Claude Lévi-Strauss: un`officina, una città

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Claude Lévi-Strauss: un’officina, una città
Maurizio Del Ninno
a capoverso teso
1. Un’officina
L’allusione è in parte trasparente: il rinvio è in primo luogo all’attività del fondatore del Laboratoire
d’anthropologie sociale. L’importanza di questa istituzione è ben nota ed è stata ampiamente
ricordata recentemente[1]. Ma il mio riferimento è a un secondo piano, più modesto e mira a
sottolineare piuttosto un riferimento personale, autobiografico: al fatto che, mi sono sempre
considerato un «maschietto”, nell’officina di Lévi-Strauss, un apprendista attonito che sta a
guardare il capo-officina che smonta le pratiche sociali e i miti che le contornano, rimontando tutto
in analisi magistrali[2]. Più precisamente, parlando di Lévi-Strauss e della sua teoria come di
un’officina intendo riferirmi al “banco delle chiavi” dell’analisi strutturale, la serie di principi
guida che Lévi-Strauss ha enunciato soprattutto - ma non solo - in quel manifesto che è
Antropologia strutturale..
Ad uso di futuri ‘maschietti’, vorrei ricordare alcuni di questi principi, per altro ben noti, cui non
ho mai cessato di fare riferimento.
1.1. Trubekoj e le regole del metodo fonologico
Il primo posto spetta certo ai “quattro principi di Trubeckoj” cui Lévi-Strauss fa riferimento come
al punto fondamentale, capace di produrre nelle scienze umane, una “rivoluzione copernicana”.
Ecco la formulazione dei principi, così come appare in “L’analisi strutturale in linguistica e in
antropologia”[3].
La fonologia ha, nei confronti delle scienze sociali, lo stesso compito rinnovatore che la fisica nucleare,
per esempio, ha avuto per l'insieme delle scienze esatte. In che consiste questa rivoluzione, se cerchiamo
di vederla nelle sue implicazioni più generali?
L'illustre maestro della fonologia, N. Trubeckoj, ci darà la risposta a questa domanda. In un articoloprogramma, egli riduce, in sostanza, il metodo fonologico a quattro procedimenti fondamentali: in primo
luogo la fonologia passa dallo studio dei fenomeni linguistici coscienti a quello della loro infrastruttura
inconscia; rifiuta di considerare i termini come entità indipendenti, prendendo invece come base dell'analisi
le relazioni tra i termini; introduce la nozione di sistema: «La fonologia attuale non si limita a dichiarare che
i fonemi sono sempre membri di un sistema, ma mostra sistemi fonologici concreti e mette in evidenza la
loro struttura» [Trubeckoj, 1933: p. 243] infine mira alla scoperta di leggi generali, sia trovate per
induzione, «sia... dedotte logicamente, il che conferisce loro un carattere assoluto»[Ibidem].
Così per la prima volta una scienza sociale riesce a formulare relazioni necessarie.
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Questi principi sono ricordati più volte. In particolare ricorrono in altro saggio, ugualmente
importante e ugualmente famoso: la prefazione alle Six leçons sur le son et le sens di Roman
Jakobson[4]. Come accennato, l’introduzione di questi principi all’ambito antropologico costituisce
quella che Lévi-Strauss presenta come una “révolution copernicienne”[5].
Dalla costellazione dei principi di Troubeckoj, derivano altri due espansioni che pure vorrei
ricordare.
1.2. Le elaborazioni secondarie
In questione c’è l’uso delle pseudo-spiegazioni, o elaborazioni secondarie, cui il ricercatore deve
fare attenzione. Lévi-Strauss ne parla a proposito del differente modo di lavorare dello storico e
dell’antropologo (1958, trad. it. 1966: 31-32):
La storia organizza i suoi dati in base alle espressioni coscienti, e l'etnologia in base alle condizioni
inconscie della vita sociale. [...]. Orbene, è noto che, nelle maggior parte dei popoli primitivi, è
difficilissimo ottenere una giustificazione morale, o una spiegazione razionale, di una usanza o di
un'istituzione: l'indigeno interrogato si contenta di rispondere che le cose sono sempre state cosí, che
quello fu l'ordine degli dei, o l'insegnamento degli antenati. Anche quando s’incontrano interpretazioni,
queste hanno sempre il carattere di razionalizzazioni o di elaborazioni secondarie: non c'è dubbio che le
ragioni inconscie per cui si pratica un'usanza, o si condivide una credenza, sono lontanissime da quelle
invocate per giustificarla. Anche nella nostra società, le buone maniere a tavola, gli usi sociali, le regole
del vestirsi e molti nostri atteggiamenti morali, politici e religiosi sono osservati scrupolosamente da
ciascuno, senza che la loro origine e la loro funzione reali siano state oggetto di ponderato esame.
Agiamo e pensiamo per abitudine, e l'inaudita resistenza opposta a deroghe, sia pur minime, deriva piú
dall'inerzia che da una volontà cosciente di mantenere usanze di cui si capisca la ragione [...]. E anche
oggi le elaborazioni secondarie, appena formulate, tendono ad assumere la stessa espressione inconscia.
[...] Spetta a Boas il merito di avere, con straordinaria lucidità, definito la natura inconscia dei fenomeni
culturali, in pagine in cui, assimilandoli da questo punto di vista al linguaggio, anticipava lo sviluppo
ulteriore del pensiero linguistico, e un avvenire etnologico di cui cominciamo appena a intravedere le
promesse.
Pare evidente che la ‘regola’ delle elaborazioni secondarie è in definitiva un’espansione del primo
principio di Trubeckoj (“passaggio dallo studio dei fenomeni coscienti a quello della loro
infrastruttura inconscia”); è forse opportuno anche sottolineare che essa è in linea e si ricollega ad
altri due autori, che Lévi-Strauss annovera come suoi maestri: Marx e Freud.
1.3. Il rapporto comparazione-generalizzazione
C’è ancora un terzo principio cui molti studiosi che si attardano su un approccio induttivo
dovrebbero fare attenzione. È anch’esso espansione delle quattro regole di Trubeckoj e anche esso è
espresso più volte. Così, a proposito dei principi innovativi della fonologia, Lévi-Strauss (1958: trad.
it. 1966: 33) ricorda che Boas, che pure li aveva utilizzato in pieno per fondare la linguistica
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americana, rivela timidezza nell’applicarli all’etnologia:
Ma Boas [...] riduce l'estensione delle categorie che paragona, non le costituisce su un nuovo piano; e
quando il lavoro di frammentazione gli sembra impossibile, evita di comparare. Eppure ciò che rende
legittima la comparazione linguistica è qualcosa di piú, e d'altro, che uno spezzettamento: è un'analisi
reale. Dalle parole il linguista estrae la realtà fonetica del fonema; da questo, la realtà logica degli
elementi differenziali. E quando ha riconosciuto in piú lingue la presenza degli stessi fonemi o l'uso
delle stesse coppie di opposizione, non paragona fra di loro esseri individualmente distinti: è lo stesso
fonema, lo stesso elemento, a garantire su questo nuovo piano l'identità profonda di oggetti
empiricamente diversi. Non si tratta di due fenomeni simili, ma di uno solo. Il passaggio dal cosciente
all'inconscio va di pari passo con il progresso dallo speciale al generale.
Di conseguenza in etnologia, come in linguistica, non è la comparazione a fondare la generalizzazione, ma il
contrario [corsivo mio].
Ovviamente l’elenco delle “chiavi” disponibili nell’officina potrebbe allungarsi e non di poco: ma è
opportuno arrestarsi qui. Obiettivo da perseguire in questa sede, infatti, non è tanto l’elencazione
delle chiavi, quanto quello di gettare il seme di una futura opera (collettiva) di sistematizzazione.
Manca, per Lévi-Strauss, uno strumento quale è stato ed è per la scuola di Parigi, il dizionario
Greimas-Courtés.[6] La necessità di un tale dispositivo del resto è da tempo nell’aria, come mi pare
indichino le varie raccolte di citazioni di Lévi-Strauss, apparse sul web in occasione del centenario
e anche l’omaggio della lettura dei cento brani effettuata in occasione dei festeggiamenti del
centenario. Proprio a tale esigenza, d’altra parte, sembrano rispondere anche Del Ninno (1975) e
Maniglier (2002).
2. Una città
Si rassicuri il lettore delle Le strutture elementari della parentela, o delle Mitologiche (grandi e piccole),
o delle “antropologie strutturali”, o anche del solo apparentemente più semplice Regardere écouter
lire, che avverte come forzata la riduzione del pensiero levistraussiano entro i limiti stretti di
un’officina. Questa immagine mira soprattutto a focalizzare l’attenzione sul centro operativo di un
corpo ben più vasto: l’officina presuppone chiaramente uno spazio circostante che la contiene: “la
città - la metropoli? - Lévi-Strauss”[7].
Quale “maschietto dell’officina”, non mi è lecito avventurarmi nel compito di guida ma vorrei
comunque indicare tre stazioni del metró di questa “città ideale” che mi è capitato di visitare.
2.1. Lo sguardo da lontano
Fin da Tristi tropici, Lévi-Strauss ha sempre ribadito la sua riserva riguardo la ricerca sul
terreno[8].“Lo sguardo da lontano”, titolo della sua terza raccolta di saggi (1983), ha finito così anche
con l’indicare il modo di denominare il suo approccio etnografico. Per chi conosca i principi della
linguistica strutturale da cui Lévi-Strauss muove, un tale approccio non può che definirsi quale
pratica di ricerca dei tratti pertinenti del fenomeno osservato, che non va descritto nelle sua totalità
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- cosa del resto impossibile – e tanto meno dal punto di vista del suo osservatore. Come per il
fonologo strutturale, anche per l’antropologo, il fenomeno va descritto dal punto di vista della
“comunità/langue” da cui emana ed è parte[9]. Ed è questo che Lévi-Strauss fa nei brani etnografici
di Tristi tropici (vedi la descrizione del villaggio bororo) ed è quello che, a livello generale, indica
nella sua introduzione all’“Antropologia” nell’Enciclopedia del Novecento (1975):
[Gli] studi monografici rappresentano, per l'antropologia, l'equivalente di quello che gli esperimenti di
laboratorio sono per le scienze fisiche e naturali. Con questa differenza, tuttavia: che in antropologia la
sperimentazione precede l'osservazione e l'ipotesi: le piccole società che gli antropologi studiano sono
esperienze bell'e fatte e su cui essi non hanno né il tempo necessario né i mezzi per agire. Le esperienze
dell'antropologo sono già pronte, ma esse non possono esser anche guidate. Per trattarle in laboratorio,
confrontarle fra di loro, sforzarsi di enuclearne forme comuni e proprietà essenziali, egli deve sostituir
loro dei modelli: sistemi di simboli che salvaguardano le proprietà caratteristiche dell'esperienza, ma che
si possono far variare sopprimendo o aggiungendo delle variabili e facendole evolvere. Questo impiego
alternato di due metodi, l'uno empirico, l'altro deduttivo, fornisce all'antropologia il suo carattere
distintivo nell'insieme delle scienze dell'uomo. Più di ogni altra scienza, essa cerca di fare della più
intima soggettività un mezzo di dimostrazione oggettiva. Lo spirito dell'antropologo, durante la ricerca
sul campo, si abbandona all'esperienza e si lascia modellare da essa: ma in laboratorio questo stesso
spirito diviene il teatro di altre operazioni mentali che senza cancellare le precedenti trasformano
tuttavia l'esperienza in modello, modello che avrà valore solo in quanto permetterà, in una terza fase di
ritornare all'esperienza conferendo ad essa nuove dimensioni.
La descrizione etnografica non è dunque mai frutto di un abbandono ai dati dell’esperienza;
piuttosto deriva da un movimento di spola, da questi (la cosiddetta “realtà”) al modello, costruito
secondo le regole del metodo strutturale e progressivamente aggiustato. Ora - posto che il leitmotif
cui mi pare corretto contrapporsi è, come abbiamo indicato, quello di un Lévi-Strauss legato ad
una corrente, lo strutturalismo, ormai superata e dunque da accantonare - per confutare quest’idea
mi sia permesso ampliare il discorso e seguire le riflessioni di uno dei principali fautori di questo
superamento: Clifford Geertz.[10]
Più giovane del maestro francese, egli arriva sulla scena qualche decennio dopo, avanzando la
proposta di un nuovo approccio, l’antropologia interpretativa, che si presenta, come fondata
sull’approccio semiotico e più aggiornata rispetto alle istanze strutturaliste. Ebbene, seguiamo
Geertz lungo un’opera che ha riscosso molto successo e che ritengo un vero capolavoro di
malevolenza: “Vite e opere, l’antropologo come autore” (1988). Siamo certo davanti ad una costruzione
sapiente, che per altro muove da riflessioni di Roland Barthes, scritta da un autore che, in teoria, si
muove dentro la rivoluzione copernicana prodotta dalla linguistica sulle scienze dell’uomo (Geertz
si vuole “semiotico”): ma un’osservazione appena un po’ attenta permette di riconoscere in questo
lavoro tutti gli elementi malefici della mela avvelenata. Nel saggio Geertz mette al meglio a frutto
la forza devastatrice della sua ironia: gli autori passati in rassegna, sono presi in considerazione
solo attraverso lavori marginali, di dettaglio. Si comincia con E. Evans-Pritchard, analizzato nei
suoi resoconti sul campo, ma non quale etnografo, ma quale ufficiale dell’esercito inglese.
L’attenzione del lettore è così spostata sulla macchiettistica descrizione del comportamento
dell’esercito italiano. Considero questa apparente bizzaria come uno preludio per preparare il
terreno alla successiva mossa, la stroncatura di Lévi-Strauss esaminato attraverso Tristi tropici.[11]
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In questo modo, Geertz ha la scaltrezza di schivare il Lévi-Strauss analiticamente pesante, e
accreditare il suo obiettivo manifesto (dimostrare che la scrittura etnografica è marcata dalla
soggettività). Naturalmente, non sente il bisogno di avvertire il lettore che il libro in questione è
famoso, fin dalla sua apparizione, per il suo valore letterario (il quasi conferimento del premio
Goncourt), né tanto meno ha cura di segnalare il posto decisamente marginale che il testo occupa
nel pensiero lévistraussiano, per dichiarazione del suo stesso autore[12]. Infine, il passo successivo
di Geertz è di fare del diario intimo di Malinowski il capolavoro antropologico del secolo, per poi
andare a distruggere tutta la nuova generazione di antropologi (“i figli di Malinowski”). I temi di
Opere e vita, saranno poi ripresi da James Clifford (1988), fine e caustico più del suo compagno, che
ha buon gioco a far bollire l’approccio etnografico levistraussiano – che non menziona neppure nel calderone malinowskiano dell’“osservazione partecipante”, ormai presentata come forma
esercizio di scrittura letteraria.
Se a Clifford -vista la sua formazione- si può concedere il beneficio della buona fede, resta da
chiedersi per quale motivo Geertz (si noti bene: in un libro in cui è in questione l’operazione
etnografica) non menzioni neppure il contrasto e la novità dello “sguardo da lontano” rispetto
all’approccio malinowskiano, nonostante le ripetute prese di distanza di Lévi-Strauss dal suo
predecessore.[13].
Mi pare evidente che la risposta vada cercata nel fatto che, un volta posto il problema della
descrizione etnografica come costruzione di un modello, la “malattia del diario” individuata da
Geertz per dare risalto alla sua pratica interpretativa, diventi una risibile influenza che colpisce
coloro che rifiutano il ricorso alla prospettiva aperta dallo strutturalismo.
Accertato che prima di chiudere con questo approccio sia opportuno porre qualche attenzione
possiamo passare alla seconda stazione.
2.2. Deduzione empirica e deduzione trascendentale
Il riferimento è qui all’esemplare illustrazione delle due procedure logiche fondamentali del
pensiero mitico – la deduzione empirica e la deduzione trascendentale-, stralciata dall’autore dal
secondo volume delle Mitologiche, quale suo contributo a un ben noto volume curato da Pierre ed
Elli Kongas Maranda (Structural Analysis of Oral Tradition: Cfr Lévi-Strauss 1971).
Si ha deduzione empirica, quando un mito attribuisce una funzione, un valore o un significato
simbolico a un essere naturale sulla base di un giudizio empirico che associ in modo duraturo l'essere
con l'attribuzione. Da un punto di vista formale l'esattezza del giudizio empirico è irrilevante. Così
entrambe le seguenti associazioni derivano ugualmente da deduzioni empiriche, anche se la prima
riflessione si fonda su un'osservazione corretta, mentre la seconda è puramente immaginaria.
1) Un'associazione basata sull'osservazione corretta risulta dal legame che di frequente i miti
instaurano tra il mondo medio e uccelli, quali il picchio, che trascorrono molto del loro tempo sul tronco
degli alberi, cioè tra l'alto e il basso.
2) Un'associazione immaginaria, invece, risulta dall'attribuzione di poteri curativi contro il morso del
serpente e la carie del dente a certi semi che hanno la forma di zanne.
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Per estensione, possiamo anche usare il termine "deduzione empirica" ogni volta che il mito
attribuisce a una creatura naturale proprietà inverse a quelle suggerite da una esatta o inesatta
osservazione, purché la situazione totale del mito sia anch'essa l'inverso di quella in cui l'osservazione
potrebbe essere fatta. Per esempio, gli Indiani dell'America tropicale credono che gli uomini e i giaguari
si nutrano della stessa selvaggina e che la differenza tra le due specie consista nel fatto che gli uni
cuociono la loro carne mentre gli altri la mangiano cruda. Ora, se un mito si riferisce al tempo in cui gli
uomini non avevano ancora il fuoco e quindi mangiavano carne cruda, si può legittimamente
concludere, estendendo la deduzione empirica, che in quel tempo fossero i giaguari ad avere il fuoco e a
cucinare la selvaggina, poiché la deduzione empirica diretta attesta l'esistenza di un tratto distintivo
nelle abitudini alimentari degli uomini e dei felini della giungla.
Cos'è invece la deduzione trascendentale? Non necessariamente essa riposa su una base empirica vera
o falsa, diretta o indiretta e, più che dall'attribuzione di certe proprietà a un dato essere, deriva dalla
consapevolezza di una necessità logica, quella di attribuire certe proprietà ad un dato essere perché la
deduzione empirica ha in precedenza connesso questo essere con altri sulla base di un insieme di
proprietà correlative.
Ecco un esempio. Secondo la deduzione empirica, la rana gioca il ruolo di creatrice o d’annunciatrice
della pioggia. Gli indiani dell’America tropicale attribuiscono questo ruolo principalmente alla rana
arboricola: la cunauaru dei Tupi e Carib (Ila venulosa) che, dicono, emette il suo grido quando sta per
piovere. Questa rana ha alcune abitudini particolari. Vive nella cavità degli alberi dove l'acqua permane
per lunghi periodi e in questa acqua colloca, parzialmente sommerse, le celle coniche che modella con la
resina e in cui depone le uova.
Questo fatto e la continua applicazione della deduzione empirica diretta portano il pensiero mitico
sudamericano a concepire una relazione di correlazione e di opposizione tra la rana cunauaru e le specie
di api della famiglia Meliponidae che fanno il nido in un tronco cavo asciutto e modellano le celle per
l'allevamento delle larve con cera mescolata a resina (e talvolta a fango), depositando il miele nelle loro
case-albero. Certamente, le rane arboricole e le api si rassomigliano e si oppongono: nidificano in tronchi
vuoti e costruiscono celle di resina o di una sostanza equivalente; ciò nonostante, le rane vivono con
l'acqua (anche nel cuore della stagione secca) ma non hanno miele, mentre le api vivono con il miele
accumulato (che non esiste in nessun altro posto) ma senza acqua. Le api sono anche più esplicitamente
opposte all'acqua, poiché il pensiero indigeno associa il miele alla stagione secca, periodo in cui viene
raccolto.
Fino ad ora abbiamo usato solo la deduzione empirica; ma per spiegare le successive associazioni di
correlazione e di opposizione avremo bisogno di una nuova procedura. Per i Tupi settentrionali - Tembe
e Tenetehara - i giaguari sono i primi possessori del miele e coloro che per primi l'hanno trasmesso agli
uomini [...]. Gli indiani dell'Amazzonia credono che la rana sia la madre dei giaguari [...] o anche che
possa trasformarsi in questo animale [...]
Restringendo l'investigazione all'etnozoologia si potrebbe ritenere che queste credenze siano
inesplicabili. La loro comprensione richiede che siano inserite in un complesso sistema di relazioni dove
ogni singola asserzione esiste solo come un aspetto dell'intero.
Secondo la deduzione empirica diretta, la rana è la signora (attuale) dell'acqua e, secondo la
deduzione empirica indiretta (invertita), il giaguaro è generalmente il signore del fuoco. Se la rana è
opposta all'ape, che ha il miele invece di acqua (mentre la rana stessa ha acqua invece di miele),
possiamo introdurre la deduzione trascendentale per concludere che il giaguaro (opposto alla rana dalla
deduzione empirica) deve essere come l'ape e quindi possedere in qualche modo il miele.
Da questa deduzione deriva la sua posizione di signore del miele nei miti dei Tupi settentrionali. Ne
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deriva anche che il giaguaro e la rana devono formare (come fanno la rana e l'ape) una coppia di termini
in opposizione e correlazione. Perciò essi sono trasformabili l'uno nell'altro; e l'identità mitica di
Kunawaru-imö = "grande Cunauaru" data al giaguaro sovrannaturale dagli indiani Oayana [...]) sembra
essere la prova incarnata di questa inferenza logica (Lévi-Strauss, 1971,trad. it. 2000: 45-46).
Nonostante la lunghezza, ho ritenuto opportuno riportare per intero un brano la cui lettura mi ha
sempre lasciato con il fiato sospeso: la sua sintassi ha il rigore delle mosse di una partita di
campionato di scacchi. Ma, eleganza della presentazione a parte, è certamente la portata esplicativa
di quanto esposto a suscitare lo stupore. La deduzione trascendentale ha rivestito ai miei occhi di
“maschietto” lo stesso fascino suscitato dal primo capitolo delle Radici storiche di Propp (1946), ma
con in più il carico della sua maggiore potenza esplicativa. Per altro, i due modelli sono pensati per
spiegare fenomeni identici e trattati con un linguaggio simile: si ricorderà che nelle prime pagine
del suo libro, lo studioso russo propone di spiegare geneticamente i vari motivi della fiabe. Così, la
fanciulla che “seppellisce nell’orto le ossa della mucca e le annaffia"[14] sarebbe il riflesso di
un’usanza reale (= deduzione empirica diretta). Ma – ed è ancora il punto di vista di Propp - non
sempre si registra una rispondenza diretta: frequentemente si osservano, infatti, graduali
spostamenti (trasposizioni del senso) della pratica iniziale fino a raggiungere il limite della sua
inversione[15] (= deduzione empirica inversa). Più avanti però l’analisi di Propp incontra un
ostacolo insormontabile, tanto che egli è costretto a dichiarsi fuori gioco: “sono possibili certi casi
in cui la base primordiale del rito è talmente oscurata che il rito in questione necessita uno studio
speciale. Ma questo non è più compito del folclorista, bensì dell’etnografo[16].
Mi è sembrato subito chiaro che la deduzione trascendentale offra la chiave per i casi inespugnabili
di Propp[17]. Tuttavia, essa non ha attirato più di tanto l’attenzione degli studiosi, forse per via
della sua formulazione ‘parlata’[18]. Nondimeno, costituisce uno dei punti più alti della riflessione
di Lévi-Strauss.
Al riguardo, c’è un ulteriore elemento per me dirompente: se, come dobbiamo ritenere,
comunemente abbiamo la nostra porzione giornaliera di pensiero selvaggio, allora la deduzione
trascendentale è lo strumento cui fare ricorso per spiegare i mille strani circuiti quotidiani (battute
di spirito, credenze popolari...) che trascuriamo o attribuiamo a pseudo spiegazioni.
Si apre qui un sottopassaggio che ci porta dentro la terza stazione.
2. 3. Up/Down
La bontà di un approccio si riscontra nella sua estensibilità.
L'analyse structurale peut légitimement s'appliquer à des mythes issus de la tradition collective et à des
ouvrages d'un seul auteur, car le programme ici et là sera le même: expliquer structuralement ce qui
peut l'être et qui n'est jamais tout; pour le reste, s'employer à saisir, tantôt plus et tantôt moins, un autre
genre de déterminisme qu'il faudra chercher aux niveaux statistique ou sociologique: ceux qui relèvent de
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l'histoire personnele, de la société ou du milieu (Lévi-Strauss 1971b: 560).[19]
Questo terzo luogo vuole solo ricordare che se, come abbiamo fatto finora, la città Lévi-Strauss può essere
percorsa in direzione Up, dove il centro è la tradizione di studi antropologici, esiste anche una direzione
Down, che dal centro muove verso aree disciplinari limitrofe.
Personalmente, corro immediatamente verso il nonsense, dove ho a lungo tentato di edificare le mie
personali Mitologiche, incoraggiato da una parte dalla evidenti operazioni di “bricolage forzato” (le torsioni
della formula canonica?) che i due campi hanno in comune, dall’altra da studi di buona derivazione
lévistraussiana, quali quelli Paul Bouissac (1977, 1978, 1986) o di Susan Steward (1979).
Ovviamente vi sono molti altri spazi aperti, altri campi disciplinari; ma mi pare doveroso chiudere con il
ricordo del lavoro di Jean-Marie Floch e della sua stupefacente applicazione dello spirito della Voie de
masques ai logos IBM ed Apple. (1995: 43-78).
3. Per finire/per cominciare
Ma la “città ideale” è gia perfetta? Davvero lo strutturalismo è la gallina dalle uova d’oro? Certo, se
intendiamo lo strutturalismo come uno stato degli studi fermo alle conquista della scuola di Praga,
allora possiamo dare ragione ai detrattori. Ma per evitare che si gettino via i frutti che non sono
stati colti o che si trascurino le sue innovazioni rivoluzionarie è evidente che dobbiamo difendere il
suo avvento, impegnandoci a proseguire lungo una strada in continua costruzione.
Posto che molti - soprattutto gli antropologi ‘tradizionali’- ritengono il successo di Lévi-Strauss
come il frutto di una personalità e di un periodo d’eccezione, piuttosto che conseguenza di
un’impostazione semiotica, direi che sono soprattutto gli studiosi di questa area che dovranno farsi
carico di valutare il potenziale innovativo del suo lavoro. Compito per il resto ampiamente dovuto:
quale studioso della seconda metà del Novecento ha applicato con pari vigore, produttività, rigore
i principi fondamentali della semiotica all’intero universo della cultura: dalle strutture della
parentela a quelle del racconto, delle pratiche sociali alla arti figurative e alla musica?
Françoise Heritier, in una brillante messa a punto dello stato degli studi sulla parentela, dopo aver
evidenziato che l’idea centrale delle Strutture elementari della parentela, conserva ancora il suo valore
conclude il saggio con una affermazione significativa: “la citadelle n’a pas été prise”. È ora che i
semiotici della narratività piantino i loro picchetti sul terreno ormai quasi bruciato delle
Mitologiche e rivendichino il carattere aurifero delle miniere scavate da Lévi-Strauss.
Riferimenti bibliografici
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etnosemiotica.it/giornata claude lévi-strauss/m. del ninno
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[1] Nel numero hors serie de La Lettre du Collége de France dedicato al centesimo anniversario di Lévi-Strauss, Nicole
Belmont, nel suo affettuoso ricordo del Laboratoire, riporta le parole pronunciate da Lévi-Strauss al momento della sua
inaugurazione: «Certains se sont étonnés que le terme de laboratoire puisse s'appliquer à un centre de sciences
humaines. En l'adoptant, on n'a pourtant pas cédé à la mode ou au goût du faux-semblant. Selon l'étymologie, un
laboratoire est d'abord un lieu où l'on travaille. Et il suffit de pénétrer dans le nôtre pour constater que les méthodes de
la recherche ethnologique prennent aujourd'hui un style qui les rapproche de celles des secteurs plus avancés». Sullo
stesso numero anche Philippe Descola celebra l’importanza dell’istituzione. Al riguardo vedi anche Isac Chiva 2004.
[2] L’idea dell’officina non è estranea a Lévi-Strauss. Ecco come egli descrive il suo rapporto con Granet (il Granet che sta
dietro le Strutture elementati della parentela): « Granet s’attaquait à des systèmes très compliqués et il s’employait à le
démonter, comme on démonte un mécanisme, pour comprendre à la fois de quoi ils étaient faits et comment ils
fonctionnaient. Je découvrait une réflexion objective appliquée aux faits sociaux » (Lévi-Strauss-Eribon 1988 : 139-140,
trad. it. 143).
[3] “L’analisi strutturale in linguistica e in antropologia”. Tradotto e adattato dall'originale inglese, Conference of
Anthropologist and Linguists, Bloomington, Indiana, 1952. Pubblicato da una trascrizione della registrazione su nastro
magnetico in: «Supplement to Internazionale Journal of American Linguistics», vol. XIX, 1953, n. 2, Mea. 8, 1953 ora in
Anthropologie structurale (trad. it. 1966: 47).
[4] In questo caso sono però enucleati separatamente: “Quello che [...] la linguistica strutturale doveva insegnarmi è che
invece di lasciarsi sviare dalla molteplicità dei termini, è importante considerare i rapporti più semplici e più intelligibili
che li uniscono” (p. 8); “van Wouden [ .] e Granet avevano avuto il merito di andare oltre questo stadio, ma senza
affrancarsi dalla considerazione dei termini a quella delle relazioni” (p. 9); “si può dire di qualunque termine, quello che
Jakobson scrive qui sull’individualità fonica dei fonemi”. “Ciò che conta [...] non è affatto l’individualità [...] di ciascuno
di essi, in sé e per sé. Ciò che conta è la loro opposizione reciproca all’interno di un sistema” (ibidem).
[5] Vedi, per esempio, la “Preface “ a Le regard éloigné (1983: 12, trad. it.: VIII).
[6] È un dato di fatto la mancanza di una “scuola” levistraussiana. Pierre Nora, in un’intervista, attribuisce lo scarso
numero di allievi del maestro, alla qualità altamente letteraria della sua opera, che ne farebbe qualcosa difficilmente
acquisibile in una scuola. Personalmente, sottolinerei piuttosto un progressivo distacco (impossibilità?) di Lévi-Strauss
dal tenere sotto controllo gli esiti del suo lavoro, affiancato al suo noto rifiuto di costituirsi quale “maître à penser”. Alla
domanda di Nouvel Observsateur « Lisez-vous ce qui s'écrit sur vous, sur vos livres?» significativamente Lévi-Strauss
risponde: « Sauf dans quelques, cas où je connais personnellement et estime l'auteur, presque jamais. Un institut
américain de bibliographie en tient à jour la liste. Celle qu'il a publiée il y a sept ans comprenait déjà plusieurs centaines
de titres. Je n'aurais pas le loisir de lire tout cela. Et de deux choses l'une : ou bien les livres et articles qui me sont
favorables reposent, en général sur des malentendus ; ils me font crédit de ce que je n'ai pas dit ou n'aurais pas souhaité
paraître dire. Out bien ils me sont hostiles et témoignent de tant d'ignorante et d'incompréhension que je m'en sens
indûment perturbé et me demande si cela valait la peine d'écrire. Mieux vaut tenter de conserver un peu de sérénité »
(Lévi-Strauss 1980).
[7] “Città Lévi-Strauss” è solo un modo contratto per esprimere al meglio la densità del suo pensiero, certo di difficile
perimetrazione.
[8] Il primo riferimento è qui al noto inizio «Je hais les voyages et les explorateurs». ma il distacco di Lévi Strauss dalla
ricerca sul campo risale già agli anni ‘40: «Je me suis reconnu très vite comme homme de cabinet plutôt qu’homme de
etnosemiotica.it/giornata claude lévi-strauss/m. del ninno
terrain» (Lévi-Strauss – Éribon, 1988: 66, trad. it. 70).
[9] La migliore esemplificazione deriva comunque dal dominio della parentela: «L'idea [...] secondo cui la famiglia
biologica costituisce il punto dal quale ogni società elabora il proprio sistema di parentela [... trova oggi la più vasta]
unanimità. È anche difficile però, a nostro parere, trovarne una più pericolosa. Certo, la famiglia biologica è presente e si
prolunga nella società umana. Ma ciò che conferisce alla parentela il suo carattere di fatto sociale non è quel che essa
deve conservare della natura: è anzi la svolta essenziale per cui se ne separa. Un sistema di parentela non consiste nei
legami oggettivi di filiazione o di consanguineità dati tra gli individui; esiste solo nella coscienza degli uomini, è un
sistema arbitrario di rappresentazioni, non lo sviluppo spontaneo di una situazione di fatto». (Lévi-Strauss , 1958 trad.
it. 1966: 65).
[10] Al pensiero di Clifford Geertz, e a quello limitrofo di James Clifford, va riconosciuto il merito di essersi abbattuto nel
contesto italiano con la forza di una mareggiata furiosa, che ha portato via cabine e sdraio dalle spiagge in cui troppo a
lungo si è parlato solo con il socioletto demartiniano e gramsciano.
[11] Spesso si pensa a Tristi tropici come al solo lavoro di Lévi-Strauss concernente la ricerca di terreno, dimenticando il
lavoro sui Nambikwara (Lévi-Strauss 1948).
[12] Così vedi: «“Tristes tropique est un libre qui a été écrit en quattre mois, à la va-comme-je-te pousse» (Lévi-Strauss
1984 : 94) ; e ancora : «J’etais convaincu que je ne ferais jamais ce qu’on appelle une carrière. J’ai rompu avec mon passé,
reconstruit ma vie privée, et j’ai ecrit Tristes Tropiques que je n’aurais jamais osé publier si j’avais été engagé dans une
compétition quelconque pour une position universitaire» (Eribon-Lévi-Strauss, 1988 : 76 ; trad. it. 80).
[13] Dato anche che Malinowski è quasi il solo autore da cui Lévi-Strauss prende le distanze ogni volta che può.
[14] P. 37.
[15] Cfr. pp. 37-39
[16] Corsivo mio; p. 41.
[17] Ho sempre -inutilmente- pensato al caso della capanna sulle zampe di gallina, in cui abita la baba-jaga, come ad un
ottimo campo di esercizio della deduzione trascendentale .
[18] Il riferimento implicito è qui all’attenzione rivolta alla confinante “formula canonica”
matematica.
espressa notamente in forma
[19] Qualche riga più sotto, nella stessa pagina, troviamo la variante : «Les œuvres individuelles sont toutes des
mythes en puissance, mais c'est leur adoption sur le mode collectif qui actualise, le cas échéant, leur ‘mythisme’».
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