EDITH STEIN DAVANTI ALLA PROVA ANSELMIANA

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EDITH STEIN DAVANTI ALLA PROVA ANSELMIANA
José Luis Caballero Bono
L'opera ontologica di Edith Stein, Essere finito e essere eterno, offre un brano
riassuntivo della risonanza che ha in lei l'argomento anselmiano dell'esistenza di Dio1. Il testo
riflette l'impostazione dell'autrice nei suoi confronti e le conseguenze che ne deriva sul senso
e il valore delle cosiddette prove dell'esistenza di Dio.
L'interesse della Stein al celebre argomento è ben a ragione collegato al suo
essenzialismo metafisico. Lei vede l'ingente campo dell'essere finito diviso in due regioni
soltanto di fatto accantonate: l'essere essenziale e l'essere attuale-reale. Lungi di portare
l'attenzione sull'essere attuale, l'autrice tedesca la fissa invece su quello essenziale. Lo
scalpello fenomenologico di suo collega Jean Hering le rende accessibile una distinzione
ulteriore all'interno dello stesso essere essenziale, e cioè quella di essenzialità e essenza. Le
essenzialità sono qualcosa di simile alle Idee di Platone. Anche se non hanno il rango
dell'essere eterno, in loro risiede la possibilità di ogni essere al disotto e anche di ogni
significato. Il reale, dice la Stein, partecipa alle essenzialità per il fatto di avere un'essenza. A
prescindere dei particolari di questa dottrina sull'essere sono da ritenersi due punti chiari: il
primo è la sproporzione ontologica in favore dell'essere essenziale; il secondo è il ruolo
mediatore che svolge l'essenza tra le essenzialità e le cose. È proprio quest'ultimo punto che
spiega la posizione della filosofa riguardanti il problema degli universali, appunto a mezza
strada tra il realismo moderato di san Tommaso e quello esagerato di Platone. Da questi
presupposti si capisce che per la forma mentis di Edith Stein e per le sue scelte intellettuali
l'argomento anselmiano dell'esistenza di Dio doveva andarle molto a genio. Dalla lettura del
suddetto brano s'inferisce che lei non si lascia smarrire da facili travisamenti e conosce bene il
testo latino del Proslogion, per lo meno quello dell'edizione latino-francese di Alexandre
Koyré del 1930. A questo proposito è molto emblematico che il brano riporta la
denominazione negativa di Dio come l'ens quo nihil maius cogitari possit, cioè l'ente
maggiore del quale non si può pensare nulla. Ci si trova anche la parola insipiens, quindi lo
spensierato di cui parla Anselmo e a motivo del quale inizia la sua dialettica razionale. Si
pensi che l'omissione di questi due elementi è l'origine storica di tante confusioni su quello
che Anselmo a voluto veramente dire. Peraltro Edith Stein non ricava del monaco medievale
soltanto dei termini. L'atmosfera generale in cui si svolge il discorso è comune per ambedue.
Anselmo vuole avviare una metafisica teologica e la sua prova è destinata a persuadere
l'insapiente oltre a rinforzare la fede di quelli che ascoltano. Edith vuole creare una filosofia
cristiana il cui ultimo traguardo è parimenti quello di preparare il cammino alla fede. Perciò è
da vedersi nel rapporto fede-ragione il contesto tematico in cui la filosofa tedesca s'interessa
al celebre argomento dell'esistenza di Dio. Il contesto cronologico è invece quello di una
rinnovata attenzione ad esso da parte di filosofi come il suo mentore all'occasione, Alexandre
Koyré, e teologi come Karl Barth.
Lo sguardo teso verso il soprannaturale non impedisce di sorvolare la portata
razionale della prova anselmiana. Primo si deve notare che anche la Stein sembra aver
frainteso una sfumatura dell'argomento. Lei parla dell'impossibilità di cogliere in modo
esauriente un ente la cui essenza è l'essere. Qui non c'è niente da rimproverare. Ma in seguito
aggiunge che se si potesse cogliere con tutta chiarezza questo pensiero “avremmo qui il
fondamento per una "prova ontologica di Dio" che sarebbe ancora più profonda ed evidente
1
Cf. STEIN, E.: Essere finito e essere eterno. Per una elevazione al senso dell'essere. Traduzione di Luciana
Vigone. Città Nuova, Roma, 1988, pp. 148-150.
del pensiero dell'ens quo nihil maius cogitari possit, dell'essenza più perfetta che si possa
pensare, da cui prende le mosse Sant'Anselmo”2. In verità c'è qui un'identificazione troppo
affrettata fra l'essere il cui maggiore non si può pensare e l'essere maggiore o più perfetto che
si possa pensare. A nostro avviso, ambedue i concetti non sono senz'altro simmetrici. Lo
stesso Koyré aveva manifestato il suo disagio riguardanti una tale identificazione quando
scrisse queste parole: “È perfettamente giusto che l'ens maius omnibus [cioè l'ente maggiore
di tutti] e l'ens quo maius cogitari nequit [cioè l'ente il cui maggiore non si può pensare] non
sono altro che una sola e stessa cosa quo ad rem, ma le idee restano sempre diverse. L'oggetto
tale che non è possibile concepire uno più grande è necessariamente, dal momento che esso
esiste, il più grande, il più perfetto degli oggetti esistenti, ma non all'inversa. Il maggiore degli
esseri reali non è eo ipso il maggiore degli esseri pensabili; lo è in qualche modo di fatto, ma
noi non possiamo provarlo non basandoci che sull'idea dell'ens maius omnibus”3. Questa
lunga citazione serve a ricordare che l'essere il cui maggiore non si può pensare e l'essere più
perfetto pensabile non sono logicamente lo stesso. Ma questa avvertenza non vuol dire affatto
che Edith Stein abbia sbagliato strada. Anzi, lei incentra tutta la problematica dell'argomento
sull'impossibilità di avere una rappresentazione adeguata dell'oggetto della ricerca. Orbene,
non è questo per caso lo stesso che a voluto suggerire Anselmo con la sua denominazione
negativa di Dio? Chi può avere un'immagine soddisfacente dell'essere il cui maggiore non si
può pensare? La Stein si esprime al modo suo in questi termini: “Se noi diciamo: l'essere di
Dio è la sua essenza, possiamo dare a questa affermazione un significato certo. Tuttavia non
giungiamo certo ad una "visione riempiente" di ciò che intendiamo. Non possiamo cogliere
un'essenza che è solo essere”4. Ecco la somiglianza con l'impostazione di Anselmo, perché
ambedue autori sono appresi da qualcosa che si può pensare e di cui si può parlare, perché è
qualcosa che ha un significato anche per i non credenti, ma non si può immaginare che cosa
è. Siffatta realtà che ci si scoppia delle mani è detta l'infinito. Non in un senso negativo a
seconda dell'etimologia, ma nel senso riportato dalla Stein di ciò che è al disopra del tempo e
comprende in sé ogni finito senza esaurirvisi. Allora l'uomo è in bilico tra finito e infinito, il
suo spirito tende verso quell'infinito che purtroppo non è in grado di vedere. In questa
situazione paradossale vede la Stein la ragione per cui si sono divisi gli spiriti davanti alla
prova anselmiana. Le due obiezione classiche che si sono poste all'argomento non sembrano
avere molta rilevanza per lei, cioè quella del circolo vizioso e quella del passaggio dal
pensato al reale. Non vi sarebbe circolo vizioso o petizione di principio perché manca
"visione riempiente" del punto di partenza, dell'essenza che è solo essere. Non vi sarebbe
neanche passaggio dal pensato al reale perché l'essenza non è soltanto un pensiero nel caso
presso in esame. Infatti, Stein non ha soltanto privilegiato l'essere essenziale nella sua
ontologia; lei condivide anche l'opinione anselmiana dello statuto unico dell'oggetto su cui
punta l'argomento. Secondo lei, “Si tratta del passaggio dell'essenza all'essere, e se tale
passaggio non è ammissibile nel caso di tutti gli enti finiti, non si può per questo trarre alcuna
conclusione che valga per l'essere infinito”5. Lo stesso san Tommaso cade sotto lo sguardo
critico della filosofa per aver trascurato questo pensiero nelle sue obiezioni al monaco di Bec.
Ma se non c'è un passaggio ingiustificato dall'ordine logico a quello ontologico possiamo
2
3
Op. cit., p. 148.
KOYRÉ, A.: L'idée de Dieu dans la philosophie de St. Anselme. Éditions Ernest Leroux, Paris, 1923, pp. 219-
220. La traduzione è nostra.
4
5
STEIN, E.: op. cit., p. 149.
Ibid.
domandarci fino a che punto sarebbe adeguato il titolo “argomento ontologico” secondo Edith
Stein. L'autrice non si discosta della tradizione nel adoperare l'espressione “prova ontologica
di Dio”. Ma sembra che in fondo lei non crede che la prova anselmiana sia veramente una
prova ontologica. Edith Stein sarebbe sulla linea di coloro che rifiutano quel epiteto così
diffuso dai tempi di Kant. Ai nostri giorni Elisabeth Anscombe ha cercato di fondare lo stesso
parere sull'analisi filologica del testo latino così come appare nei manoscritti6.
Comunque sia, la discussione steiniana con l'argomento anselmiano si dilunga in una
considerazione sullo statuto epistemologico delle prove dell'esistenza di Dio. Se la prova
anselmiana non è ontologica ci vuole aggiungere che per la Stein non è nemmeno una prova.
A dire il vero si ha l'impressione che per lei una prova è qualcosa che costringe a chinare il
capo perché non lascia nessun dubbio possibile, e questo non è riscontrabile nemmeno nelle
vie tomistiche. A nostro parere è questa una comprensione alquanto riduttivistica delle prove
che trascura l'elemento decisionale e volitivo che queste contengono: nemmeno una prova
matematica prova niente per me se io non le concedo il mio assenso. Ma questo non vuol dire
che Edith Stein non riconosca la rilevanza per la fede di quei tentativi razionali. Essi
rappresentano secondo lei “un salto oltre l'abisso”, e in seguito aggiunge: “il credente si
lancia facilmente al di sopra di essa, il non credente si ferma ai bordi”7. Quindi, pur
rimanendo la distinzione tra ragione e fede, le prove dell'esistenza di Dio hanno una funzione
vincolante. Esse non dimostrano in modo inconcusso che Dio esiste, tuttavia hanno un
innegabile carattere ostensivo e deittico che appunta molto significativamente all'esistenza di
Dio. Non sono sufficienti per dare il salto sull'abisso, ma ci portano proprio fino ai bordi
dell'abisso. E questa inferenza propria delle prove è il carattere asintotico che loro
posseggono, il quale è attenuto all'umana dignità del pensiero, all'attività della ragione come
costante avviarsi verso il fondamento del reale. A questo punto, anche se nessuna esperienza
intramondana fa da prova che corrobori o scalzi definitivamente l'esistenza di Dio, non c'è
dubbio che il tentativo di Anselmo connetta con qualcosa che fa parte del contenuto
dell'esperienza umana e risponde adeguatamente al suo orizzonte inesauribile. Ecco il fascino
della prova anselmiana che Edith Stein ha saputo cogliere e rispecchiare nella sua ontologia.
Prof. Dr. José Luis Caballero Bono
6
Cf. ANSCOMBE, E.: “Por qué la prueba de Anselmo en el "Proslogion" no es un argumento ontológico”, en
Anuario Filosófico, vol. XV, n. 2 (1982), pp. 9-18.
7
STEIN, E.: op. cit., p. 150.
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