Negrita: il Dannato Vivere Tour scalda Roma

Maria Antonietta in tour
Ecco le prime date.
10-02-2012 MARGHERA (VE) – Pop Corner Club
15-02-2012 FORLI’ – Diagonal Loft Club
16-02-2012 TORINO – Teatro Vittoria @ Premio Buscaglione
17-02-2012 OSIMO (MC) – Loop
18-02-2012 GIOVINAZZO (BA) – Arci Tresset
19-02-2012 GUAGNANO (LE) – Arci Rubik
23-02-2012 SEGRATE (MI) – Circolo Magnolia @ Milano Brucia
24-02-2012 ROMA – Locanda Atlantide
25-02-2012
02-03-2012
03-03-2012
09-03-2012
10-03-2012
17-03-2012
28-03-2012
29-03-2012
01-04-2012
13-04-2012
15-04-2012
27-04-2012
30-04-2012
04-05-2012
16-06-2012
RAVENNA – Bronson
TRIESTE – Etnoblog
BOLOGNA – Covo
SAN MARTINO DI LUPARI (PD) – Garage Club
CAVRIAGO (RE) – Calamita
FUCECCHIO (FI) – La Limonaia
COSENZA – L’ora di Italiano @ Piccolo Teatro Unical
MESSINA – Retronouveau
RUFFANO (LE) – Note di Vino
FIRENZE – Viper (con Cristina Donà)
CARPI (MO) – Mattatoio
PRATO – Nuovo Camarillo
CONEGLIANO VENETO (TV) – Apartamento Hoffman
BRESCIA – Lio Bar
CASTIGLIONE DEL LAGO (PG) – La Darsena
http://mariaantoniettamusica.tumblr.com/
Pete Doherty: live acustico a
Roma
testo e foto: Luigi Orrù
In una sera nella quale la psicosi “bianca” pervadeva le
anime, Pete Doherty ha presentato all’atlantico di Roma il suo
Tour acustico.
Un gran bel concerto, aperto da una band locale e da Soko,
nome d’arte di Stéphanie Sokolinski, artista e performer di
origine francese. Tutto tranne che un concerto noioso, di
fronte ad 800 fans molto, molto caldi. Solo sul palco per la
maggior parte del concerto, con interventi sempre acustici di
alcuni suoi musicisti. Una gran bella serata.
ngg_shortcode_0_placeholder
Mezzo secolo di Piero Pelu’
di Francesco Corbisiero
Ah sì, dunque: gli anni ’80. Volete una diapositiva degli anni
’80 in salsa tricolore? Bene, prendete le hit caserecce e
trashissime di Donatella Rettore e Loredana Bertè e
nascondetele per bene in un baule o fateci quello che volete
(se possibile, dimenticatele). Ora, mettetevi comodi e
focalizzate l’attenzione su quella striscia di montagne
chiamata Appennino tosco-emiliano che collega le due tra le
più importanti città del centro Italia. Gli anni ’80
dell’Italia del rock si
snodano lì, tra la Reggio
Emilia rossa dei CCCP-Fedeli
alla Linea (consultare la
voce Giovanni Lindo Ferretti
o, in alternativa, Massimo
Zamboni, tutti e due andati a
risciacquare i panni nello
Spree
percorrendo
allegramente l’autostrada del
Brennero) e la Firenze new-wave dei Diaframma e soprattutto
dei Litfiba di Ghigo Renzulli e Piero Pelù, i tre gruppi che
hanno saputo tradurre al massimo livello nella lingua nostrana
e nell’immaginario collettivo le influenze del Bowie nella
stagione berlinese, dei Joy Division, e del punk morente della
Londra di fine anni ’70.
Sì, tutta roba di fine anni ’70, conosciuta, trita e ritrita
altrove, ma non in questo Paese dove tutto arriva in pauroso
ritardo. Perché se in Inghilterra a segnare il periodo ci
furono i Talking Heads, i Police e i Blondie, all’Italia toccò
sorte diversa e prima che queste suggestioni arrivassero al
grande pubblico di tempo ne passò e gli anni ’80
sgattaiolarano via svelti tra cd storici che hanno formato
tutta la nuova leva della classe musicale italiana (per
delucidazioni chiedere a Francesco Bianconi la rilevanza che
ha avuto Federico Fiumani nella sua decisione di imbracciare
una chitarra e mettersi a fare musica). Ma nel passaggio si
dimenticarono di portar con loro i Litfiba, che nel frattempo
passarono dall’underground nichilista di una città senza
sbocchi e senza vita (la Firenze di quegli anni) con i mentori
che abbiamo sopra citato al megafono potente di major che
puntarono su di loro in una piroetta artistica con Stooges,
Led Zeppelin e Black Sabbath come numi tutelari (complice in
questo la loro fortissima versatilità musicale). Da album come
‘Desaparecido’ e ‘17 re’ a ‘El Diablo’ e ‘Infinito’. Da locali
come la Rockoteca Brighton a folle di fan festanti a scandire
una notorietà mediatica enorme, incentrata sulle liriche
visionarie e orientaleggianti
di Pelù e sulle chitarre
cattive di Renzulli. Il tutto alla faccia di un Franco
Battiato che a inizio decennio in ‘Centro di gravità
permanente’ emanava tra l’altro la sua personalissima fatwa
contro i cori russi, la musica finto-rock e in particolar
modo la new wave italiana (ma anche il free-jazz e il punk
inglese).
Risultato? Alla fine degli anni ’90, dopo la prima fase della
‘trilogia del potere’ e in seguito al periodo calante della
‘tetralogia degli elementi’, il gruppo, privato ormai da tempo
di un bassista della caratura di Gianni Maroccolo, andato a
ridar fiato ai CSI (versione riveduta e aggiornata dei CCCP
dopo la caduta del muro di Berlino, semper fidelis
all’ortodossia sovietica di nome e di fatto) si scioglieva. E
in lascito ci donava un Piero Pelù che, tra valanghe di
duetti, album solisti e cover, vinceva sì, ma non riusciva mai
a convincere del tutto, sempre schiavo (come un soldato che la
storia sul campo di battaglia l’ha fatta non da solo, ma coi
suoi commilitoni) dell’etichetta del reduce. Come se non
bastasse, ad arrancare non fu solo, accompagnato anche in
questo dal fido Renzulli. Non poteva durare.
Foto: © StefaninoBenni
Infatti, anno domini 2009, i Litifba si riuniscono e, storia
dei nostri giorni, diedero alla luce un ultimo album inedito
(dopo la raccolta live di ‘Stato libero di Litifiba’). ‘Grande
nazione’, uscito pochi giorni fa e già centralissimo e
chiacchierato nel dibattito discografico. Prova del nove dello
stato di salute dei due ragazzacci di via de’ Bardi, non
memorabili come un tempo ma ancora capaci di ringhiare e dire
la loro, il disco è già balzato alla sua uscita al n°1 della
classifica FIMI degli album più venduti. E già questo
basterebbe a far capire che di orfani dei Litfiba ce n’erano,
ed erano proprio tanti. Ora, per cortesia, dopo 13 anni di
assenza, provate a saziarli.
P.S.: oggi, 10 febbraio 2012, è il compleanno di Pierò Pelù e
questo doveva essere un articolo su di lui. Invece eccomi qui
a scrivere la cronologia appassionata (e appassionante) della
new wave italiana. Sì, perché la storia non la scrivono i
singoli, gli individui da soli. Ma nemmeno le masse. La storia
la scrivono quei pochi, geniali, illuminati elementi che si
fanno portavoce di generazioni intere, le prendono per mano e
le conducono con loro. E lui, insieme a tutti gli altri che ho
citato, è uno tra questi.
Buon compleanno, Piero. Di anni ne compi 50, ma tanto lo
sappiamo tutti che su di palco non s’invecchia mai.
Sanremo 2012: Tony Pagliuca
scrive a Celentano contro la
‘casta della canzone’
La lettera-denuncia di Tony Pagliuca, storico tastierista del
gruppo Le Orme, è chiara, dura, circostanziata. Racconta di
mazzette per partecipare a Sanremo, di droga e corruzione.
Tony Pagliuca è uno dei musicisti che hanno scritto la storia
della musica italiana. Le Orme con la PFM hanno scritto le
pagine più belle del rock progressive italiano.
Pagliuca dopo aver lasciato Le Orme nel 1991 per si è dedicato
alla composizione di album raffinati come l’ultimo «Apres
Midi», che lo vede protagonista al piano.
“Caro Adriano
Io sono Tony Pagliuca ex componente del le Orme, dal 1°
Gennaio mi è stata tolto il Fondo solidarietà dei soci Siae un
mensile di 615 euro era il mio unico sostegno economico sicuro
e non so come andrò avanti con moglie insegnante precaria e
due figli che studiano, mutuo prima casa ecc.
Ma ora non protesto perché mi sento ancora libero e al fianco
di tutti coloro che cercano un posto di lavoro onesto e perché
ho fiducia nel futuro e confido nell’operato del presidente
del consiglio Mario Monti che mi sembra una persona per bene.
Ho pagato ancora a malincuore il canone Rai e mi permetto di
dirti che se quest’anno vai a Sanremo cerca di rimanere nel
tuo campo quello che ti ha dato il successo e cioè il canto,
canta le tue belle canzoni partecipando magari anche tu alla
gara. E se invece sentirai il prorompente
monologare allora raccontala giusta.
bisogno
di
Racconta che la cultura deve tornare a circolare libera nei
suoi spazi e non deve essere mai più in mano alla casta della
canzone.
Racconta che ciò che si sente in radio e si vede in tv non è
il meglio di ciò che la nostra
bella Italia produce. Perché
gran
parte
delle
programmazioni sono al soldo
delle case discografiche e
dei grandi management S.p.a.
Racconta che nel nostro paese ci sono tanti giovani talenti
che non trovano mai spazio e se lo trovano sono spremuti e
gettati come limoni.
Racconta, se permetti , che il sottoscritto pur avendo scritto
delle pagine di musica rock progressive riconosciute in tutto
il mondo, per partecipare in gara a Sanremo con il suo gruppo
ha dovuto pagare 50 milioni di lire per “ il parrucchiere”
mentre tanti altri concorrenti privilegiati non solo non hanno
pagato niente ma sono stati loro pagati fior di quattrini per
la loro prestazione.
Racconta che tanti altri musicisti come il sottoscritto hanno
cercato , rinunciando a facili guadagni, di elevarsi
all’altezze dei grandi della musica producendo, in proprio,
lavori di pregio che non si sentiranno in Rai e non si
vedranno in TV a causa dei conduttori corrotti e se le loro
opere non saranno conosciute non potranno di conseguenza fare
il loro lavoro e cioè i concerti .
E e se condurrai più di una serata: Chiedi che Sanremo sia un
concorso di giovani che studiano la musica non il cimitero
degli elefanti. Chiedi infine di bonificare l’ambiente dagli
spacciatori di droga, dai giornalisti corrotti, dai manager
evasori e infine la mia preghiera non duettare con Madonna (
il solo nome dovrebbe farti allontanare) e chiedi per Sanremo
la benedizione di Benedetto XVI il papa ama la musica,
l’Italia e vuole bene a tutti gli artisti.
Antonio ( Tony Pagliuca)”
http://www.facebook.com/tony.pagliuca
Negrita: il Dannato Vivere
Tour scalda Roma
foto e testo: Serena De Angelis
Il “Dannato vivere tour” è arrivato anche a Roma, nonostante
le
avverse
condizioni
meteorologiche e la neve che
ha sorpreso la capitale nella
notte tra il 3 e il 4
Febbraio.
Rimandata di 24
ore, ha avuto luogo ieri
sera, 5 febbraio, la terza
tappa del tour italiano dei
Negrita. I fan sono andati
in delirio quando Pau è entrato sul palco, dando inizio allo
spettacolo con “Cambio”, primo singolo, del ’94, che li ha
fatti conoscere anni or sono al grande pubblico. E’ seguita
una carrellata di pezzi nuovi dall’ultimo nato “Dannato
vivere”, uscito a tre anni di distanza dal disco di platino
“HELLdorado”.
“Dannato vivere tour” prosegue fino all’11 febbraio, data sol
out di Milano.
ngg_shortcode_1_placeholder
James Morrison a Luglio Suona
Bene 2012
A pochi giorni dalla nomination ai Brit Awards 2012 nella
categoria Best Male Solo Artist, uno dei riconoscimenti
musicali più prestigiosi e ambiti d’Inghilterra, James
Morrison annuncia il tour estivo che lo porterà a grande
richiesta nuovamente in Italia. Il songwriter inglese
sarà all’Auditorium Parco della
Musica martedì 24 luglio 2012
per la rassegna “Luglio suona
bene”.
James
Morrison
ha
pubblicato il suo terzo album
“The Awakening” lo scorso
settembre, già diventato oggi
disco di platino in UK.
“I
Won’t Let You Go”, il primo
singolo estratto, è uno dei
singoli più trasmessi nelle
radio italiane, così come il
recente “Up” (feat. Jessie J.) è già TOP 30 nella classifica
singoli in tutta Europa.
Dal vivo è possibile apprezzare ancora di più l’enorme talento
di James Morrison, artista dalla voce suadente e musicista
raffinato, capace allo stesso tempo di scrivere hit di grande
presa come “You Give me something” e “Broken Strings”.
MARTEDì 24 LUGLIO CAVEA ORE 21
AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA
BIGLIETTO: 35 EURO
Sold out per l’anteprima di
Giorgia a Milano
foto e testo: Stefanino Benni
Il 24 sera Giorgia ha presentato l’anteprima del suo nuovo
tour al Mediolanum Forum di Assago, registrando decisamente un
sold out.
Sempre bella e sorridente ha presentato diversi suoi brani
storici opportunamente rivisitati, come il fantastico pezzo
“Gocce di Memoria”. La sua
intensa e stupenda voce,
accompagnata da arraggiamenti
e suoni impeccabili hanno
fatto del live un bellissimo
appuntamento di livello
decisamente internazionale.
Il Live ha seguito di qualche
giorno l’altra anteprima di
Roma del 21.01 e anticipa il
tour (prodotto da F&P Group), che porterà Giorgia ad essere
nuovamente protagonista indiscussa della scena musicale
italiana.
Uno spettacolo energico ed emozionante che presenta
splendidamente il nuovo album “Dietro le apparenze”, dove
spiccano Hit come “Il mio giorno migliore” e ” E’ l’amore che
conta”.
La bella Giorgia è una cantautrice, produttrice discografica e
conduttrice radiofonica italiana. In Italia è una delle
artiste di maggior fama, all’estero ha raggiunto la notorietà
nei Paesi Bassi, in Canada e in Germania.
La sua estensione vocale l’ha resa molto celebre e le sue
capacità sono state riconosciute a livello internazionale da
grandi interpreti tra i quali Anastacia, Herbie Hancock, Elton
John, Michael Bublé oltre che dalla famosa rivista
statunitense Billboard, che l’ha definita «in grado di fare lo
stesso successo anche negli USA».
In tutta la sua carriera ha venduto più di 7 milioni di
dischi, prevalentemente in Italia…e allora che per Giorgia sia
“il suo giorno migliore”
ngg_shortcode_2_placeholder
Il fantastico mondo musicale
dei Fab Gaine
Esce Tara, il nuovo cd dei Fab Gaine: nome collettivo nato per
gioco dall’unione di Fab (dall’inglese fabulous, favoloso) e
Gaine (dal nepali gaine: musicista itinerante). Letteralmente:
favoloso musico, fantastico menestrello.
Il progetto nasce dalla volontà di confrontare canzoni e
materiali musicali eterogenei. Attorno ai 12 brani, tutti
scritti e arrangiati da Fabrizio Gaggini, ruotano musicisti e
suoni variegati.
Questo in sintesi il pretesto per la collaborazione di talenti
e strumenti alquanto diversi tra loro. Da qui la necessità di
una band a formazione variabile come Fab Gaine capace di
eseguire il progetto dal vivo adattandosi alle necessità dello
spazio in cui verrà eseguito.
Tara rappresenta il tentativo musicale di emanciparsi dalla
pesantezza del mondo. Peso e leggerezza dipendono dal punto di
vista; anche un vicolo urbano, periferico e deserto (come
quello della copertina) può nascondere crepe e spiragli di
infinità leggerezza.
Si
passa
così
da
pezzi
contemporanei (intro), esotici
(Nuku
Hiva),
aggressivi
(Sometimes), onirici (Hirundo) a
pezzi rock come la titletrack. E
dopo le cattiverie gitane di
Manouche si arriva a Vinegia, vero
momento di cristallina leggerezza.
A seguire finalmente brani di
chitarra e voce (Vichi Blu) o di semplice chitarrismo
(Morichina) prima di chiudere con le ballate (Fall Storm,
Santelena).
Ricordiamo il pianoforte di Yakir Abib, i voli canori di
Monica Marziota, le soluzioni “industrial” di Federico
Nespola, il KeyB organ di Francesco Lo Giudice, il moog di
Vicarelli, l’armonica “lazy” di Costantino Volpe, il surdo e
le congas di Pietro Petrosini. Su tutto questo la voce di chi
le canzoni le ha scritte e le continua a cantare anche in
versione acustica e solista.
The
Black
Keys,
Live
@
Alcatraz, Milano, 30/01/2012
di Francesco Corbisiero
Dalle parti di ‘Repubblica’ (vedi alla voce Ernesto Assante )
si fa un gran parlare della morte del rock, della sua presunta
incapacità di interpretare ed esprimere le nuove sfide e le
nuove proteste globali in un mondo che cambia. Si parte da un
presupposto chiaro e condivisibile: le classifiche sono
popolate da esserini come Lady Gaga o Rihanna et similia, che
scalano i vertici in men che non si dica e i vecchi leoni del
genere sembrano addomesticati, con la pancia piena e a cuccia,
incapaci di ruggire come un tempo.
Ora, ‘Repubblica’ è un giornale la cui redazione ha sede a
Roma. E, per l’amor del cielo, in questa città ci abito
anch’io e la amo appassionatamente, ma l’unica cosa che mi fa
veramente rimpiangere di non vivere a Milano è l’infinita
quantità di concerti di portata internazionale che si
susseguono nel perimetro e nei locali della vecchia signora
lombarda, mitteleuropea e aperta per tradizione, la cui
organizzazione è stoppata – o solo resa più problematica – da
un provvedimento liberticida riguardante i decibel, istituito
dalla giunta Moratti e che il sindaco Pisapia, nonostante le
pressioni dell’elettorato e del mondo artistico che l’ha
sostenuto durante la campagna elettorale, ancora non ha
abolito.
Quello che voglio dire è che, se il quotidiano di Piazza
dell’Indipendenza fosse meno lontano dagli echi musicali
nordici e andasse a sentire il concerto – nonché unica data
italiana – dei Black Keys all’Alcatraz il 30 del corrente mese
e sold out ormai da tempo, molto probabilmente non parlerebbe
affatto di crisi del rock, anzi. Perché loro, i nipotini di
Elvis Presley, il duo americano più popolare e chiacchierato
del momento (a rendere la loro fama ‘a lunga conservazione’
dovranno pensarci solo loro e sono già sulla buona strada) è
proprio così: rock’n’roll nel sound e nell’attitudine e sempre
in giro per il mondo a calcare i palchi di Europa e America e
soddisfare la messe di fan che crescono sempre più. Anni di
gavetta e dopo un fortunatissimo ‘Brothers’, eccoli lì, sulla
cresta dell’onda, tutta meritata. Una chitarra che graffia e
morde e una batteria che pesta come Dio comanda, semplici e
senza fronzoli. Ruggenti e nient’affatto impauriti dal
successo.
Eppure il duo di Akron di
strada ne ha fatta per
arrivare fin qui. Dalle
origini dei primi Ep, già
oggetto di interesse dai
tempi della pubblicazione,
passando
per
arrugginiti e
i
suoni
saturi di
‘Attack and release’ fino ai
progetti paralleli di Dan Auerbach e Patrick Carney; dal blues
dell’America profonda al funk dalle corde sporche, con melodie
e arrangiamenti scevri dalle influenze grunge e completamente
estranei al filone post-punk dell’ultimo decennio (che i due
odiano come la peste), per giungere a un album dannatamente
azzeccato e messo lì al momento giusto, ideale e degna
prosecuzione del precedente. Forse non incisivo come ci si
aspettava, ma perfetta prova di forza dei Black Keys, che
alternano con burbera grazia fasi tese e violente a ballate di
velluto, come a voler prendere fiato. E potrei parlare delle
sfumature psichedeliche alla Hendrix che sono comprese nel
prezzo dell’album, ma conviene ascoltarle da sé queste 11
canzoni che scorrono nel lettore o, che si voglia, sulla
puntina – per gli amanti del vinile la premiata ditta ha
pensato anche a questo – con facilità, ma non senza colpo
ferire. Per capirle e farle proprie e rimanerne esaltati,
esausti e contenti.
E ok, forse questi due simpatici scarrafoni dell’Ohio non
saranno mai i portabandiera canzonettistici di Occupy Wall
Street e non butteranno giù brani alla Dylan sui tempi che
corrono, e probabilmente non avranno mai alcuna ambizione
verso il cantautorato impegnato e alto. Ma resta il fatto che
‘Repubblica’ può dormire sonni tranquilli, la situazione è
buona e il rock non è morto. Almeno secondo noi.
James Taylor ha ancora voglia
di stupire
di Erika Sambuco
E’ stato l’altro ieri, prima della conferenza stampa prevista
a Roma nel pomeriggio, che il cantautore di “Chapel Hill” ha
scelto la rete diretta da Flavio Mucciante, nello spazio
condotto da Max Giusti (SuperMax di Radio2), per presentare il
suo prossimo tour al via a marzo, e stasera, per chi volesse
sentire non solo la sua musica, alle 20.10 su Rai Tre con ‘Che
tempo che fa’, il talk show condotto da Fabio Fazio, Taylor
sarà accolto come ospite.
Per più di quarant’anni l’artista è stato un punto di
riferimento per i suoi fans, alternando momenti di gioia e di
dolore e facendo sentire ai suoi ascoltatori che non sono
soli. “Quando sono in Italia mi sembra di essere a casa, tra
gente che amo e dalla quale sono ricambiato. Le mie precedenti
esperienze italiane sono state uniche ed era mio desiderio
effettuare, nella vostra nazione, un tour nei teatri” dichiara
Taylor che non è solo un cantante, musicista e cantautore
interessato alla sua arte, ma anche un uomo che, attraverso
essa, vuole comunicare con il mondo ed essere d’aiuto a tutti.
A dimostrazione di ciò vi è l’impegno nel sociale.
Attualmente è attivo in cause ambientali e politiche. In
queste ultime, in particolar modo, si sta impegnando a
sostegno del presidente Barack Obama “il miglior presidente
che potesse avere l’America e che spero possa essere rieletto”
ci confessa e, proprio dal Presidente, nel marzo 2011 gli è
stata conferita la National Medal of Arts (il più alto
riconoscimento artistico del paese e la motivazione parla di
“straordinari traguardi e supporto alle arti”). Eh, già! Una
carriera, la sua, segnata da trionfi artistici: 5 Grammy
award, 40 dischi d’oro, oltre a molteplici dischi di platino.
Nel 1998 ha vinto il Century award, il massimo riconoscimento
della rivista americana Billboard, nel 2000 è stato incluso
nella ‘Rock’n’Roll Hall of Fame’ e nella prestigiosa
‘Songwriter’s Hall of Fame’. Il comitato dei Grammy nel 2006
seleziona JT come come MusiCares Person of the Year, nel 2008
il suo album ‘One Man Band’ è nominato agli Emmy Award e nel
2011 la rivista Rolling Stone, lo ha inserito nei 100 migliori
Artisti (musicali) di tutti i tempi (“100 greatest singers of
time”). Eppure, quando parla delle propria carriera, Taylor
afferma: “ Nonostante abbia composto più di centocinquanta
canzoni, è come se in realtà ne avessi scritte dieci per
quindici volte.”
C’è qualcosa di solare e cristallino nella
qualcosa che porta agli occhi paesaggi
rassicuranti. Eppure la sua vena melodica, i
vita stessa che più volte infonde a piene mani
sua chitarra;
tranquilli e
suoi testi, la
tra le note, è
spesso umbratile e malinconica. La sua musica è, sin dagli
esordi nel 1968, intima e intimista, personale fino
all’autobiografia, e apre la strada a quello che sarà
denominato, agli inizi dei settanta, confessional rock.
Ascoltare i suoi arpeggi, tanto raffinati quanto semplici e
melodici, è compiere un viaggio verso l’alto, verso regioni
leggere ed eteree. La sua chitarra ha un suono subito
riconoscibile: i bassi rotondi e staccati, i cantini (le tre
corde più acute: sol , si e mi) sempre in figura, messi in
risalto con energia sia nei passaggi arpeggiati (si pensi
all’intro di ‘Something in the Way She Moves’) sia nei
tricordi (ad esempio in ‘Country Roads’), e si differenzia da
quella dei folk singer e cantautori del periodo. Basti
pensare, tra gli altri, alle particolarità degli arpeggi di
Paul Simon, più complessi, rotondi e caldi, a volte ripetuti
per gran parte del brano, come una nenia o un mantra (valga,
come esempio, la strumentale ‘Anji’, o l’intro di ‘The Boxer’)
alle complesse accordature di Nick Drake ed ai suoi suoni
percussivi e profondi (si pensi all’album ‘Pink Moon’,
registrato per voce e chitarra acustica, del 1972, e a brani
come ‘Parasite’ o ‘From The Morning’), o alla tecnica semplice
e pulita di Cat Stevens e Alan Davies (‘How I Can tell You’,
‘Into White’).
La tecnica chitarristica di Taylor non è eccessivamente
ricercata o complessa, né nei suoni e nei passaggi né nelle
accordature, eppure il suo fingerstyle (tecnica che prevede
l’uso delle dita della mano destra al posto del plettro, con
il pollice a scandire i bassi, spesso con uno stile ritmato e
percussivo che sarà portata alla ribalta nel panorama dei
chitarristi rock, dalla fine degli anni settanta, e persino
per quanto riguarda la chitarra elettrica, da Mark Knopfler,
leader e chitarrista dei Dire Straits) eredità – come per
tutti i chitarristi del tempo e non solo, delle
sperimentazioni di Woody Guthrie -, resta la cifra stilistica
della sua musica, ciò che rende un suo brano, al di là della
voce, subito riconoscibile ed inquadrabile in uno stile
personale ed ancora attualissimo. Erano anni fertilissimi, e
la musica popolare viveva una delle stagioni più importanti e
influenti per i tempi a venire.
Tra la fine degli anni sessanta e l’inizio del decennio
seguente, la scena musicale è in pieno fermento e stili e
correnti nascono e si susseguono, spesso imboccando strade
molto distanti. Nel 1968, anno che salutò il primo album di
Taylor come solista, escono, tra gli USA e l’Inghilterra,
album capisaldi della psichedelica come: ‘A Saucerful of
Secrets’ dei Pink Floyd, ‘Anthem of the Sum’ dei Grateful Dead
e ‘Crown of Creation’ degli Jefferson Airplaines; si affaccia
al pubblico la scena di Canterbury con il primo album dei Soft
Machine ed il prossimo avvento del progressive rock. Miles
Davis esce con due dei suoi lavori migliori del periodo,
‘Miles in the Sky’ e ‘Nefertiti’, i Velvet Underground di Lou
Reed e John Cale consolidano il successo ottenuto con
l’omonimo album d’esordio dando alle stampe ‘White Light/White
Heat’, Janis Joplin realizza ‘Cheap Thrills’, il suo lavoro
più fortunato, Van Morrison pubblica il seminale ‘Astral
Weeks’, altro esempio di folk rock intimista, stavolta, però,
più ricercato e raffinato; Simon e Garfunkel, già coppia di
successo, reduce dal clamore di ‘Sound of Silence’ e del film
‘Il Laureato’ per il quale
pubblicano ‘Bookends’.
curano
la
colonna
sonora,
Nonostante, nel corso degli anni, la sua musica si sia
arricchita e sia maturata passando tra tanti album, iniziative
e collaborazioni eccellenti (basti citare Carole King, John
Mclaughlin, Paul McCartney e George Harrison), resta legata
allo stile degli esordi, così la voce e il timbro della sua
chitarra.
È sufficiente ricordare l’arpeggio iniziale di ‘Something in
the Way She Moves’, modulato su un ostinato in la settima, che
tiene l’ascoltatore col fiato sospeso per alcuni secondi, fino
a che i suoni liquidi ma, apparentemente fermi e senza
soluzione melodica, si aprono con l’ingresso della voce del
cantautore e l’arricchimento degli arpeggi. È come se la
musica, intrappolata e chiusa, potesse finalmente uscire e
invadere lo spazio, far respirare suoni e ritmi. Nell’inizio
di questo brano, tra i più celebri di Taylor, è già intuibile
la ricchezza umana ed anche psicologica della sua musica;
l’insieme di due anime complementari e apparentemente
distanti: la vena melanconica e triste, bisognosa di aiuto e
di certezze (si ricordi la vita turbolenta del musicista, i
sui problemi con la droga che lo hanno spinto quasi alla
morte, le relazioni difficili con le donne e la famiglia, la
decisione di smettere con la musica e la carriera agli inizi
degli anni ottanta, quando sembrava non dovesse esserci più
mercato per lui) e, d’altra parte, la leggerezza di linee
melodiche e arrangiamenti. Difficoltà e disperazione, serenità
e forza, dunque, a dichiarare la maturità e la complessità di
un artista e della sua musica, qualità presenti già nei
primissimi lavori e che traspaiono, oggi, nei suoi occhi
chiari e pacati.
James Taylor ha ancora voglia
del suo pubblico e della sua
musica e questo lui lo
definisce
“un
piccolo
miracolo”. Come spiegare
altrimenti il tour che lo
vedrà impegnato per l’intero
mese di marzo in giro per
l’Italia, la voglia di comporre e suonare, intatta e prolifica
(nella scaletta portata in giro per la penisola ci saranno
almeno due brani inediti), o l’iniziativa, molto interessante
e ben preparata, che lo vede, sul suo sito ufficiale,
impegnato a spiegare i passaggi e gli accordi di alcuni dei
suoi brani più celebri. È un modo per passare la sua arte e la
passione a chi vuol imparare i suoi brani e lo stile della
sua chitarra.
Grazie a questo progetto, che durerà almeno per i prossimi due
anni, Taylor porta ogni chitarrista avido o curioso dei suoi
segreti nella propria casa, si lascia ritrarre da diverse
telecamere mentre spiega e suona (una, addirittura, posta
all’interno della cassa armonica, in modo che si possano
vedere le dita della mano destra mentre pizzicano le corde,
senza impedimento alcuno), liberando ancora la sua musica, a
più di quarant’anni dagli esordi. La musica: forse è lei il
messaggio e l’eredità che James Taylor, anche come uomo, può
lasciare e tramandare. Mi piace pensare che i versi del brano
che ho citato come esempio del suo stile, ‘Something in the
Way She Moves’, siano dedicati a lei, alle risorse e alla
forza che può richiamare, e non ad una donna o, cosa in voga
in quegli anni, alle droghe (si pensi ad alcuni testi di
Hendrix, dei Beatles o dei Rolling Stones per citare solo i
più famosi): “C’è qualcosa nel modo in cui si muove, in cui
guarda la mia strada o pronuncia il mio nome. Sembra che possa
lasciare questo mondo problematico alle spalle, se mi sento
triste o depresso, o nei casini per qualche stupido gioco,
sembra sempre che lei riesca a farmi cambiare idea. Mi sento
bene ogni volta che lei è qui intorno a me. Lei è intorno a me
ora…”.