Mercato Italia Agromafie: Indagine sul lavoro sommerso in

RISORSE UMANE
LAVORO SOMMERSO
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Agromafie
a gonfie vele
I dati riguardanti il lavoro sommerso
nell’agricoltura italiana sono impressionanti,
e per di più sono in notevole aumento.
di Chiara Mandelli
Approfondimenti:
http://tinyurl.com/LCLavoroOccupazione
uattordici miliardi di euro: è
questo il volume del giro d’affari prodotto nel 2013 dall’agromafia secondo l’Eurispes. Sono i dati che emergono dall’inchiesta “Sottoterra – Indagine sul lavoro sommerso in agricoltura” che l’Istituto di ricerca ha realizzato insieme alla
Uila (Unione italiana lavori agroalimentari). Una cifra impressionante non
soltanto per il valore assoluto ma anche
per il confronto con gli anni precedenti
che segnala un aumento di ben il 12%.
Il mercato parallelo nel settore agricolo,
infatti, continua a crescere a ritmo sostenuto: 2 anni fa si attestava intorno ai
12,5 miliardi di euro, secondo il primo e
il secondo Rapporto Agromafie.
E ancora: secondo l’Eurispes dal
2007 al 2013 l’economia sommersa in
Italia ha generato una cifra stimata in
almeno 549 miliardi di euro ogni anno.
I numeri parlano chiaro: come hanno
mostrato con sempre maggiore evidenza le indagini della Guardia di Finanza
e della Direzione Investigativa Antimafia, la criminalità organizzata è sempre
più presente nell’agricoltura.
I motivi sono diversi. Innanzitutto, il
settore oggi è uno di pochi in cui si può
generare un business importante. Complice la crisi economica, l’agricoltura
resta un comparto vivo, che ha subito
rivoluzioni e ridimensionamenti, ma
che può ancora garantire un notevole
guadagno da parte delle economie illegali che hanno a disposizioni grossi capitali, una forte liquidità e una pericolosa capacità di condizionamento se
non di intimidazione sugli altri protagonisti della filiera. Inoltre, i contributi
che l’Unione Europea eroga ogni anno
per il settore in Italia, pari a 7 miliardi
di euro, rappresentano indubbiamente
un obiettivo appetibile per le organizzazioni criminali.
Il rapporto di Eurispes mette inoltre
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in luce come proprio in congiunture
economiche e sociali come quella attuale, in cui le imprese fanno fatica a
sopravvivere strette tra le difficoltà del
credito e guadagni sempre più esigui,
l’economia illegale rappresentata dalle
mafie fa irruzione più agevolmente nel
settore per giocare una partire sleale.
L’infiltrazione capillare delle mafie in
tutta la filiera, dai campi agli scaffali,
permette inoltre un controllo del territorio quasi “naturale” come diretta conseguenza del ruolo economico giocato.
La criminalità organizzata
è sempre più presente
nell’agricoltura
“
”
Nel nostro Paese, il settore economico maggiormente colpito dal lavoro irregolare (in ogni sua forma) è l’agricoltura a causa anche del carattere stagionale di gran parte della sua attività e al
frequente ricorso al lavoro giornaliero.
Il report di Eurispes traccia un quadro
preoccupante: nei pimi sei mesi del
2014 l’incidenza del lavoro sommerso
in agricoltura ha raggiunto il 32%. Con
LARGO CONSUMO n. 3/2015
un costante aumento rispetto agli anni
precedenti: 27,5% nel 2011, 29,5% nel
2012 e 31,7% nel 2013.
«L’Italia è in stagnazione e il prodotto interno lordo non aumenta ormai da
3 anni, ovvero dal secondo trimestre
del 2011. Pezzi consistenti dell’economia stanno reagendo alla crisi e alle
difficoltà “immergendosi” e alimentando quel sommerso strutturale che è una
caratteristica del nostro Paese», scrivono i ricercatori nel Rapporto.
Per quanto riguarda le peculiarità
geografiche del fenomeno, il Sud Italia
ha il poco invidiabile primato del 25%
di irregolarità occupazionale, con le regioni Campania e Calabria in cima alla
lista nera. In Puglia nel 2013, la Direzione regionale del lavoro ha sottolineato come metà dei lavoratori esaminati durante le ispezioni fosse in nero.
In base a questi dati, si stima che il lavoro sommerso abbia coperto una quota che oscilla dal 70% nelle zone del
Salento al 40% nel foggiano. Con conseguenze dirette sui salari che, nella
maggior parte dei casi, risultano dimezzati rispetto a quanto previsto dai
contratti di lavoro regolari.
È chiaro che la flessibilità degli impegni lavorativi, la forte mobilità, la
stagionalità, le chiamate a giornata,
rendono più difficili i controlli da parte
degli organi preposti e più facile l’uso
anche spregiudicato di manodopera irregolare, in buona parte di origine extracomunitaria ma non soltanto. L’infiltrazione da parte della criminalità organizzata è del tutto evidente, soprattutto
nelle regioni del Sud Italia dove il lavoro nero finisce per superare, in proporzione, quello regolare.
La crisi economica, unita alla forte
pressione fiscale e alla carenza di concrete opportunità lavorative non fanno
altro che invogliare intere categorie di
disoccupati, soprattutto con bassa scolarizzazione, a ingrossare le fila dei lavoratori irregolari.
Ma non soltanto: il rapporto Eurispes
sottolinea la presenza in costante aumento di lavoratori di media istruzione,
come geometri e ragionieri, che ripiegano sul settore agricolo seppur in nero
dopo essere fuoriusciti dal mondo del
lavoro a causa dei licenziamenti e delle
chiusure di fabbriche e aziende su tutto
il territorio nazionale. Non si può, inoltre, ignorare la situazione retributiva di
questi lavoratori irregolari. Non soltanto sono privati di tutele e contributi di
qualsiasi genere, a cominciare dalla copertura assicurativa e previdenziale, ma
sono anche costretti ad accettare paghe
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da fame. Alcuni braccianti intervistati
dai ricercatori hanno riferito di ricevere
20 euro al giorno per un’intera giornata
di lavoro. Dodici ore di fatiche nei
campi pagate in pratica 1,60 euro all’ora, un quinto del minimo sindacale.
Un capitolo a parte merita la piaga
del caporalato, tutt’ora esistente in Italia. Secondo il monitoraggio delle forze dell’ordine e della magistratura, in
Italia esistono almeno 80 epicentri di
sfruttamento da parte dei caporali, in
18 Regioni e 99 Province. Spesso si
tratta di vere e proprie baraccopoli dove i lavoratori vivono in condizioni
igieniche precarie: nel 60% dei casi
controllai non c’erano servizi igienici
né acqua corrente e oltre il 70% dei lavoranti ha contratto varie malattie.
Eurispes stima che il mancato gettito
fiscale annuo dovuto al caporalato è di
oltre 600 milioni di euro. La forza lavoro impiegati è di circa 400.000 persone
di cui circa un quarto si trova nella situazione peggiore di grave sfruttamento ai limiti della schiavitù.
E i controlli? Esistono ma non bastano. Basti pensare che dal 2011, anno in
cui è stato introdotto il reato di caporalato, ad oggi sono stati arrestati o denunciato soltanto 355 caporali. Nulla è
stato fatto, invece, per punire gli imprenditori che usano il caporalato e i caporali stessi per garantirsi manodopera
a costi irrisori. È chiaro che, se non si
agisce duramente su tutta la catena di
sfruttamento, non si possono raggiungere risultati duraturi per contrastare il
fenomeno. L’impegno contro il caporalato e, in generale, il lavoro irregolare
nel settore dell’agricoltura deve invece
essere una priorità italiana.
Il nostro made in Italy alimentare, la
nostra frutta, i nostri formaggi, il nostro olio e il nostro vino, subiscono
ogni anno danni ingentissimi a causa
dell’illegalità che sta soffocando il
comparto. Un prodotto che arriva da
una catena illegale, infatti, non può
certificare davvero la propria provenienza, la qualità e la salubrità. Tema
quest’ultimo tornato purtroppo sempre
più spesso alla ribalta a causa di “casi”
di prodotti agricoli non controllati. Un
danno reale per i numerosi agricoltori
virtuosi che rappresentano sul serio il
meglio del made in Italy.
Fai-Cisl, Flai-Cgil e Uila-Uil hanno
presentato nei mesi scorsi una proposta
unitaria per contrastare il fenomeno del
lavoro nero e del caporalato in agricoltura. L’obiettivo è di creare una “Rete
telematica del lavoro in agricoltura”,
dove sia possibile monitorare l’incon-
tro tra domanda e offerta di lavoro e dove il lavoratore possa “trovare un lavoro regolare, basato sul rispetto dei contratti collettivi”. Ovviamente, con una
rete efficiente, si arginerebbe il fenomeno dell’intermediazione illecita per
favorire un incontro trasparente tra i
datori di lavoro e i lavoratori stessi.
Le aziende che partecipano alla rete
avrebbero quindi una certificazione di
“lavoro di qualità” da utilizzare nei rapporti amministrativi e commerciali.
In questo modo, avrebbero diritto a
una serie di agevolazioni fiscali e contributive oltre a un credito d’imposta pari a
un euro per ogni giornata dichiarata. Un
contributo finanziato da un apposito
Fondo costituito con i proventi delle
sanzioni per evasioni contributive e fiscali e violazioni delle norme sul lavoro.
Un capitolo a parte merita la piaga del caporalato, tutt’ora esistente
“
”
I protagonisti della rete, secondo la
proposta, sarebbero le stesse organizzazioni sindacali, le aziende e l’Inps
che metterebbe a disposizione la propria tecnologia informatica e le sue
banche dati. Ovviamente, la proposta
prevede la creazione di una squadra di
ispettori debitamente formati, in modo
da intensificare i controlli sulle situazioni irregolari. Inoltre, è prevista la
denuncia da parte degli stessi lavoratori sfruttati (spesso extracomunitari senza permesso di soggiorno, quindi del
tutto restii a rivolgersi alle autorità),
con una forma di tutela.
«I lavoratori extra-comunitari che
siano stati impiegati in agricoltura in
modo illegale possono presentare alla
Rete denuncia nei confronti del datore
di lavoro indicandone le generalità, il
luogo della prestazione lavorativa, il
numero delle giornate prestate e la retribuzione percepita.
La Rete raccoglie e trasmette la denuncia alle autorità ispettive competenti, iscrive il lavoratore alla rete e richiede, se del caso, il rilascio di un
L’AGRICOLTURA ITALIANA IN CIFRE: 2014
Superficie utilizzata: 12 milioni e 750mila ettari
Aziende agricole: 1.618.000 (dati Istat 2012)
di cui aziende individuali il 96,7%
Fatturato: 42,6 miliardi di euro
Valore aggiunto: 23,8 miliardi di euro
Unità di lavoro annue: 969.000 di cui 190.000
dipendenti
Fonte: rielaborazione Eurispes
Largo Consumo
LARGO CONSUMO n. 3/2015
permesso di soggiorno provvisorio, all’autorità competente della durata di
tre mesi. Ogni ulteriore determinazione sul permesso di soggiorno è subordinata all’esito dell’accertamento
ispettivo», si legge nel testo della proposta licenziata dalle tre organizzazioni sindacali.
Una parte delle istanze della proposta di legge di Fai-Cisl, Flai-Cgil e Uila-Uil è stata recepita dal decreto legge
91/2014 cosiddetto #Campolibero e
poi dalla legge di conversione
116/2014. Mancano, però, gli incentivi
fiscali e i contributi per le aziende virtuose e le tutele per i lavoratori sfruttati che denunciano situazioni irregolari.
Inoltre, le parti sociali sono di fatto
state tagliate fuori dalla possibilità di
un effettivo monitoraggio sull’incontro
tra domanda e offerta di lavoro.
E nel resto d’Europa che cosa succede? L’opinione pubblica dei cittadini
dell’Unione europea è critica rispetto
all’efficacia delle misure di controllo
del lavoro sommerso. In un recente
sondaggio (2013) promosso dalla
Commissione europea, il 53% degli intervistati sostiene che per un lavoratore irregolare il rischio di essere scoperto sia davvero basso. Sono soprattutto i
Paesi in cui la piaga del lavoro nero è
più diffusa ad esprimere sfiducia rispetto ai controlli: Slovenia, Malta,
Repubblica Ceca ma anche, a sorpresa, la Svezia. I più fiduciosi sono i cittadini lituani e del Regno Unito (che
rispettivamente nel 49 e 48% dei casi
pensano che il lavoratore irregolare
corra un’alta possibilità di venire scoperto), di Irlanda e Portogallo (47%).
E quali sono le cause della diffusione
del lavoro sommerso secondo i cttadini
europei? La prima causa, indicata dal
35% del campione intervistato è il modesto livello dei salari ufficiali (anche
se, molto spesso, come ha evidenziato
lo stesso Report Eurispes, le paghe in
nero sono ben al di sotto dei minimi
contrattuali). Ci sarebbe quindi un patto di “mutuo beneficio” tra lavoratore
irregolare e datore di lavoro che permetterebbe un passaggio di denaro senza dichiarazioni e quindi imposizioni
fiscali e ulteriori costi.
La mancanza di lavoro regolare è stato invece l’elemento indicato nel 29%
dei casi: come a dire che di fronte alla
scarsità di offerte di lavoro regolari ci si
rivolge al mercato nero. Nel 25% dei
casi, invece, si fa riferimento precisamente alla pressione fiscale e ai contributi sociali che incidono significativamente sul costo del lavoro regolare. ■
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