Karol Wojtyla come educatore. Nuova Secondaria

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ABSTRACT
Se non è adeguato parlare in senso proprio di un Wojtyla pedagogista, educatore però egli lo è stato in
senso eminente. La lettura delle opere di Wojtyla ha una potenza formatrice affatto caratteristica; nel saggio
è proposta l'esperienza di lettura di tutte le sue opere come opere di formazione. Accostate così, esse
risultano particolarmente attuali: in un momento storico come quello presente che può essere forse ricondotto
a ciò che gli storici intendono con l'espressione epoca tarda. Ora, Wojtyla come educatore può forse aiutarci
a pensare bene questo momento di trapasso e la transizione: ad assumere le istanze critiche della
postmodernità; ma ad accoglierle, interpretando la modernità come un'impresa incompiuta d'umanizzazione.
La categoria antropologica dell'educazione personale come «coinvolgimento generativo» porta a sintesi
questo discorso.
PAROLE CHIAVE
Opere di formazione, pedagogia implicita, epoca tarda, postmodernità, ultramodernità, coinvolgimento
generativo.
ABSTRACT
If it is not entirely appropriate to talk of Karol Wojtyla as a pedagogue, nevertheless his figure was
eminently that of an educator. This essay proposes a reading of the whole corpus of his writings as
educational. Thus juxtaposed, these works look poignantly topical at a time that historians might define as a
“late period”.
As an educator, Wojtyla may help us to reflect on this transitional time; to consider the critical issues of
post-modernity; but also, by embracing them, interpreting modernity as an incomplete humanisation
enterprise. This is epitomised by the anthropological category of personal education as a generative
involvement.
KEY-WORDS
Educational works, implicit pedagogy, late period, post-modernity, ultra-modernity, generative
involvement.
ANTONIO BELLINGRERI
Full Professor of General Pedagogy and Philosophy of Education at Palermo University, Italy; Director of
the Scientific Committee of the pedagogical review “Pedagogia e Vita” (Brescia). Research Domains:
Phenomenological Pedagogy, Philosophy of Education, Family Education. Main Publications: Per una
pedagogia dell’empatia, Milano, 2005; La cura dell’anima. Profili di una pedagogia del sé, Milano, 2010;
Pedagogia dell'attenzione, Brescia, 2011; La famiglia come esistenziale. Saggio di antropologia pedagogica,
Brescia, 2014.
ANTONIO BELLINGRERI
Karol Wojtyla come educatore
Nell'autobiografia, Il mio secolo la mia vita , Jean Guitton racconta quello che gli accadde quando
nel 1966 rappresentò al Papa il suo proposito di fargli delle interviste, per preparare un ritratto sotto
forma di dialoghi di tipo platonico. Paolo VI, dopo una pausa di silenzio, gli rispose che non
reputava possibile fare il ritratto di un papa. Questi, aggiunse, accettando di essere il Vicario di
Cristo in terra, alla stregua e come successore di Pietro, in qualche modo scompare come persona
con i suoi tratti biografici e il suo volto singolare: egli è diventato Pietro, e «non esiste più Giovanni
Battista Montini»1.
È noto che le cose non andarono così e nacquero i bellissimi Dialoghi con Paolo VI. Con Papa
Giovanni Paolo II credo che una questione del genere non si sarebbe mai posta. L'uomo Karol
Wojtyla, il codice della sua anima, il temperamento e lo stile esistenziale, non si è sentito mai
sopraffatto e annullato dal Ministero; tutt'altro, accettando di essere Pietro, egli ha trasfigurato la
sua funzione magisteriale e pastorale, personalizzandola in modo eminente.
Questa considerazione non vale solo come avvio di discorso, può fornire piuttosto un metodo
adeguato per studiare e presentare il pensiero di Wojtyla: porta un buon argomento per far crescere
la consapevolezza che come Papa, nel suo magistero egli ha ripreso e approfondito le idee portanti
di una fisionomia culturale, filosofica e teologica, in sé già strutturata ed elaborata prima
dell'ottobre del 1978; il suo pensiero, per far ricorso ad una metafora, si è innalzato in un
movimento a spirale: elevandosi, ma insistendo sempre sullo stesso asse.
Per tale ragione, ho deciso di elaborare queste mie riflessioni, studiando le opere che egli ha
composto sino all'ascesa al soglio pontifico, a partire dalle poesie giovanili e dalla tesi di laurea del
1948. L'ipotesi complessiva di lettura risulta ben definita: nel magistero, in particolare nelle
encicliche (quattordici), nelle costituzioni (nove), nelle esortazioni (tredici) e nelle lettere
1
L'episodio è raccontato in J. GUITTON, Il mio secolo la mia vita (trad. dal franc.), Milano, Rusconi, 1990, p. 286;
riferimento, nel testo, a ID., Dialoghi con Paolo VI (trad. dal franc.), ibid., 1986 (l'ed. originale, presso Librairie
Arthème Fayard, Paris, è del 1967).
apostoliche (trentotto), è possibile rinvenire un costante approfondimento e l'articolazione di una
prospettiva in sé già configurata2.
1. Le opere di Wojtyla come Bildungswerke
Il tema che ho scelto, espresso dal titolo, suscita immediatamente una domanda: parlando di un
educatore, s'intende sostenere che nelle opere di Karol Wojtyla sia rintracciabile un pensiero
pedagogico? Reputo che la risposta debba esser perentoria: mentre, in maniera del tutto legittima,
noi parliamo di un filosofo, di un teologo, anche di un poeta e di un drammaturgo; nello stesso
modo non si può dire che egli sia stato un pedagogista.
Si pone qui una questione che, in generale, sorge per molti autori che hanno saputo creare, con
i loro testi, un mondo culturalmente elaborato e molto ricco di umanità. I loro scritti, pertanto, anche
se in senso stretto non possiamo definirli pedagogici, risultano però pedagogicamente rilevanti:
destano l'interesse del pedagogista per l'implicito pedagogico che essi portano. Allora, un compito
adeguato può essere quello di esplicitare tali presupposizioni, per trovare opportunamente materiali
che vadano nel senso di una filosofia dell'educazione: in generale, di quella sezione che viene
chiamata personologia, la filosofia della persona; in particolare, di quella scienza di confine tra la
stessa filosofia dell'educazione e la pedagogia generale, che è l'antropologia pedagogica.
Presento subito, sinteticamente, col metodo che adotto per svolgere questo compito, il
contenuto fondamentale. La mia tesi principale è la seguente: se non è adeguato parlare in senso
proprio di un Wojtyla pedagogista, educatore però egli lo è stato in senso eminente. Ora propongo
qui questa affermazione nello stesso senso in cui, come è noto, Nietzsche nella terza delle sue
Considerazioni inattuali, parla di «Schopenhauer als Erzieher», come educatore appunto: dicendo
di preferire, per suo conto, all'uomo di Rousseau e di Goethe, «l'uomo di Schopenhauer»; la tesi
pertanto si può proporre anche sotto forma di domanda chiedendoci chi sia «l'uomo di Wojtyla» 3.
Avviando la riflessione, reputo si possa sintetizzare questa tesi interpretativa, affermando che
la lettura delle opere di Wojtyla ha una potenza formatrice affatto caratteristica. In effetti, essa
permette, da un lato, la configurazione di una visione complessiva della persona come soggetto-di-
2
Per un esame analitico completo, rimando a G. GIRGENTI (a cura di), «Apparati. II. Nota bibliografica» in K.
WOJTYLA, Metafisica della persona. Tutte le opere filosofiche e saggi integrativi, ed. italiana a cura di G.Reale e T.
Styczeń, Milano, Bompiani, 2005³ (2003), pp. 1573-1580 (Principali scritti e documenti di Papa Giovanni Paolo II
[1978-2004]. citerò questa edizioni Bompiani, che per me è stato il punto di riferimento e di studio principale, con la
sigla MdP,; e indico, subito dopo, tra parentesi quadre, in quale sezione del libro è presentata l'edizione italiana di
ciascuna opera di K. Wojtyla.
3
Cfr. F. NIETZSCHE, «Schopenhauer come educatore. Terza considerazione inattuale», in ID., Considerazioni
inattuali (trad. dal tedesco), Torino, Einaudi, 1981² (Milano, Adelphi, 1972), pp. 161-246.
educazione (genitivo soggettivo e genitivo oggettivo); dall'altro lato, consente l'apertura di un
orizzonte ideale, in cui viene pensata la sua origine e il suo destino, acquista pertanto significato
pieno l'educazione intesa come massima personalizzazione dell'essere4.
Reputo che in questa prospettiva un posto di rilievo spetti innanzitutto alla sua produzione
teatrale: per Wojtyla, infatti, il teatro è «una grande risorsa per la formazione etica della persona».
Si tratta invero di una concezione dell'azione drammaturgica fortemente segnata da alcune
caratteristiche: in primo luogo, da quello che alcuni critici hanno proposto di chiamare «primato
della parola», in quanto «gesto essa stessa»; ma poi anche, in secondo luogo, dalla funzione che
acquista, in questo contesto, la musica e il coro: l'una come integrazione e commento della parola,
l'altra come parola «co-parlata» e quasi sua risonanza percepita in comune. Il teatro è così inteso e
la sua funzione formatrice in senso etico viene dal fatto che sempre è rappresentato il dramma di
esistenze personali chiamate a scegliersi di fronte alla totalità, all'infinito; e i personaggi sono
definiti da una inesausta ricerca di senso, che concretamente diventa ricerca di un ideale etico
dell'esistenza nell'essere5.
Risultano letture formative in modo notevole pure le sue raccolte poetiche; e, anche qui,
innanzitutto in ragione, mi pare, della concezione sottesa che vede la poesia come «via privilegiata»
nella ricerca senza pregiudizi del vero. È l'opera dalla immaginazione visiva, cosa che rende il poeta
una sorta di «visionario»; e fatto che permette di comprendere come, nella prospettiva di una
educazione integrale, la mancata formazione dell'immaginazione simbolica costituisca per la
persona un vero e proprio danno antropologico: sino allo stravolgimento e alla perdita della «facoltà
dell'infinito»6.
Se però ascoltiamo quello che l'Autore stesso dice direttamente sulla formazione adeguata
della personalità nella sua interezza, e in particolare, per il rilievo che ha nell'intero, su quella
dell'intelligenza, è alla filosofia che egli riservato un posto d'onore. Per Wojtyla questa deve
mantenere un primato, sia pure non assoluto, in ragione del fatto che il suo metodo risulta essenziale
per condurre un'esistenza autentica, vissuta in prima persona. La filosofia va intesa però nella sua
4
Una sola citazione, tra le tante: K. WOJTYLA, L'uomo in prospettiva: sviluppo integrale ed escatologia (1975), in
MdP [6. Parte:], pp. 1501-1511.
5
Emblematico e singolarmente compiuto il dramma La bottega dell'orafo. Ho presente l'edizione italiana del 1978, K.
WOJTYLA, La bottega dell'orafo (trad. dal polacco), Roma, Edizioni Logos, 1978; come è noto, il testo venne
pubblicato nel 1960, sotto lo pseudonimo di Andrzej Jawień. Qui il riferimento è comunque a quanto si trova scritto e
teorizzato ne Il dramma delle parole e del gesto (1957), in K. WOJTYLA, Tutte le opere letterarie (testo polacco con
trad. italiana a fronte) a cura di G. Reale e B. Taborski, Milano, Bompiani, 2001, pp. 975 ss.. Cito in questo periodo,
un'espressione dell'A. che ritrovo in G. REALE, «Karol Wojtyla Pellegrino sulle tre vie che portano alla verità: "arte",
"filosofia", "religione"», Saggio introduttivo a MdP, pp. VII-CIII.
6
Altre opere teatrali di Wojtyla sono Canti del Dio nascosto, Meditazioni sulla morte, Pellegrinaggio in luoghi santi,
La cava di pietra, Profili di Cireneo, Raggi di paternità. Pubblicato, a sorpresa, nel 2003 è infine il Trittico romano.
Meditazioni (per il quale, rimando a quanto scrive G. REALE, «Karol Wojtyla Pellegrino sulle tre vie che portano alla
verità: "arte", "filosofia", "religione"», pp. XX-XXII).
«vocazione originaria», come appassionata, sincera e orante ricerca razionale del vero. Come tale,
essa intesse naturalmente un rapporto intimo tanto con le arti belle, quanto con la fede religiosa e
con il sapere scientifico che è proprio di quest’ultima.
Queste sono conoscenze d'altro genere, rispetto alla via rationis, ma riescono anch'esse, nel
loro itinerario, ad una intelligenza adeguata del reale; sono le vie della «ragionevolezza», anche se
non rigorose e oggettive in senso stretto. Anzi, a parere del Wojtyla filosofo, tanto la conoscenza
artistica quanto la conoscenza religiosa risultano umanamente più ricche rispetto al concetto astratto
e all'asciutta fatica dell'argomentazione. Le arti belle e la religione implicano sempre, da un lato,
una intelligenza «col cuore» e con l'immaginazione simbolica, ciò che impegna al massimo grado
l'intero della persona; dall'altro lato, un rapporto e una comunicazione interpersonali, basati sulla
fiducia nell'altro e su un reciproco affidamento. Dal canto suo, la filosofia nel suo significato
sorgivo, è «elevazione spirituale al senso dell'essere», ovvero «itinerario metafisico»; prossima
pertanto alla mistica, da cui pure è distinta nella sua stessa posizione di principio7.
Propongo dunque l'esperienza di lettura di tutte le opere di Karol Wojtyla, dei suoi drammi e
delle poesie, dei testi di filosofia e di teologia, come Bildungswerke. Peraltro, accostate così, esse
risultano particolarmente attuali: in un momento storico come quello presente che può essere forse
ricondotto a ciò che gli storici intendono con l'espressione epoca tarda. Si tratta di un'epoca di
cambiamenti radicali, in cui sembra si sia quasi costretti ad andare alla radici di tutte le questioni; in
cui, per fare solo un esempio, gli educatori e i pedagogisti percepiscono che i mutamenti toccano
innanzitutto il perché e i problemi davvero urgenti sono (per un paradosso che è tale solo in
apparenza) quelli del senso ultimo dell'educare, prima e più di quelli del metodo adeguato ed
efficace. È quanto accade, in generale, quando pare si smarriscano le coordinate ideali che rendono
l'impresa educativa possibile e significativa: quale sia l'origine, quale il senso della costruzione e
quale il fine dell'esistenza, personale e comunitaria8.
Nel presente momento storico – diventando Papa, Wojtyla mostrò sempre di averlo ben chiaro
- , noi avvertiamo non solo la crisi della modernità, anche tutta la insufficienza della stagione postmoderna. Si è trattato e si tratta, con questa crisi, della messa in questione sino al tracollo delle idee
e degli ideali portanti della modernità. La temperie postmoderna si è sostanziata di questo evento,
mossa dalla percezione acuta dei problemi; ma, innanzitutto e per lo più, non lo ha vissuto ed inteso
come una situazione sintomatica, lo ha in qualche modo ipostatizzato, finendo per concepire il
7
K. WOJTYLA, La dottrina della fede in San Giovanni della Croce (1948), In MdP [1. Parte], pp. 23-248; sono
concetti chiariti dal Papa, come è noto, in una delle sue più belle encicliche, la Fides et ratio (14 settembre 1998).
Nell'esperienza mistica, l'anima, credendo, attinge la sostanza della verità rivelata perché si unisce all'essenza divina;
cfr. quanto scrive in proposito, A. WIERZBICKI, «La Barca interiore. Affinità spirituale del pensiero di Karol Wojtyla
con il pensiero di San Giovanni della Croce», Saggio introduttiva a MdP [1. Parte], pp. 3-22.
8
Mi permetto di rimandare su questo punto a A. BELLINGRERI, La cura dell'anima. Profili di una pedagogia del sé,
Milano, Vita e Pensiero, 2010, Introduzione.
nichilismo come destino dell'Occidente. L'esito dell'esperienza e della cultura postmoderne, per tale
ragione non sono condivisibili; giustamente qualche autore vi ha visto piuttosto una «ideologia antiumanista», oppure, semplicemente, la «ideologia conservatrice del tardo capitalismo»9.
Ora, Wojtyla come educatore può forse aiutarci a pensare bene questo momento di trapasso e
la transizione: ad assumere, per un verso, le istanze critiche della postmodernità; ma ad accoglierle,
per un altro verso, nel loro significato reale di istanze sintomatiche: Si tratta, in sostanza, di
comprendere le contraddizioni interne della modernità, ma insieme di affrontarle, interpretando la
modernità come un'impresa incompiuta d'umanizzazione. Potremmo definire pertanto adeguato un
atteggiamento ultramoderno, per ricordare Jacques Maritain: superamento del moderno, nella
fedeltà ad esso, restando moderni per tutto quello che è possibile essere moderni. Lo stesso
atteggiamento va conquistato verso il postmoderno, di assunzione e di critica, di comprensione del
suo valore ma anche dei suoi limiti. In effetti, non è possibile pensare l'educazione come
personalizzazione dell'esistenza, senza una filosofia della persona che sappia andare oltre il
prevalente orizzonte nichilista della post-modernità – oltre il «postmodernismo», superfetazione
ideologica dell'esperienza e della situazione postmoderna10.
La categoria antropologica dell'educazione personale come « coinvolgimento generativo» –
così ne parla Karol Wojtyla; si potrebbe dire semplicemente come generatività,– per un verso,
consente di assumere il contributo positivo del nichilismo: pensare l'evento e la finitezza dell'essere,
da ultimo, la gratuità dell'essere; per un altro verso, permette d'evidenziarne il vuoto di proposte e di
esperienze di senso, che siano davvero positive assiologicamente ed eticamente rilevanti.
2. La persona come vita integrale
L'opera filosofica veramente compiuta di Karol Wojtyla è Persona ed atto, (breve) trattato di
personologia, di ontologia fenomenologica e metafisica della persona11. Porto a sintesi qui quelle
che a me appaiono le linee portanti di questo testo, presentandole a mo' di piccolo thesaurus.
Il testo è mosso e sostenuto, dalla prima all'ultima pagina, da una profonda meraviglia,
generata dall'intelligenza contemplante della persona umana, vista ed intesa nel nesso che essa
manifesta con la totalità. La filosofia, ci ricorda Wojtyla, nasce dalla meraviglia, nella meraviglia si
elabora e ad essa ritorna costantemente come alla sua radice, cespite sovrabbondante di senso. È
9
Riferimenti a quanto scrive J. HABERMAS, Tra scienza e fede (trad. dal tedesco), Roma-Bari, Laterza, 2006.
Ancora un rimando a A. BELLINGRERI, La cura dell'anima. Profili di una pedagogia del sé, Introduzione citata.
11
K.WOJTYLA, Persona ed atto (1969), in MdP [4. Parte], pp. 831-1216. Su quest'opera, cfr. T. STYCZEŃ, «Essere
se stessi è trascendere se stessi. Sull'etica di Karol Wojtyla come antropologia normativa», Saggio introduttivo a MdP
[4. Parte], pp. 781-829.
10
l'incipit platonico e aristotelico del filosofare e al loro thaumazein è necessario in qualche modo
sempre rivolgersi; forse non può essere diversamente: trattandosi di una creazione del genio greco,
per comprendere quali siano i tratti strutturali della filosofia dell'Occidente, occorre rivisitare e
riprendere quell'origine. Ora, ciò che, secondo il nostro Autore, desta la suprema meraviglia, la
meraviglia delle meraviglie, è la persona: l'unico essere capacità di sostare al cospetto del tutto, di
entrare in relazione con l'infinito e, ciò che forse è massimamente sorprendente, di poter essere in
prima persona. È il fenomeno nell'universo che rappresenta la massima personalizzazione
dell'essere, pertanto ben a ragione Tommaso d'Aquino ha potuto definirlo id quod perfectissimum in
tota natura.12
Nella persona infatti ogni atto è segnato dalla consapevolezza e questa è costituita
dall'intenzionalità, dall'esser rivolto all'essere nella sua totalità. È la «coscienza», ovvero «la
soggettività stessa» e ciò che rende la persona «custode del fenomeno dell'essere»: capace
d'intenderne il senso intellegibile, offerto all'intelligenza e di significarlo in una forma intelligente.
La persona, poi, è, in quanto tale, irriducibile: ogni persona è in qualche modo un genere, è unica,
segnata da un proprio codice temperamentale e da uno stile esistenziale irripetibile. Sono i suoi atti,
sia quelli attivi sia quelli passivi, a rap-presentarne o rivelarne qualche tratto reale13.
Ogni persona viene ad essere in una situazione determinata che non ha scelto, secondo
un'iniziativa che non le appartiene; è consegnata ad uno spazio (geografico e umano) e ad un tempo
(un'epoca storica), ad un milieu che l'accoglie e a mondi vitali nei quali avviene la sua crescita. Essa
pertanto è innanzitutto definita dalla situazione originaria, ma da essa non dipende totalmente: ne è
condizionata, ma non determinata, perché la persona è altrettanto bene segnata dalla ricerca di
qualcosa che colmi una mancanza strutturale, un vuoto percepito come un deficit intollerabile.
Tale istanza originaria di ricerca è la radice della libertà, che già da sempre si manifesta, da un
lato, come capacità di distanza dalle coordinate determinate cui è la persona è consegnata; dall'altro
lato, come diposizione ad orientarsi, con consapevolezza e con libertà, verso ciò che è visto e inteso,
sotto qualche aspetto, come desiderabile, giudicato tale da soddisfare il bisogno originario di
pervenire ad un qualche compimento, che sia la fioritura piena dell'essere o in breve una vita
proprio come vita più intensa. Ora, gli atti che la persona è capace di effettuare, mossi dalla
consapevolezza e dalla libertà, appartengono ad un ordine e ad una legalità autonoma che formano
12
Cfr. TOMMASO D'AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 29, art. 3, respondeo (Editio Leonina, Torino-Roma, Marietti,
1952, p. 158).
13
K.WOJTYLA, Persona ed atto, in MdP [4. Parte], pp. 919-923. Inoltre, cfr. ID., La soggettività e la irriducibilità
dell'uomo (1978), in MdP [6. Parte], pp. 1317-1328; e Id., I gradi dell'essere dal punto di vista della fenomenologia
dell'atto (1981), pp. 1437-1446.
in senso proprio la vita propriamente personale del soggetto, la «noosfera», plesso degli atti
eminentemente personali14.
La definizione dell'intenzionalità come struttura costitutiva della persona è il cuore della
filosofia fenomenologica, non solo di E. Husserl ma anche di M. Scheler, autore quest'ultimo col
quale egli costantemente si confronta in Persona ed atto. Wojtyla articola ed approfondisce la
definizione fenomenologica formulando l'altra tesi fondamentale nella sua opera, che la persona è
essenzialmente relazione: con altro, con l'altro e, nella sua prospettiva metafisica, con l'Altro. È una
tesi la cui formulazione appare semplice, ma emerge, in questo testo come in altri suoi testi, come
reperto fenomenologico elaborato attraverso raffinate analisi noetico-noematiche, che ne fanno
percepire tutta la complessità.
Wojtyla ha il senso della complessità e del carattere paradossale e carico di mistero della
humana conditio, grande e insieme misera o, con i termini della Rivelazione cristiana, santa e nello
stesso tempo peccatrice. Ciò viene dal fatto che l'uomo è strutturalmente «squilibrato», non è mai,
in nessun punto dello spazio e del tempo della sua esistenza, pienamente quello che può e che deve
essere; quasi sia segnato da una costitutiva sporgenza ontologica che lo porta a ricercare un più
d'essere trascendente sempre le situazioni date, le sintesi configurate e gli atti determinati posti in
essere15.
Le due affermazioni di fondo si equivalgono e pertanto, convertendo questa seconda tesi nella
prima, si può anche scrivere che l'uomo è relazionalità perché costituito da uno spazio inesteso
(intenzionale, appunto), nel quale altro, gli altri e anche l'Altro possono essere accolti come in una
dimora. Il linguaggio cui faccio ricorso per significare questo aspetto mi pare interpreti bene la
lettera e lo spirito del testo che prendo in esame; è il linguaggio dei grandi mistici carmelitani,
Teresa d'Avila e Giovanni della Croce, santi con le opere dei quali Wojtyla ha sempre avuto
frequentazione.
Ma in Persona ed atto, la preoccupazione maggiore dell'Autore è di offrire una giustificazione
metafisica alla questa concezione fenomenologica della persona. Egli la trova nell'affermazione che
il Fondamento stesso della totalità o dell'essere è Persona e Relazione; Essere che è dato intendere
in qualche modo, più oscuro che chiaro, nella persona umana e nella relazionalità che la costituisce.
L'ontologia, che è insieme fenomenologica e metafisica, della persona si ferma però sulla soglia, per
14
K.WOJTYLA, Persona ed atto, in MdP [4. Parte], pp. 851-858. Inoltre, cfr. ID., L'atto intenzionale e l'atto umano.
Atto ed esperienza (1976), in MdP [6. Parte], pp. 1421-1436.
15
K.WOJTYLA, Persona ed atto, in MdP [4. Parte], pp. 963 (l'intera Parte seconda dell'opera). Inoltre, ID.,
Trascendenza della persona nell'agire (1976), in MdP [6. Parte], pp. 1405-1420.
così dire, di questa Realtà, paga solo di poter giustificare, ossia rendere evidente che il nesso con il
Fondamento è per la persona costitutivo e intrascendibile16.
Ho voluto presentare queste tesi essenziali della filosofia della persona, nella convinzione che
in questa sia in massima parte contenuto l'implicito pedagogico di cui ho scritto prima. Detto in
termini diversi, più diretti: un Autore come Karol Wojtyla ci fa comprendere che la questione
pedagogica di fondo, relativa al senso o alla verità dell'educare, sia in ultima istanza una questione
antropologica; un difetto a questo livello, una concezione non adeguata della persona nella sua
integralità, rende difficile da pensare l'essenziale nel bisogno antropologico fondamentale, cui tutte
le imprese umane di cura che chiamiamo educative tentano di portare una qualche risposta.
Che cosa dà da pensare Persona ed atto, in ordine al senso e al metodo dell'educare? Ovvero,
quale implicito pedagogico si può / si deve qui esplicitare? Mi pare si possa affermare che questo
libro di antropologia fenomenologica e metafisica ci aiuti a comprendere che il bisogno umano
essenziale cui l'educazione vuole rispondere sia un fondamentale bisogno di riconoscimento. Con
questa categoria intendo riferirmi, in primo luogo, alla necessità, per ogni uomo che viene ad essere
ed è consegnata all'esistenza, di essere accolto e voluto, amato e stimato; infine, di essere
riconosciuto nell'essere, come condizione perché egli possa veramente essere ed esistere secondo
una buona qualità umana di vita. È quanto avviene all'origine, con la nostra nascita, grazie a
genitori amorevoli; ma c'è di più: qui l'originario rivela l'essenziale, la predilezione all'inizio del
nostro vivere definisce e permette d'intendere la persona nella sua essenza come essere-amata o
anche come bene-amata.
In secondo luogo, la categoria di riconoscimento significa la necessità per il soggetto di
pervenire ad una conoscenza di sé, che di fatto si presenta, ogni giorno della nostra vita, come un
conoscersi di nuovo; questo dice il termine in uno dei suoi significati ricorrenti, secondo un altro
significato anch'esso inteso dalla parola, esso parla di un rendere grazie. Originariamente noi siamo
consegnati all'essere e all'esistenza e, occorre aggiungere, in verità siamo già sempre affidati a noi
stessi: l'essere persona, in parte lo si è visto, si realizza nella sua proprietà essenziale come esercizio
attivo e autonomo, libero e consapevole dell'essere che si è; è questo il senso dell'esistere in proprio
(in prima persona), della massima personalizzazione dell'essere. Con l'essere c'è però offerta
un'«essenza»: ogni persona è quis, è essere personale unico nell'essere, pertanto unico deve essere il
compito che è chiamato a svolgere nella totalità del reale.
Ora, affermare che è proprio dell'educazione, suo fondamento di senso ed essenza, portare
risposta al costitutivo bisogno di riconoscimento significa aiutare ogni persona a prendere
consapevolezza, in un percorso formativo che si svolge lungo l'intero arco dell'esistenza, di essere
16
K. WOJTYLA, Persona ed atto, in MdP [4. Parte], pp. 1167 ss. (l'intero Capitolo settimo, «Lineamenti di una teoria
della partecipazione»). Inoltre, ID., L'uomo in prospettiva: sviluppo integrale ed escatologia (1975), pp. 1509-1511.
destinatari di una chiamata unica, dunque di essere originariamente coinvolti in un rapporto di
predilezione; e insieme, di essere inviati per un compito che non è semplice perché è affidato anche
alla nostra capacità d'intenderlo, decifrando eventi, fatti e incontri, in cui esso ci viene proposto
discretamente, quasi in chiaroscuro, in modo anche un po' velato. La risposta a questo bisogno
conferisce umana dignità alla nostra esistenza, permettendoci di vivere attivamente come persone
definite da un significato, ciò che appare preferibile al semplice vivere (al lasciarsi vivere)17.
La risposta alla domanda sul senso permette anche di tratteggiare le linee direttive di un
metodo educativo adeguato ed efficace. Mi pare non si tradisca lo spirito di Wojtyla e il suo stile
personale tanto inconfondibile, proponendo di denotarlo metodo empatico, seguendo la suggestione
di Edith Stein, fenomenologa tanto cara al Nostro (e da lui, come è noto, elevata nel 1998, all'onore
degli altari). Si tratta di condurre, in una sorta di conversazione ininterrotta, dentro i mondi della
nostra vita, un dialogo esistenziale che possa coincidere con il nostro processo di riconoscimento.
Lo stile empatico è caldo e fortemente accogliente: è ciò che permette alla persona, sentendosi
compresa da qualcuno che vuole condividerne i pensieri e le emozioni, di attivarsi. Il dialogo
empatico però permette di vivere un'esperienza davvero significativa, in ragione della presenza
accanto a sé di una persona autorevole; attivatore ed orientatore del suo bisogno di riconoscimento.
La posta in gioco è di prendere consapevolezza dell'io concreto e di aprirsi al sé autentico: definito
dalla ricerca della verità e del bene, disposto a conoscersi e a scegliersi con autenticità di fronte alla
totalità18.
3. La visione agapica dell'esistenza e della storia
Accanto a Persona ed atto, l'opera di Karol Wojtyla più interessante nella prospettiva
dell'educazione è probabilmente Amore e responsabilità; in essa si dispiega, con costante
riferimento all'amore sponsale, la prospettiva agapica dell'Autore19. Anche qui vorrei condurre la
riflessione, presentando innanzitutto alcune tesi caratterizzanti, seguendo sempre il metodo della
lettura formativa: che dispone ad una sorta di riorientamento dello sguardo e offre al pensiero molte
suggestioni.
17
Cfr. K. WOJTYLA, Persona ed atto, in MdP [4. Parte], pp. 1020 ss. (l'intero Capitolo quarto). Per la semantizzazione
del bisogno di riconoscimento, cfr. A. BELLINGRERI, La cura dell'anima. Profili di una pedagogia del sé, la Prima
parte. In queste tesi, da me presentate, appare forte il legame con la prospettiva di M. Scheler; ho in mente in
particolare, fra le altre, la piccola perla preziosa: M. SCHELER, Ordo amoris (trad. dal tedesco), Brescia, Morcelliana,
2009.
18
Cfr. K. WOJTYLA, Persona ed atto, in MdP [4. Parte], pp. 1062-1069.
19
K. WOJTYLA, Amore e responsabilità. Morale sessuale e vita interpersonale (1960), in MdP [3. Parte], pp. 463-777.
Cfr., su quest'opera G. REALE, «Una trattazione sull'amore nelle sue implicanze e nelle sue conseguenze», Saggio
intuttivo in MdP [3. Parte], pp. 453-462.
La prima tesi che vi troviamo presentata e che vale in essa quasi fosse un assioma, è la
seguente: la persona perviene ad un compimento, che la realizza in pienezza di vita – che rende
reale una vita intensa – solo amando, in una donazione gratuita di sé, senza altra finalità. Questa
verità, così semplice e così profonda, è legata alla prima proprietà ontologica che fa di un essere
animato vivente una persona e che Wojtyla esprime con il termine «inalienabilità», categoria
peraltro ricorrente nella storia del personalismo. Vuol dire che la persona «appartiene solo a sé»,
pertanto si può offrire da sé, se lo decide, alla persona amata. Ora, amare l'altro significa voler il suo
bene, un bene vero pertanto senza alcun limite, un bene infinito: solamente perché l'altro pervenga
anch'egli al compimento secondo l'essenza personale che gli è propria e secondo il desiderio segreto
del suo cuore20.
Wojtyla parla in quest'opera di generatività dell'amore e credo, come ho già prima accennato,
il genitivo debba essere inteso tanto in senso soggettivo quanto come genitivo oggettivo: l'amore
genera amore, per una sorta di diffusività che gli è propria. Non esiste in effetti niente di veramente
desiderabile, per una persona, che vedersi amata senza condizioni e senza finalità; l'amore è ciò che
veramente è amabile, desta pertanto la bontà di una persona: è alla base della sua capacità reale
d'amare ed è la condizione perché si dia una vita etica. Il bisogno d'amore dunque non è solo una
categoria psicologica, una esigenza soggettiva sentita in particolare da chi ha vissuto nella sua vita
deprivazioni; è, afferma Wojtyla in piena consonanza con le vedute di M. Scheler, una categoria
ontologica: è l'essere stesso della persona, che ben a ragione dunque va definita benamata, soggetto
e termine di una predilezione.
Al pedagogista e all'educatore non può sfuggire la notazione, ricorrente in Amore e
responsabilità, che tale capacità d'amare e lo stesso riconoscimento del nostro essere beneamati
sono l'esito di una lavoro formativo, di un'ascesi e di un superamento che la persona deve compiere
su di sé. Ogni persona è segnata infatti da un certo ordine, da una determinata gerarchia dei suoi
amori, che a ben vedere configurano la sua fisionomia. È un ordine innanzitutto trovato, per così
dire, dalla persona, che assimila una certa visione del mondo e di sé nel mondo «spontaneamente»,
a partire da quello che va apprendendo nei mondi della sua vita, così come concretamente sono
strutturati. Ora, l'opera di formazione è un affinamento e una riconfigurazione dell'ordo amoris, che
costituisce il sé concreto; quest'opera, si può affermare sinteticamente, coincide con l'acquisizione
della virtù dell'educazione21.
20
K. WOJTYLA, Amore e responsabilità. Morale sessuale e vita interpersonale (1960), pp. 529-558.
Ibid. In questo testo si dispiega di più l'influenza di Max Scheler; utile, in proposito, il raffronto con K. WOJTYLA,
Valutazioni sulla possibilità di costruire l'etica cristiana sulle basi del sistema di Max Scheler (1954), in MdP [2.
Parte], pp. 249-449 (e il Saggio introduttivo ad essa dedicata da J. MERECKI, «Verso l'etica empirica e normativa», ivi,
pp. 251-264).
21
Ed un'opera che ha nella vita matrimoniale e familiare il suo momento originario e il suo
culmine. Il matrimonio non è una scelta qualsiasi per la persona, può essere la scelta etica per
eccellenza nella vita di una persona: quando questa decide, con consapevolezza e libertà, di viver
donandosi ad un'altra persona, di non vivere solo e innanzitutto per sé. Non ci si stupisce allora che
la sponsalità diviene per Wojtyla cifra dell'esistenza umana, categoria antropologica ed etica per
eccellenza; e, aggiungerei anche, categoria pedagogica in senso proprio, trattandosi di un impegno e
dell'esito di un lavoro formativo che esige anche l'acquisizione da parte della persona di vere e
proprie competenze, cognitive affettive e spirituali.
Anche la paternità e la maternità sono specificate in questo stesso senso; non vanno intese
pertanto come sinonimi di generazione né di generazionalità. Nascono dalla scelta, etica in senso
eminente, di esistere per far fiorire altre persone, suscitate per un'iniziativa densa di mistero dal loro
non essere all'essere, e all'essere per sé, non per altro: onde possano pervenire ad un compimento
secondo una misura singolare, un sé autentico, che nel corso dell'esistenza si tratta di riconoscere.
Per questo, secondo Wojtyla, gli sposi amorosi che scelgono di essere veramente generativi sono
simbolo autentico, reale ed efficace, dell'esistenza personale: la massima espressione della persona
è un'originale capacità d'amare; in essa, come suggerisce una bella pagina de La bottega
dell'orefice, si trova «il peso specifico di ogni uomo»22.
Reputo che vada accostata a questa opera sulla sponsalità, per un verso, l'altro importante
volume, L'uomo nel campo della responsabilità; per un altro verso, gli altri testi (per lo più articoli
destinati a riviste scientifiche, di teologia e di filosofia), che nell'edizione italiane di Tutte le opere,
sono raccolti nella sezione Saggi integrativi [1974-1978]. Mi pare opportuno, per ragioni critiche,
questo accostamento: la prospettiva agapica vien infatti approfondita e in qualche modo dispiegata
in una visione solidaristica e comunitaria della persona; senza questa articolazione, essa non sarebbe
veramente integrale, attenta a tutte le dimensioni della vita personale nella storia.23.
A ben vedere, già in Persona ed atto, l'Autore, parlando degli atti dell'amore, ne enumera:tre,
partecipazione, solidarietà e comunione. Il primo atto, la partecipazione, è la capacità reale
d'instaurare un rapporto come persona con l'altra persona. Nella nostra vita quotidiana noi viviamo
forme diverse di relazioni, definite e specificate dalle intenzionalità che le costituiscono; sono per lo
più relazioni che hanno uno scopo pratico, a volte funzionale oppure utilitaristico, a volte anche
disinteressate. Accade però in esse, in modo quasi inevitabile, che noi rivolgendoci all'altro, lo
riconduciamo alle nostre presupposizioni, a modalità standard di percepirlo di pensarlo di
22
K. WOJTYLA, La bottega dell'orafo, p. 32.
I riferimenti sono a K. WOJTYLA, L'uomo nel campo della responsabilità (1978), in MdP [5. Parte], pp. 1231-1301;
e a ID., Saggi integrativi [1974-1978], in MdP [6. Parte], pp. 1317-1511 ( col Saggio introduttivo di G. REALE, «Dieci
articoli di complemento alle opere in volume pubblicati fra il 1975 e il 1978», ivi, pp. 1305-1316).
23
atteggiarci nei suoi confronti. In modo quasi inevitabile, pertanto, l'altro non è accolto per quello
che è o che può essere o che vuole e deve essere, ma secondo modalità riduttive ai bisogni che ci
urgono e che possono costituire la motivazione del nostro commercio interpersonale.
La persona non è vista in primo luogo per il solo fatto di essere e non è intesa nel sua alterità
irriducibile, nel suo essere altra da noi che a lei ci rivolgiamo. La partecipazione costituisce invece
la modalità autentica d'incontro, senza presupposizioni o supponenze, senza condizioni. Per tale
ragione, essa è l'inizio di quel processo di riconoscimento reciproco, nel quale noi siamo aiutati a
conoscersi e a sceglierci, proprio aiutando l'altro a conoscersi e a scegliersi: in ordine ad un
orizzonte di senso comune, più vasto delle vedete soggettive e da entrambi in qualche modo cointuito e co-intenzionato. Significativamente, Wojtyla, in breve saggio del 1975, chiama alienazione
il contrario della partecipazione24.
Il secondo atto dell'amore è la solidarietà, la scelta di assumere delle responsabilità in ordine
al bene comune; il suo contrario è semplicemente definito egocentrismo. Non sarebbe possibile
nessuna relazione autenticamente umana, senza questo atto; non si tratta infatti di un generico
altruismo, è un atteggiamento etico, che vede ed intende la persona nella sua unicità, come preziosa,
e si mobilita per promuoverne il bene secondo la misura del suo essere singolare. Soprattutto però
non sarebbe possibile nessuna vita sociale, né civile né politica, senza quest'atto d'amore. Ogni
persona tende a realizzare il suo bene, ricercando una forma di vita che le appare preferibile in
ragione proprio di questo; non può però pervenire mai a una tale realizzazione senza il concorso
degli altri.
Gli altri sono tutte le persone che ci è dato ritrovare nelle comunità storiche di appartenenza,
nei mondi umani della nostra vita. Queste comunità sono definite da un orizzonte culturale , da una
determinata visione della vita che le rende sempre particolari. Quando però, all'interno di esse, si
tende a un bene che non sia la semplice salvaguardia dell'interesse di qualcuno, ma traguardi verso
il raggiungimento di una migliore qualità di vita, materiale e immediatamente fruibile o immateriale
e di carattere spirituale, offerta ad ogni membro e a tutti: allora, all'interno delle comunità si pone
inevitabilmente una questione etica e politica, che obbliga ad andare oltre l'orizzonte culturale dato.
La questione che s'impone è in primo luogo di natura etica: se si vuole assumere una decisione
in ordine alla costruzione di una qualità di vita umana buona, ci si deve interrogare su quale possa
essere questa bontà. Ma la questione riveste anche una importanza politica: si tratterà infatti di
deliberare intorno a qualcosa che pertiene al bene comune. Non è dato dalla semplice somma degli
interessi e dei beni perseguibili da ciascuno, ma costituisce un bene nuovo, in qualche modo
emergente rispetto agli altri beni: e tale solo nella misura in cui contribuisca ad edificare e costruire
24
Cfr. K. WOJTYLA, Partecipazione o alienazione? (1975), in MdP [6. Parte], pp. 1387-1405; inoltre, A.
WIERZBICKI, «La persona e la morale», ivi, pp. 1219-1230.
una comunità che sia la casa per tutti. Esige, ci dice Wojtyla, un particolare atto d'amore etico che è
la solidarietà, virtù politica per eccellenza dunque. È grazie ad essa, infine, che riusciamo ad aver
parte alla forma di esistenza più alta che la persona possa sperimentare, l'esistenza oblativa, segnata
dal dono di sé fatto anche agli estranei25.
Il terzo atto d'amore , infine, è la comunione, legame fondato sul libero scambio di beni,
quello più forte e più dolce che possa esserci, ché genera parentele di tipo elettivo, libere e
consapevoli scelte di legarsi in ragione di verità e di beni condivisi. Questo può avvenire in modo
notevole nella vita di coppia, quando con l'amore sponsale, fiorisce una speciale amicizia coniugale
fondata su ideali e modelli di vita insieme sperimentati e costruiti. Così come può accadere in
famiglia, quando questa da società naturale si eleva a comunità spirituale, divenendo «communio
personarum».
Il suo contrario è l'individualismo, la cattiva solitudine, una forma di esistenza che pare diventi
sempre più ricorrente e prevalente nelle società occidentali. Per un verso, esso è generato dalla
scelta di avere come ideale di vita l'«autorealizzazione»; nella pratica, si risolve in una promozione,
per lo più in senso estetico e non etico, della vita personale. Per un altro verso, l'individualismo
nasce dalla convinzione, oggi diffusa nelle società occidentali della tarda modernità, che non sia
possibile attingere una verità oggettiva, andando oltre le proprie certezze soggettive; si è certi,
spesso si afferma, che non è possibile andare oltre ciò di cui si è certi e ciascun uomo resta chiuso
nelle sue convinzioni come dentro ad un ridotto senza porte né finestre.
Se le cose stanno così, si tratta allora, in primo luogo, di destare nella persona, grazie ad un
lavoro formativo, l'attitudine etica: che dispone il soggetto a ricercare un bene oggettivo, che come
tale possa essere appreso da tutti, superando il soddisfacimento degli interessi spontanei immediati.
In secondo luogo, è necessario ripartire accettando il dato fenomenologico elementare che è, di
fatto, possibile e reale oltrepassare il piano delle certezze soggettive: già solo ponendoci il problema
se le queste nostre certezze soggettive siano poi anche vere, ossia a tutti comunicabili e da tutti –
almeno in linea di principio – accettabili in ragione del fatto che hanno il loro compimento di senso
in una realtà indisponibile, non misurata dalle persone che sono piuttosto da essa misurate26.
4. Sguardo prospettico
25
K. WOJTYLA, La persona: soggetto e comunità (1976), in MdP [6. Parte], pp. 1329-1386.
K. WOJTYLA, La famiglia come «communio personarum» (1974), in MdP [6. Parte], pp. 1463-1480; e ID.,
Paternità-maternità e la «communio personarum» (1975), ivi, pp. 1481-1500.
26
Ho scelto di adottare, per la mia esposizione, un metodo ermeneutico, che tenta di dar forma ad una
visione motivata della vita e del mondo, nel confronto costante con il pensiero di un autore scelto
come interlocutore privilegiato. Il confronto è stato qui condotto come lettura formativa: ascolto e
rammemorazione interiore del mondo del testo, costituito dalle opere di Karol Wojtyla. Si tratta,
secondo la lezione dell'ermeneutica, del mondo che il testo porta in sé e, insieme, del mondo che il
testo apre per chi ad esso si accosta; anche scegliendo di restare in limine - sulla soglia, senza
tentare un'ulteriore analisi critica - esso si rivela suggestivo di molti pensieri, offrendo molti
suggerimenti al pensare.
L'attenzione l'ho poi rivolta alle opere da lui elaborate prima di diventare Giovanni Paolo II.
Alla ragione addotta sopra, in avvio di discorso, si può ora aggiungerne un'altra: forse l'incontro con
un giovane studioso polacco che, anche se divenuto nella sua terra vescovo e docente universitario,
è rimasto per lungo tempo poco conosciuto, leva un po' dall'imbarazzo di trovarsi di fronte ad un
Papa «Magno» e ad un Santo della Chiesa cattolica, consentendo un dialogo franco sulle cose
stesse, sui problemi.
Così incontrato, Wojtyla può rivelarsi un autore essenziale, in particolare per aiutare a
comprendere in modo radicale il difficile passaggio epocale che stiamo vivendo, la crisi della
modernità ma anche le contraddizioni interne del postmodernismo, superfetazione retorica della
situazione problematica postmoderna. Su questo anzi egli può diventare autore paradigmatico, un
educatore nel senso sopra argomentato: egli aiuta a formare uno sguardo e un pensiero adeguato a
interpretare il «tempo della povertà», ma anche le opportunità che esso porta, traguardando
un'epoca nuova.
Per quanto attiene infatti alla pedagogia e all'educazione, da un lato, nelle società della tarda
modernità occidentale, è il tempo dell'emergenza educativa, di una sperimentata impotenza nella
trasmissione generazionale e di una prevalenza di stili di vita non generativi o degenerativi; il
sintomo più grave di tutto ciò è il dubbio che serpeggia soprattutto tra i giovani delle nuove
generazioni e che pervade tutti i mondi in cui si svolge la loro esistenza: sino alla disperazione, che
la vita umana possa veramente essere per sé un bene e sia preferibile senza condizioni. Ma è anche,
dall'altro lato, la stagione dell'emergere di fenomeni nuovi, veramente vitali; basti qui citare le
esperienze di volontariato, condotte in prima persona da milioni di giovani e giovanissimi, in un
Paese come il nostro, nelle zone di frontiere, a confronto con problemi umani reali e con bisogni e
impellenze che chiedono soccorso. Sono esperienze in cui traspare in modo evidente la ricerca
esistenziale di senso; e viene sperimentata una novità di vita possibile, una fraternità umana
universale: nella cura per le persone e per le comunità, attraverso il dono di sé fatto per lo più ad
estranei.
Riprendendo una celebre pagina in cui É. Lévinas commenta l'erramento di Caino, dopo
l'uccisione del fratello, Wojtyla ha scritto che solo la custodia dell'altro «rende la terra una dimora»,
sottraendola al destino della desertificazione. È l'emergere, nel mondo umano - quasi un'oasi - della
benevolenza, tratto per lui essenziale in un nuovo umanesimo dei diritti e della cura delle persone e
delle comunità; segno rivelatore per se stesso dell'universo del sacro e del santo.
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