettive prestazioni da
adempiere (consegnare il prodotto, versare il corrispettivo in moneta). Per cifre più elevate,
il consumatore può disporre di un certo margine di trattativa sul prezzo finale da pagare.
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Talvolta, anche su valori e beni di minore entità, la saggezza dei nostri padri consiglia a
buon diritto di “tentare” sempre un piccolo risparmio sul denaro da pagare, poiché “cece
dopo cece, la pignata si riempie”.
Sviluppando l’osservazione del comportamento del consumatore a livello microeconomico,
l’economista britannico John Maynard Keynes, portò l’analisi a livello aggregato in un
contesto macroeconomico e, insieme alle tantissime formule e teorie ancora adesso
ampiamente considerate, confermò ciò che succede, seppur in misura più limitata, a livello
microeconomico:

Il livello generale dei prezzi dipende dall’ANDAMENTO DELLA DOMANDA E
DELL’OFFERTA AGGREGATA.
Semplificando con varie ipotesi il comportamento di chi chiede il bene (comunità di
consumatori) e di chi lo offre (comunità di produttori), è normale pensare che il primo
acquisterebbe sempre meno quantità man mano che il prezzo del bene aumenta, il
secondo viceversa ne venderebbe maggiore quantità per ottenere maggiori ricavi. La
relazione tra il Prezzo e la Quantità è inversa nel caso del consumatore, diretta nel caso di
chi offre. Volendo rappresentare su un piano cartesiano questa situazione, riportando
sull’asse delle ascisse la quantità del bene domandata ed offerta indicandola con (Q),
sull’asse delle coordinate il relativo prezzo (P), ad ogni livello di prezzo corrisponde una
quantità domandata (D) ed offerta (S). Possiamo capire meglio questa situazione con il
seguente grafico:
Grafico 1 – Domanda, offerta, quantità e prezzo.
P
S
In corrispondenza del Prezzo di
equilibrio (PE), il consumatore finale
ed
il
venditore
rispettivamente ad
PE
D
QE
sono
disposti
acquistare ed
offrire la Quantità di equilibrio (QE).
Q
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Nel breve periodo, se i consumatori finali dovessero domandare una quantità maggiore
del bene scambiato, i produttori probabilmente non riuscirebbero subito a far fronte con
una maggiore produzione ed offerta. La conseguenza è inevitabilmente far accaparrare la
quantità disponibile ad un prezzo più alto.
Grafico 2 – Effetto incremento domanda nel b.p.
P
S
Aumentando la quantità (da Q a Q2) di
bene domandata (da D a D2), nel breve
P2
periodo il prezzo sale passando dal valore
PE
D2
P al nuovo e maggiore livello P2 .
D
QE
Q
Q2
Nel medio lungo periodo, la produzione si adegua alle nuove richieste e le curve
dell’offerta e della domanda si spostano riportando il mercato ad un nuovo punto in cui la
quantità domandata/offerta ed il prezzo ritornano a valori di equilibrio.
Nella
situazione
contemplata
nella
digressione
precedente,
per
semplificare
il
ragionamento e fornire maggiore chiarezza e facilità di comprensione si è assunto un
contesto di scambio di un singolo bene, in cui le grandezze economiche funzionano
indipendente da tanti altri fattori dell’economia reale.
Rimanendo quindi ancora
nell’ipotesi di un’economia di mercato chiusa, in cui gli operatori economici sono tutti
nazionali e non ci sono rapporti con soggetti di paesi esteri, si può modellizzare il
funzionamento del sistema economico con il seguente schema detto “Modello circolare”:
Figura 1 – Modello Sistema economico circolare
IMPRESE
Legenda:
AMMINISTRAZIONE
LAVORO
PUBBLICA
SALARIO
PRODOTTO
CORRISPETTIVO
Flusso reale
Flusso monetario
Politiche crescita
Servizi pubblici
FAMIGLIE
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Tributi
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Il modello illustrato in Fig.1 esemplifica il concetto che l’impresa produce e vende al
consumatore finale (organizzato in famiglia), dietro pagamento del corrispettivo; A sua
volta il capofamiglia offre all’impresa la sua prestazione di lavoro e riceva in cambio in
termini monetari il sudato salario.
Nell’economia reale organizzata secondo lo sviluppo di una fitta rete distributiva
(commercio), si può considerare la produzione in senso lato come qualsiasi processo che
crea valore (aggiunto). Qualsiasi soggetto economico può essere allora contestualmente
produttore se offre e cede un bene o una prestazione di servizi, compratore e consumatore
acquistando i fattori produttivi (beni) utili a soddisfare il bisogno della produzione al fine di
ricavare il guadagno che verrà poi in parte risparmiato-investito e/o in parte speso per
goderne il soddisfacimento di bisogni personali.
Più fitta è la filiera commerciale di un prodotto, più alto sarà il prezzo finale dello stesso
che il consumatore famiglia dovrà versare come corrispettivo. Al fine di ottenere l’utile
d’impresa infatti l’ipotetico commerciante venderà il singolo bene ad un prezzo che tiene
conto del totale dei costi sostenuti per l’impiego dei fattori produttivi, del costo della
merce acquistata dal grossista e applicando un margine di guadagno che viene
comunemente indicato come RINCARO o VALORE
AGGIUNTO.
Ipotizzando che il venditore al
dettaglio voglia meramente conservare un guadagno mensile sempre costante e tale da
poter vivere dignitosamente, il prezzo finale sarà influenzato dal costo dei fattori
produttivi. Si può affermare quindi che:

Il livello dei prezzi cresce (INFLAZIONE) all’aumentare del COSTO COMPLESSIVO dei
FATTORI PRODUTTIVI.
Esemplare è il quotidiano monitoraggio mondiale dell’andamento del costo del petrolio e
delle relative ricadute in termini di prezzi e tariffe di beni di prima necessità come il
carburante per il trasporto e le utenze sia domestiche che industriali funzionali all’utilizzo
di energia per i processi produttivi. Il trasporto del bene incide notevolmente sul prezzo
finale. Si innescano quindi spesso pesanti meccanismi moltiplicatori e circoli viziosi.
A determinare il costo della materia prima petrolio contribuisce inoltre l’andamento del
tasso di cambio del Dollaro (prezzo della moneta): il petrolio infatti si acquista non in Euro,
tantomeno in Lire, ma solo in Dollari. Per ottenere petrolio bisogna acquistare dollari.
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Sino ad ora abbiamo sempre considerato esemplificazioni riferite ad un ambiente di
economia chiusa. Abbiamo (volutamente) dimenticato che viviamo in un contesto di
internazionalizzazione dei mercati e delle economie e di un fenomeno più generale
denominato “globalizzazione”. Solo fino ad un secolo fa, l’Europa era ancora un campo di
sanguinose battaglie interne che sfociarono nei due conflitti mondiali alimentati dai
disastrosi e fallimentari regimi imperialisti e totalitaristici del nazi-fascismo e del
comunismo. Fortunatamente e quasi provvidenzialmente, la lezione è servita agli Stati
Europei nel dopoguerra per rivoluzionare i propri rapporti basandoli su una visione di
Comunità di Stati Europei solidali e cooperanti, al fine di promuovere lo sviluppo
economico-sociale dei membri garantendo la pace nel Continente. La lungimirante
intuizione di Statisti e Padri fondatori del calibro di Shuman, De Gasperi, Adenauer, ha
portato nei territori che hanno aderito al progetto europeo, una rapida fase di
ricostruzione seguita da un’importante sviluppo non solo economico ma anche in termini
di occupazione, democrazia, stato sociale, ecc., Questa crescita è stata accompagnata da
un progressivo processo di integrazione ed armonizzazione degli ordinamenti giuridici e
delle politiche economico-sociali. Un’altra importante vocazione dell’Unione Europa è la
tutela dei prodotti interni ed il rafforzamento del potere negoziale nei confronti del resto
del mondo. Questo potere dipende ovviamente dalla stabilità economica e dallo sviluppo
complessivo interno al continente come aggregazione delle economie domestiche
nazionali.
Ma come mai uno dei principali beni per la vita stessa dell’intero pianeta si acquista
solamente in Dollari ?
Il Dollaro sottende l’economia statunitense che è una delle principali potenze economiche
mondiali. Si può affermare (e la storia economica lo conferma) che una moneta “forte” di
solito è segno di un’economia altrettanto stabile e di una nazione ricca. Se si presentasse
l’occasione di ricevere in regalo 200 Dollari oppure 200 Naire (monete nigeriane), si
potrebbe presumere su quale opzione cadrebbe la scelta. Anche una moneta quindi ha il
suo mercato in cui viene fissato giornalmente il sul valore, il suo prezzo che coincide con il
TASSO
DI
CAMBIO con ciascun’altra valuta scambiata. Prima che fosse introdotto l’Euro,
ritornando indietro anche solo agli anni ’90, nella Comunità europea circolavano numerose
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valute nazionali ed ogni giorno ciascuna di essa si combinava per determinare il relativo
tasso di cambio. La Lira italiana ha avuto quasi sempre un valore tra i più bassi nel
continente; il Marco tedesco viceversa era molto apprezzato. Per comperare un bene
tedesco bisognava acquistare Marchi; ma se il bene costava ad es. 2 marchi, ci volevano
più di 2 lire per ottenerlo. Causa anche la mancanza dello sviluppo informatico, avvenuto
sostanzialmente con l’avvento del Personal Computer e dell’introduzione del S.O. Windows
e la totale assenza quindi di ogni forma di e-commerce, il commercio con un Paese
europeo anche confinante era considerato a tutti gli effetti un commercio con l’Estero. A
rendere poi ancor più incerto ed improbabile che un consumatore medio italiano
acquistasse dalla Germania vi era appunto l’esigenza di comperare i marchi con tutte le
conseguenze in termini di commissioni bancarie, di cambio ed adempimenti formali da
ottemperare. Dal momento che il petrolio si acquistava anche prima in dollari, i tedeschi
per importarlo non potevano usare i marchi, ma dovevano cambiarli prima con dollari; così
pure la Francia, la Spagna, la Grecia… E l’Italia. Più aumenta la domanda di dollari, più si è
visto che aumenta anche il suo prezzo (di cambio). Se al tempo t, 1 dollaro valeva 2 marchi
ed 1 marco valeva 3 lire, l’Italia in quel momento per importare petrolio doveva acquistare
dollari e per l’italiano 1 dollaro valeva ben (2x3=) 6 lire. Il petrolio allora risultava più
costoso per l’Italia che per la Germania. A deprezzare ulteriormente la Lira era una pratica
di politica economica e monetaria, avvalorata dall’ (ab)uso di teorie keynesiane, di
intervenire con la svalutazione della Lira. I beni italiani in questo modo potevano essere
comperati più facilmente ed in quantità maggiore dagli stati esteri poiché erano esportati
ad un prezzo più basso dato che ci volevano meno lire per acquistarli. Questo processo
serviva a dar fiato (almeno nel breve periodo) alla produzione nazionale ipotizzando un
riequilibrio successivo nella fase di crescita. Tuttavia l’economia italiana doveva fare i conti
sempre con le importazioni e la Bilancia commerciale (Export-Import) si presentava
sovente con segno negativo. I Paesi europei cercarono più volte di aderire e far oscillare la
propria moneta in regimi di cambi flessibili ma entro limiti fissati dal Sistema monetario
europeo. La Lira arrivò in alcune occasioni a valere così poco da doverne uscire. Il sistema
europeo era così debole, alimentato da fastidiose speculazioni sui cambi, che diversi Paesi
membri decisero di ad adottare una Moneta unica in regime di cambi FISSI. Nacque l’Euro.
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2. L’ INDAGINE SUI PREZZI AL CONSUMO: DALLA FASE DELLA
RACCOLTA AI NUMERI INDICE
Il prezzo del bene, da qualunque punto di vista lo si consideri, influenza in modo decisivo
diversi aggregati economici nella loro dimensione singola o interdipendente. È esso stesso
un aggregato economico. E’ il parametro fondamentale per le misurazioni economiche, per
consentire quindi di avere la percezione reale della bontà o meno di teorie e studi sui
comportamenti umani e sul funzionamento di varie politiche e diversi tipi di economie. Il
livello dei prezzi e le sue variazioni influenzano i consumi delle famiglie, la capacità delle
imprese di investire per aumentare la produzione conferendo efficienza ed efficacia ai
processi produttivi, la possibilità per chi possiede avanzi finanziari di risparmiare e
permettere, attraverso l’attività degli intermediari finanziari (es. banche) di destinare queste
risorse in prestito a chi, in presenza di deficit, necessita una quantità maggiore delle stesse.
Il livello dei prezzi influenza il potere d’acquisto di una famiglia o di un consumatore in
genere (v. 1.4 capitolo precedente, pag.9). Basti pensare che la percezione di possedere una
moneta, l’Euro, che “vale meno” della precedente Lira scaturisce dalla considerazione che
nel percorso di risanamento e trasformazione dell’Economia monetaria europea è stato
deciso anche di abolire il meccanismo di adeguamento automatico dei salari al livello
d’inflazione registrato, noto a molti come meccanismo della “S
SCALA MOBILE”. La decisione è
stata adottata in considerazione degli alti valori a due cifre che aveva raggiunto il tasso
d’inflazione alla fine degli anni ’80 - inizi anni ’90. L’osservazione dell’andamento inflattivo
di quel periodo avvalorava la TEORIA QUANTITATIVA DELLA MONETA, secondo cui l’aumento del
reddito (tramite il meccanismo della scala mobile) induceva un aumento dei consumi e
quindi di moneta in circolazione che favoriva la crescita dell’inflazione a fronte della quale
si ripresentava la necessità di applicare nuovamente il meccanismo della scala mobile,
innestando così quel circolo vizioso che ad un certo punto si è dovuto arrestare. Il salario
minimo (componente principale del salario nominale) può essere adeguato attraverso
un’efficace sistema di relazioni industriali e contrattazioni collettive.
A fronte di un cambio fisso Lira-Euro di quasi 2000:1 (1936.27), in presenza di salari
nominali non conseguentemente adeguati al tempo del cambio e che crescono molto
lentamente, effettivamente la percezione in termini comuni è giusta. A questo stato di fatto
si aggiunge poi l’attuale periodo post-euro che vede preoccupanti livelli atavici e tassi di
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crescita di Debito Pubblico e per il quale si continua persistentemente ad adottare
politiche restrittive (c.d. di austerity), di contenimento della spesa pubblica, innalzamento
della pressione fiscale per ridurre progressivamente questo tumore dell’economia italiana.
2.1 EQUAZIONE KEYNESIANA: DAL PARADIGMA ALL’EVIDENZA EMPIRICA
Il DEBITO PUBBLICO, è una variabile di stock che si alimenta o si riduce nel tempo a seconda
che l’Economia pubblica nel corso degli esercizi registrano un deficit o un avanzo. Come
tutte le aziende, anche le singole Pubbliche amministrazioni, a fine esercizio presentano
una situazione economica data sostanzialmente dalla differenza tra le entrate e le uscite.
Semplificando la struttura alle sole due principali voci, indicando con G la spesa pubblica e
con T il livello di prelievo tributario applicato, a fine esercizio la PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
può presentare un risultato ∂ = T – G , che sarà avanzo o deficit a seconda che il prelievo
tributario (le entrate in generale) risulterà maggiore o minore della spesa (uscite). L’ipotesi
che si presenta praticamente sempre nel contesto pubblico è il secondo (deficit). Questo
perché nonostante l’abuso perpetrato nei diversi decenni passati, la teoria Keynesiana o
neo-keynesiana è ancora considerata nelle formulazioni delle politiche economico-fiscali,
seppur in modo più oculato e combinato a teorie di altri paradigmi. Questa teoria prevede
sostanzialmente un massiccio intervento pubblico nell’economia, sostenendo i consumi e
la produzione attraverso un ricorso continuo alla spesa pubblica. Questa impostazione
abusata molto probabilmente anche per volontà legate a fini politici, clientelari e di spreco
illegale, al termine del boom economico italiano, dagli inizi degli anni ’70 sino ai nostri
giorni, ha portato ad amplificare enormemente il debito pubblico italiano ponendo seri
problemi nella definizione di qualsiasi tipo di politica ed intervento da adottare andando
inevitabilmente a toccare le delicatissime corde del consenso sociale. Ma come mai i policy
maker (non i politici in senso stretto), pur volendo attenersi strettamente alla scienza
economica, spesso avvertono di non essere riusciti a raggiungere i risultati sperati ?
L’economia è appunto una scienza e per di più una scienza sociale, costituita cioè da un
insieme di teorie, assunzioni ed affermazioni ricondotti a modelli e paradigmi che
generalizzano necessariamente alcuni comportamenti umani. Come tali hanno il pregio
della chiarezza ed il difetto dell’incertezza. A fornire validità o meno a proposizioni,
concetti ed affermazioni viene in aiuto l’o
osservazione statistica.
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2.2 STATISTICA E BRANCHE APPLICATE
Una definizione di statistica, sia pure approssimativa, è stata fornita dal Prof. Sergio Zani1:
La statistica è il metodo per la raccolta, la classificazione e l’elaborazione dei dati di
fatto, utilizzati nelle scienze empiriche, e per la generalizzazione dei risultati, in
termini probabilistici, ai casi non osservati.
La statistica quindi ha a che fare con osservazioni della realtà percepibile dai nostri sensi.
La terminologia di “Statistica”, usata per caratterizzare una disciplina che si occupa di
analisi ed elaborazione dei dati, fu attribuita già nel diciassettesimo secolo in Germania ad
una materia universitaria che si occupava della “descrizione delle cose più notevoli di uno
Stato”. L’origine del nome di fatto è italiana allorché si passa dal termine Stato a statista, a
statistico e quindi a statistica.
A differenza delle scienze formali (come la matematica, che si occupa solo di relazioni tra
astrazioni), la statistica, l’economia, tutte le scienze sociali sono scienze empiriche, non
possono cioè prescindere dalla osservazione dei dati di fatto. Questa osservazione,
puntuale e tecnicamente precisa, serve nello stesso tempo per ipotizzare certe “regolarità”
che si manifestano nei fenomeni indagati e nel tempo osservarle per validarle o meno.
Un esempio notevole è costituito dalla nota “legge di Engel”, che prende il nome
dall’economista E. Engel (1821-1896) che, a seguito del suo storico studio sulla
composizione dei bilanci e sulla strutturazione della spesa di un insieme esaustivo di
famiglie, arrivò ad accertare e quindi a teorizzare che la percentuale (la parte) di spesa per
l’a
alimentazione è DECRESCENTE all’a
aumentare del reddito.
La singola famiglia osservata costituisce l’unità i-esima (i=1,2, …,n) di rilevazione (o, unità
statistica); la percentuale spesa è il fenomeno (o carattere, o variabile) statistico osservato
per ciascuna i-esima unità. Se il campo di osservazione n è finito e non eccessivamente
elevato, allora si può condurre l’indagine su tutte le n unità (popolazione o universo
statistico). In questo caso si applica la STATISTICA DESCRITTIVA.
Nella realtà tuttavia, specialmente quando si devono indagare comportamenti sociali,
diventa difficile, dispendioso ed inopportuno rilevare le informazioni da tutto l’universo.
1
S.Zani, STATISTICA. Giuffrè Editore, Milano 1991.
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Risulta quindi più ragionevole cercare di trovare il giusto equilibrio tra sintesi ed esaustività
delle informazioni acquisite. L’interesse quindi si accentra su masse di osservazioni che
costituiscono i cosiddetti fenomeni collettivi rilevati su popolazioni e (campionamenti di
esse), come parte dell’universo statistico. Nei fenomeni economico-sociali, è più
interessante sapere il dato aggregato come il livello dei prezzi di un bene (costo del pane)
che il singolo caso (prezzo della particolare categoria di pane venduto nel panificio della
frazione di un comune). Quando le osservazioni e l’analisi vengono condotti su un
campione di unità e non su tutte quelle esistenti, si parla non di statistica descrittiva ma di
INFERENZA STATISTICA.
L’inferenza statistica è molto utilizzata e comprende accurate tecniche di campionamento
(per fare in modo che questo sia “rappresentativo” della più generale popolazione da
considerare), precise metodologie di raccolta dei dati, strumenti per analizzare il fenomeno
e le unità osservate cercando di giungere a deduzioni significative, infine una branca che si
occupa di quella parte decisiva che è l’errore marginale, l’anomalia o più semplicemente il
grado di approssimazione dell’indagine. Sia che si tratti di osservazioni su tutte le n unità
esistenti dell’universo statistico applicando la Statistica descrittiva, sia che la raccolta dei
dati venga fatta su una partizione, su un campione delle unità, emerge l’esigenza (e le
relative problematiche) di sintetizzare, studiare e confrontare i risultati, le evidenze e le
eventuali relazioni tra le unità indagate ed il fenomeno o i fenomeni considerati. Si può
allora considerare la statistica come lo strumento comune delle scienze empiriche per il
trattamento dei dati. Indipendentemente dalla branca di applicazione, vi sono delle fasi
specifiche che caratterizzano uno studio statistico: la fase di raccolta dei dati (e successiva
organizzazione, catalogazione, archiviazione ed eventuale prima scrematura, confronti,
deduzioni), da quella della pura analisi (sintesi, confronti…). La fase più avanzata,
contestualizzabile in una dimensione più ampia di ricerca scientifica è la possibile
modellizzazione di particolari deduzioni statistiche.
Si vedrà più avanti che molti di coloro che sono interessati quotidianamente allo studio dei
fenomeni economico-sociali possono applicare metodologie ed algoritmi di calcolo su un
insieme di dati di partenza (data set), magari strutturati in matrici, ma pur sempre attinti da
fonti già nutrite di dati elaborati. Tuttavia i dati elementari vanno accuratamente “RACCOLTI”.
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2.3 PREZZI AL CONSUMO DEI PRODOTTI DEL PANIERE
Nei paragrafi precedenti si è definito un generico bene o servizio come il generico
prodotto che, dotato di una sua utilità variabile, soddisfa uno o più bisogni del possessore
che ne usa e consuma. Il consumo può quindi essere considerato in senso lato come
quell’azione che permette al possessore del bene di goderne dell’utilità. A seconda quindi
della funzione e del bisogno (in senso lato) a cui il prodotto è destinato, si possono
classificare i prodotti semplicemente in beni strumentali (o fattori produttivi) e beni di
consumo finale. Ad essi si possono far corrispondere le due tipologie di soggetti
economici: produttore e consumatore finale. In un sistema distributivo, abbiamo detto che
possiamo considerare produzione sia la fase di trasformazione delle materie prime in
semilavorati
(che
potrebbero
essere
già
finalizzati
al
consumo
finale
oppure
opportunamente lavorati per la produzione di ulteriori semilavorati o generalmente
prodotti per ulteriore lavorazione), che in senso lato il trasferimento della merce dal
produttore al grossista e dal grossista al dettagliante che vende al consumatore finale.
Nel processo produttivo complessivo si realizzano quindi scambi di beni di diversa natura e
si forma una varietà diversificata di tipi di prezzi. Oggetto dell’Indagine portata avanti
dall’ISTAT (Istituto nazionale di Statistica), con la collaborazione del Comune di Parma e di
quasi tutti i capoluoghi di provincia italiani, è il livello dei PREZZI AL CONSUMO.
Il dato elementare che viene rilevato e successivamente elaborato è il Prezzo che il
Consumatore finale paga al commerciante al minuto ovvero all’esercizio
commerciale che svolge la sua attività nell’ambito del commercio al dettaglio (non
grossista, né produttore), ovvero all’artigiano ed al professionista che eroga la
propria prestazione applicando la tariffa per il Consumatore finale privato.
Trattandosi di prezzo finale, il corrispettivo pagato comprende anche l’Imposta sul Valore
Aggiunto (IVA) che, salvo i casi particolari di valori diversi o di esenzione, attualmente è
impostata nella percentuale del 22%. A differenza delle Imposte dirette, che si applicano
cioè sul reddito spettante al soggetto economico (es. percettore di stipendio), L’Iva è
un’imposta indiretta poiché “colpisce” non il reddito di un cittadino, ma il consumo di un
bene. Nonostante la percentuale sia una misura di imposizione fiscale di maggior
perequazione rispetto ad una misura fissa per tutti (es. bollo dell’auto che non tiene conto
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del livello del reddito percepito ma di altri parametri patrimoniali), l’IVA, proprio perché
non tiene conto del reddito ma del consumo, è un’imposizione controversa e, specie
ultimamente, particolarmente contrastata, tanto da generare frequenti fenomeni di
evasione “consensuali”. Il meccanismo infatti che sottende l’applicazione dell’Iva prevede
che essa venga pagata dal Consumatore finale.
Come evidenzia la denominazione stessa del tributo, l’imposta si applica sul
Valore aggiunto. Nel paragrafo 1.4 del Capitolo 1, pag.14, si è già trattato del concetto
economico. Di seguito viene schematizzato il meccanismo di funzionamento:
Figura 2 – Meccanismo di produzione del Valore Aggiunto
ACQUISTO
PRODUZIONE
SEMILAVORATO
Costo
Materie prime
VALORE
IMPRESA 1
AGGIUNTO 1
Prezzo di vendita a Impresa 2
SEMILAVORATO
PRODUZIONE
PRODOTTO FINITO
IMPRESA 2
VALORE
Costo fattore produttivo
per Impresa 2
AGGIUNTO 2
Prezzo di vendita a Grossista
DISTRIBUZIONE
GROSSISTA (IMPRESA 3)
(PRODUZIONE)
PRODOTTO FINITO / MERCE
MERCE
Costo merce per Grossista
VALORE
AGGIUNTO 3
Prezzo di vendita a Dettagliante
DISTRIBUZIONE
(PRODUZIONE)
MERCE
MERCE
Costo merce per Dettagliante
VALORE
AGGIUNTO 4
PREZZO DI VENDITA FINALE
MERCE
CONSUMATORE FINALE
DETTAGLIANTE (IMPRESA 4)
CONSUMATORE FINALE
Il consumatore finale all’atto dell’acquisto presso il commerciante al dettaglio, pagherà il
prezzo stabilito dal venditore per ottenere un guadagno, più l’Imposta sui n.4 valori
aggiunti cumulati. Ecco perché spesso molti venditori espongono e comunicano i prezzi
nella formula del tipo “€ 0.00 + Iva”, a volte perché si può applicare un’aliquota duale a
seconda che si presenti o meno un caso meritevole di agevolazione fiscale per il
legislatore. Oppure la motivazione potrebbe essere quella di far apparire preventivamente
un bene più economico... Qualunque sia la motivazione, resta il “paradosso” secondo il
quale il consumatore finale è tenuto a pagare oltre ai consequenziali “rincari” che si
vengono a cumulare durante il processo produttivo e distributivo, anche un’ulteriore onere
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non già su una manifestazione a lui positiva (ottenimento di un reddito) ma sui rincari
stessi. Si può allora affermare che l’Iva ha un effetto moltiplicativo del prezzo del prodotto
provocando distorsioni nel corretto funzionamento dell’equilibrio tra domanda ed offerta,
incertezza nella programmazione economica familiare, più o meno marcata a seconda
della frequenza di manovre finanziarie che vanno a modificare le aliquote e l’assetto
tributario complessivo. Queste criticità unite a livelli di imposizione piuttosto pesanti,
portano molti soggetti economici a commettere reati di evasione ed elusione fiscale. È
noto il paradigma formulato dall’economista e tributarista Arthur B. Laffer secondo cui le
entrate tributarie complessive aumentano al crescere dell’imposizione fiscale sino ad un
certo punto, oltre il quale ogni ulteriore aumento dei tributi provoca una progressiva
diminuzione del gettito stesso.
Grafico 3 – Curva di Laffer
Indicando sull’asse delle ascisse i valori del
Prelievo tributario (t) e sulle ordinate i
corrispondenti valori del Gettito ottenuto (T),
si nota che oltre un valore massimo di
*
imposizione t , il gettito torna a diminuire ed
in corrispondenza del valore t3 si avrebbe un
Gettito T1 pari ad una minore imposizione t1.
Fonte: Enciclopedia Treccani. www.treccani.it
A complicare le cose è la previsione stabilita dal legislatore tributario che la competenza
sul versamento anticipato dell’Iva spetta all’intermediario e non al consumatore finale.
Questo infatti non si troverà mai di fronte alla scadenza della presentazione della
Dichiarazione Iva poiché l’incombenza sarà a carico di ciascun titolare della c.d. Partita Iva
(impresa o professionista) che anticiperà il gettito per conto del consumatore finale. Il
meccanismo prevede infatti che ogni “produttore di valore aggiunto” acquisti i fattori
produttivi ad un prezzo più Iva, pagando quindi già l’imposta che sarà a suo credito nei
confronti dell’erario. Quando venderà il prodotto ad un altro titolare di P.I. otterrà il prezzo
del bene più l’Iva che sarà in questo caso a suo debito. In sede di dichiarazione Iva si
calcola il saldo tra l’Iva a debito e quella a credito. Se la prima risulta maggiore della
seconda l’intermediario è tenuto a versare la differenza all’erario.
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2.4 IL PANIERE: PARTIZIONAMENTO, VARIABILITÀ E PONDERAZIONE
Nonostante i beni economici sono finiti, non tutti vengono consumati nella stessa quantità
e con la stessa frequenza. Il reddito disponibile infatti è limitato. Nei paragrafi precedenti si
è avuto modo di comprendere che esiste una scala di priorità dei bisogni cui i beni sono
chiamati a soddisfare. Pur volendo evitare di scomodare l’economista Engel, la semplice
osservazione del generico consumatore “buon padre di famiglia” porta a dedurre che la
stessa destina necessariamente una parte del reddito disponibile all’acquisto di beni
alimentari. Rispetto a poche generazioni passate, il concetto di ben-essere percepito si è
notevolmente modificato e con esso la stratificazione delle esigenze e delle priorità
conseguendo quindi una variazione nella composizione della spesa complessiva di una
famiglia. In particolare tale comportamento è oggetto di una specifica Indagine Istat:
l’IIndagine sui consumi delle famiglie. Essendo un’indagine multiscopo, essa viene utilizzata
anche per determinare quali beni sono più frequentemente consumati. Nell'IIndagine sui
prezzi al consumo, rilevare i prezzi di tutti i beni esistenti ed acquistabili dal consumatore
finale sarebbe dispendioso e probabilmente inutile. Un efficace studio statistico all’uopo
considera un campione esaustivo di beni e servizi denominato “PANIERE”. I prodotti
rientranti nel paniere vengono determinati sulla base delle risultanze della suddetta
indagine sui consumi, condotta periodicamente per confermare o rivedere la misura di
diverse grandezze. Anche il Paniere dei beni per i quali viene rilevato il livello dei prezzi al
consumo è oggetto di periodici aggiornamenti (solitamente annuali). Nonostante
l’indagine si concentri su un campione, l’insieme è molto ampio. Per facilitare l’analisi, la
comprensione dei risultati dell’Indagine sui prezzi e le opportune deduzioni e
comparazioni, l’insieme dei beni considerati viene classificato sulla base di partizionamenti 2
di progressivo dettaglio. Per l'Indagine sui prezzi al consumo, il criterio di partizionamento
più usato è lo standard internazionale COICOP (Classification of Individual Consumption by
Purpose), messo a punto dalla Divisione Statistica delle Nazioni Unite.
Dato un insieme A di n elementi ai ∊ A (i = 1, 2, ..., n) si dice che P = (A1, A2, ..., Ag, ..., AG) è una partizione di A,
formata da G sottoinsiemi (gruppi) Ag (g = 1, 2, ..., G) non vuoti di A, ciascuno di ng elementi, se:
2
1) l'unione dei G sottoinsiemi coincide con A:
2) i sottoinsiemi Ag sono a due a due disgiunti: Ag
∩ Ah = ∅ (g ≠ h ; g, h = 1, 2, ..., G).
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I beni e servizi appartenenti al paniere sono raggruppati in categorie omogenee di
prodotti. Le categorie si sviluppano in altrettanti sottoinsiemi omogenei di maggiore
dettaglio, secondo il seguente schema:
Figura 3 – Partizionamento Paniere Istat
DIVISIONI DI SPESA
12
46
GRUPPI
101
CLASSI
235
SOTTOCLASSI
326
SEGMENTI DI CONSUMO
615 POSIZIONI RAPPRESENTATIVE
Le singole voci del paniere vengono codificate nella forma: "00.0. ... .0" e l'espressione
numerica ha tante cifre, quanto è maggiore la dimensione di dettaglio. Le 12 DIVISIONI
DI
SPESA sono indicate nella Tab.4 del successivo Cap. 3, pag.30.
Le posizioni rappresentative sono costituite dai singoli beni e servizi dei quali si rileva
concretamente il prezzo presso i punti vendita e professionisti dislocati sul territorio
comunale. Per comprendere meglio il partizionamento dei prodotti del paniere possiamo
considerare ad esempio il FETTE BISCOTTATE. Esso costituisce la POSIZIONE
RAPPRESENTATIVA
codificata con il numero "01.1.1.4.2.01", poiché appartiene alla "Divisione 01 - Prodotti
alimentari e bevande", Gruppo 01.1 - Prodotti alimentari, Classe 01.1.1 - Pane e cereali,
Sottoclasse 01.1.1.4 - Altri prodotti di panetteria e pasticceria, Segmento di consumo
01.1.1.4.2 - Prodotti di pasticceria confezionati, Posizione rappresentativa 01.1.1.2.01 Fette biscottate.
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2.5 DOVE VIENE RILEVATO IL PREZZO: LA RACCOLTA DATI
La maggior parte di coloro che si occupano di studiare fenomeni economico-sociali,
reperiscono le informazioni da elaborare, già pronte da fonti attendibili, circoscrivendo
l'utilizzo della statistica descrittiva alla sola ANALISI
DEI
DATI
che, pur essendo
importantissima e complessa dal punto di vista delle applicazioni da usare e che meglio
forniscono risultati qualitativamente soddisfacenti, non tiene conto di tutte le fasi inerenti
alla RACCOLTA
DELLE INFORMAZIONI ELEMENTARI
(il piano della rilevazione, le tecniche di
acquisizione dei dati, ecc.). Questa fase è fondamentale in ogni indagine e non sempre
gode della giusta e doverosa considerazione che vedrebbe una rigorosa ed inflessibile
applicazione di tutte le opportune metodologie previste. Non esaminando doverosamente
le tappe preliminari del processo che conduce ad ottenere le informazioni di partenza, il
resto dell'analisi ed i risultati finali possono essere condizionati nella loro validità.
I dati per lo statistico sono come gli ingredienti per il cuoco: solo se risultano di
prima qualità l'abilità del cuoco può trasformarli in u piatto degno delle tre stelle
della guida Michelin ! Similmente lo statistico elabora i dati elementari, o grezzi,
ottenuti direttamente dalla rilevazione, allo scopo di trarne il massimo
d'informazioni utili.3
Per quanto riguarda l'Indagine sui prezzi al consumo, la competenza sulla rilevazione
"elementare" dei prezzi della maggior parte delle posizioni rappresentative (circa l'80% del
paniere) spetta agli Uffici comunali di statistica (nel proseguo Ucs), quasi tutti i capoluoghi
di provincia d'Italia, che, attraverso l'attività quotidiana e puntuale dei rilevatori, procedono
alla RILEVAZIONE LOCALE : gli operatori della rilevazione (addetti del comune o da esso
incaricati), si recano prevalentemente di persona presso la sede fisica delle unità di
rilevazione, seguendo dei giri giornalieri da eseguirsi nell'arco di 20 giorni al mese.
Per i prodotti che hanno prezzi sostanzialmente uguali su tutto il territorio nazionale (es.
tabacchi, periodici, utenze telefoniche, trasporto nazionale ed internazionale...) ovvero
prodotti
soggetti
a
continui
cambiamenti
tecnologici
(es.
personal
computer,
smartphone...) la rilevazione è centralizzata.
3
S. Zani, ANALISI DEI DATI STATISTICI I - OSSERVAZIONI IN UNA E DUE DIMENSIONI. Giuffrè editore, 1997.
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Per quanto riguarda in particolare la
RILEVAZIONE LOCALE,
la periodicità della stessa è diversa
per le varie categorie di prodotti: è doveroso specificare che ciò che interessa ai fini
dell'Indagine sui prezzi al consumo non è tanto il valore assoluto della tariffa/prezzo che
l'esercente pratica al pubblico in quel momento, non interessa il confronto con altri esercizi
(non sarebbe nemmeno possibile né tantomeno lecita la diffusione), quanto piuttosto la
variazione dello stesso rispetto alla precedente rilevazione. Questa fondamentale
precisazione viene sovente ripetuta dai rilevatori allorché si accingono a visitare le unità a
cui chiedere il prezzo finale o accertarlo semplicemente). La statistica, essendo la disciplina
che, più di tutte si focalizza sull'analisi delle informazioni, non da particolare significato ai
valori assoluti (a meno dell'accertamento della bontà delle rilevazioni elementari) ma
piuttosto sono significativi i dati relativi, cd. dati derivati che spesso vengono rapportati tra
loro per analizzare particolari fenomeni di interesse econonico-sociale, come per esempio
il potere d'acquisto delle famiglie.
Per calcolare questa variazione, secondo la metodologia corrente, è necessario ed
inevitabile rilevare puntualmente il prezzo in t > 1 tempi diversi.
Non tutti i prodotti presentano le medesime frequenze e gli stessi tempi di variazione dei
rispettivi prezzi. Il prezzo al Kg del pesce non oscilla con la stessa frequenza temporale di
un divano da soggiorno. Di conseguenza la periodicità della rilevazione è diversa per le
varie categorie di prodotti essendo:
- bimensile per l'ortofrutta, il pesce ed i carburanti per autotrazione (diesel, benzina, gpl...);
- trimestrale quella dei canoni d'affitto, arredamento e manutenzione della casa;
- mensile per tutta la restante maggioranza di prodotti.
La periodicità è stabilità dall'Istat, così l'arco temporale mensile di 20 gg., e la
determinazione dei giorni di rilevazione (giri). L'Istat decide i prodotti rientranti nel paniere
lasciando ovviamente agli Ucs la competenza sugli aspetti organizzativi prettamente locali.
Nei capoluoghi di provincia coinvolti nella rilevazione si procede infatti alla formazione di
un campione "ragionato" di punti vendita: la scelta non si basa una rigorosa e metodica
applicazione della teoria della probabilità (non avrebbe opportuna significatività), bensì
tenendo conto delle principali caratteristiche dell'organizzazione locale del commercio al
dettaglio ed alla distribuzione degli esercizi stessi nelle diverse zone della città.
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2.6 SINTESI DEI DATI, SERIE STORICHE E NUMERI INDICI
I rilevatori territoriali riportano che non di rado, nello svolgimento della loro attività sono
interpellati dal titolare o dai collaboratori della sede locale circa la funzione della loro
presenza e della loro frequente rilevazione con il tablet, dei prezzi dei propri prodotti. I
rilevatori dal canto loro sono sempre disponibili a rammendare e chiarire che l'attività non
è assolutamente rivolta a fini commerciali o di marketing o comunque a comparare le
tariffe applicate dai soggetti concorrenti. Questo non solo non interessa, ma non è
neppure lecito fare. Come per tutte le indagini statistiche condotte dall'Istat, anche per
l'indagine sui prezzi al consumo vige una precisa normativa che stabilisce, tra le altre cose,
l'obbligo del Segreto statistico da parte di chi rileva, produce e gestisce informazioni
personali a fini statistici. La normativa prevede anche un divieto di divulgazione delle
suddette informazioni, se non in forma aggregata o comunque in modo da poter risalire
direttamente alla singola unità statistica. Tra le diverse fonti giuridiche fondamentale è il
Decreto Legislativo del 6 settembre 1989, n.322, che disciplina anche l'o
obbligo di risposta
da parte dell'unità indagata. in particolare all'articolo n.7.
I rilevatori precisano che ciò che in interessa ai fini dell'indagine e per la comunità
economica è la VARIAZIONE del livello generale dei prezzi registrato in un determinato
intervallo di tempo (es. nei diversi mesi dell'anno).
Questa considerazione è rafforzata dal fatto che il singolo prezzo Pz del generico prodotto
Po, se considerato in sé, senza riferimento alle proprie disponibilità (reddito), al livello dello
stesso Pz nel tempo ed insieme a tutti gli altri beni Po che si acquistano, effettivamente ha
poco significato. Ne assume invece è l'andamento del livello complessivo di prezzi dei beni
nello scorrere dei mesi.
La metodologia statistica prevede infatti una serie di algoritmi che forniscono valide sintesi
che come tali possono essere confrontate con altri fenomeni ed altre grandezze di diverso
ordine di misura. Attraverso aggregazioni successive i dati elementari rilevati (prezzo del
singolo prodotto nell'esercizio commerciale) vengono elaborati e si producono le
statistiche generali oggetto di diffusione mensile.
Una delle applicazioni statistiche maggiormente utilizzate è il momento di sintesi
denominato MEDIA (aritmetica o geometrica). La media riassume l'ordine di grandezza di
un'insieme di valori, fornendo appunto un valore medio.
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Se i singoli valori elementari (es. prezzi) meramente considerati sono valori assoluti, la
media degli stessi è un Valore derivato. A differenza quindi dei valori assoluti, quelli
derivati permettono di effettuare comparazioni tra caratteri con ordini di grandezza diversi.
La media assume maggiore validità se considera anche la diversa importanza delle unità
considerate. Nel caso della variazione dei prezzi dei diversi prodotti del paniere, una
semplice media avrebbe meno valore di una misura sintetica che invece terrebbe conto
della diversa incidenza delle diverse variazioni sul potere d'acquisto di una famiglia ad
esempio di operai: se in un semestre, a parità di salario, aumentasse del 50% il prezzo della
carne, delle verdure e della pasta sarebbe un bel colpo per una famiglia con un solo
salario, mentre sarebbe probabilmente del tutto indifferente un aumento dell' 80% del
costo di un tavolo da pranzo con rivestimento laccato lucido.
Per tener conto di questa diversa scala di priorità viene applicata la c.d. MEDIA PONDERATA.
Se ad avere significatività non è il mero prezzo Pz del generico prodotto Po, ma lo stesso
confrontato in due o più tempi successivi (es. Variazione tra mese di Gennaio 2013 e mese
di Febbraio 2013), allora l'unità statistica diventa il momento o tempo t.
Il tempo può essere l'anno, il biennio, il decennio, il semestre, il mese... In generale si può
considerare il tempo t=0 oppure t=1...
La successione ordinata di valori registrati nel tempo t=0, 1, ..., n, si definisce SERIE STORICA.
Un esempio di serie storica è la Tabella 3.2 riportata nel successivo Capitolo 3.
Se invece del tempo si considerano le rilevazioni di uno stesso carattere in punti territoriali
diversi, allora si può parlare di Serie territoriali o spaziali (es. Tab. 3.1 successivo Cap.3).
Si è detto che nell'indagine sui prezzi al consumo ciò che interessa effettivamente è la
VARIAZIONE
NEL TEMPO
del livello degli stessi. Ma come si misura questa variazione
temporale? Si può ad esempio valutare la semplice differenza che il valore del prezzo
aveva al tempo t=0 e quello registrato rispettivamente al tempo t=1, al tempo t=2, ..., t=n.
Si può quindi considerare la variazione rispetto ad un tempo prefissato, oppure di volta in
volta rispetto al tempo precedente.
In tutti e due i casi, le semplici differenze non consentono di analizzare e confrontare
fenomeni differenti risentendo dell'ordine di grandezza di ciascuno di essi.
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Non si possono così considerare congiuntamente i prezzi di tutti i prodotti del paniere
poichè sono espressi in unità di misura differenti (quantità di pane espresso in kg, acqua in
litro...). Una soluzione statistica a questo problema è fornita dai c.d. NUMERI INDICI,
BASE FISSA
A
ovvero A BASE MOBILE a seconda che si confronta il valore del prezzo PZ al tempo
generico t, con uno tenuto sempre fisso (ad es. il primo mese considerato), oppure rispetto
a quello del tempo immediatamente precedente t-1.
Si tratta di un algoritmo statistico che permette di ottenere dati derivati espressi in termini
di rapporto tra due termini della serie storica.
 NUMERO INDICE DEI PREZZI A BASE FISSA:
Si sostituisce la serie originaria dei valori dei PZ con una nuova serie che ha come
primo termine (al tempo t=0) il valore FISSO =100 che viene chiamato valore BASE, e si
indica con l'espressione ad es. Gennaio 2013 = 100 e riferendo poi tutti i dati successivi
a tale valore convenzionale. Ciascun termine successivo, si ottiene come quoziente,
moltiplicato per 100, tra il valore PZ assunto dal Prezzo nel tempo t, PZt, ed il valore
assunto al tempo t=0, PZ0:
PZt

x 100
per t = 0, 1, 2, ..., n.
PZ0
 NUMERO INDICE DEI PREZZI A BASE MOBILE:
Per ottenere i numeri indici a base mobile, si procede in modo analogo. Il numero
indice in questo caso si ottiene come quoziente, moltiplicato per 100, tra il valore PZ
assunto dal Prezzo nel tempo t, PZt, ed il valore assunto al tempo immediatamente
precedente t-1, PZt-1, dovendo cominciare in questo caso necessariamente dal 2°
termine della serie.
PZt

x 100
per t = 1, 2, ..., n.
PZt-1
Ottenuti i rispettivi numeri indici, per ottenere le VARIAZIONI PERCENTUALI dei prezzi in
ciascun tempo, basta semplicemente sottrarre 100 al numero indice così ottenuto. Queste
sono chiamate anche TASSI DI VARIAZIONE (es. TASSO DI CRESCITA).
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Come per le altre grandezze oggetto di rilevazione nell'Indagine sui prezzi al consumo,
anche per misurare le variazioni complessive, si parte dai numeri indici semplici o
elementari.
Utilizzando applicazioni di sintesi come le Medie e proseguendo per aggregazioni
ponderate successive, sia per i prezzi, che per i prodotti, nel tempo e nello spazio, si
ottengono i c.d. Numeri Indici COMPOSTI che, al livello maggiore di sintesi corrisponde all'
INDICE GENERALE NAZIONALE. Per quanto riguarda l'indice composto dei prezzi, una volta
ottenuti gli indici provinciali, si procede nell'elaborazione dell'indice regionale aggregando
quelli provinciali tenendo conto della dimensione del comune capoluogo di provincia
intermini di popolazione residente. Per giungere poi al calcolo dell'indice nazionale, si
aggregano tra loro gli indici regionali, pesati secondo l'ampiezza della spesa regionale per
consumi delle famiglie.
Nella realtà inoltre vengono prodotti 3 diversi indici dei prezzi al consumo. Tuttavia l'Istat
ne definisce uno come "principale":

l'INDICE DEI PREZZI AL CONSUMO PER L'INTERA COLLETTIVITÀ NAZIONALE,
(NIC), che si riferisce alla generalità dei consumi delle famiglie presenti in Italia ed è
quindi utilizzabile come indicatore dell'inflazione a livello dell'intero sistema
economico.
Gli altri due indici definiti "speciali" sono:

l'INDICE DEI PREZZI AL CONSUMO PER LE FAMIGLIE DI OPERAI ED IMPIEGATI,
(FOI), che si riferisce ai consumi dell'insieme delle famiglie che fanno capo ad un
lavoratore dipendente ed è utilizzato per adeguare periodicamente i valori di aggregati
economici di rilevanza economico-sociale (es. affitti, assegni dovuti al coniuge
separato,...).

l'INDICE DEI PREZZI AL CONSUMO ARMONIZZATO PER I PAESI DELL'UNIONE
EUROPEA, (IPCA), indicatore sempre più utilizzato poiché permette di fornire una
misura dell'inflazione comparabile a livello europeo.
I tre indici hanno in comune, oltre alla metodologia di calcolo ed il partizionamento del
paniere, anche il procedimento per la raccolta dei dati sui prezzi elementari.
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Passando dai numeri indici ai Tassi di variazione, per comprendere meglio il capitolo
successivo dedicato all'analisi delle dinamiche dei prezzi per il Comune di Parma nel
biennio 2013-2014, è necessario riportare in questa sezione, i seguenti concetti:

TASSO MENSILE o CONGIUNTURALE: è la variazione percentuale dell'indice di un
mese rispetto all'indice del mese precedente;

TASSO TENDENZIALE: è la variazione percentuale dell'indice di un mese rispetto
all'indice dello stesso mese dell'anno precedente;

TASSO MEDIO: è la variazione percentuale tra la media aritmetica del livello dell'indice
nei dodici mesi che terminano con il mese d'interesse e la media registrata nei dodici
mesi precedenti.
Serve per "depurare" il trend inflazionistico dalle oscillazioni di breve periodo.
Se viene calcolato a fine anno (riferito al mese di Dicembre) il tasso medio coincide con
la VARIAZIONE MEDIA ANNUA.
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3. PREZZI AL CONSUMO NEL COMUNE DI PARMA
La variegata (e seppur sintetica) trattazione di alcuni principali concetti ed argomenti di
economia politica e statistica, contemplata nei capitoli precedenti, è stata doverosamente
intesa a fornire i principali elementi per poter comprendere la successiva analisi delle serie
storiche e territoriali in una dimensione macroeconomica, specialmente nel caso in cui il
presente rapporto riesce a raggiungere il cittadino medio interessato a cogliere le sintesi
nel tempo del fenomeno inflattivo, pretendendo giustamente di sviluppare un sufficiente
grado di fiducia sulla bontà delle relative misure scaturita da corrette analisi dei dati.
3.1 ANNO 2013
Nel corso dell’intero anno 2013, la costante e continuativa attività dei rilevatori territoriali
ha portato a determinare mese per mese, i numeri indici dei prezzi al consumo per l’intera
collettività, NIC (base 2010=100), ed i rispettivi tassi di variazione congiunturale e
tendenziale, controllati, discussi e validati dall’apposita Commissione di Controllo dei
prezzi. Una volta ottenuti anche i tassi relativi al mese di Dicembre, si è potuto misurare la
Variazione media annua riferita all’anno 2013, che per Parma ha registrato un valore pari al
+1.2%, crescita allineata rispetto al dato nazionale.
Dalla seguente tabella riportante la serie territoriale regionale della suddetta Variazione
media annua, e dal relativo grafico si possono verificare le differenze del dato di Parma
rispetto agli altri capoluoghi di provincia.
Tabella e Grafico 3.1 – Variazione media annua NIC, capoluoghi provincia E.R. e dato nazionale. Anno 2013
CAPOLUOGO
%
Piacenza
1,1
Parma
1,2
Reggio nell'Emilia
1,3
Modena
0,8
Bologna
1,3
Ferrara
0,7
Ravenna
1,2
Forlì-C esena
1,3
Rimini
1,7
ITALIA
1,2
Fonte: Elaborazioni su Database statistiche Istat. http://dati.istat.it/
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I dati riportati in tabella e rappresentati nel grafico denotano una scarsa variabilità
territoriale rispetto al dato nazionale, non presentando alcun segno negativo e rimanendo
in un discrezionalità compresa tra lo 0,7% di Ferrara e l’1,7% di Rimini.
Ad un livello maggiore di dettaglio dal punto di vista dell’unità di rilevazione, volendo
considerare come tempo t = mese, possiamo riportare in una serie storica e rappresentare
graficamente i rispettivi tassi di variazione congiunturale e tendenziale e paragonarne
l’andamento di Parma con quello nazionale.
Tabella 3.2 – Variazione percentuale CONGIUNTURALE NIC, a Parma e in Italia. Anno 2013
Anno 2013
t = MESE
TASSO CONGIUNTURALE
Parma
Italia
Gennaio
0,0
0,2
Febbraio
0,1
0,1
Marzo
0,1
0,2
Aprile
-0,2
0
Maggio
0,2
0
Giugno
0,1
0,3
Luglio
0,2
0,1
Agosto
0,5
0,4
Settembre
-0,5
-0,3
Ottobre
-0,2
-0,2
Novembre
0,2
-0,3
Dicembre
0,3
0,2
Fonte: Elaborazioni su Database statistiche Istat. http://dati.istat.it/
Grafico 3.2 – Variazione percentuale CONGIUNTURALE NIC, a Parma e in Italia. Anno 2013
Italia
Parma
0,6
0,5
0,4
0,3
0,2
0,1
0
-0,1
-0,2
-0,3
-0,4
-0,5
-0,6
Fonte: Elaborazioni su Database statistiche Istat. http://dati.istat.it/
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Tabella 3.3 – Variazione percentuale TENDENZIALE NIC, a Parma e in Italia. Anno 2013
Anno 2013
t = MESE
TASSO TENDENZIALE
Parma
Italia
Gennaio
2,3
2,2
Febbraio
2,1
1,9
Marzo
1,8
1,6
Aprile
1,1
1,1
Maggio
1,2
1,1
Giugno
1,2
1,2
Luglio
1,2
1,2
Agosto
1,0
1,2
Settembre
0,8
0,9
Ottobre
0,5
0,8
Novembre
0,8
0,7
Dicembre
0,7
0,7
Fonte: Elaborazioni su Database statistiche Istat. http://dati.istat.it/
Grafico 3.3 – Variazione percentuale TENDENZIALE NIC, a Parma e in Italia. Anno 2013
Italia
Parma
2,6
2,4
2,2
2
1,8
1,6
1,4
1,2
1
0,8
0,6
0,4
0,2
0
Fonte: Elaborazioni su Database statistiche Istat. http://dati.istat.it/
Analizzando le serie storiche ed osservando le spezzate, si evidenzia subito una più
marcata variabilità nel contesto congiunturale, dovuta all’influenza di fattori stagionali,
rispetto all’andamento tendenziale più adatto a misurare il trend di medio-lungo periodo.
In entrambi i casi, le distanze in valore assoluto tra il dato di Parma e quello aggregato
nazionale sono state quasi sempre relativamente di modesta entità, tendenti allo 0, e in
alcuni casi si sono registrati gli stessi valori. In particolare dal grafico 3.3 si nota
chiaramente la tendenza alla diminuzione del livello d’inflazione sia a Parma che in Italia.
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Focalizzando l’attenzione sul Comune di Parma, volendo scomporre il dato sintetico del
tasso medio di crescita annuo generale del +1.2%, nella partizione di primo livello relativo
alle 12 “Divisioni di spesa”, si ottiene la seguente successione di tassi medi di crescita:
Tabella 3.4 – NIC medio annuo complessivo e per Divisioni, a Parma. Anno 2013
DIVISIONI Parma
%
(COICOP)
NIC complessivo (senza tabacchi)
1,2
01 - Prodotti alimentari e Bevande analcoliche
2,6
02 - Bevande alcoliche e tabacchi
1,2
03 - Abbigliamento e calzature
1,5
04 - Abitazione, acqua, elettricità e combustibili
1,7
05 - Mobili, articoli e servizi per la casa
0,8
06 - Servizi sanitari e spese per la salute
1
07 - Trasporti
1,6
08 - C omunicazioni
-5,3
09 - Ricreazione, spettacoli e cultura
0,4
10 - Istruzione
3
11 - Servizi ricettivi e di ristorazione
0,9
12 - Altri beni e servizi
1,4
Fonte: Elaborazioni su Database statistiche Istat. http://dati.istat.it/
A fronte di una variazione media annua complessiva di entità non particolarmente elevata,
i tassi medi annui relativi alle 12 Divisioni, corrispondenti al primo macro livello di
aggregazione dei prodotti del paniere di riferimento, secondo il criterio di classificazione
COICOP, presentano una variabilità di notevole ampiezza, passando dal valore massimo
del +3% di crescita registrata per la Divisione “ISTRUZIONE”, ai due successivi valori
maggiori, del +2,6% per “PRODOTTI ALIMENTARI E BEVANDE ANALCOLICHE” e del +1,7% per
“ABITAZIONE, ACQUA, ELETTRICITÀ E COMBUSTIBILI”,
sino ad un valore negativo per la
divisione “COMUNICAZIONI”, corrispondente ad un tasso di decremento pari al 5,3%.
Per evitare di fuorviare verso conclusioni approssimative sull’incidenza di queste divisioni
sul tasso complessivo bisogna ricordare e tener presente che negli algoritmi matematici
per la produzione degli indici viene applicata giustamente una ponderazione dei prodotti
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del paniere (e quindi anche delle diverse divisioni) in considerazione del fatto che la
famiglia (in genere il consumatore) destina quote diversificate di spesa per ciascun
prodotto, a seconda della stratificazione economicamente naturale dei bisogni in primari,
secondari, ecc., a parità di reddito.
Di guisa che probabilmente il dato più importante è l’incremento del +2.6% relativi ai
prodotti alimentari, così detti “di prima necessità”, oltre al +1.7% relativo agli altrettanto
necessari prodotti relativi all’abitazione, alle utenze domestiche ed al carburante per
autotrazione. Il dato del -5.3%, nonostante in valore assoluto è un numero abbastanza
notevole, probabilmente cade meno sotto i riflettori rispetto ai tassi di crescita appena
considerati.
3.2 ANNO 2014
Per quanto riguarda il 2014, le Variazioni medie annue registrate in Emilia-Romagna nei
capoluoghi di Provincia presentano una forte uniformità nel territorio e rispetto al dato
nazionale: 6 capoluoghi di provincia su 9, presentano uno scostamento in valore assoluto
dal dato nazionale, del +0,2%, di appena 0,1. L’unico vero dato che denota una
caratterizzazione particolare è proprio il tasso medio registrato a Parma di +0,7%, valore
che rappresenta proprio il limite massimo della variabilità. Di seguito la serie territoriale
della suddetta Variazione percentuale media annua, ed il relativo grafico.
Tabella 3.5 e Grafico 3.4 – Variazione media annua NIC, capoluoghi provincia E.R. e dato nazionale. Anno 2014
CAPOLUOGO
%
Piacenza
0,3
Parma
0,7
Reggio nell'Emilia
0,1
Modena
0,3
Bologna
0,3
Ferrara
0,3
Ravenna
0,3
Forlì-C esena
0,5
Rimini
ITALIA
0
0,2
Fonte: Elaborazioni su Database statistiche Istat. http://dati.istat.it/
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Ad un livello maggiore di dettaglio dal punto di vista dell’unità di rilevazione, volendo
considerare come tempo t = mese, possiamo riportare in una serie storica e rappresentare
graficamente i rispettivi tassi di variazione congiunturale e tendenziale e paragonarne
l’andamento di Parma con quello nazionale.
Tabella 3.6 – Variazione percentuale CONGIUNTURALE NIC, a Parma e in Italia. Anno 2014
Anno 2014
t = MESE
TASSO CONGIUNTURALE
Parma
Italia
Gennaio
0,1
0,2
Febbraio
0,1
-0,1
Marzo
0,1
0,1
Aprile
0,1
0,2
Maggio
-0,1
-0,1
Giugno
0,2
0,1
Luglio
0,0
-0,1
Agosto
0,6
0,2
-0,6
-0,4
Settembre
Ottobre
0,1
0,1
Novembre
-0,1
-0,2
Dicembre
0,4
0
Fonte: Elaborazioni su Database statistiche Istat. http://dati.istat.it/
Grafico 3.5 – Variazione percentuale CONGIUNTURALE NIC, a Parma e in Italia. Anno 2014
Fonte: Elaborazioni su Database statistiche Istat. http://dati.istat.it/
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Tabella 3.7 – Variazione percentuale TENDENZIALE NIC, a Parma e in Italia. Anno 2014
Anno 2014
t = MESE
TASSO TENDENZIALE
Parma
Italia
Gennaio
0,8
0,7
Febbraio
0,7
0,5
Marzo
0,7
0,4
Aprile
0,8
0,6
Maggio
0,7
0,5
Giugno
0,7
0,3
Luglio
0,5
0,1
Agosto
0,6
-0,1
Settembre
0,5
-0,2
Ottobre
0,7
0,1
Novembre
0,5
0,2
Dicembre
0,6
0
Fonte: Elaborazioni su Database statistiche Istat. http://dati.istat.it/
Grafico 3.6 – Variazione percentuale TENDENZIALE NIC, a Parma e in Italia. Anno 2014
Fonte: Elaborazioni su Database statistiche Istat. http://dati.istat.it/
Analizzando le serie storiche ed osservando le spezzate, si evidenzia subito una più
marcata variabilità nel contesto congiunturale, dovuta all’influenza di fattori stagionali,
rispetto all’andamento tendenziale più adatto a misurare il trend di medio-lungo periodo.
Per quanto riguarda il contesto congiunturale, dopo il primo quadrimestre, in cui in
presenza di variazioni di valore costante a Parma, corrispondono variazioni dai valori
successivamente opposti, nei restanti mesi l’andamento inflazionistico di Parma ha
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seguito quello nazionale, presentando per 5/8 volte un tasso più marcato, per 2/8 un
valore uguale e per una volta sola un tasso più basso di quello italiano.
In un contesto tendenziale, i valori del tasso percentuale registrati per Parma si
mantengono sempre a livelli superiori a quelli relativi al tasso nazionale.
Il trend nazionale presenta una continuazione del percorso di deflazione rilevato già nel
2013 e si può affermare che il tasso tendenziale italiano è continuato a scendere quasi
costantemente per i primi nome mesi del 2014 a meno di un momento di discontinuità tra
Marzo ed Aprile, poi è ritornato a risalire tra Settembre e Novembre e tornare a scendere a
fine anno. A fronte di questo movimento abbastanza regolare, l’andamento del tasso
tendenziale di Parma si è presentato altalenante, seppur con ampiezze complessivamente
non molto marcate.
Seguendo un approccio più attento al dato domestico, si osserva che, a differenza di altri
contesti, il dato di Parma si assesta su un valore che non riesce a diminuire oltre lo 0,5%.
Volendo invece osservare il tasso medio annuo per ciascuna “Divisione di spesa”, si ottiene
la seguente successione:
Tabella 3.8 – NIC medio annuo complessivo e per Divisioni, a Parma. Anno 2014
DIVISIONI Parma
(COICOP)
%
NIC complessivo (senza tabacchi)
0,7
01 - Prodotti alimentari e Bevande analcoliche
0,3
02 - Bevande alcoliche e tabacchi
0,2
03 - Abbigliamento e calzature
1,4
04 - Abitazione, acqua, elettricità e combustibili
0,4
05 - Mobili, articoli e servizi per la casa
1,8
06 - Servizi sanitari e spese per la salute
0,4
07 - Trasporti
1,1
08 - C omunicazioni
-8
09 - Ricreazione, spettacoli e cultura
0,5
10 - Istruzione
1,3
11 - Servizi ricettivi e di ristorazione
0,7
12 - Altri beni e servizi
1
Fonte: Elaborazioni su Database statistiche Istat. http://dati.istat.it/
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Nel 2014 il NIC medio annuo complessivo risulta di entità non ampiamente elevata, così
come la successione dei tassi medi annui relativi alle 12 Divisioni presentano una certa
variabilità, rispettivamente minori delle misure registrate nell’anno 2013. Questo aspetto è
evidentemente in linea con l’andamento precedentemente evidenziato di un percorso
generalmente deflattivo.
Le tre divisioni che hanno registrato i tre valori più alti corrispondono in ordine alla
5a –“MOBILI, ARTICOLI E SERVIZI PER LA CASA”, +1,8%, alla 3a –“ABBIGLIAMENTO E CALZATURE”,
+1,4%, alla alla 3a –“ABBIGLIAMENTO E CALZATURE”, +1,4%, Anche per il 2014, l’unico valore
negativo si riferisce al tasso medio annuo dell’8a –“COMUNICAZIONI”, -8%.
Tenendo presente la considerazione, più ampiamente illustrata nel paragrafo precedente,
della ponderazione del paniere e delle sue partizioni, le divisioni corrispondenti alle
partizioni contenenti i beni di uso generalmente più frequente, presentano tassi medi di
crescita molto contenuti, come ad es. la 1a divisione “Prodotti alimentari e
Bevande alcoliche”, con un valore dello 0,3%. Il tasso che probabilmente presenta una
maggiore criticità, seppur relativamente non considerevole è il tasso medio di crescita del
+1,1% relativo ai “Trasporti”(ed ai relativi combustibili per autotrazione).
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3.3 ANALISI DEL TREND DI MEDIO PERIODO
Considerando congiuntamente il 2013 ed il 2014, si può anzitutto valutare e confrontare a
livello regionale, tra i capoluoghi di provincia dell’Emilia-Romagna, il differenziale,
registrato in ciascuno di essi, nella seria biennale della variazione media annua.
Tabella 3.9 – Differenziale Variazione media annua NIC, capoluoghi provincia E.R. e dato nazionale. Anni 2013-14
%
CAPOLUOGO
2013
2014
Piacenza
1,1
0,3
Parma
1,2
0,7
Reggio nell'Emilia
1,3
0,1
Modena
0,8
0,3
Bologna
1,3
0,3
Ferrara
0,7
0,3
Ravenna
1,2
0,3
Forlì-C esena
1,3
0,5
Rimini
1,7
0
ITALIA
1,2
0,2
Fonte: Elaborazioni su Database statistiche Istat. http://dati.istat.it/
Grafico 3.7 – Differenziale Variazione media annua NIC, capoluoghi provincia E.R. e dato nazionale. Anni 2013-14
Fonte: Elaborazioni su Database statistiche Istat. http://dati.istat.it/
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Parma, insieme a Modena vede scendere tra il 2003 ed il 2004 il tasso medio annuo di
crescita dell’indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC), in misura pari a 0,5,
come avviene a livello nazionale. Per Ferrara si registra la variazione minima (0,4) molto
simile alla precedente mentre si evidenzia in modo particolarmente immediato il valore
massimo del differenziale registrato per Rimini, il cui tasso medio salta dal 1,7% al valore 0.
Nel contesto di medio periodo in cui si svolge l’analisi di questo paragrafo, è naturale
considerare l’andamento mensile dei tassi di variazione tendenziale del NIC. Aggregando
le serie contigue dei due anni di riferimento, otteniamo la seguente serie storica bimodale:
Tabella 3.10 – Variazione percentuale TENDENZIALE NIC, a Parma e in Italia. Anno 2013-2014
Anno 2013+2014
t = MESE
TASSO TENDENZIALE
Parma
Italia
Gen-2013
2,3
2,2
Feb-2013
2,1
1,9
Mar-2013
1,8
1,6
Apr-2013
1,1
1,1
Mag-2013
1,2
1,1
Giu-2013
1,2
1,2
Lug-2013
1,2
1,2
Ago-2013
1,0
1,2
Set-2013
0,8
0,9
Ott-2013
0,5
0,8
Nov-2013
0,8
0,7
Dic-2013
0,7
0,7
Gen-2014
0,8
0,7
Feb-2014
0,7
0,5
Mar-2014
0,7
0,4
Apr-2014
0,8
0,6
Mag-2014
0,7
0,5
Giu-2014
0,7
0,3
Lug-2014
0,5
0,1
Ago-2014
0,6
-0,1
Set-2014
0,5
-0,2
Ott-2014
0,7
0,1
Nov-2014
0,5
0,2
Dic-2014
0,6
0
Fonte: Elaborazioni su Database statistiche Istat. http://dati.istat.it/
Rappresentando i valori delle due serie (relative a Parma ed al livello nazionale) con
spezzate ed introducendo linee approssimate di tendenza, si ottiene il seguente:
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Grafico 3.8 – Variazione percentuale TENDENZIALE NIC, a Parma e in Italia. Anno 2013-2014
Fonte: Elaborazioni su Database statistiche Istat. http://dati.istat.it/
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Il grafico permette di studiare l’andamento dei tassi prodotti a Parma e confrontarlo
congiuntamente con quello nazionale.
Si evidenzia un certo livello di chiarezza negli andamenti delle serie rilevate. Questo
permette di pervenire con un buon grado di approssimazione a due principali
considerazioni:
1.
L’ultimo mese del 2013 rappresenta un punto in cui i valori del tasso di Parma e di
quello nazionale coincidono dividendo gli andamenti congiunti in un dualismo
biennale: nel primo anno i valori di Parma risultano più alti di quelli nazionali per 5/12
mesi, 4/12 volte uguali e 3/12 volte minori. Introducendo con un sufficiente grado di
approssimazione due linee continue di sintesi tendenziale, una per la serie di Parma e
l’altra per quella nazionale, si evidenzia nel primo anno un’alternanza di convergenza e
divergenza; quest’ultima rimane e si amplia progressivamente per tutto il 2014, anno in
cui i valori di Parma rimangono costantemente al di sopra di quelli nazionali e mai
registrano valori inferiori a 0,5.
2.
Come già evidenziato nei paragrafi precedenti analizzando i singoli anni di riferimento,
il fenomeno inflattivo ha conosciuto un progressivo raffreddamento con un evidente
calo dei tassi di crescita, maggiormente sostenuto soprattutto a livello nazionale per il
quale si sono presentati anche valori negativi, seppur in valore assoluto non sopra
l’unità. Il fenomeno è la continuazione di un andamento che perdura già dagli anni
precedenti e risalterebbe con maggiore evidenzia se allargassimo l’orizzonte
temporale di osservazione al biennio antecedente.
Evidentemente si tratta della naturale conseguenza macroeconomica dell’applicazione
di politiche restrittive e contenitive del debito pubblico e della spesa pubblica (cd.
politiche di austerity) che, unitamente ad incrementi generalizzati del prelievo fiscale,
portano a contenere i consumi, riducendo la domanda locale e soprattutto quella
aggregata, di conseguenza parte della produzione (destinata al mercato interno),
dell’offerta e complessivamente quindi del livello generale dei prezzi.
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Bibliografia
S. Zani, STATISTICA, Giuffrè editore;
S. Zani, ANALISI DEI DATI STATISTICI I – OSSERVAZIONI IN UNA E DUE DIMENSIONI, Giuffrè editore;
Aldo Predetti, I NUMERI INDICI – TEORIA E PRATICA – 11° ED., Giuffrè editore;
Michael L. Katz, Harvey S. Rosen, MICROECONOMIA, McGraw-Hill;
N. Gregory Mankiw, MACROECONOMIA, Zanichelli;
A. Sanna, ECONOMIA E PROGRAMMAZIONE, Tramontana;
Istat: http://www.istat.it/it/;
Database statistiche Istat: http://dati.istat.it/;
Eurostat: http://ec.europa.eu/eurostat;
Enciclopedia Treccani:
http://www.treccani.it/enciclopedia/curva-di-laffer_(Dizionario_di_Economia_e_Finanza)/;
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