Il principio di tassatività e determinatezza ed il divieto di analogia

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Il principio di tassatività e determinatezza ed il divieto di analogia della legge penale
nel reato di atti persecutori (c.d. “stalking”) e nel fenomeno del c.d. “femminicidio”
dopo la Legge n. 193 del 2013
A cura di SALVATORE MESSINA
Abstract. L’obiettivo del presente elaborato è quello di vagliare la rispondenza del reato di atti
persecutori ex art. 612-bis c.p. (c.d. “stalking”) e della legge n. 119 del 2013 sul c.d.
“femminicidio” in relazione ai principi cardine dell’ordinamento penale, ossia quello di
tassatività e determinatezza ed il divieto di analogia, corollari del principio di legalità ed
implicitamente desumibili dal dettato dell’art. 25 Cost. .
1. IL PRINCIPIO DI TASSATIVITA’ E DETERMINATEZZA
Il principio di tassatività e determinatezza che, insieme con quello di irretroattività della legge
penale sfavorevole e quello di riserva di legge, costituisce uno dei tre corollari del principio di
legalità, è implicitamente desumibile dal dettato dell’art. 25 Cost. e presiede alla tecnica di
formulazione della legge penale1.
Rectius, detto principio indica, nella sua interezza, sia il dovere per il legislatore di procedere al
momento della creazione della norma ad una precisa determinazione della fattispecie legale,
affinché risulti tassativamente stabilito ciò che è o meno penalmente deplorato, che il divieto, per il
giudice, di applicare la stessa a cui da essa non espressamente preveduti e, quindi dell’analogia
nullum crimen sine lege poenali scripta et stricta.
Occorre specificare che i termini “determinatezza” e “tassatività”vengono usati quali sinonimi, a
cagione della loro complementarietà.
Tuttavia, il principio di determinatezza non ha come corollario indefettibile il divieto di analogia,
essendo storicamente riscontrabili sistemi penali che hanno accolto il primo ma non il secondo.
1
Ferrando Mantovani, “Diritto Penale”, 2015, Cedam, pag. 61.
1
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Al contrario, il principio di tassatività, nella sua interezza considerato, postula e presuppone quello
di determinatezza, senza la quale si avrebbe una forma di analogia anticipata.
Pertanto, lo stesso può essere usato nel senso onnicomprensivo sopra specificato, ricomprendendovi
anche la distinzione tra precisione, cioè la descrizione intellegibile della fattispecie astratta e
determinatezza, ossia la rispondenza dei fatti descritti alla realtà.
Invero, il fatto è tassativo in quanto determinato, determinato in quanto intelligibile ed intellegibile
poiché facente parte della realtà.
Secondo un atavico e sovente riproposto assunto, il principio di tassatività troverebbe il proprio
fondamento logico nella stessa natura della norma penale, intesa quale comando, e nella natura
intimidatrice della pena2.
Specificamente, le norme costituiscono comando e possono avere efficacia d’intimidazione qualora
siano indicati con chiarezza i fatti vietati ed i destinatari della norma possano conoscerne il
contenuto.
Quantunque le affermazioni di principio di detta tesi siano veritiere, non rispondono totalmente alla
concreta realtà dei fatti.
Difatti, siffatta concezione della legge riflette l’ideale illuministico delle stesse e, sul piano logico,
postula una coincidenza tra certezza, conoscenza e capacità intimidatorie della norma reale, che la
realtà non conferma3.
La certezza della legge non implica l’effettiva conoscenza della stessa, ma al più la conoscibilità di
quest’ultima, anche se del tutto teorica visto il coacervo di disposizioni normative che affollano la
materia penale.
Sul piano concreto, l’opinione in esame viene smentita da sistemi, come quello anglosassone, non
basati sulla legge, ma sul precedente, o da quelli afro-asiatici, fondati sulla consuetudine, rispetto ai
quali non v’è una deminutio della capacità intimidatrice, ma al massimo una minor chiarezza dei
precetti.
Pertanto, il fondamento del principio di tassatività va ricercato sul piano politico garantista non solo
della certezza del diritto, ma anche del favor libertatis, posto che finché si resta ancorati al costrutto
in base al quale la regola è la libertà e l’eccezione la pena, la tassatività si pone quale principio
irrinunciabile del diritto penale.
La modalità attraverso cui detto principio si attua è la tipizzazione degli illeciti penali.
2
Quest’assunto è stato teorizzato da Feuerbach per giustificare logicamente il principio di legalità e ripreso in epoca
moderna (cfr. Nuvolone, “Le leggi penali e la Costituzione”).
3
Sul piano storico, detta opinione trova la sua origine nel voler mimetizzare, sotto la vigenza di regimi autoritari, la
premessa politico-garantista del “nullum crimen sine lege” su basi logico giuridiche.
Sul piano logico, postula una coincidenza tra conoscenza e capacità intimidatrice della norma penale, che non trova
riscontro pratico.
2
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La tipicità è il mezzo tecnico mediante cui si persegue il fine della tassatività, fondando un carattere
preciso e costante dell’illecito penale.
Invero, l’accertamento della conformità al fatto tipico di quello storico è il momento centrale tra le
fasi di applicazione della legge penale4.
Il principio di tassatività pone un triplice problema, relativamente all’oggetto, al grado ed alle
tecniche legislative di attuazione della determinatezza.
Per quanto concerne la prima criticità, l’esigenza di tassatività permea l’intero sistema del diritto
penale, sia in merito alle norme incriminatrici, che alle scriminanti, modificative ed estintive della
punibilità, così come degli istituti di parte generale.
In merito al secondo problema, posto che il principio di tassatività è il canone, de lege lata, per
accertare la costituzionalità della legge sotto il profilo della determinatezza e, de lege ferenda, per
formulare le nuove leggi in modo costituzionalmente orientato, la criticità fondante inficia lo
stabilire il grado di determinatezza della fattispecie, necessario e sufficiente per il soddisfacimento
del principio in esame.
Specificamente, la dottrina italiana, a differenza della giurisprudenza che fatica ad adeguarsi
all’impostazione di cui appresso, si è orientata verso un’interpretazione più rigorosa del principio di
tassatività, finanche a considerare incostituzionali le fattispecie indeterminate5.
Nondimeno, la Corte di Cassazione ed il Giudice delle leggi attuano tutt’ora un atteggiamento
cauto, sia per il mancato approfondimento del principio, sia per la difficoltà di individuare il grado
di tassatività previsto dall’art. 25 Cost.6.
Stante che i concetti di determinatezza e di fattispecie tassativa sono indeterminati, è allora compito
di dottrina e giurisprudenza interpretarli7.
In concreto, è necessario ripudiare gli opposti estremismi dell’impossibilità di addivenire alla
certezza giuridica e della certezza assoluta del diritto.
Invero, posto che ogni parola di legge ha un “nucleo di chiarezza ma un manto di incertezza”8,
l’interpretazione è un attività indefettibile del giurista, che non si riduce a mera operazione
ricognitiva, ma implica una certe creatività.
4
Vassalli, “Tipicità” in Enc. Dir., XLIV, 1992, pag. 540. Sulla crisi della tassatività per effetto della trasformazione del
reato in rischio sociale, Sgubbi, “Il reato come rischio sociale”, Bologna, 1990, pag. 47.
5
Spasari, “Appunti sulla discrezionalità del giudice pen., in Riv. IT., 1976, pag. 51; Castronuovo, “Clausole generali e
dir. pen., in Scritti in o. di Stile, Napoli, 2014, pag. 477. Contra, Marinucci-Dolcini, “Corso”, pag. 123.
6
Ex multis, Corte Cost. sentt. nn. 191 del 1970, 42 del 1972, 188 del 1975, 49 del 1980, 169 del 1983, 195 del 1983,
479 del 1989, 35 del 1991, 203 del 1991, 34 del 1995 e 370 del 1996, in italgiureweb.it .
7
Palazzo, “Orientamenti dottrinali ed effettività giurisprudenziale del principio di determinatezza-tassatività in materia
penale”, in Riv. it., 1991, pag. 327.
8
Ferrando Mantovani, op. cit., pag. 66.
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Pertanto, la funzione garantista del principio di legalità consiste non tanto nell’eliminare il
soggettivismo dell’interprete, quanto già nel realizzare la maggior certezza possibile.
Breve, il principio di cui si tratta tende ad evitare l’indeterminatezza del precetto generale ed
astratto, che preclude di stabilire a priori chi che è comandato o vietato.
In merito alle tecniche di redazione normativa, la scelta non si risolve tra clausole generali, che di
sicuro contrastano con il principio di tassatività se costituite da formule sintetiche, e tecnica
casistica, cioè descrizione analitica degli specifici comportamenti incriminati, la quale va respinta
sia per ragioni di economia legislativa, sia per i non scongiurati pericoli di erosione della certezza
giuridica, poiché potrebbe rendere inintelligibile il senso del precetto.
Invero, la tecnica legislativa più rispondente all’esigenza di tassatività è quella di normazione
sintetica che, contestualmente, consente di evitare ritorni regressivi ad eccessi casistica delle
legislazioni preilluministiche e rappresenta il modo corretto di tipizzazione perché consente di
individuare le ipotesi riconducibili nell’alveo della norma in modo sufficientemente certo,
mediante:
-l’enucleazione delle fattispecie attorno a fondamentali tipologie ontologiche di aggressione a
precise oggettività giuridiche di categoria, tramite la tipizzazione modale o causale della condotta;
-il ricorso alle definizione legislative se necessarie o opportune per superare o attenuare la
genericità dei significati;
-l’uso legislativo di elementi concettuali tassativizzanti, decrescendo la determinatezza nel
passaggio dagli elementi rigidi a quelli elastici e poi ancora vaghi9.
I primi sono quelli che esprimono concetti con un unico confine e che, quindi, rendono possibile un
giudizio sicuro di appartenenza o meno di un’ipotesi concreta a detto concetto.
Specificamente, vi rientrano gli elementi descritti naturalistici, numerici, normativi giuridici, cioè
definibili in base a norme giuridiche10.
I secondi sono invece gli elementi che si baloccano nell’ambito di due confini, ricompresi
nell’alveo di una zona grigia intermedia tra un settore di positiva ed uno di negativa certezza.
Sono tali gli elementi descrittivi che esprimono una realtà descrivibile dal legislatore ovvero
quantitativo temporale non predeterminabile dal legislatore, oltre che quelli normativi, a volte
giuridici ma sopratutto extragiuridici11.
9
Ruggiero, “Gli elementi normativi della fattispecie”, Napoli, 1965, pag. 226; Pagliaro, “Il fatto di reato”, Palermo,
1960, pag. 483; Risicato, “Gli elementi normativi della fattispecie”, Milano, 2004; Forti, “Colpa ed evento nel diritto
penale”, 1990, pag. 83.
10
Esempi tipici sono gli artt. 556 e 632 c.c.
11
Ne costituiscono fulgido esempio gli elementi descrittivi che esprimono una realtà non descritta, ma descrivibile dal
legislatore, come ad esempio la rissa o l’incesto, ovvero una realtà quantitativa o temporale non predeterminatile dal
legislatore, come evincibile dagli artt., ad es., 594, 571, 733 e 734 c.p.
4
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I terzi, infine, sono gli elementi normativi che si fondano pseudoconcetti di natura emozionale che
non consentono di trovare un parametro valutativo cui riferirsi, ovvero che si riconducono a
parametri prettamente equivoci12.
Pertanto, detto principio è rispettato quali che siano le tecniche di formulazione e gli elementi fruiti,
purché la fattispecie raggiunga, nel complesso, il grado di determinatezza necessario e sufficiente a
consentire al giudice di individuare, ad interpretazione compiuta, il tipo di fatto predeterminato nel
suo univoco senso disvalente.
Viceversa, il principio in esame è violato quando la norma per l’indeterminatezza dei connotati, non
consente di individuare il tipo di fatto disciplinato, sicché il giudice deve fare ricorso a fonti extra
legislative, nonostante il massimo sforzo interpretativo, che non deve andare oltre quello di volontà
creatrice.
De lege lata, il principio di tassatività porta alla luce parti contrasti tra la nuova visione
costituzionale dell’illecito penale tassativo e la legislazione penale vigente, piena di norme vaghe
fonti di pronunce contraddittorie che violano il dettato costituzionale.
Il paradosso derivante da tale assunto è che l’ideale di certezza e chiarezza giuridica è destabilizzato
dalla prassi legislativa e giudiziaria in un quadro costituzionale che consacra il principio di legalità.
2. ANALOGIA
Punctum pruriens in materia di legalità è l’analogia, ossia il procedimento attraverso cui vengono
risolti i casi non previsti dalla legge, estendendo ad essi a disciplina prevista per quelli simili, c.d.
analogia legis, ovvero desunta dai principi generali del diritto, c.d. analogia iuris13.
Per comprimere le lacune legislative, originarie o sopravvenute, la logica giuridica pone a
disposizione due strumenti per il giudice nel caso in cui non riesca ad addivenire alla risoluzione
della questione tramite fonti sostanziali: l’argumentum a contrariis, che si fonda sul principio dell’
”ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit” ed il ragionamento per similitudine, che è basato sull’opposto
brocardo “ubi eadem ratio ibi eadem dispositio".
Sul piano logico, i due principi si equivalgono, sicché è una scelta apolitica dell’interprete adottare
l’uno o l’altro.
Inoltre, l’analogia è il sistema d’ordinario usato nelle varie partizioni del diritto per colmare le
lacune delle stesse, ma ciò in ambito penalistico non è pacificamente condiviso.
12
Esempio tipico è l’art. 529 c.p.
Ex multis, Bobbio, “L’analogia nella logica del diritto”, Torino, 1935; Giannini, “L’analogia giuridica”, in Jus, 1941;
Giunta, “L’applicazione analogica delle scriminanti”, in Stadium iurisi, 1995, pag. 182; Di Giovine, “L’interpretazione
nel diritto penale”, Milano, 2006.
13
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Invero, nei sistemi legali basati sulla legalità formale, il divieto di analogia è il portato del principio
del nullum crimen nulla poena sine lege, essendo preposto alla tutela del favor libertatis contro ogni
limitazione non espressamente stabilita dalla legge.
Viceversa, nei sistemi basati sulla legalità sostanziale, l’analogia in bonam ed in malam partem
rappresenta lo strumento primario, accanto al possibile ricorso a fonti sostanziali, per attuare pretese
esigenze di difesa sociale e di più sostanziale giustizia.
In merito al fondamento, nel diritto penale italiano, del divieto di analogia, quest’ultimo è
espressamente sancito all’art. 14 delle preleggi, nonché dagli artt. 1 e 199 c.p., per i quali reati pene
e misure di sicurezza sono soltanto quelli espressamente stabiliti dalla legge.
Inoltre il divieto in esame è implicitamente desumibile dall’art. 25 Cost., da cui è stato
costituzionalizzato come corollario del principio di legalità ivi consacrato.
Nello specifico, vi si perviene non tanto tramite il principio di riserva di legge, poiché l’analogia
non è attività creatrice di nuove norme giuridiche, quanto più da quello di tassatività, perché
l’analogia contraddice la finalità garantista di vietare al giudice di punti oltre i casi tassativamente
previsti.
I corollari della costituzionalizzazione del veto di analogia sono i divieti, per il legislatore, oltre che
dell’introduzione di norme che consentano la stessa e l’eliminazione di quelle che la vietano, della
c.d. analogia legislativa anticipata, perché insita nella stessa formulazione legislativa delle
fattispecie.
Invero, si pone un problema in merito alle norme che aprono la fattispecie incriminatrice a casi
simili.
Al fine di pervenire ad una soluzione, occorre preliminarmente discernere tra le fattispecie ad
elencazione sostitutiva della definizione legislativa del novero di ipotesi, caratterizzato
dall’eterogeneità di queste ultime da quelle ad esemplificazione esplicativa di un genus di ipotesi
compiutamente definito dal legislatore.
In merito ai divieti per il giudice, quest’ultimo non può fruire né dell’analogia espressa e neanche di
quella occulta, ossia di pseudo-interpretazioni estensive o evolutive suppletive di inerzie
legislative14.
Onde prevenire tale eventualità, bisogna discernere tra l’analogia dell’interpretazione della singola
norma e quella estensiva.
Concettualmente, detto distinguo è nitido: pur fondandosi entrambe sulla medesima ratio, con
l’interpretazione estensiva si resta nell’ambito della norma, pur se dilatata sino alla massima
14
Padovani, “Tra analogia ed interpretazione estensiva”, in Criminalità, 2919, pag. 347.
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espansione, mentre con l’analogia si esce dai confini della stessa, perché il caso in questione non
può esservi in alcun modo ricompreso.
Il principio di tassatività, inoltre, vieta anche la c.d. “stretta interpretazione della norma penale”.
In merito alla portata applicativa, si discute se il divieto di analogia sia assoluto o relativo, ossia se
concerna anche le norme che vanno a favore dell’imputato, c.d. analogia in bonam partem, ovvero
riguardi solo le norme sfavorevoli, c.d. analogia in malam partem15.
Secondo i fautori della tesi in base alla quale il principio di tassatività esprime l’esigenza, toutcourt, della certezza del diritto, il divieto di analogia è assoluto.
Tuttavia, le basi di detto divieto sono labili, non tanto perché il cittadino potrebbe analogicamente
dedurre ciò che desume il giudice, né poiché l’analogia implichi arbitrio, quanto più a motivo del
fatto che tra certezza giuridica e funzione intimidatrice della norma penale non c’è necessaria
correlazione.
Indi, la portata del veto di cui si tratta va ricercata sul piano politico-garantista.
Sotto tale profilo, il divieto di analogia è sempre stato concepito in funzione di garanzia del favor
libertatis, avverso limitazioni non espressamente previste dalla legge.
Quest’assunto è tipico della tradizione giuridica italiana, motivo per cuinon v’è ragione di ritenere
che i costituenti, nel positivizzare il divieto in esame, si siano discostati da quest’ultima.
In merito ai risvolti pratici, la soluzione prospettata riduce l’inconveniente di fossilizzare il diritto.
Per quanto concerne l’analogia in bonam partem, nei sistemi a legalità sostanziale
l’indeterminatezza delle scriminanti o il fatto che la stessa ratio sia illuminata dal criterio
sostanziale dell’assenza di pericolosità sociale della condotta, lasciano maggior spazio al giudizio di
similitudine quando esso non è superato dalla stessa nozione materiale di reato e dalle fonti
sostanziali del diritto penale.
Viceversa, nei sistemi a legalità formale il giudizio analogico è contenuto entro confini che ne
minimizzano il campo applicativo.
La tradizione giuridica italiana comprova che l’analogia in esame sia relegata soltanto sul piano
teorico, posto che sottostà a tre limiti, quali il dovere di desumere, rigorosamente, la eadem ratio dal
diritto scritto, di cui l’analogia deve costituire logico sviluppo, senza possibilità di alimentarla alle
fonti sostanziali; il fatto che anche le disposizione pro reo debbono presentare un necessario grado
di determinatezza, che ne delimita la ratio e consente di individuare con precisione e certezza la
similitudine, che diventerebbe ben più evanescente ed incerto, se ancorato a disposizioni vaghe ed
15
Pagliaro, nell’opera “Principi”, sancisce che per stabilire se si sia in presenza di un’analogia in bonam ovvero in
malam partem l’aspetto preponderante non è dato dalla natura della norma, ma delle conseguenze concrete più
sfavorevoli o favorevole per l’imputato, a nulla rilevando che si tratti di norme incriminatrici o solo integratici, siano
esse dichairative, direttive o attuative.
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indeterminate; dal divieto generale di analogia delle norme eccezionali, che funge da ulteriore
argine.
E’ più controverso il limite di cui alla lacuna intenzionale, sia perché difficile da accertare, sia
perché la stessa ratio è il criterio maggiormente indicato per risolvere la criticità.
Quanto alla limitazione per le disposizioni eccezionali, occorre definire quando una norma si dica
regolare e quando eccezionale.
Posto che è viziata per eccesso l’asserzione stante la quale le norme favorevoli siano tutte
eccezionali e parimenti lo è, per l’opposto, l’opinione per cui le norme pro reo sono tutte ordinarie
perché la regola è la liceità e l’illiceità l’eccezione, si ritiene che l’eccezionalità o meno di una
disposizione vada risolta in merito alle singole norme.
Tuttavia, sono insufficienti tanto il criterio quantitativo, in base al quale bisogna regolare la
soluzione prevista per la maggior parte dei casi, sia quello qualitativo, per cui è eccezionale la
disciplina che interrompe la consequenzialità logica di quella legislativa in una data materia.
Nondimeno, occorre tenere presente che l’unità di materia è il presupposto della dicotomia tra
diritto regolare ed eccezionale e di quello tra diritto comune e speciale; che il criterio quantitativo
consente di differenziare il diritto comune da quello regolare e quello speciale dall’eccezionale e
che solo il criterio qualitativo permette di differenziare il diritto speciale da quello eccezionale.
Sicché, il diritto speciale è il complesso normativo che, in una certa materia, regola il minor numero
di ipotesi, in modo diverso, ma non antitetico, rispetto al complesso normativo che regola quello
maggiore, ossia il diritto comune, poiché entrambi vietano o comandano o permettono fatti
rientranti nelle rispettive fattispecie.
Inoltre, il diritto eccezionale è quel complesso normativo che regola il numero minore di casi in
modo diverso ed antitetico rispetto a quello regolare, poiché laddove uno vieta, l’altro consente16.
Stanti i suddetti limiti, l’analogia in bonam partem resta circoscritta ad ipotesi marginali.
Specificamente, l’analogia è preclusa: alle scriminanti dalla stessa legge previste nella loro massima
portata logica ed a quelle mediante le quali verrebbe meno la medesima ratio di disciplina da cui
deriverebbe l’insorgenza di nuove scriminanti, in violazione del principio di violenza di legge; a
seconda dei casi, relativamente a scriminanti che facciano o meno venire meno la eadem ratio di
disciplina17.
16
Ferrando Mantovani, op. cit., pag. 76.
In merito all’argomento in base al quale nell’ambito delle analogie scriminanti manchi la lacuna normativa, è
necessario sottolineare che il c.d. “vuoto do disciplina”, presupposto dell’analogia, deve ravvisarsi in dette ipotesi nella
non riconducibili del caso né sotto la ratio della norma proibitrice, né sotto quella della norma autorizzatrice e che tale
argomento costituisce l’aprioristica opzione per l’argomentum a contrariis.
17
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3. IL REATO DI ATTI PERSECUTORI DI CUI ALL’ART. 612-BIS C.P. .
L’introduzione nel 2009 del reato di atti persecutori, c.d. “stalking”, di cui all’art. 612-bis c.p.
impone una riflessione circa la compatibilità della fattispecie testé menzionata con i principi di
tassatività e determinatezza18.
Il principio di cui sopra è certamente ritenuto di rango costituzionale, ragion per cui diviene un
vincolo inderogabile per il legislatore nella strutturazione della fattispecie, assolvendo da un lato
alla funzione di assicurare la certezza delle norme penali e, dall’altro, di garantire il cittadino
rispetto ad un possibile eccesso di potere giudiziario.
Il concreto significato da attribuire al principio di tassatività è stato fornito, nel corso degli anni, da
dottrina e giurisprudenza.
I criteri per pervenire ad una definizione in termini positivi della nozione del principio di cui si
tratta sono molteplici.
Secondo una prima tesi, quest’ultimo viene rispettato ogniqualvolta il giudice possa arrivare ad
identificare le scelte del legislatore mediante la semplice interpretazione della norma, individuando
il tipo di fatto disciplinato di modo che anche il semplice cittadino possa, pur nella complessità del
senso giuridico, riconoscere il comando contenuto nella norma.
In base ad un’altra teoria, il livello di conciliabilità della norma con il principio di tassatività varia a
seconda dell’importanza del bene giuridico tutelato.
Talvolta, la dottrina utilizza la formula in un’accezione ampia, tale da ricomprendere anche il
principio di precisione.
Detta argomentazione è stata posta alla base della sentenza n. 96 del 1981, mediante la quale il
Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma sul plagio di cui all’art.
603 c.p.19 .
In tale pronuncia, la Suprema Corte ha preliminarmente distinto tra l’intelligibilità del precetto, c.d.
“significato linguistico”, da attribuire alle parole usate dal legislatore, che concerne il rispetto del
principio di previsione, e la corrispondenza alla realtà della fattispecie descritta dalla norma penale
incriminatrice, c.d. “verificabilità empirica”, che concerne il rispetto del principio di
determinatezza, cui si affianca il c.d. “diritto vivente”.
Specificamente, il Giudice delle leggi ha statuito che l’art. 603 c.p. fosse rispettoso del principio di
precisione, ma non di quello di determinatezza, poiché detta norma tipizzava un’ipotesi non
verificabile nella sua effettuazione e risultato.
18
Rocco Galli, “Novità normative e giurisprudenziali di diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo”, Volume
II, Cedam, 2012-2015, pag. 390.
19
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Inoltre, la Corte Costituzionale ha sempre tenuto un atteggiamento prudente e, quasi sempre, ha
rigettato per manifesta infondatezza le questioni di legittimità di norme per presunto contrasto con il
principio di tassatività.
A tal proposito, sovente si assiste all’utilizzo di argomenti che hanno come fine quello di
salvaguardare la costituzionalità delle norme incriminate, tra i quali spiccano: il significato letterale,
nella misura in cui la Corte ha plurimamente respinto le censure di incostituzionalità, ritenendo che
lo sforzo interpretativo del giudice dovesse superare le ambiguità linguistiche fino a dare
concretezza al precetto; il diritto vivente, argomento usato in duplice accezione: quando si è
consolidato in modo uniforme e costante, l’eccezione viene respinta sulla base del rilievo che la
norma avrebbe comunque trovato il suo contenuto percettivo mentre, nel caso di contrasti
giurisprudenziali, l’eccezione è respinta perché le difficoltà interpretative sono da ritenersi
fisiologiche, motivo per cui il giudice non può sottrarvisi.
Pertanto, alla giurisprudenza vengono attribuiti compiti e responsabilità surrogatori rispetto a quelli
del legislatore.
Relativamente al rispetto da parte dell’art. 612-bis c.p. del principio di tassatività della fattispecie
penale, i profili che vengono in considerazione ed incidono sulle determinazioni in materia sono
due: il primo attiene al concetto di reiterazione della condotta di minaccia o molestia ed il secondo è
legato alla previsione degli eventi.
Per quanto concerne il primo aspetto, è palese che la reiterazione della condotta sia l’elemento
costitutivo della fattispecie, stante che sia la serialità dei comportamenti che contraddistingue lo
stalking da alteri reati come le minacce, le molestie o la violenza privata.
Invero, questi ultimi puniscono il singolo o i singoli episodi, eventualmente posti tra loro in
continuazione, mentre il reato di atti persecutori presuppone una servilità del comportamento, tale
da renderlo autonomo rispetto alle altre fattispecie criminose.
L’aspetto pregnante del reato di cui all’art. 612-bis c.p. è, quindi, la natura persecutoria.
Invero, rispetto a detto concetto, il legislatore non ha posto dei limiti temporali, i quali non vengono
predeterminati e che, quindi, dovranno essere verificati caso per caso.
Ergo, si pone il problema di fissare il minimo necessario e sufficiente affinché sia integrata la
persecuzione penalmente rilevante ai sensi dell’art. 612-bis c.p. e, in generale, tale criticità riguarda
tutti i reati abituali, tra i quali rientra quello in esame, rispetto a cui il legislatore ha rimesso al
giudice la determinazione dell’elemento costitutivo della fattispecie.
L’opzione legislativa di costruire la fattispecie come reato con condotta a forma libera implica
l’idoneità della norma ad inglobare una pluralità di comportamenti per i quali è difficile trovare, a
monte, una predeterminazione univoca.
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Tale circostanza ha indotto parte della dottrina a qualificare l’art. 612-bis c.p. quale norma di
chiusura del sistema penale avverso le aggressioni alla libertà individuale, indi volta a colmare il
vuoto normativo registratosi a causa delle difficoltà di assicurare l’incriminazione di condotte
minacciose, moleste o violente, caratterizzate da serialità20.
A tal proposito, il riferimento alle condotte di molestia o minaccia è parimenti apparso
eccessivamente indeterminato, non essendo chiari i criteri alla stregua dei quali individuare la
condotta da definirsi minacciosa o molesta e, pertanto, persecutoria.
Nondimeno, la giurisprudenza è orientata nel senso che sia possibile individuare le condotte
persecutorie in base alla tradizione interpretativa propria dei reati di minaccia e di molestia.
Invero, il prevalente indirizzo giurisprudenziale chiarisce che a caratterizzare la fattispecie di
stalking è il necessario ripetersi di una condotta di minaccia o di molestia, tale da determinare disagi
psichici nella vittima ovvero da ingenerare il timore per la propria incolumità o per quella delle
persone care oppure da cagionare un’alterazione delle propria abitudini di vita.
Quest’ultimo aspetto è quello che differenzia la fattispecie criminosa in esame da quella di minacce
e molestie.
Ergo, emerge la centralità del nesso eziologico tra la condotta reiterata ed uno degli eventi lesivi
tipizzati.
In merito alla struttura, la fattispecie pare incentrata sulla connessione tra la condotta dell’agente ed
il verificarsi di uno dei tre eventi alternativi: perturbante e grave stato di ansia o paura della vittima;
fondato timore per la propria incolumità o per quella di persone affettivamente legate; costrizione
ad alterare le proprie abitudini di vita.
La formulazione normativa palesa che il legislatore non incentra il nucleo di disvalore del fatto
nella descrizione della condotta, ma nel particolare risultato che consegue al perpetrarsi della stessa.
Ne deriva che l’interprete deve agire induttivamente, partendo dall’effetto che si produce nella
psiche della vittima per risalire all’azione perpetrata al fine di valutarne la valenza causale.
Lungamente, a partire dall’introduzione del reato di atti persecutori nel 2009, la dottrina e la
giurisprudenza hanno convenuto su un consolidato orientamento stante il quale, nei reati abituali, la
reiterazione non coincide con la mera ripetizione della condotta.
Invero l’abitualità non è un dato puramente quantitativo, ma qualitativo, ossia un nesso che lega le
diverse condotte esprimendo un disvalore ulteriore rispetto a quello che le stesse, singolarmente
considerate, evidenziano.
Tuttavia, in merito allo stalking, i giudici di legittimità hanno propeso per un’interpretazione
prettamente quantitativa del requisito in discorso, tanto da escludere l’esistenza del nesso di
20
Fiandaca-Musco, “Diritto Penale- Parte Speciale- I delitti contro la persona”, Zanichelli, 2013.
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abitualità per il numero esiguo di atti posti in essere dall’agente e per la limitata reiterazione
temporale degli stessi.
Tale orientamento pretorio è sovente ricorso al giudizio probabilistico della prognosi postuma, che
opera con riferimento al delitto tentato o ai reati senza evento.
Il rischio correlato è quello di convertire un reato di evento in uno di mera condotta.
In tale ottica, si è osservato che la condotta prettamente causale del reato in esame è utile al fine di
fugare i dubbi di incompatibilità con il principio di tassatività, posto che l’indeterminatezza
descrittiva della fattispecie sarebbe superata e colmata con l’individuazione dell’evento tipico,
essendo la stessa strutturata come un reato di condotta.
In tal senso, devono essere interpretate le più recenti pronunce di legittimità, nelle quali la Corte di
Cassazione ha enunciato il principio secondo cui sarebbero sufficienti anche due sole condotte ai
fini dell’integrazione della fattispecie.
Breve, piuttosto che usare un criterio prognostico ex ante ed in concreto, nel tempo la
giurisprudenza ha privilegiato il discorso relativo alla tipologie delle condotte poste in essere,
all’intensità ed alla portata delle stesse ed alle modalità utilizzate.
Il risultato pratico cui occorre pervenire va al di là della minaccia di un male ingiusto da parte
dell’agente, per sfociare nella verificazione per la vittima di uno stato tale da minarne l’equilibrio
psicofisico, il quale deve poi concretizzarsi in uno degli eventi tipizzati nella fattispecie.
La questione ermeneutica relativa alla molestia risulta ancora più complessa.
Non a caso, prima dell’introduzione della fattispecie di cui all’art. 612-bis c.p., si faceva riferimento
a quella di cui all’art. 660 c.p, mediante una manipolazione del disposto letterale di quest’ultima
norma, non consentita poiché la contravvenzione di cui sopra è funzionale alla tutela della
tranquillità pubblica ed è volta ad incriminare comportamenti tenuti in luogo pubblico o aperto al
pubblico.
Così come per le minacce, anche per le molestie viene richiesta un’indagine induttiva.
Nondimeno, non può sostenersi che la diffamazione o la violazione della privacy, anche se reiterate,
integrino le condotte di minaccia o molestia che possono qualificare l’agente come persecutorie,
altrimenti si supererebbero i limiti della fattispecie, motivo per cui, in tali casi, deriverà
l’eventualità concorso di reati tra stalking e diffamazione.
Il problema della tassatività della fattispecie pare, allora, traslare dal piano della condotta a quello
dell’accertamento delle conseguenze dannose della stessa.
Raffrontando il reato di cui all’art. 612-bis c.p. con quello di maltrattamenti in famiglia, emerge che
il legislatore, in quest’ultima fattispecie, non ricorre ad un evento naturalistico, poiché è la tipologia
di condotta posta in essere che consente di dedurre la verificazione dell’offesa.
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Lo stalking, invece, è un reato ad evento naturalistico, sì che lo stesso o gli stessi debbano
discendere dalla condotta dell’agente.
Tale aspetto incide sull’elemento psicologico del reato.
Il legislatore prevede il dolo generico, ma l’agente deve sempre rappresentarsi il fatto che dalla
propria condotta derivi un perturbamento dell’equilibrio psicofisico ovvero un cambiamento delle
abitudini della vittima.
Il medesimo dato incide sulla rilevanza del nesso eziologico tra condotta ed evento ed il relativo
accertamento processuale è incerto a causa del fatto che gli eventi indicati dalla fattispecie si
producono nella sfera interna della vittima, sicché la verifica sullo stato di turbamento di
quest’ultima è fisiologicamente connotata da un notevole tasso di discrezionalità.
Specificamente, il problema del rispetto del principio di tassatività afferisce ai primi due eventi
indicati nella fattispecie, stante che soltanto l’ultimo, cioè la costrizione ad alterare le abitudini di
vita da parte della persona offesa, è ancorato a dati obiettivi, quantunque difetti della
determinatezza, in quanto l’alterazione delle abitudini di vita può assumere svariate forme,
potenzialmente illimitate.
Negli altri due eventi, invece, pare evidente la mancanza del connotato oggettivo, non essendo
chiari i connotati che consentono al giudice di individuare il prodursi dell’evento.
Al fine di ovviare a tale criticità, parte della giurisprudenza propone di fare riferimento solo a forme
patologiche contraddistinte da stress grave e perdurante, ma il rischio surrettizio è di interferire con
la fattispecie di lesioni.
Viceversa, l’orientamento pretorio maggioritario è orientato nel senso di escludere che lo stato
perdurante di ansia e paura faccia riferimento ad una condizione patologica o clinicamente
accertata, sostenendo che il giudice possa apprezzarlo direttamente, anche mediante denunce o
testimonianze.
Tuttavia, così asserendo si rimette ad un’ampia discrezionalità del giudicante l’esistenza del
requisito, alleggerendo l’accusa dall’onere probatorio e desumendo la verificazione dell’evento
dalle concrete modalità di realizzazione della condotta di minaccia o molestia.
Parimenti, l’elemento ulteriore dell’ingenerare timore per la vittima o per una persona a
quest’ultima vicina è legato a valutazioni soggettive, mutevoli a seconda del tipo di vittima.
Tutte le considerazioni esposte valgono anche in merito all’elemento soggettivo, perché stante che
venga richiesto il dolo generico, concretizzato nel rappresentarsi gli effetti psicologici
concretamente realizzati, diventa difficile per l’agente individuare la realizzazione di un evento non
sufficientemente determinato dal legislatore.
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A corroborare quanto sin qui esteso in via teorica, la Suprema Corte si è pronunciata in merito alla
legittimità costituzionale dell’art. 612-bis c.p. nella sentenza n. 172 del 201421.
In prima istanza, è necessario ribadire che i principi di tassatività e determinatezza non sono stati
espressamente enunciati dal Costituente, ma vengono desunti dall’art. 25, comma secondo, Cost. e 7
CEDU, cui si ricollegano i requisiti di accessibilità e conoscibilità della norma penale e
prevedibilità del comando legale, indipendentemente dal fatto che la fonte di produzione sia
parlamentare o giurisprudenziale.
Al riguardo, è opportuno evidenziare che le norme CEDU costituiscono il frutto di una sintesi dei
sistemi di common e statue law, diretta ad assicurare livelli minimi di tutela riconosciuti dalla
Convenzione all’interno degli Stati firmatari membri del Consiglio d’Europa, motivo per cui questi
ultimi devono impegnarsi a garantire lo standard minimo fissato in detta convenzione22.
L’individuazione dei requisiti minimi varia a seconda di quale sia la tecnica di redazione legislativa
delle norme penali usata dal legislatore, cioè sia essa quella casistica o per clausole generali,
definizioni legislative, concetti descrittivi e normativi di tipo giuridico, etico-sociale, tecnico, etc…
.
In tal modo, la determinatezza assume il ruolo di modalità di controllo delle scelte legislative, nel
senso che il contenuto di senso desumibile dalla disposizione dve essere suscettibile di verificazione
nella realtà e nella dialettica processuale.
I principi menzionati sono esemplificativi di civiltà giuridica, stante che la determinatezza, la
tassatività e la precisione della norma penale sono condizioni indispensabili affinché la pena possa
funzionare da strumento di prevenzione generale e speciale.
Inoltre, il principio in esame garantisce il corretto svolgimento di tutta l’attività di accertamento e
repressione dei reati, nonché la pienezza ed effettività del diritto di difesa ex art. 24 Cost. .
In base a quanto esposto, si ha agio di inferire che il principio di tassatività e determinatezza della
norma penale può dirsi violato non solo in presenza di una formulazione poco chiara e precisa ma
anche quando una norma descriva situazioni non rispondenti alla realtà, impedendo all’autorità
giudiziaria di esperire il giudizio di conformità al caso concreto della fattispecie astratta23.
La mancanza di precisione e determinatezza di una norma, infatti, si traduce in un indebito
trasferimento dal legislatore all’autorità giudiziaria del compito di invidiare l’ambito ed i limiti di
operatività della norma penale, in riferimento alle circostanze del caso concreto, così intervenendo
direttamente sul sistema delle fonti, il che viola il generale principio di legalità, nella misura in cui
non si può devolvere al giudice la portata dell’incriminazione.
21
in italgiureweb.it
Benedetto Conforti, “Diritto Internazionale”, Edizioni Scientifiche, 2015.
23
Rocco Galli, op. cit., pag. 391.
22
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Lo stalking rientra tra le fattispecie maggiormente censurate in relazione a detti principi, così come
introdotto dal d.l. n. 11 del 2009.
Preliminarmente, è opportuno evidenziare che manca una definizione univoca di stalking: il termine
deriva dall’inglese “to stalk” e vuol dire braccare, inseguire e, in generale, perseguitare.
Nella letteratura scientifica, si tende ad identificare lo stalking con una serie di comportamenti che
debbano essere sempre presente come elementi costitutivi.
Le caratteristiche tipologiche di detto reato fanno propendere per la scelta legislativa di tutelare il
bene giuridico della libertà morale del soggetto passivo, sotto lo specifico profilo di quella da
intrusioni moleste ed assillanti e nella misura in cui la lesione della libertà di cui sopra sia tale da
cagionare uno dei tre eventi alternativamente tipizzati.
La prospettiva di tutela è tale da trascendere la mera libertà morale ed estendersi fino ad abbracciare
anche l’incolumità psichica del soggetto passivo.
In merito alla natura giuridica, si ritiene, pacificamente, che lo stalking sia un reato comune di
durata.
Specificamente, è un reato abituale improprio e, quindi, un’ipotesi di reato complesso, di evento24.
La struttura oggettiva del reato è incentrata sulla reiterazione delle condotte di minaccia e molestia e
sull’attitudine di queste ultime a cagionare uno degli eventi alternativamente tipizzati.
La connessione tra le condotte tipiche e questi ultimi è evidenziata mediante la locuzione “in modo
da”, ed in essa di accentra il disvalore penale del fatto.
Secondo autorevole dottrina, posto che come detto l’elemento psicologico richiesto è quello del
dolo generico, occorre escludere la configurabilità dello stalking a titolo di dolo eventuale25, poiché
la direzione finalistica dell’azione presuppone che la volontà dell’agente sia diretta proprio a
provare assillo alla vittima.
Parimenti, la struttura del reato ammette il tentativo, che risulterà configurabile una volta raggiunta
la prova di atti aggressivi ripetuti nel tempo, idonei a provocare uno degli eventi tipizzati nell’art.
612-bis c.p. .
Nello specifico, a destare i maggiori dubbi in merito alla compatibilità della formulazione letterale
di detta norma con i principi di tassatività e determinatezza sono stati il concetto di “reiterazione”
delle condotte ed i tre eventi alternativi sopra enucleati.
Invero, il concetto di “reiterazione” usato dal legislatore come indicatore della natura abituale ella
fattispecie di stalking, è estraneo alla nostra tradizione giuridica in materia penale e non si allinea
24
25
Fiandaca-Musco, op. cit. .
Fiandaca-Musco, op. cit. .
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alle scelte legislative operate in sede di formulazione delle fattispecie penali incriminatrici, ormai
pacificamente considerate come reato abituale.
Come evidenziato dalla giurisprudenza, il requisito della reiterazione degli atti di molestia o
minaccia implica la necessità di almeno due condotte, da ricostruire alla luce degli eventi tipici che
la norma richiede, in relazione ai quali gli atti di aggressione devono determinare un grado di
invasività tale nella vittima da determinare il verificarsi di uno dei tre eventi alternativi tipizzati.
Ergo, la condotta reiterata assume un ruolo centrale per l’accertamento dell’idoneità della condotta,
ma da sola non è sufficiente, dovendo accertarsi anche il nesso causale tra la condotta specifica
posta in essere dall’agente ed il verificarsi degli eventi di cui all’art. 612-bis c.p. .
In merito a questi ultimi, tutti e tre hanno una spiccata connotazione psicologico-emotiva che rende
difficile accertarne il nesso causale, perché il loro insorgere varia a seconda del carattere della
vittima.
Specificamente, può dirsi che “ansia” e “paura” sono termini estranei al linguaggio giuridico, specie
penale, così come timore e non hanno valore semantico univoco, anzi spesso li si usa quali
sinonimi; che il fondato timore per la propria o l’incolumità di un soggetto caro implica criticità per
il sovrapporsi dei termini timore e paura, entrambi di matrice psicologica quindi difficilmente
provabili.
La fondatezza del timore non è chiaro, poi, se costituisca espressione del maggior disvalore penale
del fatto o metro di giudizio della percezione soggettiva della vittima, nonché se la medesima scarsa
determinatezza afferiscaai soggetti terzi della cui incolumità il soggetto passivo terzo, poiché il
sintagma da relazione affettiva è eccessivamente lato in riferimento alle relazioni interpersonali
improntate ai sentimenti di affetto; che, per quanto attiene alla modifica dell’abitudine di vita,
quest’ultimo è l’evento che connota maggiormente lo stalking, ma la sua formulazione è
eccessivamente generica, si che è compito del giudice riempirla di contenuto.
In ragione degli evidenziati deficit di determinatezza e precisione, con ordinanza del 24 giugno
2013, il Tribunale di Trapani ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 612-bis
c.p. per violazione dell’art. 25, comma secondo, Cost.26 .
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 172 del 2014, ha dichiarato la questione di legittimità
costituzionale.
Preliminarmente, il Giudice delle leggi ha rilevato che, successivamente al deposito dell’ordinanza
di rimessione, l’art. 612-bis c.p. è stato modificato dal legislatore mediante il d.l. n. 78 del 2013
convertito in l. n. 119 del 2013.
26
Rocco Galli, op. cit., pag. 392.
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Nel merito, la Corte Costituzionale per verificare il rispetto del principio di determinatezza, ha fatto
ricorso ad un metodo di interpretazione integrato e sistemico atto ad accertare, da una parte,
l’intelligibilità del precetto in base alla sua formulazione linguistica e, dall’altra, la verificabilità del
fatto descritto dalla norma penale incriminatrice nella realtà dei comportamenti sociali.
Specificamente, i Supremi Giudici hanno affiancato ai criteri del significato linguistico e di
verificabilità empirica, anche quello del c.d. “diritto vivente”.
Con riferimento al primo profilo, il Giudice delle leggi ha osservato che l’art. 612-bis c.p. si
configura quale specificazione delle condotte di minaccia o molestia già contemplate agli artt. 612 e
660 c.p., rispetto alle quali si connota per un maggior disvalore penale e che, grazie alla lunga
tradizione
applicativa
di
tali
fattispecie
in
sede
giurisprudenziale,
viene
agevolata
nell’interpretazione della fattispecie di stalking, la cui descrizione è quindi conforme al principio di
precisione ed anche a quello di determinatezza, perché la descrizione legislativa corrisponde a
comportamenti effettivamente riscontrabili e riscontrati nella realtà.
Al riguardo, la Corte Costituzionale si sofferma nell’evidenziare che il ricorso ad una tecnica di
formazione legislativa di tipo sintetico, piuttosto che analitica e casistica, non comporta in re ipsa
un deficit di determinatezza, purché, in via integrativa, sistema e teleologia, sia possibile attribuire
un significato chiaro, intellegibile e preciso all’enunciato.
Inoltre, l’esigenza costituzionale di determinatezza della fattispecie ex art. 25, comma secondo,
Cost., non coincide necessariamente con il carattere più o meno descrittivo della stessa non potendo
la norma incriminatrice furie di una tecnica esemplificativa, ovvero riferirsi a concetti extra
giuridici diffusi.
Relativamente al requisito della reiterazione delle condotte, la Corte Costituzionale evidenzia che
tale termine evoca in modo inequivoco la necessità di almeno due condotte che devono essere
idonee a cagionare no dei tre eventi alternativi, nonché eziologicamente riconducibili alla specifica
condotta realizzata dall’agente.
In merito agli altri due requisiti di cui all’art. 612-bis c.p., pur trattandosi di fattori afferenti alla
psiche del soggetto passivo, il Giudice delle leggi non accoglie le istanze espresse dalla dottrina più
autorevole in ordine alla necessità in un acremente medico-legale, ma fa proprio il costrutto
giurisprudenziale maggioritario secondo cui l’accertamento deve essere compiuto dal giudice in
relazione al caso concreto.
Inoltre, la Corte Costituzionale osserva che l’aggettivazione usata dal legislatore, grave perdurante e
fondato, concorre a circoscrivere ulteriormente l’area dell’incriminazione, in modo che sia fata
rilevanza a quei soli episodi che siano in concreto suscettibili di ledere il bene tutelato dalla norma.
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4. “FEMMINICIDIO” E LEGGE. N. 119 DEL 2013.
In merito al c.d. “femminicidio”, il d.l. n. 93 del 2013, convertito nella l. n. 119 del 2013, ha
introdotto nell’ordinamento giuridico italiano delle norme volte al contrasto di tale fenomeno, nelle
speces della violenza di genere e di quella domestica27.
Indi, la donna diviene un tipo vittimologico, consistendo il femminicidio nell’insieme di pratiche
violente esercitate da un soggetto di sesso maschile in danno di una donna in quanto tale.
La legge sul femminicidio ha matrice internazionale, poiché si appresta quale naturale prosecuzione
dell’iter normativo che, palesatosi con la Convenzione di Lanzarote di protezione del minore, è
culminato nella Convenzione di Istanbul del 2011, di recente ratificata in Italia28.
Invero, la maggior parte delle previsioni contenute nel testo normativo di cui si tratta sono
demandate ad adeguare l’ordinamento giuridico italiano alle disposizioni della suddetta
Convenzione.
Detto accordo internazionale è volto alla prevenzione della violenza contro le donne ed alla lotta
avverso quella domestica.
Quest’ultima viene precipuamente definita dalla l. n. 119 del 2013, la quale dispone che la stessa si
realizzi allorquando “29si pongano in essere uno o più atti gravi, o comunque non episodici, di
violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del
nucleo familiare, tra persone legate, attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o da una
relazione affettiva, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso
la stessa residenza con la vittima”.
Il provvedimento de quo è, quindi, volto alla tutela di soggetti frequentemente vittime di offese
particolarmente pregiudizievoli.
Tale protezione viene fornita specialmente rispetto ad atti di violenza perpetrati nell’ambito
dell’abitazione familiare.
Ciò premesso, il d.l. sul femminicidio e la susseguente legge di conversione contengono una
pluralità di disposizioni eterogenee e trasversali, le quali non possono essere ricondotte ad unità da
un punti di vista della ratio e della finalità.
Nondimeno, è possibile esaminare le disposizioni che rientrano nell’ambito della lotta alla violenza
di genere e domestica contro le donne, tenendo presente che, parallelamente a queste ultime, si è
spesso intervenuti ad apprestare tutela anche ai minori, ritenuti soggetti deboli alla stessa stregua
delle prime.
27
Rocco Galli, op. cit., pag. 323.
Legge n. 77 del 2013, in senato.it
29
Legge n. 119 del 2013 in normattiva.it
28
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La l. n. 119 del 2013 contiene disposizioni volte alla prevenzione ed alla repressione del fenomeno
del femminicidio, come testimoniato dall’intervento occorso sia in ambito sostanziale, che
processuale.
Le riforme al codice penale hanno interessato, essenzialmente, una serie di circostanze attenuanti in
tema di reati contro la liberà e l’incolumità individuale, con conseguenti incrementi di pena a scopo
disincentivante e repressivo.
I medesimi interventi novellistici hanno avuto ad oggetto anche il diritto processuale, mediante
l’introduzione di talune garanzie per la persona offesa nell’ambito del procedimento penale, nonché
misure atte a prevenire i fenomeni di femminicidio, di tipo amministrativo-cautelare, quantunque
queste ultime siano ritenute, dalla dottrina maggioritaria, insufficienti.
Il legislatore del 2013 non è intervenuto sui reati che rappresenterebbero l’evoluzione finale ed
ultima del c.d. “femminicidio”, quali le lesioni e l’omicidio, ma ha scelto di agire relativamente ai
cc.dd. “delitti spia” del fenomeno in esame, ossia quelli che sovente costituiscono l’antecedente
della realizzazione di offese più gravi e, talvolta, fatali, alla donne ed ai minori30.
In tale ottica, l’intervento legislativo si pone quale anticipatorio della punibilità.
Al di là di alcune norme di minore portata, la legge anti-femminicidio è intervenuta specificamente
sui delitti di maltrattamenti in famiglia, minacce, atti persecutori e violenza sessuale.
La riforma in questione ha posto dei dubbi in merito alla sua legittimità costituzionale.
Invero, molte delle norme di cui alla l. n. 119 del 2013 sono state tacciate di potenziale
incostituzionalità per violazione dei principi di ragionevolezza e tassatività e determinatezza.
Preliminarmente, occorre sottolineare la critica dottrinaria all’uso sfrenato da parte del legislatore
dello strumento della decretazione di urgenza ai fini dell’introduzione della normativa di cui si
tratta.
Ancorché il legislatore abbia ritenuto sussistenti i presupposti di straordinarietà ed urgenza di cui
all’art. 77 Cost., la dottrina maggioritaria ha evidenziato come si porrebbe quale maggiormente
incisivo un intervento organico sul codice penale31.
Inoltre, è stata aspramente criticata l’eterogeneità dei contenuti del d.l. n. 93 del 2013, nonché la
carenza di connessione logico-funzionale di alcune norme della legge di conversione con le
originarie disposizioni del decreto legge testé menzionato, fattore che ha portato, nella sentenza n.
324 del 2014, la Corte Costituzionale a sancire l’illegittimità costituzionale del decreto legge di
riforma del T.U.sugli stupefacenti.
30
31
Il riferimento è ai delitti di maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori, etc… .
Rocco Galli, op. cit., pag. 324.
19
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Ciò posto, il d.l. femminicidio e la l. n. 119 del 2013 di conversione hanno incrementato le pene per
i fatti di violenza domestica commessi ai danni di soggetti deboli, specie attraverso l’introduzione e
la modifica di appositi aggravanti ed estendendo al contempo la punibilità per dette condotte,
cercando anche di anticiparne l’incriminazione.
In tal senso, è esemplificativo l’incremento di pena del reato di minaccia di cui all’art. 612 c.p. .
Nondimeno, l’aspetto maggiormente interessante della novella in esame concerne l’intervento su
una pluralità di ipotesi circostanziali, alcune delle quali introdotte ex novo.
In primis, bisogna dare contezza della previsione di cui all’art. 61, n. 11-quinqueis c.p., il quale
prevede una nuova circostanza aggravante che si verifica quando, nei delitti non colposi contro la
vita e l’incolumità individuale, contro la libertà persone nonché nel delitto di cui all’art. 572 c.p.,
venga commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di una
persona in stato di gravidanza.
Quella testé citata è una circostanza aggravante comune, quantunque speciale perché limitata a
talune ipotesi di reato oltre che ad effetto comune, per la quale la pena è aumentata fino ad un
terzo32.
Tale circostanza ha esteso la punibilità, aggravandola parimenti, in una serie dei casi che prima
avevano rilievo aggravante soltanto rispetto a specifici reati.
La prima ipotesi circostanziale è quella della c.d. “violenza assistita”, ossia del fatto di reato
commesso in presenza di un minore.
La ratio legislativa è quella di evitare il complesso di ricadute di tipo comportamentale, psicologico,
fisico, sociale e cognitivo, a breve o lungo termine, sui minori costretti ad assistere ad episodi di
violenza.
In secondo luogo, rileva il fatto commesso ai danni di un minore, già noto agli interpreti ma ora
esteso nella sua applicazione con una ratio di evidenza e rilievo costituzionale, oltre che europeo ed
internazionale.
Da ultimo, la legge sul femminicidio ha previsto l’aggravante di aver commesso il atto ai danni di
una donna gravida, nell’ottica dei soggetti deboli ormai divenuti tipi vittimologici.
Affinché vengano contestate le aggravanti di cui all’art. 61 n. 11 quinqueis, sarà necessaria la
conoscenza o conoscibilità ad opera dell’agente dei loro presupposti, ex art. 59 c.p.
Invero, l’autore del fatto dovrà avere consapevolezza della minore età o della presenza del minore,
ovvero dello stato di gravidanza della donna.
L’accertamento relativo al primo fattore non presenta aspetti di particolare complessità nel caso in
cui si tratti di reati commessi in ambito familiare.
32
Rocco Galli, op. cit., pag. 325.
20
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Le criticità maggiori, invece, possono sussistere relativamente agli altri casi, con la precisazione
che, nelle ipotesi di reati sessuali, i quali rientrano nell’ambito di applicazione oggettiva
dell’aggravante in esame, potrà comunque applicarsi il disposto dell’art. 609-sexies c.p., che postula
l’irrilevanza dell’ignoranza dell’età della persona offesa33.
In merito alla violenza assistita, il dato letterale della norma impone di intendere che il minore
debba assistere direttamente al fatto.
Pertanto, si deve verificare che l’agente abbia o avrebbe potuto percepire la presenza del minore e
provare la consapevole percezione del fatto in capo al minore stesso, perché solo in questo caso il
reato avrà il quid pluris di offensività richiesto dalla norma, stante che un minore non in grado di
apprezzare il fatto criminoso, escluderà la sussistenza dell’aggravante in esame.
Relativamente allo stato di gravidanza della donna, l’agente dovrà avere consapevolezza del
medesimo.
La prova dell’imputabilità soggettiva di tale aggravante è particolarmente onerosa nel caso in cui lo
stato gravido di una donna non sia palese ed in tal caso saranno fondamentali le dichiarazioni della
vittima, che potrebbe aver reso edotto il soggetto agente della propria situazione.
Le circostanze di cui all’art. 61, n. 11-quinquies c.p. pongono ulteriori problemi di interferenza con
altre fattispecie circostanziali.
In prima istanza, è stato evidenziato che le ipotesi di cui alla circostanza in esame fossero, prima
della riforma sul femminicidio, già riconducibili e ricondotte dalla giurisprudenza nella circostanza
aggravante di cui al n. 5 del medesimo articolo, c.d. “minorata difesa”, il che incide negativamente
sulla disamina in merito all’opportunità dell’intervento della novella, quantunque la nuova
aggravante risulti speciale e, quindi, assorbente rispetto a quella di cui al n. 5.
L’art. 61, n. 11-quinquies c.p. concorre con la fattispecie di cui al precedente n. 11 ter.
In merito a tale interferenza, la dottrina maggioritaria ha sottolineato il carattere speciale della
circostanza che precede quella introdotta nel 2013 ragione per cui, in caso di concorso, si applicherà
soltanto la prima34.
Inoltre, fruendo del medesimo principio di specialità, è possibile risolvere l’apparente concorso tra
la nuova aggravante comune e quella di cui all’art. 609-ter, comma primo numeri uno e cinque e
comma secondo c.p., per il reato di violenza sessuale, e dell’art. 609-quater, comma secondo c.p.,
relativo agli atti sessuali, le cui fattispecie contemplano evidenti elementi specializzanti.
Viceversa, non v’è alcuna antinomia tra la nuova aggravante ed il terzo comma dell’art. 612-bis
c.p., che contempla il caso in cui la vittima di atti persecutori sia un minore, posto che lo stalking
33
34
Fiandaca-Musco, op. cit.
Ferrando Mantovani, op. cit. .
21
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non è reato contro la libertà personale ma avverso quella morale, non rientrando nell’ambito
oggettivo di applicazione della fattispecie in esame.
Infine, nel caso in cui la consumazione della condotta ai danni di un minorenne sia già prevista
come elemento costitutivo dei reati contemplati dall’art. 61, n.11-quinqiues c.p., la nuova
circostanza aggravante non può essere contestata, perché assorbita nell’autonoma previsione
incriminatrice.
Un’ulteriore ipotesi di concorso apparente è quella tra l’aggravante di cui all’art. 609-ter, n. 5-ter
c.p. e quella di cui all’art. 61 c.p. concernente il fatto commesso ai danni di una donna in stato di
gravidanza.
Anche in questo caso, il principio di cui all’art. 15 c.p. giustifica l’applicazione della sola
aggravante prevista in materia di violenza sessuale.
La novella sul femminicidio, invero, è intervenuta anche sull’art. 609-ter, il quale prevede le
circostanze aggravanti della violenza sessuale.
Specificamente, la riforma ha ampliato l’ambito applicativo del n. 5 del suddetto articolo, ora esteso
agli infradiciotenni.
Inoltre, la l. n. 193 del 2013 ha inserito i numeri cinque-ter e cinque-quater, i quali prevedono,
rispettivamente, l’aggravante già citata del fatto offensivo avverso una donna in stato di gravidanza,
e quella del fatto commesso nei confronti di una persona della quale il colpevole sia coniuge, anche
separato o divorziato, o colui che alla stessa è o sia stato legato da relazione affettiva, anche senza
convivenza.
In merito alla minore età, anche in questo caso opera il dettato dell’art. 609-sexies c.p. .
Tuttavia, la fattispecie più interessante è quella del numero cinque-quater, che fornisce rilievo alla
relazione affettiva, in atto o pregressa, anche non caratterizzata dalla convivenza, quindi inglobando
anche i rapporti di fatto35.
A dimostrazione che l’iter di costruzione di un sistema di tutele penali avverso la violenza
domestica non ha ancora eseguito compiutamente il suo corso, giova richiamate il dettato del
numero 5-sexies introdotto all’art. 609-ter c.p., ad opera del d.lgs. n. 39 del 2014, il quale si pone in
netta continuità con la riforma oggetto di disamina e che riguarda il minore ed i pregiudizi a lui
arrecati.
La fattispecie di reato che ha maggiormente risentito della riforma sul femminicidio è
indubbiamente quella degli atti persecutori, cioè lo stalking, di cui all’art. 612-bis c.p. .
35
Rocco Galli, op. cit., pag. 326.
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Invero, la novella ha inciso sulla procedibilità di detto reato, che in origine era perseguibile a
querela, salva la connessione con reati procedibili di ufficio o di persona offesa minorenne o
disabile, senza disposizioni che limitassero la facoltà di proporre la medesima o di revocarla.
Il d.l. n. 93 del 2013 ha previsto l’irrevocabilità radicale della querela, alla stessa stregua di quanto
previsto per il reato di violenza sessuale, allo scopo di garantire la libertà di autodeterminazione
della vittima al ritiro dal querela, la quale potrebbe essere a tale scopo coartata dallo stesso autore
del reato.
Tuttavia, la l. n. 119 del 2013 ha ulteriormente innovato l’argomento, innestando un regime
complesso e peculiare al riguardo.
Invero, l’attuale normativa prevede che il reato resti procedibile a querela e, parimenti, dispone che
la remissione possa essere solo processuale e sancisce che, solo nei casi più gravi, la prima non sia
revocabile, ex art. 612-bis, comma quarto c.p. .
In tal modo, il legislatore ha trovato un compromesso tra le opposte esigenze di rispettare la libertà
di revoca della querela della vittima del reato e di fornirle tutela effettiva avverso il menzionato
rischio di indebite pressioni, stante che l’irrevocabilità della stessa finiva per limitare la possibilità
di agire della donna, con il conseguente rischio che la medesima scegliesse di non sporgerla, a
cagione del timore dell’irrevocabilità della sua scelta.
In merito alla c.d. remissione processuale, sono sin da subito sorti dei contrasti in dottrina.
Invero, da un lato è stato sostenuto che la revoca della querela debba avvenire necessariamente
innanzi all’autorità giudiziaria, di modo che quest’ultima possa verificare la spontaneità del
consesso e l’assenza di coartazioni.
Nondimeno, la tesi prevalente è di segno opposto.
Invero, argomentando ai sensi degli artt. 152 e 340 c.p.p., l’orientamento maggioritario sostiene che
sia remissione processuale della querela sia quella resa davanti all’autorità giudiziaria anche quella
fornita alla polizia o mediante procuratore speciale36.
Pertanto, l’intenzione del legislatore di affidare al giudice il controllo concreto della spontaneità
della remissione, viene compromesso, quantunque un’interpretazione che, viceversa, imponga di
revocare la querela necessariamente dinanzi al medesimo finirebbe con il porsi in contrasto con le
disposizioni legislative in esame.
In ogni caso, la querela è irrevocabile tout-court se il fatto è stato commesso mediante minacce
reiterate nei modi cdi cui al secondo comma dell’art. 612 c.p. .
Quest’ultima costituisce un’eccezione alla regola generale, sicché la norma testé citata va
interpretata in senso restrittivo.
36
Francesco Antolisei, “Manuale di diritto penale”, Cedam, 2015.
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Detta direttiva esegetica non pare risolvere i dubbi relativi alla disposizione in esame.
In primo luogo, l’inciso “minacce reiterate” potrebbe implicare gli stessi problemi sorti in sede di
individuazione delle cc.dd. “condotte reiterate” ai sensi dell’art. 612-bis c.p. .
Tuttavia, la criticità maggiore concerne il riferimento al secondo comma dell’at. 612 c.p. .
Invero, il dubbio concerne il fatto se con esso si sia voluto riferirsi sia alle minacce gravi, che a
quelle realizzate nei modi di cui all’art. 339 c.p., oppure se, ex adverso, il rinvio concerna solo le
modalità di cui all’art. 339 c.p. .
La seconda soluzione appare preferibile perché suggerita dal tenore letterale della disposizione, che
usa il termine modi esattamente come fatto dal secondo comma dell’art. 612 c.p. nell’operare il
rinvio all’art. 339 c.p. .
La risoluzione della questione nell’uno o nell’altro senso incide in modo significativo
sull’estensione applicativa dell’irrevocabilità della querela.
Infine, in merito, occorre evidenziare che l’attuale normativa sulla procedibilità a querela del reato
di stalking non ossequia l’impianto della Convenzione di Istanbul, il quale sembra imporre una
procedibilità immediata e priva di ancoraggio a denunce di parte per i reati che rientrano nell’aver
del suo portato.
Detto principio è incompatibile con le odierne disposizioni di cui all’art. 612-bis, comma quarto
c.p., il che potrebbe portare a sollevare la questione di legittimità costituzionale per violazione
dell’art. 117 Cost. .
Un ulteriore aspetto di precipua rilevanza legato allo stalking è la modifica dell’aggravante del
secondo comma dell’art. 612-bis c.p. .
La riforma del 2013 ha reso la circostanza in esame funzionale rispetto ai propri scopi di politica
criminale.
La vecchia disposizione si limitava a punire in modo più severo il reo che fosse legalmente separato
o divorziato dalla vittima, oppure che fosse stato alla stessa legato da relazione affettiva.
La nuova norma, invece, ha esteso la circostanza al coniuge, in costanza di matrimonio o dopo la
separazione ovvero il divorzio.
Parimenti, costituisce aggravante l’aver commesso il fatto ai danni di persona che sia o sia stata
legata all’agente da una relazione affettiva.
Mediante dette modifiche, il legislatore ha realizzato una piena simmetria con quanto previsto in
tema di violenza sessuale dal n. 5-quater dell’art. 609-ter c.p. .
Il problema di maggior rilievo, a livello ermeneutico, è fornire un’interpretazione del sintagma
relazioni affettive.
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Dato certo è che esse presiedano alla convivenza: indi, viene dato rilievo ai rapporti di fatto tra
persone fisiche, anche omosessuali, il che consente una tutela rafforzata della violenza domestica
intesa in senso lato37.
Al di là di tali elementi, l’interpretazione e l’individuazione in concerto delle relazioni affettive è
rimessa in toto al giudice, con il rischio del suo arbitrio.
Breve, si tratta di circostanze indefinite che, in quanto aggravanti, pongono problemi di
costituzionalità relativi ai principi di tassatività e determinatezza, posta la palese indeterminatezza
delle circostanza in esame.
Invero, la Corte Costituzionale, intervenuta in riferimento all’art. 612-bis c.p. con la sentenza n. 172
del 2014, lo ha ritenuto costituzionalmente legittimo, senza però soffermarsi sulle circostanze
attenuanti di cui al comma secondo.
Ad ogni modo, nell’alveo delle relazioni affettive pare potersi far rientrare anche i rapporti di
amicizia, sempre però caratterizzati da stabilità nel tempo.
Inoltre, potrebbe porsi il problema dell’esatto inquadramento del fatto, a titolo di maltrattamenti o
atti persecutori aggravati, non potendo più valere l’orientamento pretorio che fondava uno degli
elementi differenziali del maltrattamento nel fatto che quest’ultimo venisse perpetrato in famiglia.
Infatti, i rapporti tra i due reati dovranno essere risolvi con l’uso della clausola di riserva di cui
all’art. 612-bis c.p., pur potendosi ammettere un concorso di ambedue le fattispecie allorquando se
ne verifichino i presupposti oggettivi e soggettivi.
Tuttavia, l’art. 612-bis, comma secondo, c.p., prevede anche un’ulteriore aggravante, ossia l’aver
commesso il fatto mediante strumenti informatici o telematici, c.d. “cyber-stalking”.
In questa fattispecie circostanziale, rientrano le condotte di invio di sms o messaggi di posta
elettronica, nonché quelle perpetrate sui social network.
Invece, è dubbio che nell’ambito della medesima aggravante possa ricomprendersi la fattispecie
esperita con il telefono, posto che pare che il legislatore abbia fornito maggior disvalore alla
condotta realizzata mediante la rete.
Nondimeno, tale conclusione è discutibile poiché, come sostenuto da parte della dottrina, la
premessa su cui si basa la norma può essere invertita, in relazione al fatto che una condotta di
stalking via telefono può essere decisamente più pervicace di quella a mezzo internet, nonché la
medesima considerazione può farsi per ulteriori modalità di persecuzioni, come ad esempio il
pedinamento.
In tale ottica, sono stati avanzati dubbi sulla ragionevolezza dell’aggravante del c.d. “cyberstalking”.
37
Rocco Galli, op. cit., pag. 328.
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La riforma del 2013 ha inciso anche su aspetti ed istituti non contemplati nel codice penale.
In primo luogo, il d.l. sul femminicidio e la relativa legge di conversione hanno novellato l’istituto
dell’ammonimento del questore.
Quest’ultimo è uno strumento di rilievo amministrativo con finalità preventiva e cautelare38.
L’ambito di applicazione dell’ammonimento è lo stalking, ma la novella in esame ne ha esteso la
portata.
L’istituto consiste in una diffida, ed è rivolto a colui che realizzi determinate attività che potranno
sfociare in fatti illeciti particolarmente invasivi.
La sua finalità è quella di scoraggiare e prevenire l’ulteriore evolversi delle condotte dell’ammonito.
La l. n. 193 del 2013 ha sancito che l’ammonimento possa scattare, ad opera del questore, in
presenza di percosse o lesioni, oltre che in caso di atti persecutori.
All’ammonimento, potranno aggiungersi anche la sospensione della patente da parte del prefetto e
la valutazione di eventuali provvedimenti su armi ed ammonizioni.
Inoltre, la riforma di cui si tratta ha operato anche su istituti cautelari e pre cautelari, quali
l’allontanamento dalla casa familiare, quello di urgenza dalla medesima ed il divieto di
avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, nonché ha esteso le ipotesi di controllo
mediante braccialetto elettronico ai casi di violenza domestica.
Le novità in ambito processuale relative a tutti i procedimenti concernenti violenze e minacce sono
state parimenti rilevanti.
Invero, la l. n. 193 del 2013 ha dato seguito ad un principio di rilievo internazionale e comunitario
per cui la vittima va costantemente resa edotta dell’iter del processo attraverso un pieno
contraddittorio tra la parte pubblica e la persona offesa.
Detta previsione mira a dare esecuzione alla direttiva del 2012 dell’UE che prevede un diritto
generale di informazione della vittima sulle facoltà attribuitile dall’ordinamento.
Inoltre, è stato esteso l’ambito applicativo dell’arresto obbligatorio per i reati in esame, oltre
all’estensione dell’istituto del gratuito patrocinio a prescindere dal reddito.
Infine, la riforma di cui si tratta ha consentito di fruire delle intercettazioni telefoniche anche nel
reato di stalking, nonché l’estensione dell’obbligo di comunicazione al Tribunale per i minorenni
anche nei casi di reati di maltrattamenti in famiglia e stalking a danni di un minore o da un genitore
di un minore a danno dell’altro.
Da ultimo, si è creata una corsia preferenziale per i reati di violenza di genere e domestica, in base
alla quale la loro trattazione in sede processuale verrà favorita, con contestuale ridimensionamento
della competenza dei giudici di pace in materia.
38
Fiandaca-Musco, op. cit.
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