Maria Antonietta in tour Ecco le prime date. 10-02-2012 MARGHERA (VE) – Pop Corner Club 15-02-2012 FORLI’ – Diagonal Loft Club 16-02-2012 TORINO – Teatro Vittoria @ Premio Buscaglione 17-02-2012 OSIMO (MC) – Loop 18-02-2012 GIOVINAZZO (BA) – Arci Tresset 19-02-2012 GUAGNANO (LE) – Arci Rubik 23-02-2012 SEGRATE (MI) – Circolo Magnolia @ Milano Brucia 24-02-2012 ROMA – Locanda Atlantide 25-02-2012 02-03-2012 03-03-2012 09-03-2012 10-03-2012 17-03-2012 28-03-2012 29-03-2012 01-04-2012 13-04-2012 15-04-2012 27-04-2012 30-04-2012 04-05-2012 16-06-2012 RAVENNA – Bronson TRIESTE – Etnoblog BOLOGNA – Covo SAN MARTINO DI LUPARI (PD) – Garage Club CAVRIAGO (RE) – Calamita FUCECCHIO (FI) – La Limonaia COSENZA – L’ora di Italiano @ Piccolo Teatro Unical MESSINA – Retronouveau RUFFANO (LE) – Note di Vino FIRENZE – Viper (con Cristina Donà) CARPI (MO) – Mattatoio PRATO – Nuovo Camarillo CONEGLIANO VENETO (TV) – Apartamento Hoffman BRESCIA – Lio Bar CASTIGLIONE DEL LAGO (PG) – La Darsena http://mariaantoniettamusica.tumblr.com/ Pete Doherty: live acustico a Roma testo e foto: Luigi Orrù In una sera nella quale la psicosi “bianca” pervadeva le anime, Pete Doherty ha presentato all’atlantico di Roma il suo Tour acustico. Un gran bel concerto, aperto da una band locale e da Soko, nome d’arte di Stéphanie Sokolinski, artista e performer di origine francese. Tutto tranne che un concerto noioso, di fronte ad 800 fans molto, molto caldi. Solo sul palco per la maggior parte del concerto, con interventi sempre acustici di alcuni suoi musicisti. Una gran bella serata. ngg_shortcode_0_placeholder Mezzo secolo di Piero Pelu’ di Francesco Corbisiero Ah sì, dunque: gli anni ’80. Volete una diapositiva degli anni ’80 in salsa tricolore? Bene, prendete le hit caserecce e trashissime di Donatella Rettore e Loredana Bertè e nascondetele per bene in un baule o fateci quello che volete (se possibile, dimenticatele). Ora, mettetevi comodi e focalizzate l’attenzione su quella striscia di montagne chiamata Appennino tosco-emiliano che collega le due tra le più importanti città del centro Italia. Gli anni ’80 dell’Italia del rock si snodano lì, tra la Reggio Emilia rossa dei CCCP-Fedeli alla Linea (consultare la voce Giovanni Lindo Ferretti o, in alternativa, Massimo Zamboni, tutti e due andati a risciacquare i panni nello Spree percorrendo allegramente l’autostrada del Brennero) e la Firenze new-wave dei Diaframma e soprattutto dei Litfiba di Ghigo Renzulli e Piero Pelù, i tre gruppi che hanno saputo tradurre al massimo livello nella lingua nostrana e nell’immaginario collettivo le influenze del Bowie nella stagione berlinese, dei Joy Division, e del punk morente della Londra di fine anni ’70. Sì, tutta roba di fine anni ’70, conosciuta, trita e ritrita altrove, ma non in questo Paese dove tutto arriva in pauroso ritardo. Perché se in Inghilterra a segnare il periodo ci furono i Talking Heads, i Police e i Blondie, all’Italia toccò sorte diversa e prima che queste suggestioni arrivassero al grande pubblico di tempo ne passò e gli anni ’80 sgattaiolarano via svelti tra cd storici che hanno formato tutta la nuova leva della classe musicale italiana (per delucidazioni chiedere a Francesco Bianconi la rilevanza che ha avuto Federico Fiumani nella sua decisione di imbracciare una chitarra e mettersi a fare musica). Ma nel passaggio si dimenticarono di portar con loro i Litfiba, che nel frattempo passarono dall’underground nichilista di una città senza sbocchi e senza vita (la Firenze di quegli anni) con i mentori che abbiamo sopra citato al megafono potente di major che puntarono su di loro in una piroetta artistica con Stooges, Led Zeppelin e Black Sabbath come numi tutelari (complice in questo la loro fortissima versatilità musicale). Da album come ‘Desaparecido’ e ‘17 re’ a ‘El Diablo’ e ‘Infinito’. Da locali come la Rockoteca Brighton a folle di fan festanti a scandire una notorietà mediatica enorme, incentrata sulle liriche visionarie e orientaleggianti di Pelù e sulle chitarre cattive di Renzulli. Il tutto alla faccia di un Franco Battiato che a inizio decennio in ‘Centro di gravità permanente’ emanava tra l’altro la sua personalissima fatwa contro i cori russi, la musica finto-rock e in particolar modo la new wave italiana (ma anche il free-jazz e il punk inglese). Risultato? Alla fine degli anni ’90, dopo la prima fase della ‘trilogia del potere’ e in seguito al periodo calante della ‘tetralogia degli elementi’, il gruppo, privato ormai da tempo di un bassista della caratura di Gianni Maroccolo, andato a ridar fiato ai CSI (versione riveduta e aggiornata dei CCCP dopo la caduta del muro di Berlino, semper fidelis all’ortodossia sovietica di nome e di fatto) si scioglieva. E in lascito ci donava un Piero Pelù che, tra valanghe di duetti, album solisti e cover, vinceva sì, ma non riusciva mai a convincere del tutto, sempre schiavo (come un soldato che la storia sul campo di battaglia l’ha fatta non da solo, ma coi suoi commilitoni) dell’etichetta del reduce. Come se non bastasse, ad arrancare non fu solo, accompagnato anche in questo dal fido Renzulli. Non poteva durare. Foto: © StefaninoBenni Infatti, anno domini 2009, i Litifba si riuniscono e, storia dei nostri giorni, diedero alla luce un ultimo album inedito (dopo la raccolta live di ‘Stato libero di Litifiba’). ‘Grande nazione’, uscito pochi giorni fa e già centralissimo e chiacchierato nel dibattito discografico. Prova del nove dello stato di salute dei due ragazzacci di via de’ Bardi, non memorabili come un tempo ma ancora capaci di ringhiare e dire la loro, il disco è già balzato alla sua uscita al n°1 della classifica FIMI degli album più venduti. E già questo basterebbe a far capire che di orfani dei Litfiba ce n’erano, ed erano proprio tanti. Ora, per cortesia, dopo 13 anni di assenza, provate a saziarli. P.S.: oggi, 10 febbraio 2012, è il compleanno di Pierò Pelù e questo doveva essere un articolo su di lui. Invece eccomi qui a scrivere la cronologia appassionata (e appassionante) della new wave italiana. Sì, perché la storia non la scrivono i singoli, gli individui da soli. Ma nemmeno le masse. La storia la scrivono quei pochi, geniali, illuminati elementi che si fanno portavoce di generazioni intere, le prendono per mano e le conducono con loro. E lui, insieme a tutti gli altri che ho citato, è uno tra questi. Buon compleanno, Piero. Di anni ne compi 50, ma tanto lo sappiamo tutti che su di palco non s’invecchia mai. Sanremo 2012: Tony Pagliuca scrive a Celentano contro la ‘casta della canzone’ La lettera-denuncia di Tony Pagliuca, storico tastierista del gruppo Le Orme, è chiara, dura, circostanziata. Racconta di mazzette per partecipare a Sanremo, di droga e corruzione. Tony Pagliuca è uno dei musicisti che hanno scritto la storia della musica italiana. Le Orme con la PFM hanno scritto le pagine più belle del rock progressive italiano. Pagliuca dopo aver lasciato Le Orme nel 1991 per si è dedicato alla composizione di album raffinati come l’ultimo «Apres Midi», che lo vede protagonista al piano. “Caro Adriano Io sono Tony Pagliuca ex componente del le Orme, dal 1° Gennaio mi è stata tolto il Fondo solidarietà dei soci Siae un mensile di 615 euro era il mio unico sostegno economico sicuro e non so come andrò avanti con moglie insegnante precaria e due figli che studiano, mutuo prima casa ecc. Ma ora non protesto perché mi sento ancora libero e al fianco di tutti coloro che cercano un posto di lavoro onesto e perché ho fiducia nel futuro e confido nell’operato del presidente del consiglio Mario Monti che mi sembra una persona per bene. Ho pagato ancora a malincuore il canone Rai e mi permetto di dirti che se quest’anno vai a Sanremo cerca di rimanere nel tuo campo quello che ti ha dato il successo e cioè il canto, canta le tue belle canzoni partecipando magari anche tu alla gara. E se invece sentirai il prorompente monologare allora raccontala giusta. bisogno di Racconta che la cultura deve tornare a circolare libera nei suoi spazi e non deve essere mai più in mano alla casta della canzone. Racconta che ciò che si sente in radio e si vede in tv non è il meglio di ciò che la nostra bella Italia produce. Perché gran parte delle programmazioni sono al soldo delle case discografiche e dei grandi management S.p.a. Racconta che nel nostro paese ci sono tanti giovani talenti che non trovano mai spazio e se lo trovano sono spremuti e gettati come limoni. Racconta, se permetti , che il sottoscritto pur avendo scritto delle pagine di musica rock progressive riconosciute in tutto il mondo, per partecipare in gara a Sanremo con il suo gruppo ha dovuto pagare 50 milioni di lire per “ il parrucchiere” mentre tanti altri concorrenti privilegiati non solo non hanno pagato niente ma sono stati loro pagati fior di quattrini per la loro prestazione. Racconta che tanti altri musicisti come il sottoscritto hanno cercato , rinunciando a facili guadagni, di elevarsi all’altezze dei grandi della musica producendo, in proprio, lavori di pregio che non si sentiranno in Rai e non si vedranno in TV a causa dei conduttori corrotti e se le loro opere non saranno conosciute non potranno di conseguenza fare il loro lavoro e cioè i concerti . E e se condurrai più di una serata: Chiedi che Sanremo sia un concorso di giovani che studiano la musica non il cimitero degli elefanti. Chiedi infine di bonificare l’ambiente dagli spacciatori di droga, dai giornalisti corrotti, dai manager evasori e infine la mia preghiera non duettare con Madonna ( il solo nome dovrebbe farti allontanare) e chiedi per Sanremo la benedizione di Benedetto XVI il papa ama la musica, l’Italia e vuole bene a tutti gli artisti. Antonio ( Tony Pagliuca)” http://www.facebook.com/tony.pagliuca Negrita: il Dannato Vivere Tour scalda Roma foto e testo: Serena De Angelis Il “Dannato vivere tour” è arrivato anche a Roma, nonostante le avverse condizioni meteorologiche e la neve che ha sorpreso la capitale nella notte tra il 3 e il 4 Febbraio. Rimandata di 24 ore, ha avuto luogo ieri sera, 5 febbraio, la terza tappa del tour italiano dei Negrita. I fan sono andati in delirio quando Pau è entrato sul palco, dando inizio allo spettacolo con “Cambio”, primo singolo, del ’94, che li ha fatti conoscere anni or sono al grande pubblico. E’ seguita una carrellata di pezzi nuovi dall’ultimo nato “Dannato vivere”, uscito a tre anni di distanza dal disco di platino “HELLdorado”. “Dannato vivere tour” prosegue fino all’11 febbraio, data sol out di Milano. ngg_shortcode_1_placeholder James Morrison a Luglio Suona Bene 2012 A pochi giorni dalla nomination ai Brit Awards 2012 nella categoria Best Male Solo Artist, uno dei riconoscimenti musicali più prestigiosi e ambiti d’Inghilterra, James Morrison annuncia il tour estivo che lo porterà a grande richiesta nuovamente in Italia. Il songwriter inglese sarà all’Auditorium Parco della Musica martedì 24 luglio 2012 per la rassegna “Luglio suona bene”. James Morrison ha pubblicato il suo terzo album “The Awakening” lo scorso settembre, già diventato oggi disco di platino in UK. “I Won’t Let You Go”, il primo singolo estratto, è uno dei singoli più trasmessi nelle radio italiane, così come il recente “Up” (feat. Jessie J.) è già TOP 30 nella classifica singoli in tutta Europa. Dal vivo è possibile apprezzare ancora di più l’enorme talento di James Morrison, artista dalla voce suadente e musicista raffinato, capace allo stesso tempo di scrivere hit di grande presa come “You Give me something” e “Broken Strings”. MARTEDì 24 LUGLIO CAVEA ORE 21 AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA BIGLIETTO: 35 EURO Sold out per l’anteprima di Giorgia a Milano foto e testo: Stefanino Benni Il 24 sera Giorgia ha presentato l’anteprima del suo nuovo tour al Mediolanum Forum di Assago, registrando decisamente un sold out. Sempre bella e sorridente ha presentato diversi suoi brani storici opportunamente rivisitati, come il fantastico pezzo “Gocce di Memoria”. La sua intensa e stupenda voce, accompagnata da arraggiamenti e suoni impeccabili hanno fatto del live un bellissimo appuntamento di livello decisamente internazionale. Il Live ha seguito di qualche giorno l’altra anteprima di Roma del 21.01 e anticipa il tour (prodotto da F&P Group), che porterà Giorgia ad essere nuovamente protagonista indiscussa della scena musicale italiana. Uno spettacolo energico ed emozionante che presenta splendidamente il nuovo album “Dietro le apparenze”, dove spiccano Hit come “Il mio giorno migliore” e ” E’ l’amore che conta”. La bella Giorgia è una cantautrice, produttrice discografica e conduttrice radiofonica italiana. In Italia è una delle artiste di maggior fama, all’estero ha raggiunto la notorietà nei Paesi Bassi, in Canada e in Germania. La sua estensione vocale l’ha resa molto celebre e le sue capacità sono state riconosciute a livello internazionale da grandi interpreti tra i quali Anastacia, Herbie Hancock, Elton John, Michael Bublé oltre che dalla famosa rivista statunitense Billboard, che l’ha definita «in grado di fare lo stesso successo anche negli USA». In tutta la sua carriera ha venduto più di 7 milioni di dischi, prevalentemente in Italia…e allora che per Giorgia sia “il suo giorno migliore” ngg_shortcode_2_placeholder Il fantastico mondo musicale dei Fab Gaine Esce Tara, il nuovo cd dei Fab Gaine: nome collettivo nato per gioco dall’unione di Fab (dall’inglese fabulous, favoloso) e Gaine (dal nepali gaine: musicista itinerante). Letteralmente: favoloso musico, fantastico menestrello. Il progetto nasce dalla volontà di confrontare canzoni e materiali musicali eterogenei. Attorno ai 12 brani, tutti scritti e arrangiati da Fabrizio Gaggini, ruotano musicisti e suoni variegati. Questo in sintesi il pretesto per la collaborazione di talenti e strumenti alquanto diversi tra loro. Da qui la necessità di una band a formazione variabile come Fab Gaine capace di eseguire il progetto dal vivo adattandosi alle necessità dello spazio in cui verrà eseguito. Tara rappresenta il tentativo musicale di emanciparsi dalla pesantezza del mondo. Peso e leggerezza dipendono dal punto di vista; anche un vicolo urbano, periferico e deserto (come quello della copertina) può nascondere crepe e spiragli di infinità leggerezza. Si passa così da pezzi contemporanei (intro), esotici (Nuku Hiva), aggressivi (Sometimes), onirici (Hirundo) a pezzi rock come la titletrack. E dopo le cattiverie gitane di Manouche si arriva a Vinegia, vero momento di cristallina leggerezza. A seguire finalmente brani di chitarra e voce (Vichi Blu) o di semplice chitarrismo (Morichina) prima di chiudere con le ballate (Fall Storm, Santelena). Ricordiamo il pianoforte di Yakir Abib, i voli canori di Monica Marziota, le soluzioni “industrial” di Federico Nespola, il KeyB organ di Francesco Lo Giudice, il moog di Vicarelli, l’armonica “lazy” di Costantino Volpe, il surdo e le congas di Pietro Petrosini. Su tutto questo la voce di chi le canzoni le ha scritte e le continua a cantare anche in versione acustica e solista. The Black Keys, Live @ Alcatraz, Milano, 30/01/2012 di Francesco Corbisiero Dalle parti di ‘Repubblica’ (vedi alla voce Ernesto Assante ) si fa un gran parlare della morte del rock, della sua presunta incapacità di interpretare ed esprimere le nuove sfide e le nuove proteste globali in un mondo che cambia. Si parte da un presupposto chiaro e condivisibile: le classifiche sono popolate da esserini come Lady Gaga o Rihanna et similia, che scalano i vertici in men che non si dica e i vecchi leoni del genere sembrano addomesticati, con la pancia piena e a cuccia, incapaci di ruggire come un tempo. Ora, ‘Repubblica’ è un giornale la cui redazione ha sede a Roma. E, per l’amor del cielo, in questa città ci abito anch’io e la amo appassionatamente, ma l’unica cosa che mi fa veramente rimpiangere di non vivere a Milano è l’infinita quantità di concerti di portata internazionale che si susseguono nel perimetro e nei locali della vecchia signora lombarda, mitteleuropea e aperta per tradizione, la cui organizzazione è stoppata – o solo resa più problematica – da un provvedimento liberticida riguardante i decibel, istituito dalla giunta Moratti e che il sindaco Pisapia, nonostante le pressioni dell’elettorato e del mondo artistico che l’ha sostenuto durante la campagna elettorale, ancora non ha abolito. Quello che voglio dire è che, se il quotidiano di Piazza dell’Indipendenza fosse meno lontano dagli echi musicali nordici e andasse a sentire il concerto – nonché unica data italiana – dei Black Keys all’Alcatraz il 30 del corrente mese e sold out ormai da tempo, molto probabilmente non parlerebbe affatto di crisi del rock, anzi. Perché loro, i nipotini di Elvis Presley, il duo americano più popolare e chiacchierato del momento (a rendere la loro fama ‘a lunga conservazione’ dovranno pensarci solo loro e sono già sulla buona strada) è proprio così: rock’n’roll nel sound e nell’attitudine e sempre in giro per il mondo a calcare i palchi di Europa e America e soddisfare la messe di fan che crescono sempre più. Anni di gavetta e dopo un fortunatissimo ‘Brothers’, eccoli lì, sulla cresta dell’onda, tutta meritata. Una chitarra che graffia e morde e una batteria che pesta come Dio comanda, semplici e senza fronzoli. Ruggenti e nient’affatto impauriti dal successo. Eppure il duo di Akron di strada ne ha fatta per arrivare fin qui. Dalle origini dei primi Ep, già oggetto di interesse dai tempi della pubblicazione, passando per arrugginiti e i suoni saturi di ‘Attack and release’ fino ai progetti paralleli di Dan Auerbach e Patrick Carney; dal blues dell’America profonda al funk dalle corde sporche, con melodie e arrangiamenti scevri dalle influenze grunge e completamente estranei al filone post-punk dell’ultimo decennio (che i due odiano come la peste), per giungere a un album dannatamente azzeccato e messo lì al momento giusto, ideale e degna prosecuzione del precedente. Forse non incisivo come ci si aspettava, ma perfetta prova di forza dei Black Keys, che alternano con burbera grazia fasi tese e violente a ballate di velluto, come a voler prendere fiato. E potrei parlare delle sfumature psichedeliche alla Hendrix che sono comprese nel prezzo dell’album, ma conviene ascoltarle da sé queste 11 canzoni che scorrono nel lettore o, che si voglia, sulla puntina – per gli amanti del vinile la premiata ditta ha pensato anche a questo – con facilità, ma non senza colpo ferire. Per capirle e farle proprie e rimanerne esaltati, esausti e contenti. E ok, forse questi due simpatici scarrafoni dell’Ohio non saranno mai i portabandiera canzonettistici di Occupy Wall Street e non butteranno giù brani alla Dylan sui tempi che corrono, e probabilmente non avranno mai alcuna ambizione verso il cantautorato impegnato e alto. Ma resta il fatto che ‘Repubblica’ può dormire sonni tranquilli, la situazione è buona e il rock non è morto. Almeno secondo noi. James Taylor ha ancora voglia di stupire di Erika Sambuco E’ stato l’altro ieri, prima della conferenza stampa prevista a Roma nel pomeriggio, che il cantautore di “Chapel Hill” ha scelto la rete diretta da Flavio Mucciante, nello spazio condotto da Max Giusti (SuperMax di Radio2), per presentare il suo prossimo tour al via a marzo, e stasera, per chi volesse sentire non solo la sua musica, alle 20.10 su Rai Tre con ‘Che tempo che fa’, il talk show condotto da Fabio Fazio, Taylor sarà accolto come ospite. Per più di quarant’anni l’artista è stato un punto di riferimento per i suoi fans, alternando momenti di gioia e di dolore e facendo sentire ai suoi ascoltatori che non sono soli. “Quando sono in Italia mi sembra di essere a casa, tra gente che amo e dalla quale sono ricambiato. Le mie precedenti esperienze italiane sono state uniche ed era mio desiderio effettuare, nella vostra nazione, un tour nei teatri” dichiara Taylor che non è solo un cantante, musicista e cantautore interessato alla sua arte, ma anche un uomo che, attraverso essa, vuole comunicare con il mondo ed essere d’aiuto a tutti. A dimostrazione di ciò vi è l’impegno nel sociale. Attualmente è attivo in cause ambientali e politiche. In queste ultime, in particolar modo, si sta impegnando a sostegno del presidente Barack Obama “il miglior presidente che potesse avere l’America e che spero possa essere rieletto” ci confessa e, proprio dal Presidente, nel marzo 2011 gli è stata conferita la National Medal of Arts (il più alto riconoscimento artistico del paese e la motivazione parla di “straordinari traguardi e supporto alle arti”). Eh, già! Una carriera, la sua, segnata da trionfi artistici: 5 Grammy award, 40 dischi d’oro, oltre a molteplici dischi di platino. Nel 1998 ha vinto il Century award, il massimo riconoscimento della rivista americana Billboard, nel 2000 è stato incluso nella ‘Rock’n’Roll Hall of Fame’ e nella prestigiosa ‘Songwriter’s Hall of Fame’. Il comitato dei Grammy nel 2006 seleziona JT come come MusiCares Person of the Year, nel 2008 il suo album ‘One Man Band’ è nominato agli Emmy Award e nel 2011 la rivista Rolling Stone, lo ha inserito nei 100 migliori Artisti (musicali) di tutti i tempi (“100 greatest singers of time”). Eppure, quando parla delle propria carriera, Taylor afferma: “ Nonostante abbia composto più di centocinquanta canzoni, è come se in realtà ne avessi scritte dieci per quindici volte.” C’è qualcosa di solare e cristallino nella qualcosa che porta agli occhi paesaggi rassicuranti. Eppure la sua vena melodica, i vita stessa che più volte infonde a piene mani sua chitarra; tranquilli e suoi testi, la tra le note, è spesso umbratile e malinconica. La sua musica è, sin dagli esordi nel 1968, intima e intimista, personale fino all’autobiografia, e apre la strada a quello che sarà denominato, agli inizi dei settanta, confessional rock. Ascoltare i suoi arpeggi, tanto raffinati quanto semplici e melodici, è compiere un viaggio verso l’alto, verso regioni leggere ed eteree. La sua chitarra ha un suono subito riconoscibile: i bassi rotondi e staccati, i cantini (le tre corde più acute: sol , si e mi) sempre in figura, messi in risalto con energia sia nei passaggi arpeggiati (si pensi all’intro di ‘Something in the Way She Moves’) sia nei tricordi (ad esempio in ‘Country Roads’), e si differenzia da quella dei folk singer e cantautori del periodo. Basti pensare, tra gli altri, alle particolarità degli arpeggi di Paul Simon, più complessi, rotondi e caldi, a volte ripetuti per gran parte del brano, come una nenia o un mantra (valga, come esempio, la strumentale ‘Anji’, o l’intro di ‘The Boxer’) alle complesse accordature di Nick Drake ed ai suoi suoni percussivi e profondi (si pensi all’album ‘Pink Moon’, registrato per voce e chitarra acustica, del 1972, e a brani come ‘Parasite’ o ‘From The Morning’), o alla tecnica semplice e pulita di Cat Stevens e Alan Davies (‘How I Can tell You’, ‘Into White’). La tecnica chitarristica di Taylor non è eccessivamente ricercata o complessa, né nei suoni e nei passaggi né nelle accordature, eppure il suo fingerstyle (tecnica che prevede l’uso delle dita della mano destra al posto del plettro, con il pollice a scandire i bassi, spesso con uno stile ritmato e percussivo che sarà portata alla ribalta nel panorama dei chitarristi rock, dalla fine degli anni settanta, e persino per quanto riguarda la chitarra elettrica, da Mark Knopfler, leader e chitarrista dei Dire Straits) eredità – come per tutti i chitarristi del tempo e non solo, delle sperimentazioni di Woody Guthrie -, resta la cifra stilistica della sua musica, ciò che rende un suo brano, al di là della voce, subito riconoscibile ed inquadrabile in uno stile personale ed ancora attualissimo. Erano anni fertilissimi, e la musica popolare viveva una delle stagioni più importanti e influenti per i tempi a venire. Tra la fine degli anni sessanta e l’inizio del decennio seguente, la scena musicale è in pieno fermento e stili e correnti nascono e si susseguono, spesso imboccando strade molto distanti. Nel 1968, anno che salutò il primo album di Taylor come solista, escono, tra gli USA e l’Inghilterra, album capisaldi della psichedelica come: ‘A Saucerful of Secrets’ dei Pink Floyd, ‘Anthem of the Sum’ dei Grateful Dead e ‘Crown of Creation’ degli Jefferson Airplaines; si affaccia al pubblico la scena di Canterbury con il primo album dei Soft Machine ed il prossimo avvento del progressive rock. Miles Davis esce con due dei suoi lavori migliori del periodo, ‘Miles in the Sky’ e ‘Nefertiti’, i Velvet Underground di Lou Reed e John Cale consolidano il successo ottenuto con l’omonimo album d’esordio dando alle stampe ‘White Light/White Heat’, Janis Joplin realizza ‘Cheap Thrills’, il suo lavoro più fortunato, Van Morrison pubblica il seminale ‘Astral Weeks’, altro esempio di folk rock intimista, stavolta, però, più ricercato e raffinato; Simon e Garfunkel, già coppia di successo, reduce dal clamore di ‘Sound of Silence’ e del film ‘Il Laureato’ per il quale pubblicano ‘Bookends’. curano la colonna sonora, Nonostante, nel corso degli anni, la sua musica si sia arricchita e sia maturata passando tra tanti album, iniziative e collaborazioni eccellenti (basti citare Carole King, John Mclaughlin, Paul McCartney e George Harrison), resta legata allo stile degli esordi, così la voce e il timbro della sua chitarra. È sufficiente ricordare l’arpeggio iniziale di ‘Something in the Way She Moves’, modulato su un ostinato in la settima, che tiene l’ascoltatore col fiato sospeso per alcuni secondi, fino a che i suoni liquidi ma, apparentemente fermi e senza soluzione melodica, si aprono con l’ingresso della voce del cantautore e l’arricchimento degli arpeggi. È come se la musica, intrappolata e chiusa, potesse finalmente uscire e invadere lo spazio, far respirare suoni e ritmi. Nell’inizio di questo brano, tra i più celebri di Taylor, è già intuibile la ricchezza umana ed anche psicologica della sua musica; l’insieme di due anime complementari e apparentemente distanti: la vena melanconica e triste, bisognosa di aiuto e di certezze (si ricordi la vita turbolenta del musicista, i sui problemi con la droga che lo hanno spinto quasi alla morte, le relazioni difficili con le donne e la famiglia, la decisione di smettere con la musica e la carriera agli inizi degli anni ottanta, quando sembrava non dovesse esserci più mercato per lui) e, d’altra parte, la leggerezza di linee melodiche e arrangiamenti. Difficoltà e disperazione, serenità e forza, dunque, a dichiarare la maturità e la complessità di un artista e della sua musica, qualità presenti già nei primissimi lavori e che traspaiono, oggi, nei suoi occhi chiari e pacati. James Taylor ha ancora voglia del suo pubblico e della sua musica e questo lui lo definisce “un piccolo miracolo”. Come spiegare altrimenti il tour che lo vedrà impegnato per l’intero mese di marzo in giro per l’Italia, la voglia di comporre e suonare, intatta e prolifica (nella scaletta portata in giro per la penisola ci saranno almeno due brani inediti), o l’iniziativa, molto interessante e ben preparata, che lo vede, sul suo sito ufficiale, impegnato a spiegare i passaggi e gli accordi di alcuni dei suoi brani più celebri. È un modo per passare la sua arte e la passione a chi vuol imparare i suoi brani e lo stile della sua chitarra. Grazie a questo progetto, che durerà almeno per i prossimi due anni, Taylor porta ogni chitarrista avido o curioso dei suoi segreti nella propria casa, si lascia ritrarre da diverse telecamere mentre spiega e suona (una, addirittura, posta all’interno della cassa armonica, in modo che si possano vedere le dita della mano destra mentre pizzicano le corde, senza impedimento alcuno), liberando ancora la sua musica, a più di quarant’anni dagli esordi. La musica: forse è lei il messaggio e l’eredità che James Taylor, anche come uomo, può lasciare e tramandare. Mi piace pensare che i versi del brano che ho citato come esempio del suo stile, ‘Something in the Way She Moves’, siano dedicati a lei, alle risorse e alla forza che può richiamare, e non ad una donna o, cosa in voga in quegli anni, alle droghe (si pensi ad alcuni testi di Hendrix, dei Beatles o dei Rolling Stones per citare solo i più famosi): “C’è qualcosa nel modo in cui si muove, in cui guarda la mia strada o pronuncia il mio nome. Sembra che possa lasciare questo mondo problematico alle spalle, se mi sento triste o depresso, o nei casini per qualche stupido gioco, sembra sempre che lei riesca a farmi cambiare idea. Mi sento bene ogni volta che lei è qui intorno a me. Lei è intorno a me ora…”.