Nicolais G. (2002), La diagnosi nell’abuso intrafamiliare: teorie, metodologie, prospettive,
Infanzia & Adolescenza, 1, 3.
Riassunto
Dopo aver sottolineato l’errore più comune nell’approccio diagnostico all’abuso
all’infanzia, ovvero la fuorviante considerazione dell’abuso come disturbo, l’autore
evidenzia i principali tentativi di inquadramento diagnostico del fenomeno. Gran parte di
questi tentativi non ha riconosciuto la complessità del fenomeno, ora con approcci
principalmente descrittivi, ora non riconoscendo la necessità di valutare in modo
articolato anche il “contesto dell’abuso”. Vengono quindi riportati gli aspetti salienti della
teorizzazione e della ricerca sull’abuso basata sulla teoria dell’attaccamento, che hanno
sostanziato negli ultimi anni la realizzazione di metodologie valutative e strumenti
diagnostici volti all’analisi di quelle dinamiche interpersonali che costituiscono la matrice
primaria dell’abuso all’infanzia di natura intrafamiliare.
Parole chiave: abuso intrafamiliare; diagnosi; strumenti valutativi
Abstract
After describing the most common mistake in the diagnostic approach to child abuse (i.e.
the misleading confusion between abuse and disorder), the author describes highlights
some of the most relevant attempts to the definition of a diagnostic framework in child
abuse. Most of these attempts have underestimated the complexity of child abuse, both by
relying on descriptive diagnosis and on not recognising the importance of evaluating the
“context of the abuse”. Theoretical assumptions and research data from the field of
attachment theory are then considered, in order to show how these have shaped
diagnostic procedures and tools that proved adequate in assessing those interpersonal
dynamics so crucial in intrafamilial child abuse.
Key words: intrafamilial child abuse; diagnosis; diagnostic tools.
Introduzione
L’abuso all’infanzia non è un disturbo, ma un evento (singolo; ripetuto nel tempo; con
caratteristiche specifiche che riguardano, e incidono su, specifiche relazioni). In quanto
evento di natura traumatica, spesso incide pesantemente sullo stato evolutivo del
bambino, determinando quadri sintomatologici severi e danneggiando in modo
consistente lo sviluppo della personalità. Nell’abuso intrafamilaire, che rappresenta la
percentuale prevalente del fenomeno (Cawson, Wattam, Brooker, Kelly, 2000) l’evento si
realizza all’interno del contesto relazionale primario e da parte di un caregiver primario.
L’abuso non è un disturbo, quindi, ma spesso i clinici che hanno il compito di realizzare
diagnosi di minori abusati applicano inconsapevolmente l'equazione abuso=disturbo, e
ciò ha notevoli riflessi sul piano della valutazione clinica e su quello del trattamento.
Appare perciò importante ribadire la non sovrapponibilità tra abuso e “disturbi
solitamente diagnosticati per la prima volta nell’infanzia, nella fanciullezza e
nell’adolescenza” (DSM IV: American Psychiatric Association, 1994; American
Psychiatric Association, 2000), ricordando come questi ultimi siano diagnosticati in
riferimento a quattro aspetti:
1. caratteristiche prototipiche (caratteristiche diagnostiche; sottotipi) + fenomenologia:
definizione dei criteri diagnostici sui sintomi;
2. decorso;
3. diagnosi differenziale (vedi: tipicità e fenomenologia);
4. fattori etiologici (di natura intraindividuale).
Rispetto all’abuso all’infanzia possiamo affermare che:
1. come premesso, l’abuso all’infanzia non è un “disturbo”, e non si configura perciò con
caratteristiche prototipiche (“la caratteristica fondamentale è…”) o sottotipizzazioni (le
differenti “tipologie” di abuso riguardano, qui, le caratteristiche dell’evento);
2. in mancanza di uno specifico disturbo, non esiste “il” decorso specifico;
3. non è possibile porre diagnosi in senso differenziale in assenza di tipicità e
fenomenologia;
4. soprattutto: i fattori etiologici (in questo caso più propriamente: le determinanti
dell’evento) non sono di natura intraindividuale. Infatti, tali fattori sono relativi ad una
configurazione altamente complessuale in cui dovremo comprendere l’abusante; i
genitori; la dinamica della coppia genitoriale; lo/gli stile/i genitoriale/i e familiare;
l’ecologia di riferimento (famiglia allargata; figure significative, ecc.) nonché il contesto
culturale. Inoltre, per valutare l’incidenza reale di questi fattori etiologici al di fuori del
soggetto, è necessario considerare come profili diversi di personalità del bambino
agiscano nel modularne l’impatto. Appare chiaro, perciò, come l’abuso all’infanzia
richieda un approccio tanto epistemologico quanto clinico informati da un’ottica della
complessità che sappia tenere lo sguardo sulle molteplici determinanti che entrano in
gioco nel causare l’evento e, assieme, nel contribuire alla resilience possibile di “quel”
bambino in “quella” situazione. Tale complessità riverbera pienamente nel percorso
diagnostico dell’abuso all’infanzia: torneremo più in là su queste premesse.
Abuso all’infanzia e sistemi diagnostici
Se l’abuso è un evento e la diagnosi è, nella sua accezione medica originaria, “la
determinazione della natura o della sede di una malattia in base alla valutazione dei
sintomi” (Devoto, Oli, 2001), fare diagnosi nell’abuso all’infanzia sarebbe, strettamente
parlando, un’operazione impossibile. Inoltre, come i clinici che attuano la presa in carico
diagnostica e trattamentale di bambini abusati devono constatare frequentemente,
all’abuso non è quasi mai associata una sintomatologia specifica e/o mediamente
prevedibile. Sappiamo infatti che diversi “indicatori” possono rimandare a diverse
tipologie di abuso, ma anche che singoli “indicatori” possono essere presenti in diverse
tipologie di abuso (Black, Heyman, Smith Slep, 2001). Coerentemente con queste
premesse, i principali manuali diagnostici che si propongono di orientare i clinici alla
diagnosi adulta e nell’età evolutiva - ICD-10 (World Health Organization 1992, 1996) e
DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994) e DSM IV-TR (American Psychiatric
Association, 2001) - non prevedono una diagnosi specifica per l’abuso e il maltrattamento
all’infanzia. Tuttavia, nel campo dell’abuso all’infanzia a questi manuali viene comunque
fatto continuo riferimento per quei criteri diagnostici che caratterizzano stati
sintomatologici e/o comportamentali presentati dal bambino in seguito all’evento. Per una
esauriente trattazione dei limiti delle classificazioni diagnostiche usate in età evolutiva si
rimanda ad Ammaniti (2001). In questa sede, ricorderemo alcuni nodi particolarmente
problematici di queste classificazioni, che nel processo diagnostico dell’abuso divengono
ancora più evidenti.
In primo luogo, tali sistemi sono “ateoretici”: con l’obiettivo di rendere omogenee ed
attendibili le diagnosi operate dai clinici, queste sono definite da stretti criteri di
inclusione/esclusione, ed i disturbi vengono definiti in base alla presenza/assenza di
determinate manifestazioni sintomatologiche. Ciò comporta l’ancoraggio al livello più
basso di inferenza, ovvero quello osservabile, non considerando il passaggio
(necessariamente a “credito teorico”) verso livelli inferenziali di maggiore complessità e
orientati alla comprensione e valutazione delle determinanti psicologiche personali.
Conseguentemente, le diagnosi così orientate sono diagnosi categoriali, laddove la
comprensione degli evidenti aspetti dimensionali che sempre caratterizzano le
manifestazioni cliniche è sacrificata a favore della moltiplicazione del numero delle
diagnosi (Benjamin, 1996). All’interno di questo quadro, è fin troppo evidente
l’equazione tra presenza di sintomatologia e presenza di un disturbo psicopatologico
diagnosticabile, e in questo modo è peraltro facile ipotizzare come si sia in presenza di
percentuali sovrastimate di una psicopatologia che si risolve nella manifestazione di
sintomi specifici: alcuni studi (Costello e Tweed, 1994), infatti, dimostrano come spesso
persone diagnosticate con i criteri del DSM abbiano un normale funzionamento e un buon
adattamento.
Se in questo modo la psicopatologia adulta e infantile vengono assimilate al modello
tassonomico di derivazione medica, le implicazioni relative alla diagnosi dell’abuso sono
ancora più rilevanti proprio per le peculiarità sottolineate nell’introduzione al presente
lavoro. Ad esempio: spesso bambini abusati presentano quadri comportamentali di tipo
esternalizzante dirompenti. Sono bambini che non riescono a star fermi, la cui tenuta
attentiva è limitata ed estremamente fluttuante, in cui un’ansia tenace e persistente
sembra rendere loro impossibile la benché minima attività a significato. In situazioni di
questo tipo, frequentemente il clinico opterà per una diagnosi sul DSM-IV di “Disturbo
da Deficit di Attenzione e Comportamento Dirompente” (ADHD) o di “Disturbo PostTraumatico da Stress” (PTSD). Nel primo caso, la scelta attribuirà un criterio
sintomatologico ad etiologia intraindividuale (ADHD) ad un quadro comportamentale
conseguente a fattori etiologici extra individuali. In questo modo, la confusione tra abuso
e disturbo, mediante la reificazione della sintomatologia, sarà completa. Nel secondo
caso, la diagnosi di PTSD legherà correttamente la sintomatologia ad un evento
traumatico, ma lascerà irrisolte altre due questioni cruciali che definiscono l’adeguatezza
di un percorso diagnostico:
- quella della diagnosi differenziale: ai fini della diagnosi differenziale, nel PTSD
“l’evento stressante deve essere di natura estrema, cioè minaccioso per la vita”.
Questo criterio chiama in causa non solo la tipologia dell’evento abusante, ma
anche le attribuzioni del bambino (il “significato” che l’evento ha per il
soggetto), che non possono essere valutate all’interno di una procedura
diagnostica che leghi la diagnosi alla osservazione comportamentale e/o alla
derivazione di uno specifico quadro sintomatologico;
- quella della plurifattorialità etiologica: con i sintomi del PTSD il bambino “a
cosa” reagisce: all’evento, alla relazione abusante, alla sua incapacità di dare
significato a ciò che accade?
Infine, proprio perché l’abuso è un evento traumatico che si inscrive in una relazione
primaria, in primo piano si pone l’esigenza di comprendere come, nel corso del tempo in
cui l’abuso si è verificato, il bambino ha “registrato” le caratteristiche di quanto accaduto,
come vi ha reagito e come continua a reagirvi in termini adattivi. In un recente lavoro
(Nicolais, Ricceri, Pandolfo, Ferrero, 2002) abbiamo proposto, infatti, che la
sintomatologia post-traumatica possa essere utilmente intesa come la riattivazione del
“ricordo” del trauma effettuata dalla memoria implicita, nel tentativo che il bambino fa di
estrarre significato dall’evento traumatico. La sintomatologia è, nell’abuso all’infanzia,
solo uno degli elementi che costituiscono la risposta di adattamento del bambino: questi
elementi sono per la maggior parte costituiti da processi intrapsichici e interpersonali che
chiedono una comprensione ad hoc nel processo diagnostico.
Abuso e diagnosi individuale
Le principali classificazioni diagnostiche tendano, perciò, a rendere sovrapponibile la
presenza di quadri sintomatologici con quella di un disturbo. Tale impostazione, propria
di una tassonomia psicopatologica dell’età adulta, definisce in senso adultomorfico
l’approccio alla diagnosi in età evolutiva, in un periodo della vita nel quale sembra
difficile parlare di “psicopatologia individuale”, con gli stessi tratti di relativa stabilità e
consistenza che caratterizzano la psicopatologia adulta. Questo rilievo non intende
sottovalutare le evidenze scientifiche che riportano come alcuni disturbi nell’infanzia
possano avere caratteristiche di stabilità nel tempo (Kernberg, Weiner, Bardenstein,
2000). Piuttosto, preme sottolineare come l’adultomorfismo rappresenti un rischio in
particolare rispetto alla definizione (in analogia tra il mondo adulto e quello infantile) di
clusters sintomatologici specifici, dal momento che la trasformazione sintomatologica in
età evolutiva è molto rapida, e inoltre le condizioni di rischio evolutivo non sono sempre
segnalate da sintomatologia specifica, rimanendo frequentemente “silenti”. Inoltre, va
sottolineato come l’approccio adultomorfico alla diagnosi in età evolutiva abbia per lungo
tempo ostacolato l’approfondimento della realtà contestuale-relazionale del bambino
proponendo, in mimesi con il modello diagnostico adulto, modalità di assessment
esclusivamente volte a sondare lo status evolutivo, comportamentale e sintomatologico
del bambino in rapporto alle competenze e del profilo attesi per la sua fascia di età. Solo
nell’arco dell’ultimo decennio (Zeanah, 1993; National Center for Clinical Infant
Program, 1994), è stata maggiromente riconosciuta l’inadeguatezza, nel campo della
valutazione diagnostica in età evolutiva, di un approccio che prescinda dalla valutazione
del contesto relazionale-familiare (ma su questo torneremo più in là). Accanto a questi
aspetti di forzatura assieme epistemologica e clinica, occorre rilevare un altro elemento
che, indipendentemente dall’approccio psichiatrico-nosografico caratterizzante le varie
edizioni del DSM, ha definito un approccio fortemente individuale alla diagnosi in età
evolutiva.
Come ricorda Ammaniti (2001), nel campo della psicopatologia infantile “…fino agli
anni 70 i contributi di maggiore interesse sono scaturiti dalla psicoanalisi. Pur
riconoscendo l’importanza dell’apporto psicoanalitico alla individuazione e alla
concettualizzazione delle dinamiche psicologiche e dei conflitti psichici presenti nella
psicopatologia infantile, bisogna sottolineare allo stesso tempo che la psicoanalisi non
solo non si è mai posta l’obiettivo di costruire una classificazione dei disturbi psichici, ma
ha addirittura manifestato una certa diffidenza verso ogni tentativo di riconoscere criteri
più generali di classificazione” (pag. 5). Nonostante questa “diffidenza”, però, la
tradizione psicoanalitica (quella francese, in primo luogo) ha tentato in modo articolato di
giungere ad una definizione sistematica della psicopatologia del bambino e
dell’adolescente, producendo manuali (si veda il classico Ajuriaguerra, Marcelli, 1982) in
cui, accanto alla definizione di grandi raggruppamenti nosografici, trova ampio spazio
l’approfondimento clinico della “psicopatologia delle condotte”. Nel manuale della
Boekholt (1993) sulla metodologia diagnostica nella clinica infantile, vengono presentati
strumenti per la valutazione del bambino quali lo Sceno-Test (von Staabs, 1964), il CAT
(Bellak, 1950) e il TAT (Bellak, 1954), sottolineando l’importanza di questi test proiettivi
nell’ancorare la diagnosi al costrutto psicoanalitico relativo alla distinzione tra materiale
manifesto e contenuti latenti: “non sono tanto i temi ad essere importanti, quanto il modo
di affrontarli, cioè i procedimenti formali, individuabili a livello del linguaggio, se si
tratta di sollecitazioni verbali, a livello gestuale, se si tratta di prove di gioco.
Procedimenti di elaborazione del discorso e, come vedremo, procedimenti di
elaborazione del gioco che rimandano dunque a operazioni difensive inconsce delle quali
essi sono la traduzione manifesta” (pg. 2). Come appare evidente, in questo orientamento
della psicopatologia psicoanalitica contemporanea (Lebovici, Diatkine, Soulè, 1985), la
ricerca dei sintomi (ovvero del disturbo) tipica dell’approccio DSM viene posta in
secondo piano: predomina l’attenzione alle tematiche proprie del mondo interno del
bambino, e quindi alla determinazione dell’assetto conflittuale e difensivo intrapsichico.
Parallelamente al predominante approccio DSM-oriented nell’intervento diagnostico in
età evolutiva, quindi, si consolida nei clinici un approccio valutativo fortemente
indirizzato alla diagnosi delle dinamiche intrapsichiche del bambino. Mentre è sempre
più forte il ricorso a strumenti (come le checklist descrittive della sintomatologia del
bambino, di quella degli adulti, del conflitto familiare, ecc.) per il riconoscimento
evidence based di segni e sintomi di abuso e maltrattamento, che comporta una
focalizzazione della valutazione su tematiche specifiche che lascia inesplorate aree
decisive per la determinazione del complessivo status evolutivo del bambino, si perpetua
un mancato o parziale riconoscimento della variabile “contesto” (Bronfenbrenner, 1979;
Sameroff e Chandler, 1975; Sameroff e Fiese, 2000) nella matrice etiologica e nelle
conseguenze dell’abuso, con l’assenza di focalizzazione sulle specifiche tematiche
interpersonali relative all’abuso.
Gli approcci alla diagnosi
Lo studio sistematico dell’abuso e maltrattamento all’infanzia ha inizio con i lavori di
Kempe (Kempe, Silverman, Steele, Droegemueller, Silver, 1962) sull’abuso fisico. La
diagnostica strumentale medica permette in quegli anni, con l’esame dei raggi X, di
cogliere e catalogare sistematicamente le lesioni riportate dai bambini percossi: si parla,
infatti, di “sindrome del bambino battuto”. Fin dall’inizio, perciò, l’interesse per gli
aspetti clinici del fenomeno si lega, in ambito strettamente scientifico ma anche socioculturale, agli aspetti medico-legali e giudiziari dell’abuso. La crescente attenzione al
fenomeno nella sua complessità renderà nel corso degli anni e fino ai nostri giorni sempre
più articolata la definizione di “abuso all’infanzia”, che oggi è ampiamente condivisa
nella comunità scientifica, in un’accezione estensiva come “ogni cosa che interferisce con
lo sviluppo ottimale di un bambino” (affiancando perciò alle tradizionali titpizzazioni
dell’abuso fisico e sessuale, la trascuratezza e il maltrattamento psicologico, fino alla
violenza assistita). Ma costante nel tempo rimane l’interesse per la determinazione
dell’abuso come evento fattuale. E’ attorno all’abuso sessuale, perciò, che vengono a
costituirsi le modellizzazioni dell’intervento clinico-valutativo più chiaramente
esplicitate, proprio perché volte a determinare l’attendibilità delle dichiarazioni del
minore in riferimento all’episodio abusante. La valutazione del comportamento del
bambino con sospetto di abuso sessuale (per una review approfondita, si veda: Dettore,
Fuligni, 1999) viene declinata principalmente come la raccolta di una attenta anamnesi
comportamentale. Krugman e Jones (1988), ad esempio, descrivono alcuni indici
comportamentali generalmente associati all’abuso sessuale (sia verbalizzati che
manifestati dal minore) che, pur non avendo singolarmente un valore decisivo, possono,
in termini di “costellazioni”, deporre per un abuso realmente subito. Il clinico deve
valutare indizi precoci (azioni o verbalizzazioni del bambino su argomenti di natura
sessuale);
affermazioni
dirette
(verbalizzazioni
dell’evento);
cambiamenti
comportamentali (dai disturbo del sonno a vere e proprie psicopatologie, come
depressione, reazioni isteriche, comportamenti autolesivi di tipo suicidario); condizioni
mediche ( dai dolori addominali all’abuso di sostanze). Il riscontro circa la presenza di
questi indicatori anche in assenza di eventi abusanti (Melton e Limber, 1989) come
quello, al contrario, circa l’assenza di condotte problematiche in bambini sessualmente
abusati (Browne e Finkelhor, 1987), orienta i ricercatori alla identificazione di indici
comportamentali maggiormente discriminativi nell’abuso sessuale, ovvero di
comportamenti sessualizzati. Il clinico, quindi, dovrebbe diagnosticare attentamente la
presenza di tali indicatori al fine di dirimere la questione relativa alla veridicità dell’abuso
subito con maggiore accuratezza. A livello metodologico, il setting valutativo vede
l’ingresso delle cosiddette “bambole anatomicamente corrette”, ovvero bambole di
entrambi i sessi caratterizzate dalla presenza degli attributi sessuali primari e secondari,
volte a facilitare l’emergere di attivazioni ludiche sessualizzate. Le tecniche valutative
finiscono per coincidere con accurate interviste al minore (la “Step-Wise Interview di
Yuille e Farr, 1987; l’Intervista Cognitiva, Geiselman, Fisher, Firstenberg, Hutton,
Sullivan, Avetissian, Prosk, 1984; Fisher, Geiselman, Raymond, Jurkevich, Warhaftig,
1987) che perseguono lo scopo specifico di ottimizzare il ricordo dell’abuso, cercando di
ottenere il massimo di informazioni dal bambino, ma non consentono una valutazione
articolata dello stato evolutivo del minore.
In anni recenti, numerosi sono stati i tentativi di inquadrare le conseguenze dell’abuso e
del maltrattamento all’interno della categoria diagnostica del PTSD, tanto che si è giunti
a parlare del “modello post-traumatico” (Caffo, Camerini, Florit, 2002) come di un
modello clinicamente orientato alla determinazione delle cause e delle conseguenze di
questo fenomeno. La caratteristica saliente di questo modello è quella di assegnare la
preminenza nell’inquadramento concettuale dell’abuso al fattore etiologico traumatogeno
e al suo rapporto con gli esiti clinici presentati dal minore. In riferimento alle diagnosi
previste dal DSM per i disturbi post-traumatici, questo modello delinea un percorso
diagnostico che, basandosi sulla letteratura che descrive come consistente la presenza di
sintomatologia post-traumatica nei bambini abusati (van der Kolk, 1994; Ford, Racusin,
Ellis, Daviss, Reiser, Fleischer, Thomas, 2000), è volto alla valutazione degli esiti clinici
dell’abuso. A livello metodologico, nella diagnosi ciò viene realizzato attraverso la
somministrazione di specifiche interviste semi-strutturate, come la Impact of Events
Scale (Horowitz, Wilner, Alvarez, 1979) o il Children’s Post-Traumatic Stress Disorder
Inventory (Saigh, 1989). Queste scale di valutazione del profilo sintomatologico posttraumatico hanno l’indubbio merito di porsi come strumenti al contempo clinici e di
ricerca, consentendo una condivisione in ambito scientifico dei dati, ma sono
l’espressione di un approccio diagnostico principalmente volto alla determinazione delle
conseguenze dell’abuso (e quindi descrittivo) ma non sufficientemente orientato ad un
assessment diagnostico dell’intero quadro evolutivo del soggetto abusato. Ciononostante,
uno dei meriti maggiori degli studi orientati sul modello post-traumatico è quello di aver
dimostrato scientificamente un fatto di assoluta evidenza clinica: una buona percentuale
di bambini che hanno subito abusi non presenta una sintomatologia post-traumatica
(Kiser, 1988), e questo tipo di sintomatologia sembra essere caratteristica soprattutto di
bambini che hanno subito abusi di natura sessuale (Famularo, Kinscherff, Fenton, 1992).
Questi riscontri indicano alcuni aspetti importanti per il nostro discorso:
- viene confermata la sostanziale aspecificità dei cosiddetti “indicatori di abuso”
cui abbiamo già accennato;
- inoltre, viene indicato come la sintomatologia post-traumatica non rappresenti
la sintomatologia caratteristica delle diverse tipologie di abuso;
- infine: questi dati confermano la necessità, in una prospettiva diagnosticoesplicativa e non solo diagnostico-descrittiva, di realizzare assessment
diagnostici che permettano la valutazione della sintomatologia e delle
conseguenze sullo sviluppo in una prospettiva diacronica che tenga conto della
storia dell’individuo e della bilancia tra fattori di rischio e di protezione che ha
determinato “quello” specifico esito in “quel” particolare bambino con “quella”
specifica storia.
La diagnosi della relazione
Fare diagnosi nell’abuso all’infanzia, principalmente ma non esclusivamente in quello
intrafamiliare, richiede quindi un’attenta valutazione del profilo clinico-sintomatologico
del bambino all’interno di un assessment diagnostico articolato sull’indagine del contesto.
Ciò implica un approccio volto a considerare le peculiarità della storia relazionale del
bambino nel modo in cui si sono declinate all’interno dei rapporti con le figure di
riferimento del nucleo familiare. Un breve excursus circa gli studi dei fattori etiologici
nell’abuso all’infanzia ci consentirà di delineare quei modelli che, nell’arco degli ultimi
20 anni, hanno aperto la strada a questo approccio diagnostico.
Fino agli inizi degli anni ’80 lo studio dei fattori etiologici ha indicato la centralità dei
fattori di natura socio-culturale ed economica (studi sul cosiddetto fattore SES – status
socioeconomico), in particolare per l’abuso sessuale e fisico. Le ricerche
epidemiologiche, che in ambito statunitense si avvalgono di fondi ingenti stanziati per
studiare le dimensioni di un fenomeno che dall’opinione pubblica viene considerato con
estrema preoccupazione, cominciano a mostrare in quegli anni, e sempre più
confermeranno negli anni successivi (National Center on Child Abuse and Neglect, 1978,
1993, 1995), come in realtà l’abuso, soprattutto quello sessuale intrafamiliare, sia un
fenomeno trasversale. Conseguentemente, i ricercatori spostano il focus della ricerca sui
fattori etiologici nella direzione di possibili fattori di natura familiare (caratteristiche del
nucleo, presenza di un patrigno, presenza di conflittualità, caratteristiche del
funzionamento della coppia, presenza di esperienze di abuso nel genitore abusante, ecc).
Un importante lavoro di David Finkelhor (1979), a tutt’oggi uno degli studiosi più
rigorosi e attenti del fenomeno, identifica, costruendo uno strumento specifico (la Risk
Factor Checklist) una possibile “costellazione di rischio” in cui otto fattori
interagirebbero, in termini probabilistici, nel realizzare condizioni favorenti l’abuso
sessuale: presenza di un patrigno; separazione temporanea dalla madre; mancanza di
vicinanza con la madre; basso livello di scolarità materna; aspetti punitivi circa la
sessualità da parte della madre; assenza di affetto da parte del padre; due o meno di due
amicizie durante l'infanzia; reddito familiare annuale inferiore a $ 10.000. Uno studio di
molti anni dopo (Bergner et al., 1994), usando gli stessi fattori di rischio su popolazioni
diversamente selezionate, ha dimostrato una scarsa incidenza dei fattori di rischio in
questione. Del resto, lo stesso Finkelhor aveva già affermato che: "un'altra linea di ricerca
importante consiste nel guardare attentamente alle caratteristiche degli stessi bambini,
oltre che alle caratteristiche delle loro famiglie e del loro ambiente sociale. Sono ancora
poche le ricerche condotte per indagare se bambini con certe personalità, caratteristiche
fisiche e psicologiche possono essere a maggiore o minore rischio per l'abuso."
(Finkelhor, 1993, pag. 69). Parallelamente, le definizioni operative del maltrattamento si
fanno sempre più articolate, declinando il fenomeno lungo alcune dimensioni (la
tipologia, la ricorsività o l’unicità dell’evento, ecc.) le cui implicazioni nel determinare
esiti psicopatologici per il bambino devono essere comprese nella loro interazione con i
diversi elementi strutturali ed evolutivi del bambino da un lato, e con le caratteristiche del
suo contesto familiare ed extrafamiliare dall’altro.
La necessità di incentrare la ricerca sul maltrattamento attorno alla complessa
interrelazione tra le caratteristiche dell'evento, del bambino coinvolto e del suo contesto è
espressione diretta di quella developmental psychopathology (Cicchetti e Toth, 1995) che,
nello studio delle origini e delle cause dei pattern di adattamento disfunzionale del
bambino al proprio ambiente, sottolinea la necessità di tener conto del rapporto tra
sviluppo normale e patologico, della continuità versus discontinuità nello sviluppo e della
bilancia tra fattori di rischio e fattori protettivi presenti nella sua “ecologia”. Rispetto al
maltrattamento, viene in questo ambito postulata la necessità di condurre valutazioni
diagnostiche basate su:
a)
un approfondimento delle trasformazioni e riorganizzazioni che si realizzano a
partire dall’evento;
b)
un’analisi dei fattori di rischio e protettivi che operano nell’individuo e nel suo
contesto ambientale;
c)
un’analisi del modo in cui funzioni e competenze emergenti, assieme a compiti di
sviluppo fasespecifici, modificano l’espressione del disturbo o comportano
sintomi e difficoltà;
d)
il riconoscimento del fatto che uno stress specifico o uno specifico funzionamento
possono verificarsi in difficoltà comportamentali diverse, in tempi diversi durante lo
sviluppo e in contesti diversi.
In relazione allo studio e all’approfondimento dei fattori etiologici del maltrattamento,
maturano così modelli esplicativi e metodologie diagnostiche che tentano di cogliere la
specificità di fattori intervenienti che operano ai vari livelli delle “ecologie” individuale,
familiare e sociale: diverse esperienze di abuso e maltrattamento avranno diversi
significati per l’individuo in funzione della loro natura, della fase di sviluppo in cui si
verificano, e della natura delle relazioni in ambito familiare.
Nel “modello transazionale” di Cicchetti e Rizley (1981), il risultato delle fasi evolutive è
dato dai contributi reciproci di forze ambientali, caratteristiche dei caregivers e
caratteristiche del bambino.
Le transazioni tra fattori di rischio e protettivi che contribuiscono al verificarsi dell’abuso
e del maltrattamento possono venire così schematizzate:
Fattori di rischio perduranti: biologici, psicologici, sociali, storici retrospettivi (a lungo
termine).
Fattori di rischio transitori: perdite (lavoro, affetto), problemi di coppia e/o familiari,
malattie, periodo critico sviluppo bambino.
Fattori protettivi perduranti: cure adeguate, legami di attaccamento sicuri, adeguate
capacità genitoriali (a lungo termine)
Fattori protettivi transitori: miglioramento del rapporto di coppia, miglioramento
economico, uscita del bambino da un periodo di sviluppo critico.
Il maltrattamento e l’abuso si verificano quando, nell’economia generale delle linee
evolutive del bambino, i fattori di rischio non sono adeguatamente fronteggiati dalla
presenza di fattori protettivi che aumentino le capacità di coping del bambino.
Il “modello ecologico” di Belsky (1980) punta ad una descrizione articolata dell’ambiente
nel quale l’abuso e il maltrattamento possono manifestarsi. I quattro livelli di analisi
proposti sono lo sviluppo ontogenetico (fattori individuali e disposizionali che sono
associati con l’essere perpetratore di abuso, e/o con l’esposizione a situazioni abusanti); il
microsistema (fattori relativi alla famiglia nucleare in termini di composizione, dinamiche
prevalenti, stile della coppia, attitudini genitoriali, ecc.); l’esosistema (aspetti della
comunità di appartenenza della famiglia e dell’individuo che contribuiscono all’abuso e
al maltrattamento); e il macrosistema (fattori relativi a valori e riferimenti culturali della
società di appartenenza).
Infine, il “modello transazional-ecologico” dello stesso autore (Belsky, 1993) tenta una
sintesi tra i due precedenti modelli, all’interno della quale i fattori di rischio possono
essere presenti a ciascun livello dell’ecologia: l’abuso e il maltrattamento sono a
“determinazione multipla” rispetto a fattori che operano ai vari livelli dell’ecologia. E’
quindi impossibile isolare un passaggio lineare verso l’abuso, e ne consegue che il
discorso sull’etiologia va sempre affrontato considerando la “bilancia” tra fattori di
rischio e protettivi sia in senso assoluto che relativamente alle ecologie di immediato
(prossimali) e meno immediato (distali) impatto nella vita del bambino.
Notiamo come queste modellizzazioni rispondano ad un orientamento epistemiologico
informato dalla teoria della complessità, dove il concetto di causalità è evidentemente
circolare, ma soprattutto dove le variabili intervenienti nella determinazione del
fenomeno abuso e nel modo in cui l’individuo potrà rispondervi (concetti di coping e di
resilience) aumentano fino a formare un quadro che, per quanto riguarda la presa in
carico clinico-diagnostica, richiede un approccio articolato alla valutazione. A livello
metodologico-diagnostico ciò porta con sé un vincolo ineludibile, ovvero la necessità di
dotarsi di strumenti diagnostici raffinati, volti all’indagine dell’individuo, della sua
matrice relazionale e familiare, come anche dei fattori distali della sua ecologia.
Un esempio interessante di modello valutativo che assume una diretta focalizzazione di
intervento sul “contesto” oltre che sul bambino, è quello rappresentato dal recente
tentativo di sistematizzazione dell’intervento di valutazione di bambini in difficoltà da
parte del governo inglese. In “Framework for the Assessment of Children in Need and
their Families” (UK Department of Health, 1999), pubblicazione destinata agli operatori
socio-sanitari del sistema sanitario nazionale inglese che si occupano della presa in carico
di minori in difficoltà (provenienti da zone economicamente depresse; con famiglie o
genitori in difficoltà; che hanno subito abusi e maltrattamento), viene proposto un
modello valutativo multidimensionale diretto a valutare: i bisogni evolutivi del bambino;
le capacità genitoriali; i fattori familiari ed ambientali. Lo strumento metodologico di
riferimento è rappresentato da un “Family Assessment Pack of Questionnaires and
Scales" in cui la valutazione clinica della famiglia è realizzata attraverso la
somministrazione di una serie di checklist specifiche per i tre ambiti di indagine. Così, i
bisogni evolutivi del bambino sono valutati attraverso lo Strengths and Difficulties
Questionnaire (Goodman, 1997; Goodman, Meltzer, Bailey, 1998), strumento volto alla
determinazione di profili emotivi e comportamentali disfunzionali, mentre per i bisogni
evolutivi dell'adolescente è prevista la somministrazione della Adolescent Well-Being
Scale (Birleson, 1980). La valutazione delle capacità genitoriali viene fatta
somministrando la Adult Well-Being Scale (Snaith, Constantopoulos, Jardine, McGuffin,
1978) per la determinazione del profilo psicologico dei singoli genitori, e la Parenting
Daily Hassles Scale (Crnic e Greenberg, 1990) per l’analisi delle modalità e degli
atteggiamenti genitoriali. Infine, i fattori familiari ambientali vengono indagati attraverso
la Family Activity Scale (Smith, 1985) per la descrizione dell’ambiente familiare, e il
Recent Life Events Questionnaire (Brugha, Bebington, Tennant, Hurry, 1985) che è
rivolto a determinare l’esistenza di particolari eventi che negli ultimi 12 mesi possano
avere inciso significativamente sulla vita della famiglia. Questo approccio, pur segnando
una chiara apertura alla valutazione delle diverse variabili intervenienti nella
determinazione di fenomeni complessi come l’abuso e il maltrattamento intrafamiliare,
rappresenta però una metodologia di intervento volta allo screening di situazioni
eventualmente problematiche, e non propriamente di valutazione diagnostica. La
somministrazione di strumenti evidence based è infatti volta ad intercettare rapidamente e
in modo oggettivabile quelle situazioni apertamente problematiche e/o francamente
patologiche, che verranno segnalate ai servizi specialistici di salute mentale.
La centralità del costrutto dell’attaccamento nella diagnosi della relazione
Secondo la teoria dell’attaccamento, la relazione preferenziale – biologicamente
predeterminata - che il bambino instaura con il/i caregiver/s primario/i nel corso del
primo annosi articola attraverso specifici stili di attaccamento (Ainsworth et al., 1978).
Ciò significa che i pattern dell’attaccamento si declinano nel rapporto con il caregiver
attraverso peculiari modalità interattive. Con lo sviluppo del bambino, viene postulato
che tali modalità siano la matrice fondante della vita relazionale del bambino: si realizza,
cioè, un passaggio dal livello comportamentale a quello intrapsichico (di natura
rappresentazionale) di tali modalità, che definiscono i cosiddetti Modelli Operativi Interni
della relazione (Main et al., 1985; Bretherton, 1990; Bretherton, Munholland, 1999).
Numerosi dati di ricerca inidcano come la relazione tra bambini abusati ed i loro
caregiver appaia prevalentemente caratterizzata da attaccamenti insicuri e disorganizzati
(Cicchetti e Barnett, 1991). Queste tipologie di attaccamento sono state riscontrate in
studi di follow-up anche nel periodo scolare (Lynch e Cicchetti, 1991), definendosi come
una “costellazione” con tratti di relativa stabilità nel tempo.
L’assunto centrale della teoria dell’attaccamento e i dati di ricerca riportati, comportano
una prima implicazione fondamentale per il nostro discorso: nella diagnosi del bambino
appare sempre importante indagare la natura di questo/i legame/i che tanta parte ha nella
formazione dell’assetto relazionale ed identitario del bambino; nella diagnosi dell’abuso
all’infanzia, ciò appare ancora più importante alla luce della riscontrata presenza di
pattern di attaccamento disfunzionali che possono incidere in senso disadattivo sulla
resilience del bambino di fronte a stressors specifici di natura traumatica.
Le ricerche che nell’ultimo decennio, usando lo strumento della Adult attachment
Interview-AAI (Main & Goldwyn, 1985-96) hanno valutato e classificato le
rappresentazioni mentali degli adulti relative alle relazioni di attaccamento, hanno fornito
una robusta evidenza empirica al costrutto della trasmissione intergenerazionale dei
modelli di attaccamento tra caregiver e figlio. Il “modello dell’assimilazione” (Solomon
& George, 1996) suggerisce come le madri integrino le proprie esperienze con il bambino
nei propri schemi preesistenti relativi all’attaccamento: numerosi ricercatori (Ammaniti,
Candelori, Pola, Speranza, Tambelli, 1995; Benoit e Parker, 1994; van Ijzendoorn, 1995;
Zeanah, 1993) hanno rilevato una forte corrispondenza tra le rappresentazioni materne
dell’attaccamento e la qualità del legame di attaccamento dei propri figli nei loro
confronti; inoltre, è stato dimostrato come il modello operativo interno dell’attaccamento
di un adulto verificato prima della nascita del primogenito sia predittivo della sicurezza
della relazione di attaccamento ad un anno (van Ijzendoorn, 1995). Alla luce del costrutto
della trasmissione intergenerazionale, il comportamento disorganizzato (Main e Solomon,
1986) è stato messo in relazione al maltrattamento e all’abuso nei campioni ad alto
rischio e al lutto o al trauma non risolto del genitore nei campioni a basso rischio (Main e
Solomon, 1990; Ainsworth e Eichberg, 1991; Lyons-Ruth e Block, 1996; Lyons-Ruth,
1996; Lyons-Ruth e Jacobvitz, 1999; Carlson, Cicchetti, Barnett, Braunwald, 1989).
Nell’ipotesi di Main e Hesse (1990) il comportamento disorganizzato sembra essere la
risposta al paradosso secondo il quale il genitore è l’unica figura a cui rivolgersi, ma
contemporaneamente suscita egli stesso paura o perché è direttamente minaccioso o
perché è impaurito da una fonte che il bambino non può identificare, come quando è
ancora alle prese con un lutto non risolto. Questi dati di ricerca ci portano ad una seconda
implicazione fondamentale per il nostro discorso: il costrutto della trasmissione
intergenerazionale indica l’importanza, nella diagnosi dell’abuso all’infanzia, di valutare i
diversi livelli (comportamentale-interattivo e rappresentazionale) attraverso cui si
evidenziano le modalità adattive o disadattive della connessione emotiva della coppia
bambino-caregiver. Tale implicazione incontra, a livello metodologico, la necessità di
valutare non solo in senso descrittivo quella ”complessa interazione tra le caratteristiche
dell’evento, del bambino coinvolto e del suo contesto” richiamata dalla developmental
psychopathology.
Studi longitudinali in campioni di popolazione ad alto rischio (Sroufe, 1983; Sroufe,
Egeland, Kreutzer, 1990; Urban, Carlson, Egeland, Sroufe, 1991; Toth e Cicchetti, 1996)
hanno riscontrato come bambini inizialmente classificati “insicuri” presentavano nel
tempo quote significativamente maggiori di sintonamtologia depressiva e/o aggressiva
rispetto a quelli classificati “sicuri”. Altri studi (Ogawa, Sroufe, Weinfield, Carlson,
Egeland, 1997) hanno confermato l’ipotesi di Liotti (1995) circa il legame tra
disorganizzazione precoce in risposta a situazioni traumatiche e disturbi dissociativi. Altri
legami significativi sono stati riscontrati tra attaccamenti insicuri e disorganizzati e
disturbo oppositivo-provocatorio (DeKlyen, Speltz, Greenberg, 1996) e disturbo
dell’identità di genere (Goldberg, 1997). Questi dati costituiscono la terza implicazione
fondamentale per il nostro discorso: fare diagnosi di disturbi dell’attaccamento (che,
come abbiamo segnalato in precedenza, sono attesi in percentuali significativamente
maggiori nei campioni di bambini ad alto rischio) vuol dire poter intervenire in senso di
prevenzione secondaria sull’instaturarsi di quadri psicoaptologici maggiormente
strutturati nel corso dello sviluppo.
Queste tre implicazioni mettono in luce come le relazioni di attaccamento giochino un
ruolo centrale nel modellare l’assetto identitario e lo stile relazionale del bambino,
potendo arrivare a costituire, nel caso degli attaccamenti “insicuri” e disorganizzati”, un
punto di innesco per lo sviluppo di assetti psicopatologici strutturati nel corso dello
sviluppo: l’adattamento del bambino all’ambiente è modulato da tendenze ed aspettative
relazionali che si formano all’interno delle relazioni primarie. Oltre a ciò, la prospettiva
diacronica della trasmissione intergenerazionale indica come la qualità di tali relazioni
possa rappresentare condizioni di rischio o protettive per la risposta del bambino (coping)
di fronte a situazioni traumatiche.
Strumenti diagnostici per la valutazione del “trauma della relazione”
L’armamentario metodologico che nell’ambito della teoria dell’attaccamento è stato
realizzato, a partire dalla Strange Situation (Ainsworth et al., 1978), al fine di osservare e
valutare la qualità degli stili di attaccamento individuali, rappresenta un’utile risorsa
nell’approccio diagnostico dell’abuso all’infanzia inteso a valutare le complesse
dinamiche che sono alla base del “trauma della relazione”: ovvero di quelle condizioni,
fin qui descritte, che rappresentano la matrice originaria su cui possono costituirsi eventi
abusanti e di violazione dell’identità personale e psichica del bambino all’interno del suo
nucleo affettivo e relazionale primario. Di seguito, segnalerò gli strumenti più diffusi e
che hanno prodotto i dati di maggiore interesse per la presente trattazione.
La Strange Situation (Ainsworth et al., 1978) nasce come procedura volta ad analizzare la
relazione bambino-caregiver sulla base del comportamento interattivo della diade, tra il
primo ed il secondo anno di vita del bambino. Prevede due separazioni e due riunioni con
il caregiver: durante le separazioni, il bambino viene lasciato la prima volta alla presenza
di un “estraneo”, e la seconda volta da solo. Così, è possibile valutare il legame di
attaccamento del bambino alla riunione con il caregiverf dopo aver vissuto situazioni che,
per la loro natura stressante, si ritiene elicitino il comportamento di ricerca di vicinanza e
protezione. La classificazione del comportamento di attaccamento prevede la codifica di
quattro possibili stili prevalenti: gli stili B-sicuro, A-evitante, C-ambivalente o resistente
inizialmente identificati dalla Ainsworth, e lo stile D-disorganizzato/disorientato
identificato da Main e Solomon (1990).
La definizione della tipologia D riveste particolare rilievo nel campo dell’abuso
all’infanzia, poiché, come ricordato in precedenza, è riscontrata prevalentemente in
campioni di bambini maltrattati. Diversi studi, usando la Strange Situation in campioni ad
alto rischio con bambini maltrattati, hanno infatti individuato percentuali
significativamente più alte di tale tipologia rispetto a quelle presenti nella popolazione
normale (Carlson et al., 1989; Lyons-Ruth, Connell, Grunebaum, Botein, 1990),
evidenziando come il maltrattamento debba essere considerato uno dei precursori più
significativi di simili perturbazioni consistenti del comportamento di attaccamento.
La valutazione del comportamento di attaccamento nella fascia prescolare (2-6 anni)
viene realizzata attraverso opportune modificazioni dello schema base della Strange
Situation. Le procedure più comuni sono la Main-Cassidy Attachment Classification for
Kindergarten-Age Children (Main e Cassidy, 1988); il Cassidy-Marvin System (Cassidy
e Marvin, 1987, 1990, 1991, 1992); il Preschool Assessment of Attachment-PAA
(Crittenden, 1992, 1994). Tutti questi approcci, pur differendo relativamente ai sistemi di
codifica e quindi sulle tipologie di attaccamento classificate, prevedono separazioni e
riunioni tra bambino e caregiver, con separazioni sempre più prolungate in base alla
fascia di età all’interno delle quali al bambino vengono proposte attività diverse.
La Crowell Procedure (Crowell e Feldman, 1988) è una procedura di osservazione e
valutazione dell’interazione caregiver-bambino nella fascia 1-6 anni che non utilizza
primariamente la strategia delle separazioni e delle riunioni. Diversamente, si articola su
7 momenti temporalmente scanditi in cui il caregiver ed il bambino sono impegnati
insieme in diverse attività: gioco libero; riordino della stanza; bolle di sapone; compiti di
insegnamento (graduati per livelli di 4 mesi); separazione; riunione. Vengono valutati gli
aspetti regolativi dell’interazione sia a carico del bambino (affetti; compliance; costanza
nel compito) che del caregiver (responsività comportamentale ed emotiva; affetti; ritiro;
compliance; irritabilità).
Illustrando il razionale della metodologia valutativa dell’abuso all’infanzia derivata dalla
teoria dell’attaccamento, ho sottolineato come la prospettiva intergenerazionale
costituisca un elemento chiave nella ricostruzione delle determinanti dello sviluppo del
bambino e della sua storia di “trauma della relazione”. A livello metodologio, da ciò
deriva l’importanza di integrare nella diagnosi del bambino la valutazione del modello di
attaccamento dei genitori, per cui solitamente in questo approccio alla diagnosi la
somministrazione della Adult Attachment Interview-AAI (George, Kaplan, Main, 1984)
ai genitori viene considerata l’indispensabile completamento delle misure dello stile di
attaccamento del bambino. Numerosi studi, nell’arco dell’ultimo decennio, sono stati
condotti al fine di classificare l’attaccamento adulto in popolazioni cliniche, con
importanti ricerche sui principali modelli di attaccamento riscontrati nelle madri abusanti
(Lyons-Ruth e Block, 1996; Lyons-Ruth, Zoll, Connell, Grunebaum, 1989).
Recentemente (Speranza e Nicolais, 2002; Speranza, Nicolais, Ammaniti, 2002, in
stampa), si è cominciato ad indagare l’assetto rappresentazionale nelle coppie di genitori
coinvolti in situazioni di abuso intrafamiliare anche se non direttamente abusanti,
evidenziano come anche un’alta percentuale di questi genitori sia caratterizzata da
modelli problematici dell’attaccamento. Negli ultimi anni, i ricercatori che operano nella
tradizione della teoria dell’attaccamento hanno cominciato a realizzare strumenti
valutativi che, in analogia con quanto avviene tramite la somministrazione della AAI,
esplorano il livello rappresentazionale dell’attaccamento.
La MacArthur Story Stem Battery-MSSB (Bretherton, Ridgeway, Cassidy, 1990;
Buchsbaum e Emde, 1990; Buchsbaum, Toth, Clyman, Cicchetti, Emde, 1992) è uno
strumento pensato a questo scopo. Questo strumento, adattato per la fascia 3-7 anni,
consiste nella presentazione al bambino di un materiale-stimolo (casetta giocattolo con
pupazzetti madre, padre, nonna, bambino più piccolo, bambino più grande) che favorisce
la produzione di narrazioni relative a specifiche situazioni relazionali e familiari e ad
eventi particolarmente significativi. L’intervistatore chiede al bambino di giocare con lui
e di aiutarlo a raccontare delle storie sulle situazioni che egli gli proporrà, il bambino
deve quindi completare quanto iniziato dall’intervistatore. L’applicazione di questa
metodologia valutativa con bambini abusati ha prodotto dati di notevole interesse
(Buchsbaum et al., 1992). L’ipotesi della Crittenden (1990) circa i “modelli
rappresentazionali chiusi della relazione” che tenderebbero a caratterizzare in modo
relativamente stabile nel tempo i bambini maltrattati, sembra aver ricevuto una conferma
dal fatto che questi bambini hanno rappresentazioni della madre e del sé negative e nel
contempo mostrano un comportamento con l’esaminatore più controllante e meno
responsivo. Inoltre, il neglect ha fatto registrare, tra le tipologie di abuso considerate, i
più bassi livelli di rappresentazioni positive del sé tra tutte le altre forme di abuso. Ciò
confermerebbe la maggiore “pervasività” di questa tipologia di abuso sulla strutturazione
del sé rispetto alle altre: questi bambini, infatti, riceverebbero all’interno delle relazioni
con i caregivers in maniera continuativa una attenzione minima alla loro persona, mentre,
ad esempio, quelli abusati fisicamente sperimenterebbero periodi in cui sono
adeguatamente “tenuti” nella mente dei propri caregivers.
Infine, per la valutazione dell’assetto rappresentazionale relativo all’attaccamento per
soggetti che si trovino nella fase di latenza e nella pre-adolescenza, attraverso lo
strumento della Intervista sull’Attaccamento in Latenza-I.A.L. (Ammaniti et al., 1990) è
stato realizzato un adatamewnto della strutura della AAI. La IAL è, infatti, una revisione
della Adult Attachment Interview in cui la struttura dell’intervista e la sequenza delle
domande rimangono inalterate, ma il linguaggio è semplificato e adattato all’età. I
trascritti delle interviste vengono classificati secondo le usuali categorie
dell’attaccamento, e viene utilizzata dai 9-10 anni fino ai 18 anni.
Com’è evidente, la metodologia diagnostica derivata dalla teoria dell’attaccamento
rappresenta un approccio necessario ma non sufficiente per la diagnosi nell’abuso
all’infanzia. Ho infatti sottolineato ripetutamente, in questa rassegna sugli approcci
diagnostici nell’abuso all’infanzia, come altri aspetti debbano essere sempre attentamente
valutati: lo stato comportamentale e sintomatologico del minore; l’assetto di personalità
dei genitori, come anche la presenza di sintomatologia specifica che segnali specifici
disturbi sull’asse I; la valutazione delle risorse ambientali su cui articolare i progetti di
trattamento e recupero all’interno o al di fuori della famiglia nucleare. Per il
raggiungimento di questi obiettivi diagnostici, oltre agli strumenti già citati nei paragrafi
precedenti, sarà opportuno dotarsi di checklist comportamentali e sintomatologiche come
il Child Behavior Checklist-CBCL per il bambino (per una completa rassegna relativa a
questo strumento di larghissima diffusione nella diagnosi dell’età evolutiva: Frigerio,
Montirosso, 2002) e la SCL-90 R ( Derogatis, 1975) per gli adulti. Inoltre, la
determinazione del profilo di personalità degli adulti sarà utilmente realizzata attraverso
questionari specifici come l’MMPI-II o la SWAP-200 (Western, 2001) che integreranno i
colloqui clinici. Ma è importante ribadire, concludendo questa rassegna, come la
valutazione diagnostica non dovrebbe mai prescindere da una metodologia (e da
strumenti standardizzati, per un corretto confronto dei dati all’interno della comunità
scientifica) che permettano di avvicinare il clinico a quel complesso intreccio di
dinamiche interpersonali che, sempre, costituisce la matrice originaria del fenomeno
dell’abuso e del maltrattamento all’infanzia.
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