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Un miracolo musicale chiamato
Islanda
La politica culturale ticinese e quella dell’isola nordica messe a confronto
/ 23.01.2017
di Zeno Gabaglio
«Cos’hanno di più gli Islandesi rispetto a noi?» è stata la provocatoria, ma neanche troppo, domanda
che il musicologo Carlo Piccardi si è posto in un recente articolo intitolato Il Ticino si merita
un’orchestra? apparso su «La Regione».
La riflessione ad ampio raggio prendeva spunto dai noti problemi finanziari dell’Orchestra della
Svizzera italiana, messi in relazione con quanto accade in Islanda: un territorio che per numero di
abitanti può essere comparato a quello del canton Ticino, ma che dal punto di vista della cultura
musicale sembra essere meglio organizzato, più consapevole dei propri valori e più generoso nel
creare e sostenere le proprie istituzioni. E il riferimento diretto è al nuovo centro per le arti
performative di Reykjavik (l’Harpa, che può ospitare circa il doppio degli spettatori del LAC) e
all’attività dell’Orchestra sinfonica islandese, che malgrado un organico stabile ben più ampio della
nostra OSI non sembra condividerne la perigliosa sorte finanziaria.
La domanda di Piccardi si rivolge quindi ai motivi profondi per cui simili condizioni di partenza
abbiano portato a conclusioni diametralmente opposte. Forse che gli Islandesi sono più musicali?
Che la loro tempra di isolani subpolari li abbia resi più forti e determinati di noi? Spunti di
riflessione senz’altro fertili, ma che comprendono solo metà del problema. L’accento posto da
Piccardi è infatti sulle virtù degli Islandesi – descritti nella loro situazione ideale – mentre poco o
nulla (strano, per chi è stato capo di Rete Due e presidente della Commissione culturale cantonale)
viene argomentato sul perché delle differenze ticinesi. E il nodo della questione è elementare: con
una popolazione e un PIL paragonabili, che tipo di risorse dedichiamo noi alla nostra cultura
musicale?
Se si analizza il flusso degli investimenti – un dato essenziale tanto quanto quello dell’indole
culturale – ci si rende subito conto di come l’Islanda spenda tutto su quell’unico centro culturale
nella capitale – l’Harpa appunto – e non su quattro teatri pubblici e cittadini come facciamo noi.
Quattro teatri che, mutatis mutandis, conducono parallelamente una programmazione stagionale e
che così facendo vedono quadruplicati i costi di amministrazione e di logistica. Nell’articolo, inoltre,
non si ricorda come in Ticino la tanto criticata SSR/RSI finanzi anche un ensemble professionale di
musica antica e barocca e un coro di alta levatura internazionale – assenti in Islanda – che
inevitabilmente pure assorbono risorse sia nel personale musicale, sia in quello organizzativo, sia
nella logistica.
A guardare la programmazione dell’Harpa ci si accorgerebbe inoltre di come siano praticamente
assenti le grandi orchestre internazionali ospiti, che invece in Ticino sono spesso accolte in almeno
due delle principali rassegne musicali classiche. E non è un dato da poco, conoscendo gli ingaggi di
tali orchestre. La coperta dei fondi destinati alla cultura musicale può quindi apparire di una
grandezza simile, tra Islanda e Ticino; solo che noi abbiamo deciso di tirarla da una parte diversa
rispetto a quanto stiano facendo a Reykjavik, e le gambe che rimangono fuori a prender freddo sono
da noi quelle dell’OSI.
Ma c’è un ulteriore dato che dovrebbe preoccupare: il fatto di misurare l’attività cultural-musicale di
una regione solo nei suoi contenuti classico-sinfonici del repertorio passato. Così facendo si rischia
di non accorgersi che il vero miracolo della musica islandese è quello di aver portato alla ribalta e
all’affermazione internazionali (in meno di un ventennio, l’ultimo) artisti fondamentali per tutto il
mondo come Björk, Sigur Rós e Ólafur Arnalds. Possiamo dire di aver fatto altrettanto?
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