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DIRITTO PENALE
DELL’ECONOMIA,
DELL’UNIONE EUROPEA
E TRANSNAZIONALE
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Presentazione
L’idea di questo lavoro è nata in seno ad ASLA grazie al continuo e fruttuoso
scambio di esperienze professionali innovative e transnazionali che caratterizzano la
vocazione di questa associazione che, ad oggi, raggruppa oltre 100 tra i principali
studi professionali di avvocati strutturati in forma associativa o societaria per un
numero complessivo di circa 8000 legali.
Non tutti questi studi hanno grande dimensione, almeno secondo gli standard
internazionali, ma tutti si pongono l’obiettivo di aprirsi al mondo e di conoscere
e gestire i profondi cambiamenti che caratterizzano il nostro tempo attraverso
un aggiornamento continuo, non solo tecnico-giuridico ma anche della qualità
gestionale.
Taluni sono specialistici, taluni multidisciplinari, ma quanto alla utenza di
riferimento, tutti hanno una forte componente di clientela imprenditoriale e sono
pertanto attenti ai profili che attengono i fenomeni economici, gli aspetti transnazionali ed il loro impatto interdisciplinare con le problematiche legali.
La prospettiva dell’analisi del caso è dunque, per definizione, di tipo strategico
in ogni singolo approccio professionale, consapevoli che anche la questione che
si presenta in termini strettamente specialistici, ad esempio di natura societaria,
sempre più spesso impone una disamina “comparata”, capace di valutare le
eventuali implicazioni fiscali, amministrative, lavoristiche e, sempre più, penali,
oltre che del diritto europeo e delle normative transnazionali.
Da queste considerazioni di fondo nasce questo lavoro realizzato dal “team
penale” di ASLA che, fra l’altro, constatava come, ancora oggi, permanga nella
cultura di molti studi legali l’idea che la materia penale sia a sé stante, difficilmente
armonizzabile all’interno di strutture legali prevalentemente votate alle materie
civilistiche ed amministrative, e rivolta a soddisfare le esigenze di una clientela
individuale con caratteristiche “particolari”.
Nulla di più sbagliato, non solo da oggi, in questo approccio comunque
datatissimo. La materia penale infatti presenta profili ormai assolutamente invasivi
e, spesso, propedeutici all’analisi non penalistica di una problematica legale
individuale e, a maggior ragione, imprenditoriale.
L’evoluzione socio-economica di una comunità, d’altronde, è rappresentata
anche dal fatto che ai reati “naturali” di lombrosiana memoria, si accompagnino i reati “tecnici” connessi, solo a titolo esemplificativo, alla normativa sulla
responsabilità delle persone giuridiche (L. n. 231/01), agli illeciti societari, fiscali,
ambientali ed in materia di sicurezza delle condizioni di lavoro. Tutte cose che
in un contesto non, o poco, sviluppato appaiono assenti o marginali.
Il diritto penale dell’economia, dunque, in una società sviluppata, deve essere
visto in termini di essenzialità, sia in chiave preventiva e sinergica rispetto alle
strategie generali da attuare in previsione di un’azione economicamente rilevante,
sia, ove si intervenga a posteriori nell’ambito di un processo, in termini difensivi
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presentazione
ove, sempre più spesso, sono richieste al penalista competenze extrapenali e
capacità di lavorare in team con altri esperti, legali e non solo.
Altro aspetto importante di stimolo che questo lavoro intende promuovere, è
l’attenzione imposta ai profili di diritto UE e transnazionali che gli avvocati, anche
penalisti, sempre più debbono considerare decisivi nelle scelte consulenziali o
difensive che sono richiesti di valutare.
La prevalenza del diritto UE opera anche in ambito penale e la non lontana
istituzione della Procura Europea, competente sui reati definibili come “Federali”,
apre prospettive inedite ed estremamente ravvicinate di portata davvero rivoluzionaria.
Da ultimo, stante l’attenzione particolare che ASLA dedica al futuro della professione ed alla sua qualità, non poteva mancare un pensiero rivolto ai laureandi ed
ai giovani avvocati.
Questa è un’opera scritta da avvocati e rivolta agli avvocati. Ma anche e
soprattutto ai giovani dell’ultimo semestre pre-laurea ai quali la recente riforma
dell’Ordinamento professionale consente di utilizzare tale periodo nel computo
dei 18 mesi di pratica effettiva richiesti per essere ammessi a sostenere l’esame
di abilitazione.
Questo semestre è dunque un periodo di confine tra il percorso formativo
universitario, che si conclude, e la realtà concreta del lavoro, che si avvicina. È un
periodo nuovo, complesso e fondamentale, anche in termini culturali e caratteriali,
nel corso del quale testare in anticipo sé stessi di fronte all’imminente momento
del passaggio, per dirla banalmente, dalla teoria alla pratica.
L’opera dunque, nella diversità degli argomenti trattati, ha molti denominatori
comuni che la riconducono ad un fine unitario: offrire al lettore un approccio
professionale a temi penali di grande attualità, tutti caratterizzati dal forte impatto
sul mondo dell’economia e tutti connotati dalla rilevanza, talvolta decisiva, di profili
del diritto UE e transnazionale. Offrire ai giovani laureandi, specie ove interessati
al settore penale, una visione concreta ed innovativa del lavoro che li attende al
di là di stereotipi davvero superati.
Giovanni Lega
Presidente ASLA
Giuseppe M. Giacomini
Coordinatore team penale
economia, UE e transnazionale
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Indice sommario
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Indice sommario
Presentazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
5
»
15
»
25
»
45
»
51
•La lotta alla corruzione nell’UE e la L. n. 190/2012 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . •La normativa anticorruzione negli enti di diritto privato in controllo pubblico . . •Linee guida per la redazione del piano triennale per la prevenzione della
corruzione da parte degli enti di diritto privato in controllo pubblico. . . . . . . . . »
»
65
73
»
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Diritto penale dell’economia,
dell’Unione Europea e transnazionale
➲➲Diritto europeo-CEDU
•L’evoluzione dei rapporti fra le Corti costituzionali nazionali, la Corte di
giustizia ue e la Corte edu dopo i Trattati di Lisbona. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
•La proposta di regolamento del Consiglio ue che istituisce la procura europea
e la proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio ue sugli
illeciti penali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. . . . . . . . . . . . . . . .
•La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sull’ordine europeo di
indagine penale (c.d. Oei). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
•Il rapporto tra la sanzione amministrativa e la sanzione penale alla luce del
principio del ne bis in idem nella giurisprudenza della Corte edu. . . . . . . . . . .
➲➲Pubblica amministrazione
➲➲Compliance
•Corruzione internazionale e D.Lgs. n. 231/2001. Il problema delle sanzioni
interdittive. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
•Reati transnazionali e responsabilità degli enti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
•Il ruolo dell’avvocato nei sistemi di gestione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
•L’applicabilità del D.Lgs. n. 231/2001 agli enti stranieri: modelli equivalenti e
modelli a forma libera. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
•La responsabilità delle persone giuridiche nella normativa statunitense (Foreign
Corrupt Practices Act) e nella normativa italiana (D.Lgs. n. 231/2001), con
riferimento alle procedure di compliance societaria richieste da entrambe le
normative . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 91
» 97
» 103
» 109
» 127
➲➲Sicurezza sul lavoro
•Profili penali in materia di sicurezza sul lavoro a bordo delle navi sulla base del
D.Lgs. n. 271/1999. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . •La figura del “committente” e le relative responsabilità penali in caso di
infortunio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . •Il disastro ambientale: un disastro innominato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 135
» 141
» 147
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indice sommario
➲➲Diritto ambientale
•I reati ambientali e il D.Lgs. n. 231/2001 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . •“End of waste” l’evoluzione della nozione di materia prima secondaria. . . . . . . pag. 157
» 169
➲➲Crisi d’impresa
•Crisi d’impresa e reati tributari: un anno di giurisprudenza apparentemente
contraddittoria della Cassazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 179
➲➲Diritto bancario
•Le nuove disposizioni per il contrasto all’autoriciclaggio: una prima lettura
critica della L. 15 dicembre 2014, n. 186. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . •La tutela contro il market abuse: aspetti sanzionatori amministrativi e penali.
Interventi legislativi e recenti applicazioni giurisprudenziali. . . . . . . . . . . . . . . . » 193
» 199
➲➲Diritto industriale
•La contraffazione delle registrazioni, del disegno e del modello nei prodotti
complessi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 255
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Diritto penale dell’economia,
dell’Unione Europea e transnazionale
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Diritto europeo-CEDU
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L’evoluzione dei rapporti fra le Corti
costituzionali nazionali, la Corte di giustizia
ue e la Corte edu dopo i Trattati di Lisbona
L’adesione dell’UE alla CEDU anche con riferimento al suo Protocollo n. 16
ed ai pareri “pregiudiziali” che le più alte giurisdizioni dei paesi aderenti
potranno chiedere alla Corte EDU.
Gli effetti attuali e potenziali in materia penale.
Sommario: 1. L’adesione dell’Unione Europea alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’Uomo e delle Libertà fondamentali; 2. Il Protocollo n. 16 alla Convenzione per la salvaguardia
dei diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali.
1. L’adesione dell’Unione Europea alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’Uomo e delle Libertà fondamentali
Per meglio valutare la portata degli effetti che il diritto UE e la CEDU, con la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE e della Corte EDU, possono esplicare sul diritto
penale nazionale, pare opportuno qualche cenno sul percorso, non ancora completato,
che condurrà all’adesione dell’Unione Europea alla Convenzione dei diritti dell’Uomo. Tale
percorso coinvolge non solo la fondamentale materia dei rapporti fra la Corte di Giustizia
UE e la Corte EDU e dei potenziali conflitti tra tali massimi organi giurisdizionali, ma
anche il ruolo delle Corti Costituzionali dei singoli Stati membri dell’UE e, fra esse, della
Corte Costituzionale Italiana che, infatti, ha avuto ripetute occasioni di pronunciarsi su
questo “sensibile” tema.
Il dibattito dottrinario dura ormai da oltre trent’anni ma è divenuto di stringente attualità
dopo l’entrata in vigore dei Trattati di Lisbona, il primo dicembre 2009, che ha fornito le
basi legali e le modalità per l’adesione dell’Unione Europea alla CEDU.
Il 26 maggio 2010 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha dato il via alla
procedura conferendo specifico mandato al Comitato in materia di diritti umani che, a
sua volta, ha istituito un gruppo informale di quattordici qualificati giuristi (7 espressione degli Stati membri e 7 espressione di Stati non membri dell’UE), scelti al fine di
elaborare con l’Unione Europea lo strumento giuridico necessario per l’adesione alla
CEDU. Tale gruppo ha sviluppato negoziati con la Commissione Europea e con gli Stati
membri del Consiglio d’Europa (inclusi i ventotto Stati membri dell’UE, prossimamente
29 con la Serbia), raggiungendo nell’aprile 2013 un’intesa su una bozza di adesione. Si
ricorda che la procedura in questione è regolata dal titolo V del TFUE (articoli 216-219)
e prevede che la conclusione dell’accordo venga deliberata dal Consiglio UE con una
decisione all’unanimità, previa approvazione del Parlamento Europeo ed entri quindi in
vigore a seguito dell’approvazione degli Stati membri conformemente alle rispettive norme
costituzionali.
Come detto, il dibattito su questo fondamentale argomento nasce alcuni decenni orsono
e, in proposito, vale la pena di ricordare il parere 2/94 della Corte di Giustizia UE reso il
28 marzo 1996 in materia di “Adesione della Comunità alla Convenzione per la salvaguardia
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”1. In tale occasione la Corte aveva sentito
sia la Commissione sia gli Stati membri (in allora) ed aveva raccolto le loro osservazioni.
Solo al fine di comprendere la complessità di questi meccanismi, valga ricordare che i
Governi Irlandese, del Regno Unito, Danese e Svedese, avevano preliminarmente sostenuto
l’inammissibilità stessa della richiesta di parere che il Consiglio dell’Unione Europea aveva
inoltrato alla Corte di Giustizia. Ciò sulla base del presupposto che l’accordo su cui tale
parere veniva richiesto aveva una natura ipotetica non essendo stati neppure avviati dal
Consiglio medesimo i negoziati per tale accordo.
La Corte aveva innanzitutto rilevato come le osservazioni presentate dagli Stati membri
e dalla Commissione sollevassero due problemi principali, da un lato, quello della capacità
della Comunità di concludere un accordo di tale genere e, dall’altro, quello della compatibilità
dell’accordo medesimo con le disposizioni del Trattato e, in particolare, con quelle relative
alle competenze della Corte.
Ciò detto, richiamata la propria giurisprudenza in materia, la Corte aveva deciso per
l’ammissibilità della richiesta di parere essendo sufficiente che l’oggetto dell’accordo
sottoposto al suo esame fosse conosciuto prima dell’avvio dei negoziati. Cosa che, nella
fattispecie, si era verificata.
La Corte, tuttavia, aveva ritenuto di limitare il contenuto del proprio parere ai
profili relativi alla sola competenza, o meno, della Comunità a concludere un simile
accordo.
Non aveva, al contrario, ritenuto di potersi pronunciare in ordine alla questione della
compatibilità di detto accordo con il Trattato per la ragione che essa non disponeva di
elementi sufficienti circa le modalità con cui la Comunità prevedeva “di assoggettarsi ai
meccanismi di controllo giurisdizionale attuali e futuri istituiti dalla Convenzione”.
Quanto al tema della competenza della Comunità ad aderire alla Convenzione,
dopo aver sviluppato un breve ma stringente iter argomentativo, la Corte si concentrava
sull’art. 235 del Trattato al fine di verificare se esso potesse costituire la base giuridica
dell’adesione, giungendo ad affermare che esso non poteva costituire il fondamento per
ampliare la sfera dei poteri della Comunità specie nell’ipotesi in cui ne potesse derivare
“l’adozione di disposizioni che condurrebbero sostanzialmente, con riguardo alle loro
conseguenze, a una modifica del Trattato che sfugga alla procedura all’uopo prevista nel
Trattato medesimo”.
Le conclusioni venivano indicate ai punti 34, 35 e 36 del parere che testualmente recitano
“34. se il rispetto dei diritti dell’uomo costituisce quindi, un requisito di legittimità degli atti
Comunitari, si deve tuttavia rilevare che l’adesione alla Convenzione determinerebbe una
modificazione sostanziale dell’attuale regime Comunitario di tutela dei diritti dell’uomo, in
quanto comporterebbe l’inserimento della Comunità in un sistema istituzionale internazionale,
nonché l’integrazione del complesso delle disposizioni della Convenzione nell’ordinamento
giuridico Comunitario. 35. una siffatta modifica del regime della tutela dei diritti dell’uomo
nella Comunità, le cui implicazioni istituzionali risulterebbero parimenti fondamentali sia
per la Comunità sia per gli Stati membri, rivestirebbe rilevanza Costituzionale ed esulerebbe
1h t t p : / / c u r i a . e u r o p a . e u / j u r i s / s h o w P d f. j s f ? t e x t = & d o c i d = 9 9 4 9 3 & p a g e I n d e x = 0 & d o c l a n g = I T & m o de=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=1143616
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Diritto europeo-CEDU
quindi, per sua propria natura, dai limiti dell’articolo 235. Essa può essere quindi realizzata
unicamente mediante modifica del Trattato. 36. si deve quindi rilevare che, allo stato attuale del
diritto Comunitario, la Comunità non ha la competenza per aderire alla Convenzione.”
Come sempre la Corte di Giustizia è stata levatrice nell’evoluzione del diritto UE ed
infatti ciò che all’epoca del parere sopra richiamato non era possibile, lo è certamente
divenuto a seguito dell’entrata in vigore dei Trattati di Lisbona ove l’articolo 6 del TUE,
oltre ad incorporare nei Trattati il contenuto della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea del 7 dicembre 2000 ed a chiarire che tali diritti, quando vi sia corrispondenza,
dovranno essere interpretati conformemente alla giurisprudenza della Corte EDU, afferma
che l’Unione aderisce alla CEDU e che i diritti fondamentali da essa garantiti e risultanti
dalla tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione
in quanto principi generali2.
Pur essendovi dunque oggi una chiara e solida base giuridica per l’adesione dell’UE alla
CEDU e pur essendo stato il percorso avviato, resta comunque il fatto che detta adesione
non è ancora avvenuta e che, pertanto, in questa fase, come già accennato, resta aperto e
controverso sia il tema delle competenze in materia di diritti umani in capo alla Corte di
Giustizia e alla Corte EDU, sia il tema dei rapporti fra tali Corti sovranazionali e le Corti
Costituzionali dei Paesi membri.
In questa delicatissima questione sono portato a ritenere che al di là delle possibili,
diverse letture dottrinarie e giurisprudenziali, sia quanto mai opportuno privilegiare una
analisi che permetta di individuare il miglior percorso per rendere del tutto compatibili le
rispettive competenze di questi supremi organi giurisdizionali attraverso una interpretazione
delle norme (nazionali e transnazionali) di riferimento che, ancora una volta, la Corte di
Giustizia ha sinteticamente quanto sapientemente saputo individuare con la sua sentenza
del 24 aprile 2012 in causa C-571/10.3
Per meglio comprenderne la portata è bene ricostruire il percorso attraverso il quale si
è giunti a questa pronuncia. Tenuto conto che la stessa riguarda direttamente la Repubblica
Italiana e nasce dalle famose “sentenze gemelle” 348 e 349 del 2007 rese dalla Corte
Costituzionale4 nonché dalla successiva giurisprudenza della medesima Corte.
Con le sentenze 348 e 349 del 2007, la Corte Costituzionale aveva escluso la possibilità per il giudice nazionale di disapplicare direttamente norme interne in ragione del
loro contrasto con la CEDU e aveva imposto a detto giudice nazionale che ritenesse sussistente un tale contrasto, di sollevare questione di costituzionalità della legge interna per
violazione dell’art. 117, comma 1, della Costituzione. In questo senso la Corte Costituzionale
Italiana ha costantemente difeso il proprio ruolo fondamentale con ripetute successive
pronunce del medesimo tenore. Si vedano sul punto la sentenza 93/2010 in materia di
2Deve comunque essere precisato che il 18 dicembre 2014 la Corte di Giustizia, in seduta plenaria, ha pronunciato il
parere 2/2013. In questo importante documento la Corte ha espresso un’opinione critica sul progetto di accordo sottopostole dalla Commissione sull’adesione dell’Unione Europea alla CEDU (vd. http://curia.europa.eu/juris/document/
document.jsf?text&docid=160882&pageIndex=0&doclang=IT&mode=lst&dir&occ=first&part=1&cid=44441)
3Causa C-571/10 Servet Kamberaj c. Istituto per l’Edilizia sociale della provincia autonoma di Bolzano(IPES) http://
eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:62010CJ0571:IT:HTML
4Sentenza della Corte Costituzionale n. 348/2007 consultabile al sito: http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2007&numero=348
Sentenza della Corte Costituzionale n. 349/2007 consultabile al sito: http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2007&numero=349
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
“giusto processo”5, la sentenza 80/2011 in materia di misure di prevenzione nei confronti
delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità 6 e, da ultimo, la
sentenza 238/2014, davvero significativa, con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’articolo 3 della legge 14 gennaio 2013 numero 5 (adesione della
Repubblica Italiana alla Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali
degli Stati e dei loro beni, firmata a New York il 2 dicembre 2004) nonché dell’articolo 1
della legge 17 agosto 1957, numero 848 (esecuzione dello Statuto delle Nazioni Unite,
firmato a San Francisco il 29 giugno 1945), limitatamente all’esecuzione data all’articolo
94 della Carta delle Nazioni Unite, esclusivamente nella parte in cui obbliga il giudice
italiano ad adeguarsi alla pronuncia della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja (CIG)
del 3 febbraio 2012, che gli aveva imposto di negare la propria giurisdizione in riferimento
ad atti di uno Stato straniero che consistano in crimini di guerra e contro l’umanità, lesivi
di diritti inviolabili della persona7.
In questo delicato contesto, è poi di fondamentale importanza sottolineare che anche la
Corte di Giustizia UE ha avuto modo di pronunciarsi sul tema con la propria sentenza 24
aprile 2012 resa in causa C-571/10 su rinvio pregiudiziale del Tribunale di Bolzano. Il Giudice
nazionale, infatti, evidentemente non convinto del percorso interpretativo sviluppato nelle
sentenze della Corte Costituzionale sopra richiamate precedenti alla sua ordinanza di rinvio
pregiudiziale alla Corte UE, chiedeva sostanzialmente a detta Corte se, in caso di conflitto
fra norma interna e CEDU, il richiamo operato dall’art. 6 TUE alla CEDU imponesse al
Giudice nazionale di dare diretta applicazione all’art. 14 e all’art. 1 del Protocollo aggiuntivo
numero 12, disapplicando la fonte interna incompatibile, senza dovere previamente sollevare
questione di costituzionalità innanzi alla Corte Costituzionale nazionale 8. Ebbene, su tale
questione (la seconda delle sette formulate dal giudice remittente) la Corte di Giustizia ha
affermato che “il rinvio operato dall’articolo 6, paragrafo 3, TUE alla Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4
novembre 1950, non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto
nazionale e detta Convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima,
disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa.”9
Deve dunque prendersi atto che vi è piena armonia fra l’impostazione prescelta e
fortemente sostenuta dalla nostra Corte Costituzionale ed il principio chiaramente espresso
dalla Corte di Giustizia UE.
Tentando di trarre qualche conclusione, si può certamente affermare che il rischio di
sovrapposizione e di potenziali contrasti fra le competenze della Corte EDU, della Corte di
Giustizia UE, delle Corti Costituzionali nazionali (e, perché no, come si è visto, della Corte
Internazionale di Giustizia – CIG – dell’Aja), è divenuto ancor più attuale con l’entrata in
5Sentenza della Corte Costituzionale n. 93/2010 consultabile al sito: http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2010&numero=93
6Sentenza della Corte Costituzionale n. 80/2011 consultabile al sito:
http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2011&numero=80
7Sentenza della Corte Costituzionale n. 238/2014 consultabile al sito:
http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2014&numero=238
8Si veda la nota numero 2.
9Causa C-571/10 Servet Kamberaj c. Istituto per l’Edilizia sociale della provincia autonoma di Bolzano (IPES), punti
59-63.
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Diritto europeo-CEDU
vigore dei Trattati di Lisbona, che hanno modificato i precedenti Trattati Europei, prevedendo
all’articolo 6 TUE che l’Unione riconosce i diritti, le libertà ed i principi sanciti dalla
CEDU che hanno lo stesso valore giuridico dei Trattati e disponendo quindi che l’Unione
“aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali”. Ed ancora che “i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione (Carta di
Nizza) e risultanti dalle tradizioni Costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del
diritto dell’Unione in quanto principi generali”.
In tale premessa, sottolineato ancora che le procedure di adesione dell’UE alla CEDU
sono state avviate ma non sono concluse, va ricordato che taluni giudici nazionali hanno
ritenuto di applicare direttamente la CEDU in Italia, disapplicando le norme nazionali
configgenti. E ciò nonostante le citate pronunce della Corte Costituzionale e della Corte
di Giustizia UE.
Non mancano quindi gli elementi di aleatorietà in questa delicata fase evolutiva e,
proprio per questo, occorre, a mio avviso, privilegiare un percorso interpretativo che possa
pervenire a un sufficiente livello di certezza del diritto per gli operatori della giustizia e
per i cittadini.
Ricapitolando in proposito, occorre innanzitutto sottolineare che, con la nuova
formulazione dell’articolo 6 TUE, la protezione dei diritti fondamentali nell’Unione Europea
deriva oggi da tre fonti normative distinte: la Carta di Nizza che ha lo stesso valore giuridico
dei Trattati; la CEDU che avrà (presto) il medesimo valore giuridico solo in esito all’adesione
da parte dell’UE; i principi generali derivanti dalla CEDU medesima e dalle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri cui appare necessario riferirsi, sia al fine di garantire
un certo grado di elasticità al sistema sia per fare fronte all’incompleta accettazione della
Carta da parte di alcuni Stati membri, così come ha avuto modo di osservare la Corte
Costituzionale nella sentenza 80/2011.
Resta il fatto che finché l’adesione dell’UE alla CEDU non si sarà formalmente
perfezionata, il rapporto tra essa e gli ordinamenti nazionali resta disciplinato da ciascuno
di essi e non dall’ordinamento Comunitario. La circostanza che i diritti fondamentali garantiti
dalla CEDU facciano parte, secondo l’articolo 6 TUE, dell’ordinamento europeo non equivale
infatti ad affermare che le norme CEDU godano dello stesso trattamento giuridico delle norme
Comunitarie, né che la Corte di Giustizia UE sia chiamata a garantirne l’interpretazione e
l’applicazione nello stesso ambito di operatività della Corte EDU.
Ritengo infatti assolutamente corretta la corrente dottrinaria e giurisprudenziale secondo
la quale i principi fondamentali ricavati dalla CEDU rilevano unicamente in rapporto alle
fattispecie cui il diritto Comunitario è applicabile e non anche alle fattispecie regolate
dalla sola normativa nazionale. Quanto poi alla Carta di Nizza è opportuno sottolineare
che essa si applica solo alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del
principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del
diritto dell’Unione. Secondo questa visione, dunque, le disposizioni della CEDU, anche
nell’ipotesi in cui siano richiamate dalla Carta di Nizza, possono trovare applicazione
indiretta solo ed esclusivamente nelle fattispecie in cui rileva il diritto Comunitario e non
già in quelle regolate dal solo diritto nazionale.
Nella prima ipotesi, sarà dunque la Corte di Giustizia a rendere la sua interpretazione,
sia pure conformandosi alla giurisprudenza della Corte EDU sulle questioni sottoposte al
suo esame, nel secondo caso, potrà essere solo la Corte EDU investita dell’interpretazione
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
delle norme CEDU in materia di diritti dell’uomo e libertà fondamentali (attraverso il
ricorso diretto alla Corte EDU da parte dei singoli non esistendo, al momento, in questo
specifico settore, lo strumento del rinvio pregiudiziale interpretativo da parte del Giudice
nazionale). Rimangono in ogni caso ferme le competenze della Corte Costituzionale cui
il Giudice nazionale potrà/dovrà rivolgersi nell’ipotesi in cui una questione attinente i
diritti e le libertà fondamentali (come pure una questione attinente l’adesione ad accordi
internazionali) possa evidenziare un potenziale conflitto fra la norma nazionale (e l’eventuale
accordo internazionale recepito nell’ordinamento interno) ed i principi affermati nella Carta
Costituzionale e/o il loro bilanciamento.
In questo contesto, anche se il tema non attiene direttamente i rapporti e le potenziali
sovrapposizioni di competenza fra le massime giurisdizioni nazionali e quelle europee
e transnazionali, trattandosi di novità di rilievo riguardante i rapporti tra il diritto penale
statuale ed il diritto UE, è anche bene ricordare che dal primo dicembre 2014 è entrato
in vigore il Protocollo numero n.36 al TFUE.
In ragione di esso (art 10) la Commissione Europea potrà, anche in materia penale,
adire la Corte di Giustizia UE contro i singoli Stati per mancata o errata trasposizione nel
loro ordinamento interno delle norme per la cooperazione transnazionale nel settore della
giustizia penale. Ciò in forza dell’art. 258 TFUE il quale prevede che la Commissione
UE, allorché reputi che uno Stato abbia mancato a uno degli obblighi a lui incombenti
in virtù dei Trattati, emetta un parere motivato dopo aver posto detto Stato in condizione
di presentare le sue osservazioni. Ove poi lo Stato non si conformi al parere nel termine
fissato, la Commissione potrà adire la Corte di Giustizia convenendolo di fronte ad essa
(come da abitudine, condizioni di deroga sono previste per il Regno Unito).
2. Il Protocollo n. 16 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e
delle Libertà fondamentali
Una novità di notevole portata è rappresentata dal Protocollo n. 16 alla Convenzione
per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali 10. Tale Protocollo è
stato ad oggi sottoscritto da 14 Stati (Italia inclusa) e richiede una procedura di ratifica.
Quest’ultima procedura, non risulta essere stata perfezionata da nessuno Stato rimarcandosi
che il Protocollo entrerà in vigore solo allorché si sarà perfezionato il decimo strumento
di ratifica.
Come noto e come già è stato sottolineato nella parte che precede, per quanto attiene
l’interpretazione del diritto UE, la medesima è rigorosamente devoluta alla Corte di Giustizia
cui i Giudici nazionali possono/debbono (ove siano Giudici di ultima istanza) rivolgersi
attraverso lo strumento del rinvio pregiudiziale previsto dai Trattati (oggi articolo 267 TFUE).
Al contrario ove sorgano problemi interpretativi in ordine alla CEDU, un tale strumento
non è previsto e il Giudice nazionale non può formulare questioni di natura interpretativa
rivolgendosi alla Corte dei Diritti Umani di Strasburgo che pure è l’unico organo abilitato
all’interpretazione autentica delle norme CEDU. La giurisprudenza della Corte EDU, nella
grande maggioranza dei casi, trae origine dunque dai ricorsi diretti dei cittadini che, una volta
10Protocollo n. 16 alla Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali consultabile
al sito: http://www.echr.coe.int/Documents/Protocol_16_ITA.pdf
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Diritto europeo-CEDU
esperiti tutti i gradi della giurisdizione interna (salvo eccezioni) si rivolgono alla Corte EDU
per lamentare la violazione in loro danno di uno dei diritti che la CEDU garantisce.
Il punto fortemente innovativo introdotto dal Protocollo in esame è esattamente questo:
le più alte giurisdizioni degli Stati contraenti, secondo quanto statuisce l’articolo 1 del
Protocollo, possono infatti rivolgere alla Corte EDU quesiti pregiudiziali formulati nell’ambito
di una causa pendente dinanzi ad esse. I Giudici nazionali nel formulare il/i quesito/i,
dovranno motivare la loro richiesta producendo ogni elemento pertinente che inerisca al
contesto giuridico e fattuale della causa pendente.
Si tratta, all’evidenza, di un fatto davvero “rivoluzionario”, anche se non può ignorarsi
che il quesito rivolto alla Corte EDU prevede che la medesima, con la sua pronuncia,
formuli una sorta di “parere consultivo su questioni di principio relative all’interpretazione
dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai sui Protocolli”.
Tali pareri consultivi debbono essere motivati, dando eventualmente atto delle “dissenting opinions”, e devono essere quindi trasmessi all’autorità giudiziaria che li ha richiesti
ed allo Stato contraente cui tale autorità appartiene.
Resta il fatto che detti pareri consultivi non sono formalmente vincolanti.
Al di là della lettera degli 11 articoli di questo Protocollo, firmato a Strasburgo il 2
ottobre 2013, appare utile una sia pur sintetica disamina del Rapporto esplicativo che lo
accompagna.
Sul piano delle origini storiche vale considerare che il percorso trae origine dal piano
di azione adottato al terzo vertice dei Capi di Stato e di governo degli Stati membri del
Consiglio d’Europa (Varsavia 16-17 maggio 2005) con l’istituzione di un “Gruppo dei
Saggi” incaricato di elaborare un sistema che, al fine di promuovere il dialogo fra le
autorità giudiziarie e di potenziare il ruolo “Costituzionale” della Corte EDU permettesse
alle Corti Costituzionali nazionali ed alle giurisdizioni di ultima istanza di richiedere pareri
non vincolanti alla Corte EDU medesima.
Il lavoro non è stato né breve né semplice e, da ultimo, ha avuto passaggi significativi
con la Conferenza di Smirne (aprile 2011) e con la Conferenza sul futuro della Corte
di Brighton (aprile 2012) ai cui lavori ha direttamente contribuito la Corte EDU con un
dettagliato “Documento di riflessione sulla proposta di estendere la competenza consultiva
della Corte”.
Sulla base delle indicazioni raccolte ed in esito ad un articolato processo di consultazione
si è quindi giunti ad una bozza del 22 marzo 2013 che è stata presentata al Comitato dei
Ministri nella quale sono state individuate: la natura delle Autorità nazionali abilitate a
richiedere il parere consultivo; il tipo di quesiti sui quali la Corte può emettere un tale parere;
la procedura per la valutazione delle richieste, per la delibera in seguito all’accoglimento
delle stesse e per l’emissione di pareri consultivi; l’effetto giuridico di detti pareri rispetto
alle diverse tipologie dei giudizi dai quali la richiesta trae origine.
È stato quindi espresso un Parere del Parlamento Europeo su invito del Comitato dei
Ministri (Parere numero 285/2013) e, quindi, i Delegati dei Ministri hanno deciso di adottare
il progetto che è diventato il Protocollo n. 16 alla Convenzione cui è stato allegato il
Rapporto esplicativo qui in esame.
Vale, a questo punto, tratteggiare i principi fondamentali che si rinvengono nella disamina
dei singoli articoli (o, almeno, dei principali fra essi) cosi come minuziosamente sviluppata
nel Rapporto esplicativo:
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
– la richiesta di Parere è facoltativa e l’autorità giudiziaria che la presenta può ritirarla
in ogni momento;
– per “più alte giurisdizioni” si intendono le Autorità Giudiziarie al vertice del sistema
nazionale con riferimento ad ogni particolare tipologia di cause. Ciò da un lato non significa
necessariamente che dette Autorità siano quelle che soddisfano il requisito dell’esaurimento
delle vie di ricorso interne anche se, tendenzialmente, tale principio deve essere tenuto
presente. Devono anche essere considerati i casi di taluni ordinamenti nazionali ove si prevede
che determinate giurisdizioni abbiano competenza per i procedimenti provenienti da più di
un territorio, con la conseguenza che, a taluno fra essi, la Convenzione potrebbe risultare
astrattamente inapplicabile. In questi casi lo Stato contraente dovrà precisare che esso esclude
l’applicazione del Protocollo ad alcune o a tutte le cause provenienti da tali territori ( ho
voluto sottolinearre questo punto, che certo non riguarda l’Italia, solo per mettere ulteriormente
in chiaro le complessità intrinseche ad ogni regolamentazione sovranazionale che, da un
lato, deve tener conto delle inevitabili differenze dei diversi ordinamenti cui si riferisce e,
dall’altro, deve in qualche misura armonizzare situazioni differenziate individuando nuove
nozioni sovranazionali che possano contenere tutte le diversità);
– possono essere devolute alla Corte solo questioni di principio relative all’interpretazione
e all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi Protocolli.
Tale principio è ispirato dall’articolo 43, paragrafo 2, della Convenzione sul rinvio dinanzi
alla Grande Camera. La Corte potrà decidere di accettare o meno la richiesta;
– la richiesta deve essere presentata rigorosamente nell’ambito di una causa nazionale
pendente non essendo la procedura in questione pensata “per consentire una revisione
in astratto della legislazione che non deve essere applicata nella causa pendente dinanzi
ad essa.”;
– scopo della procedura in questione è quello di garantire il rispetto dei diritti previsti
dalla Convenzione nell’esame della causa pendente davanti all’autorità giudiziaria nazionale
remittente. Quest’ultima deve motivare la sua richiesta di parere, dimostrando di essere in
grado di spiegare le ragioni che l’hanno indotta a farlo;
– le lingue “suggerite” sono l’inglese o il francese, rimanendo tuttavia fermo il diritto di
rivolgersi alla Corte nella lingua ufficiale usata nel procedimento nazionale;
– la Corte ha un margine di discrezionalità nel decidere se accogliere o meno una
richiesta di parere consultivo. In questo senso il vaglio compete ad un collegio di cinque
Giudici della Grande Camera che deve motivare la sua eventuale decisione di rigetto;
– quindi il plenum della Grande Camera che emetterà il parere consultivo;
– questa tipologia di procedimenti deve essere caratterizzata da “alta priorità” tenuto
conto del fatto che ogni ritardo non giustificato determinerebbe automaticamente ritardi nelle
procedure nazionali pendenti davanti ai Giudici del rinvio;
– del Collegio “giudicante” farà parte il Giudice eletto per lo Stato cui appartiene
l’autorità giudiziaria che ha richiesto il parere;
– quest’ultimo Stato e il Commissario per i diritti dell’Uomo del Consiglio d’Europa
hanno dritto di presentare osservazioni scritte e prendere parte attiva alla procedura. Cosi
pure deve ritenersi per le parti del giudizio nazionale dal quale la richiesta di parere
proviene. Non necessariamente nell’ambito della procedura sono tenute udienze pubbliche.
Una tale decisione compete alla Corte ove lo valuti opportuno ed utile;
– deve darsi atto delle opinioni dissenzienti o concordanti dei Giudici;
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Diritto europeo-CEDU
– il fatto che sia stato emesso un parere consultivo non impedisce alle parti della causa
nazionale che vi ha dato origine, di esercitare successivamente il suo diritto a un ricorso
individuale ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione;
– tutti i pareri consultivi emessi dalla Corte debbono essere pubblicati e, pur non
essendo vincolanti e non avendo effetto diretto sugli eventuali successivi ricorsi individuali,
vanno a far parte della giurisprudenza della Corte insieme alle sentenze ed alle decisioni
con effetto analogo a quello riconosciuto ai principi interpretativi stabiliti dalla Corte in
dette sentenze e decisioni.
Vale la pena di sottolineare quest’ultimo profilo poiché dallo stesso potrà, a mio avviso,
trarre spunto per via giurisprudenziale un rafforzamento della portata di questi pareri. È
infatti chiaro che, allo stato, questa tipologia di rinvio pregiudiziale interpretativo ha effetti
assai meno vincolanti di quelli previsti in esito al rinvio pregiudiziale previsto dall’art. 267
TFUE e che tali effetti, formalmente, non hanno un effetto obbligatorio. Tuttavia, non può
esservi dubbio in ordine alla rilevanza delle conseguenze sostanziali;
Pare infatti davvero improbabile che, una volta richiesto motivatamente un tale parere,
il Giudice nazionale remittente decida poi di non tenerne conto nella decisione del caso
da cui il rinvio trae origine. Ciò, a maggior ragione, considerato che tali pareri entrano
a far parte, al pari delle sentenze e delle decisioni, della giurisprudenza della Corte di
Strasburgo.
Conclusivamente dunque, gli operatori del diritto penale devono sempre più orientarsi
verso un approccio europeo e transnazionale anche in questa materia, superando storiche
resistenze che, oggi più che mai, sarebbero anacronistiche e tali da impedire addirittura,
in molti casi, una difesa efficace che tale può essere solo se impostata “a tutto campo”.
Giuseppe M. Giacomini
Conte & Giacomini
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La proposta di regolamento del Consiglio ue
che istituisce la procura europea e la proposta
di direttiva del Parlamento europeo
e del Consiglio ue sugli illeciti penali
che ledono gli interessi finanziari dell’Unione
Sommario: 1.Cenni preliminari sull’evoluzione dei rapporti tra il diritto comunitario e il diritto
penale nazionale; 2. La bozza della proposta di Regolamento del Consiglio UE che istituisce la
Procura europea; 3. La proposta di Direttiva: struttura e analisi (cenni); 4. Conclusioni.
1. Cenni preliminari sull’evoluzione dei rapporti tra il diritto comunitario e il diritto
penale nazionale
I Trattati di Lisbona (TFUE e TUE) hanno indubbiamente impresso uno sviluppo
significativo ai rapporti fra il diritto UE e il diritto penale nazionale. Ed in questo ambito
preliminare deve essere anche considerato il fatto che l’articolo 6 del TUE afferma che
l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata il 13 dicembre 2007 a Strasburgo e
che tale Carta ha lo stesso valore giuridico dei Trattati nel mentre il medesimo articolo
6, al comma secondo, statuisce che l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e che tale Convenzione,
comma 3, unitamente alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte
del diritto dell’Unione in quanto principi generali.
Il processo evolutivo nell’ambito del quale i Trattati di Lisbona rappresentano un passaggio
di notevole forza, appare oggi ancor più significativo per il contesto generale nel quale tale
passaggio si colloca e tenuto conto del fatto che, come noto, il settore penale si è sempre
dimostrato particolarmente impermeabile ad ogni “ingerenza esterna” all’ambito statuale.
Tutti gli osservatori attenti alle tematiche europee sono infatti, in questo ciclo storico,
ben consapevoli che il processo di integrazione europea vive una fase delicatissima ed
assolutamente decisiva e che, conseguentemente, o tale processo evolverà verso il risultato
di un’Europa federale o sarà praticamente impossibile mantenere fermi a lungo gli attuali
assetti caratterizzati da una moneta unica che, mentre crea inevitabili vincoli di convergenza
economica tra i Paesi che vi aderiscono, non è supportata da una governance politica
europea che la guidi nell’ambito di una visione di insieme davvero condivisa a livello
transnazionale.
Ma, restando al tema del diritto penale, mi sembra ragionevole rilevare che, dopo
la sovranità monetaria, essa rappresenta una delle principali espressioni del tradizionale
potere statuale e che, quindi, ogni trasferimento di poteri in questo ambito costituisce un
progresso significativo, anche sul piano culturale, rispetto all’obiettivo di un’Europa federale,
ovviamente, dal punto di vista di coloro che tale obiettivo giudicano apprezzabile.
Inutile nascondersi che la costruzione di un diritto penale armonizzato e la creazione
di una autorità giudiziaria europea in questo campo è e sarà un percorso lungo e non
facile. Basti pensare che esso nasce in epoca davvero lontana e addirittura anteriore alle
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
prime sentenze della Corte di Giustizia che hanno dato luogo alle prime ricadute sul diritto
penale nazionale (si pensi alla sentenza del giugno ’87 “Pretore di Salò”).
Un punto di partenza sistematico può individuarsi infatti nel 1975 quando, l’allora
Presidente francese Valery Giscard d’Estaing, promosse l’idea di avviare il percorso per la
creazione di un diritto penale comunitario. Idea che trovò una prima concreta manifestazione
nel 1995 allorché il Parlamento europeo costituì un gruppo di studio grazie al quale iniziò
a formarsi un vero e proprio “corpus juris” che è stato aggiornato nel corso del tempo e
che, in qualche misura, rappresenta una base giuridica fondamentale per ragionare sui temi
attuali che attengono l’armonizzazione del diritto penale sostanziale e le regole di procedura
che permetteranno la connessione dei diversi sistemi nazionali rendendo così concreta ed
effettiva la gestione processuale dei nuovi “reati federali” che la Procura europea, prevista
dall’articolo 86 del TFUE, dovrà perseguire.
Per contestualizzare l’attuale fase, sembra quindi opportuno richiamare, quanto meno,
i principali passaggi del percorso evolutivo che ci conduce all’oggi.
Innanzitutto, gli Accordi di Schengen, firmati il 14 giugno 1985 e divenuti successivamente parte integrante del Trattato sull’Unione europea di Maastricht del 1992. Come
noto, tali Accordi portarono all’abolizione dei controlli sistematici delle persone alle frontiere
interne dello Spazio Schengen, alla collaborazione fra le diverse forze di polizia con la possibilità di intervento, in alcuni casi, anche oltre i propri confini nazionali, al coordinamento
degli Stati aderenti nella lotta alla criminalità di rilevanza transnazionale e all’integrazione
delle banche dati delle forze di polizia.
Gli Accordi in questione sono stati poi integrati dalla fondamentale Convenzione
sull’applicazione dei medesimi (CAAS, firmata il 19 giugno 1990).
Con i Trattati di Maastricht del 1992 e, in particolare, di Amsterdam del 1997, si è
poi formalmente creato uno “spazio di libertà, sicurezza e giustizia” sul quale si tornerà
brevemente nel prosieguo.
Per intanto, è bene ricordare i Consigli europei di Cardiff del giugno 1998, di Tampere
dell’ottobre 1999 e dell’Aja del marzo 2005.
È dai lavori di questi Consigli che hanno preso l’avvio o tratto elementi di importante
sviluppo i temi del mandato di arresto europeo, degli standard minimi uniformi per
taluni reati di particolare rilevanza, della tutela delle vittime dei reati, del reciproco
riconoscimento delle decisioni penali ivi comprese le ordinanze di natura preliminare
(sequestro probatorio, ecc) e le decisioni in materia di confisca, dell’utilizzo transnazionale
delle prove legalmente acquisite secondo l’ordinamento processuale degli Stati membri, del
potenziamento di EuroPol, già istituita nel 1992, dell’istituzione di EuroJust (28 febbraio
2002), del potenziamento dell’OLAF che era stata istituita con decisione della Commissione 1999/352/CE, CECA, EURATOM del 28 aprile 1999.
Il Consiglio dell’Aja si è fatto poi carico di sviluppare particolarmente i precedenti
programmi nei settori della criminalità transnazionale e del terrorismo nonché in quello
delle frodi comunitarie e dei reati (tra cui la corruzione) che arrechino lesione agli interessi
finanziari dell’Unione.
Opportuno ancora ricordare l’Azione comune sul magistrato di collegamento (96/277/
GAI) e l’Azione comune sulla rete giudiziaria europea (98/428/GAI), nonché i “Libri verdi”
che si sono succeduti negli anni più recenti. Fra essi il Libro verde sugli interessi finanziari
della Comunità e sulla Procura europea (2001-2003).
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diritto europeo - cedu
Ed ancora la Proposta di raccomandazione del 9 febbraio 2005 formulata dal Parlamento
europeo al Consiglio sulla giustizia penale.
In questo contesto introduttivo merita poi, a mio avviso, una particolare menzione
la Decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato di arresto europeo (attuata in Italia con
Legge n. 69/2005) che, in buona sostanza, nell’ambito dell’Unione europea e con alcune
estensioni a Paesi non membri, conduce al tramonto la storica nozione di “estradizione”
sostituendola con quella di “consegna”.
Ne può sottacersi il processo evolutivo che ha caratterizzato il tema, vasto e articolato,
del “giusto processo” in relazione al quale convergono sia il diritto UE, con la sua Carta dei
diritti fondamentali (e quindi la giurisprudenza della Corte di Giustizia del Lussemburgo),
sia il filone giurisprudenziale riconducibile alla Convenzione dei diritti umani (e quindi la
giurisprudenza della Corte EDU di Strasburgo). Su quest’ultimo profilo e sulla sua decisiva
influenza nel campo del diritto penale (sostanziale e processuale) interno mi limito a
ricordare la sentenza n. 113/2011 con la quale la Corte Costituzionale italiana ha affermato
l’illegittimità dell’articolo 630 del c.p.p. nella parte in cui non prevede il caso di revisione
di una pronunzia di condanna per conformarsi a una sentenza della Corte EDU.
Ma, tornando ai Trattati di Maastricht ed Amsterdam, prima di sviluppare brevi cenni
sui vigenti Trattati di Lisbona, occorre sottolineare che gli stessi hanno offerto una vera e
propria svolta normativa all’intervento legislativo europeo negli ordinamenti penali degli
Stati membri.
Con essi prendeva infatti vita il cosiddetto sistema a “tre pilastri”.
Il “primo pilastro” riguardava le Comunità europee ovvero un mercato comune europeo,
l’Unione economica e monetaria e una serie di altre competenze aggiuntesi nel tempo
(ricordiamo qui la ricerca scientifica, il diritto dell’ambiente, il welfare, l’asilo politico,
gli Accordi di Schengen e la politica di immigrazione) oltre la politica del carbone e
dell’acciaio e quella atomica.
Il secondo affrontava la politica estera e di sicurezza comune, ossia la costruzione di
una sola politica dell’Europa in questo ambito nelle sue relazioni sullo scenario globale.
Pur essendo estraneo al tema qui in trattazione, mi sia consentito solo osservare che
questo costituisce uno dei punti su cui è davvero fondamentale ed urgente che il sistema
di governance europea si sviluppi oggi in modo armonioso ma forte.
Il terzo, ovvero la cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale, ha inteso
costruire uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia nel quale esista un reciproco
affidamento a priori sui sistemi penali dei singoli Stati membri ed una sempre più stretta
collaborazione tra loro in ragione delle sfide contro la grande criminalità transnazionale.
Si ricorda, per sottolineare l’inevitabile prudenza che ha sempre caratterizzato i processi
di integrazione europea, che solo il “primo pilastro” era caratterizzato da una procedura di
formazione della legislazione di fonte comunitaria definibile come “metodo comunitario”.
Non così gli altri due, e in particolare il terzo, che lasciavano agli Stati un potere decisionale
prevalente, “metodo interstatale”, nell’iter formativo delle norme capaci di intervenire con
i loro effetti negli ordinamenti penali degli Stati membri. Norme che, tra l’altro, venivano
diversamente denominate rispetto a quelle riconducibili al “primo pilastro”.
Ci si riferisce alle Posizioni comuni, alle Decisioni-quadro, alle Decisioni ed alle
Convenzioni essendo chiaro che solo le Decisioni-quadro per il ravvicinamento delle
disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri nonché le Decisioni per il
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
raggiungimento degli scopi individuati dal Titolo VI del Trattato di Amsterdam, potevano
costituire un vincolo nei confronti degli Stati ma restavano comunque prive di effetto diretto
essendo lasciato ai singoli Stati il compito di darvi attuazione entro una certa scadenza
con libertà di forma e di mezzi. Nulla quindi di paragonabile agli strumenti del “primo
pilastro” con particolare riferimento ai Regolamenti che, come ben noto, sono sempre stati
direttamente applicabili e vincolanti per gli Stati membri.
Da rimarcare anche il fatto che, in materia penale, il rinvio pregiudiziale interpretativo
alla Corte di Giustizia da parte dei giudici nazionali lasciava ogni Stato libero di accettare o
meno la competenza di tale supremo giudice (che tutti gli Stati membri l’abbiano accettato
non muta il fatto che tale accettazione fosse prevista come facoltativa).
Si sottolinea su questo punto che oggi la suddivisione nei “tre pilastri” non esiste più.
Con i Trattati di Lisbona, infatti, le fonti legislative dell’Unione sono per tutti i settori quelle
del “primo pilastro” e quindi, in particolare, i Regolamenti e le Direttive.
Al di là delle limitazioni alla loro portata ed effettività, resta il fatto che le Decisioniquadro previste dal “terzo pilastro” hanno portato a sviluppi di straordinaria importanza.
Per non appesantire il testo, le principali tra esse vengono qui ricordate in calce.1
1Elenco delle principali decisioni-quadro previste dal “terzo pilastro”:
Decisione quadro 2002/465/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa alle squadre investigative comuni.
Decisione quadro 2001/220/GAI del Consiglio, del 15 marzo 2001, relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale;
Decisione quadro 2003/577/GAI del Consiglio, del 22 luglio 2003, relativa all’esecuzione nell’Unione europea dei
provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro probatorio;
Decisione quadro 2001/500/GAI del Consiglio, del 26 giugno 2001, concernente il riciclaggio di denaro, l’individuazione, il rintracciamento, il congelamento o sequestro e la confisca degli strumenti e dei proventi di reato;
Decisione quadro 2005/214/GAI del Consiglio, del 24 febbraio 2005, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie;
Decisione quadro 2004/757/GAI del Consiglio, del 25 ottobre 2004, riguardante la fissazione di norme minime relative
agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti;
Decisione quadro 2004/68/GAI del Consiglio, del 22 dicembre 2003, relativa alla lotta contro lo sfruttamento sessuale
dei bambini e la pornografia infantile;
Decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio, del 22 luglio 2003, sulla lotta contro la corruzione nel settore privato;
Decisione quadro 2002/946/GAI del Consiglio, del 28 novembre 2002, relativa al rafforzamento del quadro penale per
la repressione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali;
Decisione quadro 2002/629/GAI del Consiglio, del 19 luglio 2002, sulla lotta alla tratta degli esseri umani;
Decisione quadro 2002/475/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, sulla lotta contro il terrorismo;
Decisione quadro 2001/413/GAI del Consiglio, del 28 maggio 2001, relativa alla lotta contro le frodi e le falsificazioni
di mezzi di pagamento diversi dai contanti;
Decisione quadro 2001/888/GAI del Consiglio, del 6 dicembre 2001, che modifica la decisione quadro 2000/383/GAI
relativa al rafforzamento della tutela per mezzo di sanzioni penali e altre sanzioni contro la falsificazione di monete
in relazione all’introduzione dell’euro;
Decisione quadro 2003/80/GAI del Consiglio, del 27 gennaio 2003, relativa alla protezione dell’ambiente attraverso il
diritto penale;
Decisione quadro 2005/222/GAI del Consiglio, del 24 febbraio 2005, relativa agli attacchi contro i sistemi di informazione;
Decisione quadro 2009/905/GAI del Consiglio, del 30 novembre 2009, sull’accreditamento dei fornitori di servizi forensi che effettuano attività di laboratorio;
Decisione quadro 2009/829/GAI del Consiglio, del 23 ottobre 2009, sull’applicazione tra gli Stati membri dell’Unione
europea del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni sulle misure alternative alla detenzione cautelare;
Decisione quadro 2009/315/GAI del Consiglio, del 26 febbraio 2009, relativa all’organizzazione e al contenuto degli
scambi fra gli Stati membri di informazioni estratte dal casellario giudiziario;
Decisione quadro 2009/299/GAI del Consiglio del 26 febbraio 2009, che modifica le decisioni quadro 2002/584/GAI,
2005/214/GAI, 2006/783/GAI, 2008/909/GAI e 2008/947/GAI, rafforzando i diritti processuali delle persone e promovendo l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni pronunciate in assenza dell’interessato
al processo;
Decisione quadro 2008/978/GAI del Consiglio, del 18 dicembre 2008, relativa al mandato europeo di ricerca delle
prove diretto all’acquisizione di oggetti, documenti e dati da utilizzare nei procedimenti penali;
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Come ho già peraltro sottolineato nei miei precedenti lavori allo scopo di mettere in
luce la forza evolutiva che l’acquìs comunitario ha in se medesimo, anche a prescindere
dai progressi che faticosamente le istituzioni politiche riescono a imprimere, voglio anche
qui ricordare un particolare passaggio “evolutivo” realizzato dalla Corte di Giustizia.
Talune delle materie affrontate dalle Decisioni-quadro nell’ambito del “terzo pilastro”, erano già state oggetto di Direttive emanate nell’ambito del “primo pilastro” senza
che, pertanto, il legislatore comunitario potesse estendere il proprio intervento alla sfera
penalistica.
Ma questo “dogma” fu messo in discussione dal massimo Giudice europeo con alcune
sentenze di portata straordinariamente evolutiva che anche in questo settore, così come in
molti altri, hanno segnato il percorso dell’integrazione europea.
Nei casi in questione, portati all’attenzione della Corte grazie a ricorsi diretti della
Commissione europea, sostenuta dal Parlamento europeo, contro il Consiglio dell’Unione
europea, sostenuto da numerosi Stati membri, la Commissione europea aveva infatti
sostenuto che dovessero essere annullate talune Decisioni-quadro emanate dal Consiglio nel
presupposto che il contenuto di rilevanza penale di dette Decisioni-quadro fosse finalizzato
a garantire una particolare, indispensabile tutela/effettività in materie che rientravano nella
competenza della Comunità (“primo pilastro”) e che, pertanto, ad avviso della Commissione
dovevano essere regolate nell’ambito delle Direttive anche con riferimento alle disposizioni
di natura squisitamente penalistica.
Si trattava della Decisione-quadro 2003/80/GAI sulla protezione dell’ambiente e della
Decisione-quadro 2005/667/GAI sulla repressione dell’inquinamento provocato dalle navi.
Ebbene con le sentenze 13 settembre 2005 (causa C-176/03) e 23 ottobre 2007 (causa
C-440/05), la Corte di Giustizia, accogliendo la tesi della Commissione, ha annullato tali
Decisioni-quadro affermando il principio che, nelle materie soggette al diritto comunitario
sulla base del “primo pilastro”, ove le sanzioni penali siano necessarie e proporzionate per
garantire l’effettività della tutela, il legislatore comunitario non deve ricorrere agli strumenti
Decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio, del 27 novembre 2008, sulla protezione dei dati personali trattati nell’ambito della cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale;
Decisione quadro 2008/947/GAI, del 27 novembre 2008, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze e alle decisioni di sospensione condizionale in vista della sorveglianza delle misure di sospensione condizionale e delle sanzioni sostitutive;
Decisione quadro 2008/913/GAI, del Consiglio, del 28 novembre 2008, sulla lotta contro talune forme ed espressioni
di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale;
Decisione quadro 2008/909/GAI del Consiglio, del 27 novembre 2008, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai
fini della loro esecuzione nell’Unione europea;
Decisione quadro 2008/841/GAI del Consiglio, del 24 ottobre 2008, relativa alla lotta contro la criminalità organizzata;
Decisione quadro 2008/675/GAI del Consiglio, del 24 luglio 2008, relativa alla considerazione delle decisioni di condanna tra Stati membri dell’Unione europea in occasione di un nuovo procedimento penale (recidiva comunitaria);
Decisione quadro 2006/960/GAI del Consiglio, del 18 dicembre 2006, relativa alla semplificazione dello scambio di
informazioni e intelligence tra le autorità degli Stati membri dell’Unione europea incaricate dell’applicazione della
legge;
Decisione quadro 2006/783/GAI del Consiglio, del 6 ottobre 2006, relativa all’applicazione del principio del reciproco
riconoscimento delle decisioni di confisca;
Decisione quadro 2005/667/GAI del Consiglio, del 12 luglio 2005, intesa a rafforzare la cornice penale per la repressione dell’inquinamento provocato dalle navi;
Decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri. È certamente una delle più note ed è stata attuata in Italia nel 2005.
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legislativi previsti dal “terzo pilastro” ma, essendovi una tassativa competenza di carattere
comunitario, deve provvedere sulla base giuridica offerta dal “primo pilastro”.
Come ho avuto modo di scrivere in precedenti occasioni, l’Europa di Amsterdam era
dunque già sostanzialmente finita prima dei Trattati di Lisbona e la materia penale era già
stata collocata dalla Corte di Giustizia in una posizione di pari dignità.
I Trattati di Lisbona dunque hanno preso atto di uno sviluppo verso il quale la Corte
di Giustizia orientava il percorso ed il TFUE ha abolito, come già detto, la struttura a “tre
pilastri” unificando il meccanismo legislativo.
Quanto poi al rinvio pregiudiziale interpretativo, la base giuridica di riferimento aveva
più volte visto modificarsi la propria numerazione e natura. Dall’articolo 177 del Trattato CEE,
all’articolo 234 del Trattato CE, all’inserimento, con il Trattato di Amsterdam, dell’articolo
35 del Trattato UE che, come più sopra si è già detto, era volto a regolamentare la materia
con specifico riferimento al settore del diritto penale. Oggi, con il TFUE, l’articolo 267 di
tale Trattato regola in materia unitaria ed indifferenziata il fondamentale meccanismo del
rinvio pregiudiziale interpretativo precisando addirittura, al suo ultimo comma, del tutto
nuovo, che quando la Corte è chiamata a pronunciarsi su una questione sollevata davanti
a un organo giurisdizionale nazionale riguardante una persona in stato di detenzione, “la
Corte statuisce il più rapidamente possibile”. La prognosi che la Corte di Giustizia venga
investita di questioni interpretative del diritto UE nell’ambito di procedimenti nazionali
di natura penale è dunque particolarmente evidente ed è anche in questo contesto che
debbono valutarsi la bozza di Regolamento che istituisce la Procura europea e la bozza
di Direttiva sugli illeciti penali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione.
2. La bozza della proposta di Regolamento del Consiglio UE che istituisce la Procura
europea
2.1. L’istituzione della Procura UE, la sua base giuridica e il contesto dei “principi
costituzionali” dell’UE
Prima di analizzare la struttura della bozza di Regolamento (l’ultima è stata licenziata
all’esito del semestre di Presidenza italiana dell’Unione europea, conclusosi il 31 dicembre 2014)
è certamente opportuno, per comprenderne la portata, un qualche approfondimento in ordine
al contesto giuridico nel quale esso si inserisce e dal quale trae la propria legittimazione.
L’istituzione del Procuratore europeo, infatti, rappresenta una novità assolutamente
straordinaria ove si consideri che a questo nuovo Ufficio dell’Unione europea vengono
conferite importanti competenze di natura giurisdizionale nonché, per specifiche ma non
irrilevanti ipotesi di reato, l’esercizio dell’azione penale. Fino ad oggi, valga considerare
che i Trattati attribuivano competenze di natura giurisdizionale alla sola Corte di Giustizia
dell’Unione europea.
Come meglio di me ha avuto modo di chiarire l’Avvocato Enrico Traversa, responsabile
del servizio giuridico della Commissione UE, un tale elemento di novità determina l’esigenza
di dare risposte coerenti a una serie di problemi cui tale novità dà origine.2
2Relazione Avvocato Enrico Traversa all’incontro di studio della Scuola Superiore della Magistratura tenutosi in Genova
il 14 marzo 2014.
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Come noto, una Istituzione dell’Unione europea non può che applicare il solo diritto
europeo. Non potrebbe in nessun caso accadere che una tale Istituzione dia applicazione
a norme di legge nazionali essendo fra l’altro del tutto pacifico il principio di supremazia
del diritto dell’Unione rispetto ai diritti degli Stati membri. In tale premessa è evidente
che ove una norma di legge nazionale diventasse il parametro di legittimità dell’atto di
una Istituzione europea ne deriverebbe, come conseguenza automatica, che una norma
di rango inferiore sovvertirebbe quella di rango superiore e che il principio di supremazia
del diritto dell’Unione verrebbe completamente stravolto.
Ulteriore profilo da considerare è che l’impugnazione degli atti emanati da una Istituzione
europea sulla base del diritto dell’Unione sono soggetti al solo controllo giurisdizionale
della Corte di Giustizia UE così come è previsto dall’articolo 263 TFUE.
A maggior ragione, quindi, un’Istituzione europea non potrebbe fondare i propri atti
sulla base di un diritto nazionale.
Da quanto sopra deriva la conseguenza che, nell’ipotesi in cui si realizzi un tale
trasferimento di competenze dalle autorità nazionali ad una Istituzione europea, si rende
necessario sostituire tutte le legislazioni nazionali coinvolte con un unico Regolamento
(direttamente applicabile) sulla cui base l’Istituzione europea destinataria del trasferimento
di competenze emanerà i propri atti applicativi.
Questa è la ragione per la quale l’atto comunitario di cui stiamo qui parlando verrà
emanato sulla base dell’articolo 86 TFUE il quale testualmente prevede al suo primo comma
che “per combattere i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, il Consiglio
deliberando mediante Regolamenti secondo una procedura legislativa speciale, può istituire
una procura europea a partire da euro just. Il Consiglio delibera all’unanimità, previa
approvazione del Parlamento Europeo”.
Deve quindi fin da subito porsi l’accento sul fatto che, al contrario, per il settore del
diritto penale l’articolo 82 TFUE individua tassativamente gli ambiti nei quali l’intervento
penale è previsto (ammissibilità reciproca delle prove tra gli Stati membri, diritti della
persona nella procedura penale, diritti delle vittime della criminalità, altri specifici elementi
individuati dal Consiglio in via preliminare che il Consiglio stesso decida di adottare con
delibera all’unanimità e previa approvazione del Parlamento europeo).
L’articolo 83 TFUE chiarisce poi che nella materia penale il Parlamento europeo ed il
Consiglio deliberano mediante Direttive (e non mediante Regolamenti) secondo la procedura
legislativa ordinaria e, comunque, solo con riferimento alla definizione dei reati e delle
sanzioni in sfere di criminalità particolarmente gravi che presentano una dimensione
transnazionale (terrorismo, tratta degli esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne e
dei minori, traffico illecito di stupefacenti, traffico illecito di armi, riciclaggio di denaro,
corruzione, contraffazione di mezzi di pagamento, criminalità informatica e criminalità
organizzata).
Questa distonia Regolamento/Direttive determina quale inevitabile effetto, che il
Procuratore europeo svolgerà le proprie importantissime funzioni in un quadro normativo
costituito prevalentemente dal diritto processuale penale non armonizzato dei singoli Stati
membri e da leggi nazionali di recepimento di Direttive emanate dall’Unione.
Ne derivano conseguenze assolutamente inedite sul piano del controllo giurisdizionale
degli atti di questa nuova Istituzione UE poiché essi potranno essere impugnati e quindi
verificati non già dalla Corte di Giustizia UE ma piuttosto dai giudici penali nazionali con
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particolare riferimento alle “misure investigative” previste dall’articolo 26 della bozza di
Regolamento.
Con riferimento ai principi fondamentali che regolano le attività della Procura europea,
l’articolo 11 della bozza, al punto 3, afferma che le indagini e le azioni penali della Procura
europea sono disciplinate dal Regolamento, aggiungendo tuttavia che il diritto nazionale si
applica agli aspetti da esso non disciplinati e che il diritto nazionale applicabile è quello
dello Stato membro in cui si svolge l’indagine o l’azione penale. La norma conclude poi
affermando che qualora un aspetto sia disciplinato dal diritto nazionale e dal Regolamento,
sia quest’ultimo a prevalere ed invero l’articolo 36 della bozza afferma che “quando adotta
atti procedurali nell’esercizio delle sue funzioni, la Procura europea è considerata un’autorità
nazionale ai fini del controllo giurisdizionale”.
Come è stato acutamente osservato dall’Avvocato E. Traversa, il legislatore europeo,
attribuendo il controllo giurisdizionale sugli atti del Procuratore europeo alla competenza
dei giudici degli Stati membri, ha accettato di correre il rischio di vedere gli atti del
Procuratore europeo medesimo soggetti a giurisprudenze differenziate e magari del tutto
divergenti a seconda degli Stati in cui esso svolgerà le proprie indagini e in cui eserciterà
l’azione penale.
In questo ambito, invero, il rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di Giustizia
previsto dall’articolo 267 TFUE avrà una portata piuttosto contenuta e comunque tale da
non poter scongiurare il rischio di cui si è appena accennato. Ed infatti, certamente, non
potranno essere oggetto di rinvio pregiudiziale interpretativo le norme del diritto nazionale
applicabili in virtù del Regolamento, norme in relazione alle quali l’articolo 36 punto 2 della
bozza espressamente recita che “non sono considerate disposizioni del diritto dell’Unione
ai fini dell’articolo 267 del Trattato”.
Potranno, al contrario, essere oggetto di rinvio pregiudiziale interpretativo sia le
disposizioni del Regolamento sulla Procura europea, sia le Direttive di armonizzazione che
saranno emanate sia, ovviamente, le norme del TFUE e della Carta dei diritti fondamentali che
possano apparire rilevanti nell’ambito del percorso procedimentale nazionale cui l’iniziativa
del Procuratore europeo abbia dato luogo.
Solo per questa via si potrà pervenire alla disapplicazione di una norma penale nazionale
ove dalla sentenza della Corte di Giustizia emerga che detta norma nazionale è in contrasto
con la superiore norma di fonte comunitaria rinvenibile nel Trattato, nella Carta dei diritti,
nel Regolamento istitutivo della Procura europea, o in disposizioni di una Direttiva di
armonizzazione che sia stata nel frattempo emanata e sia divenuta applicabile.
Si tornerà sullo specifico punto nella successiva parte dedicata all’esame della bozza
di Direttiva, ma fin d’ora si segnala che ulteriori problematiche connesse ai rapporti fra
il diritto UE e i diritti dei singoli Stati membri si porranno anche sotto questo profilo. La
bozza di Regolamento, infatti, all’articolo 12, prevede che il Procuratore europeo abbia
competenza per i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di cui alla emananda
direttiva quale attuata dal diritto nazionale. Il Procuratore europeo quindi, istituito con un
Regolamento avente per sua natura effetto diretto, immediato e generale sugli ordinamenti
nazionali, si troverà ad intervenire con riferimento a fattispecie di reato definite da una
Direttiva (che in quanto tale deve essere recepita) utilizzando strumenti normativi nazionali
diversi a seconda degli Stati membri nel cui territorio la sua azione andrà concretamente
a svolgersi.
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È dunque assolutamente evidente che il processo di evoluzione di un diritto penale
dell’UE sarà ancora lungo e complesso e comporterà l’esigenza di costruire un modello
“costituzionale” nuovo capace di rappresentare una base giuridica davvero solida ed effettiva
ad un diritto penale (sostanziale e processuale) europeo pienamente armonizzato.
Come è stato chiarito da autorevoli autori la cui tesi mi pare condivisibile, questa
esigenza si manifesta sia sotto un profilo “interno” al diritto stesso dell’Unione che impone
il rispetto dei limiti e dei principi stabiliti dai Trattati e dalla Carta dei diritti, sia sotto un
profilo “esterno” al diritto UE riguardante la trasposizione degli atti legislativi europei
negli ordinamenti interni dei singoli Stati membri chiamati a rispettare da un lato tali atti
legislativi europei, dall’altro le proprie costituzioni nazionali.
E d’altronde, così come recita l’articolo 82.2 TFUE: “L’Unione realizza uno spazio
di libertà, sicurezza e giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi
ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri”. Concetto
ribadito anche dall’articolo 6 TUE ove si individuano quali parametri dell’interpretazione
i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali che risultano dalle tradizioni costituzionali comuni
agli Stati membri.
Quanto alla Carta, non deve poi sottovalutarsi il fatto che, così come dispongono gli
articoli 52 e 53 della medesima, l’interpretazione della stessa non possa/debba discostarsi da
quella della CEDU così come sviluppatasi attraverso la giurisprudenza della Corte EDU. E,
come è facile intendere, anche questo profilo meriterà attenzione con riferimento alla futura
governance del sistema giudiziario europeo di cui la materia penale appare essere l’area
più sensibile alle reciproche interferenze tra i diversi livelli (nazionale, europeo, CEDU).
2.2. Verso una politica penale dell’UE
Come già è stato detto, sotto la vigenza del “terzo pilastro” istituito dal Trattato di
Amsterdam sono state emanate numerose Decisioni-quadro.
Questa legislazione penale europea, superato il regime transitorio, si è trasformata
automaticamente in Direttive il 10 dicembre 2014 così come previsto dall’articolo 10 del
Protocollo numero 36.
Nel frattempo, sotto il regime previsto dal Trattato vigente, sono state emanate due
Direttive in materia penale sostanziale, la prima concernente la prevenzione e la repressione
della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime (Direttiva 2011/36/UE), la seconda
relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia
minorile (Direttiva 2011/92/UE). Anche queste Direttive sono comunque sostanzialmente
sostitutive di due corrispondenti e preesistenti Decisioni-quadro.
Così pure in materia processuale con riferimento all’interpretazione e alla traduzione
nei procedimenti penali (Direttiva 2010/64/UE), al diritto all’informazione nei procedimenti
penali (Direttiva 2012/13/UE), all’istituzione di norme minime in materia di diritti, assistenza
e protezione delle vittime di reato (Direttiva 2012/29/UE). È poi sul tavolo della Commissione
la Direttiva sul diritto al difensore (COMM (2011) 326) destinata a toccare aspetti rilevantissimi fra cui quello della “prova” che nei diversi ordinamenti nazionali viene raccolta con
modalità spesso assai differenziate con particolare riferimento alle garanzie difensive.
È ovvio che in questo quadro grandemente in movimento si inserisce con particolare
forza la bozza di Regolamento oggetto della presente trattazione.
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Da ultimo, e prima di passare all’analisi della struttura di tale bozza di Regolamento,
pare opportuno qualche cenno alla Comunicazione della Commissione al Parlamento
europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle
Regioni denominata: “Verso una politica penale dell’Unione europea: garantire l’efficace
attuazione delle politiche dell’Unione attraverso il diritto penale” (COMM (2011) 573)
del 20 settembre 2011.
In tale importante documento la Commissione, ribadita l’esigenza di osservare i principi
di sussidiarietà, proporzionalità e gli altri principi fondamentali del Trattato, esordisce
sottolineando come alcuni reati particolarmente gravi costituiscano un problema serio per
i cittadini e come il Trattato di Lisbona, per la prima volta, offra una solida base giuridica
per affrontarli a tutto campo.
L’esigenza di armonizzazione si pone sia in relazione alle definizioni, sia in relazione
alla tipologia delle sanzioni che in molti casi restano differenziate nei diversi ordinamenti
nazionali.
Sottolinea la Commissione che: “Norme minime comuni in alcune sfere di criminalità,
sono essenziali anche per rafforzare la fiducia reciproca fra gli Stati membri e fra magistrature nazionali” e come tale premessa possa garantire “l’efficace funzionamento del
principio del riconoscimento reciproco dei provvedimenti giudiziari, caposaldo della cooperazione giudiziaria in materia penale”.
Il Trattato di Lisbona ha poi semplificato il processo legislativo anche in questo ambito,
ha rafforzato il ruolo dei Parlamenti nazionali nell’Unione europea (Protocollo numero 1 e
Protocollo numero 2), ha reso vincolante la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.
Non dimentica la Commissione di ricordare che, peraltro, gli Stati membri possono
chiedere la sospensione della più agile procedura legislativa ordinaria, determinando il
trasferimento della questione al Consiglio, qualora considerino che una proposta legislativa
incida su aspetti fondamentali dei loro ordinamenti giudiziari penali (articolo 82.3 TFUE) e
che, in ogni caso, la Danimarca non partecipa all’adozione di nuove misure di diritto penale
sostanziale mentre il Regno Unito con l’Irlanda prendono parte all’adozione e accettazione
di strumenti specifici solo a seguito di una decisione di partecipare (Opt-in).
Quanto al campo di applicazione del diritto penale dell’Unione, la Commissione ricorda
che l’articolo 83.1 TFUE permette di adottare misure relative ad un elenco di dieci reati
definibili “eurocrimini” il cui novero può essere tuttavia integrato soltanto dal Consiglio
all’unanimità, previa approvazione del Parlamento europeo.
L’articolo 83.2 TFUE autorizza poi il Parlamento europeo e il Consiglio, su proposta
della Commissione, a stabilire “norme minime relative alla definizione dei reati e delle
sanzioni”, allorché il ravvicinamento delle normative nazionali si riveli indispensabile per
garantire l’attuazione efficace di una politica dell’Unione in un settore che è stato oggetto
di misure di armonizzazione.
È dunque in virtù dell’articolo 83.2 TFUE che, ad avviso della Commissione, trova
particolare giustificazione una politica penale dell’Unione europea su cui le Istituzioni
dell’Unione debbono pronunciarsi.
Mi preme qui sottolineare che l’articolo 83 TFUE menziona tassativamente quale
strumento legislativo le Direttive ed osservo che la Commissione, nel suo documento, non
pone un particolare accento su questo punto sul quale si tornerà nel corso della presente
trattazione.
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diritto europeo - cedu
Ciò detto con riferimento ai gravi reati transnazionali, il documento si sofferma quindi sul
fatto che l’articolo 325 TFUE costituisce la specifica base giuridica sulla quale il Parlamento
europeo ed il Consiglio possono legiferare nello specifico settore della prevenzione e della
lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione.
Diversamente da quanto appena detto con riferimento all’articolo 83 TFUE, osservo
che l’articolo 325 non menziona affatto le Direttive quale strumento legislativo ma, molto
più genericamente e, credo, consapevolmente, prevede che l’Unione intervenga “mediante
misure adottate a norma del presente articolo” ed ancora “adottando le misure necessarie”. Come detto, tornerò su questo punto ma fin d’ora mi permetto di osservare che non
parrebbe ostativo per questa ben delimitata tipologia di illeciti l’utilizzo del più efficace e
meno problematico strumento del Regolamento.
Tornando al testo del documento, la Commissione, a questo punto, ravvisa la necessità
di richiamare espressamente l’attenzione, con particolare riferimento alla materia penale, al
generale principio della sussidiarietà specificando che “ciò significa che l’Unione europea
può legiferare solo se l’obbiettivo non può essere conseguito più efficacemente mediante
misure di livello nazionale o regionale e locale, ma può, a motivo della portata o degli
effetti della misura proposta, essere conseguito meglio a livello di Unione”.
La Commissione, del pari, richiama l’attenzione sul fatto che, in ogni caso, il parametro
legislativo penale deve essere fortemente ancorato ai diritti fondamentali garantiti dalla
Carta e dalla CEDU.
Il documento determina, quindi, l’approccio per fasi che il legislatore dell’Unione
dovrebbe seguire in questo settore. Approccio che viene individuato nella seguente
sequenza:
– nella fase 1 si dovrà decidere motivatamente se adottare o meno misure di diritto
penale sulla base del principio di necessità e proporzionalità che inducono a considerare
il diritto penale come strumento di “ultima ratio”;
– nella fase 2, ove superata positivamente la prima fase, si dovrà intervenire
legislativamente con misure concrete che dovranno essere caratterizzate dal fatto di
essere:
– – “norme minime”, secondo quanto previsto dall’art. 83 TFUE che garantiscano
il principio della certezza del diritto attraverso definizioni chiare sia quanto alla definizione
della condotta criminosa, sia in riferimento alla natura ed entità minima della sanzione e
delle circostanze aggravanti e attenuanti;
– – caratterizzate dal rispetto della necessità (“verifica della necessità”) e della
proporzionalità (“le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato”);
– – applicabili solo in presenza di prove fattuali chiare relative alla natura del
reato o dei suoi effetti, nonché alla situazione di discrepanza giuridica che si riscontra al
livello delle legislazioni nazionali degli Stati membri;
– – quanto alle sanzioni, esse dovranno essere adattate ai reati in modo da garantire
il massimo livello di efficacia, proporzionalità e dissuasività valutando, se del caso, misure
accessorie quali la confisca dei beni. Dovrà anche essere attentamente esaminata e decisa
l’ipotesi di estensione della responsabilità, penale o non penale, alle persone giuridiche
ove esse svolgano un ruolo “particolarmente importante come autori di reati”.
La parte terza del documento, individua poi i settori di intervento in cui il diritto penale
dell’Unione potrebbe essere necessario.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
Tali settori si riferiscono tutti ad ambiti armonizzati a livello UE per quanto attiene la
materia ma non ancora dotati di una normativa sanzionatoria UE, di natura penale o amministrativa, che ne garantisca la protezione da parte delle giurisdizioni nazionali. Tali settori
sono innanzitutto quello finanziario (manipolazione del mercato, abuso di informazioni
privilegiate ecc.), la lotta alla frode ed ai danni degli interessi finanziari dell’unione europea,
la tutela dell’Euro contro la contraffazione.
Ciò ribadito la Commissione elenca poi, a titolo esemplificativo, ulteriori campi di
intervento individuando il trasporto su strada, la protezione dei dati personali, la normativa
doganale, la tutela dell’ambiente, la politica della pesca, le politiche del mercato interno
“al fine di contrastare pratiche illegali gravi come la contraffazione e la corruzione o il
conflitto di interessi non dichiarato nell’ambito di appalti pubblici”.
Questa è, conclude la Commissione “la nostra visione per una politica penale dell’Unione
europea coerente e coesa entro il 2020” che ancori le misure di diritto penale “a norme
comuni a tutta l’Unione sui diritti processuali e sui diritti delle vittime, conformemente a
quanto disposto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”.
2.3. La proposta di Regolamento: struttura ed analisi
Veniamo quindi ad una illustrazione del contenuto della bozza della proposta di
Regolamento che il 17 luglio 2013, la Commissione Europea ha depositato e che il Consiglio
dovrebbe emanare ai fini dell’istituzione dell’Ufficio del Procuratore Pubblico Europeo,
definendone le regole (doc. COM (2013) 534 finale).
Lo scopo di questa nuova istituzione Europea è quello di combattere le frodi in danno
degli interessi finanziari dell’UE (il suo budget perde circa 500 milioni di euro all’anno a
causa di tali frodi), che attualmente non possono essere perseguiti dall’Unione Europea
attraverso l’esercizio diretto dell’azione penale che, in via generale, appartiene, fino a oggi, alla
competenza esclusiva degli Stati membri. Tale proposta, come già detto, si basa sull’articolo
86 TFUE, nella parte in cui prevede che il Consiglio, mediante Regolamenti adottati secondo
procedura legislativa speciale, può istituire una Procura Europea la quale individua, persegue
e chiede il rinvio a giudizio degli autori di reati che ledono interessi finanziari dell’UE
esercitando l’azione penale in termini di obbligatorietà (mandatory prosecution).
La competenza di tale Procura è quindi limitata, allo stato, esclusivamente alla tipologia
di reati sopra richiamata. Le singole fattispecie saranno previste dalla Direttiva 2013/XX/UE
(in corso di elaborazione e di cui si farà specifico cenno nel prosieguo), che dovrà essere
attuata dalle legislazioni nazionali dei Paesi UE aderenti al sistema. È peraltro opportuno
sottolineare che sarà possibile un’estensione di questa competenza a ulteriori tipologie di
crimini transfrontalieri previa decisione unanime del Consiglio.
Tornando alla bozza del Regolamento, essendo le frodi contro gli interessi finanziari
dell’UE spesso connesse ad altri reati strumentali/accessori, si sottolinea che l’Ufficio della
Procura Europea potrà essere competente anche per tali reati “nazionali” in quanto essi
siano strettamente connessi alla realizzazione della frode, sotto la condizione che i reati
previsti dalla emananda Direttiva 2013/XX/UE siano da ritenersi preponderanti (secondo
determinati criteri quali: l’impatto di tali reati per gli interessi finanziari della UE, per i
budget nazionali, per il numero delle vittime o per altre circostanze relative alla gravità
dei reati ed alle sanzioni applicabili) e che i reati strumentali/accessori siano basati su
fatti identici.
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diritto europeo - cedu
Per quanto attiene la competenza in relazione ai reati strumentali/accessori, come
già accennato, essa viene attratta dal reato federale principale allorché siano strettamente
connessi con quest’ultimo. La competenza sarà dunque per tutti attribuita alla Procura
Europea. La Procura Europea e le procure nazionali coinvolte si consulteranno quindi per
determinare quale sia, a sua volta, l’autorità locale competente per lo svolgimento concreto
delle indagini coinvolgendo, ove necessario, Eurojust nelle forme previste dal Regolamento
(art. 57). In caso di disaccordo fra la Procura Europea e la procura nazionale in ordine
al perseguimento dei reati strumentali/accessori (ancillary competence), la decisione verrà
assunta dall’autorità giurisdizionale nazionale dello Stato sul cui territorio tali ultimi reati
sono stati commessi. La determinazione della competenza secondo questa procedura è
definitiva e non è soggetta ad alcuna possibilità di gravame/revisione (art. 13).
Quanto alla struttura e all’organizzazione della Procura Europea, l’art. 6 delinea un
impianto centrale ma fortemente decentrato/integrato nei sistemi giudiziari nazionali. Essa
comprende infatti, da un lato, un Procuratore Europeo, quattro Deputies Prosecutors e
lo staff che li aiuta nell’esecuzione delle loro funzioni, dall’altro, i Procuratori Europei
Delegati (Delegated Prosecutors) situati negli Stati membri aderenti al sistema nel numero
di almeno uno per Stato.
In questo senso la Procura Europea è pienamente integrata nei sistemi giudiziari nazionali
e i Procuratori Europei Delegati, pur del tutto indipendenti dalla loro struttura gerarchica
nazionale nell’esercizio di questa specifica funzione che li pone sotto l’esclusiva autorità
del Procuratore Europeo, svolgeranno le indagini e porteranno a giudizio gli accusati
nel rispettivo Stato membro avvalendosi del personale nazionale e applicando le leggi
nazionali. Il Procuratore Europeo garantirà, per parte sua, che i singoli Procuratori Delegati
seguano un approccio uniforme in tutti i paesi secondo i meccanismi procedurali previsti
dal Regolamento.
Nel caso in cui sorga un conflitto fra i compiti nazionali loro affidati e quelli di fonte
federale, i Procuratori Delegati devono informare il Procuratore Europeo che, dopo essersi
consultato con le autorità nazionali coinvolte, può conferire priorità alle funzioni del
Procuratore Delegato derivanti dal presente Regolamento. Non si dimentichi infatti che i
Procuratori Delegati restano inseriti nei loro sistemi nazionali all’interno dei quali continuano
a svolgere le loro ordinarie funzioni.
Quanto al regolamento interno per il funzionamento dell’ufficio della Procura Europea,
esso deve essere adottato tramite una decisione del Procuratore Europeo assunta in seno ad
un organismo collegiale cui partecipano i quattro Deputies Prosecutors e cinque Procuratori
Delegati scelti dal Procuratore Europeo in base a un sistema di rotazione paritaria che
garantisca, a turno, la presenza di tutti gli Stati Membri aderenti al sistema.
Il Procuratore Europeo sarà scelto all’interno di una lista preparata dalla Commissione e deve essere nominato dal Consiglio UE, con il consenso del Parlamento Europeo
per la durata di otto anni non rinnovabili. Se il Procuratore Europeo non soddisfa più le
condizioni richieste per esercitare i suoi doveri o se è stato colpevole di cattiva condotta,
la Corte di Giustizia, a richiesta del Parlamento Europeo, del Consiglio, o della Commissione, può rimuoverlo.
Anche i Deputies Prosecutors, sempre sulla base di una lista preparata dalla Commissione, sono nominati dal Consiglio con il consenso del Parlamento Europeo, durano in
carica otto anni e possono essere rimossi su iniziativa del Procuratore Europeo.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
I Procuratori Delegati sono nominati dal Procuratore Europeo, almeno uno per ciascun
Paese aderente al sistema, nell’ambito di una lista di non meno di tre candidati presentata
da ogni Stato membro interessato. La durata della loro carica è di cinque anni rinnovabili
e possono essere rimossi dal Procuratore Europeo.
I principi fondamentali dell’attività dell’ufficio della Procura Europea impongono il
rispetto dei diritti contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE, nonché l’osservanza
del principio di proporzionalità.
Nell’individuare e nel perseguire i reati di sua competenza, la Procura Europea applicherà
il Regolamento e la legge nazionale dello Stato membro in cui tali attività sono svolte
qualora una questione non sia prevista dal Regolamento. Nel caso poi in cui la questione
sia regolata da entrambi, il Regolamento prevale sulla legge nazionale.
Inoltre la Procura Europea deve condurre le indagini in modo imparziale e cercare tutte
le prove rilevanti, siano esse a carico che a discarico dell’accusato. Le autorità competenti
dello Stato Membro devono assistere e supportare le indagini dell’ufficio della Procura
Europea e devono astenersi da ogni azione, condotta o procedura che possa ritardare o
ostacolare i suoi progressi.
Il Capitolo Terzo del Regolamento detta le procedure relative alle indagini e al successivo giudizio. Per quanto riguarda le indagini tutte le autorità competenti e le istituzioni
degli Stati membri, gli uffici e le agenzie dell’UE e i Procuratori Delegati sono tenuti ad
informare immediatamente l’ufficio della Procura Europea su ogni condotta che costituisce
un reato riconducibile alla sua competenza. Tali informazioni devono essere iscritte e
verificate dal Procuratore Europeo o dal Procuratore Delegato. Nel caso in cui si decida,
a seguito della verifica, di non iniziare le indagini, il caso verrà chiuso/archiviato e le
ragioni saranno annotate nel Sistema di Gestione dei Casi. Nell’ipotesi in cui l’indagine
fosse stata avviata a seguito della segnalazione di uno specifico soggetto, questi dovrà
essere informato dell’archiviazione.
Le indagini devono essere iniziate con decisione scritta, del Procuratore Europeo o del
suo Delegato. Tale decisione deve riportare i motivi ragionevoli per ritenere che il reato di
competenza della Procura Europea sia stato commesso. Quando le indagini sono iniziate
dal Procuratore Europeo, questo assegna il caso a un Delegato salvo che non ritenga di
condurre le indagini egli stesso. Se invece sono iniziate da un Delegato, questo deve
informare immediatamente il Procuratore Europeo, il quale verifica se tali indagini non siano
già state iniziate da lui o da un altro Procuratore Delegato. Nell’interesse dell’indagine, il
Procuratore Europeo può assegnare il caso a un altro Delegato o a se stesso.
Se è richiesta un’azione immediata relativa a un reato che rientra nella competenza della
Procura Europea, le autorità nazionali devono attuare ogni misura d’urgenza necessaria per
assicurare l’effettività delle indagini e dell’azione giudiziaria e informare immediatamente la
Procura Europea, la quale deve confermare tali misure se possibile entro 48 ore dall’inizio
delle sue indagini. In ogni fase delle indagini, ove il caso dia luogo a dubbi in materia di
competenza, la Procura Europea può consultare le autorità nazionali al fine di individuarla.
Mentre la decisione in materia è in corso, l’ufficio della Procura Europea deve prendere le
misure d’urgenza necessarie per assicurare l’effettività delle indagini e dell’azione giudiziaria.
Una volta poi che sia stata decisa la competenza da una determinata autorità nazionale,
questa dovrà confermare tali misure, tassativamente, entro 48 ore dall’inizio delle indagini
nazionali.
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diritto europeo - cedu
Quando la Procura Europea inizia un’indagine, la quale rivela che la condotta
che costituisce reato non rientra nella sua competenza, essa deve riferire il caso senza
ritardo alle autorità giudiziarie nazionali competenti. Al contrario, se le autorità nazionali
iniziano un’indagine, la quale rivela che la condotta che costituisce reato è di competenza
della Procura Europea, queste devono avvertire immediatamente l’ufficio della Procura
Europea.
Le indagini sono condotte dal Procuratore Delegato che è stato designato, sotto l’autorità,
a nome e sulla base di istruzioni del Procuratore Europeo, il quale monitora e assicura il
coordinamento tra Delegati. Il Delegato, a sua volta, può dare ordini relativi alle indagini
alle autorità nello Stato membro nel cui sistema è inserito ed ove tali indagini vengono
eseguite.
Nei casi transfrontalieri, ove taluni provvedimenti istruttori debbano essere eseguiti in uno
Stato membro diverso da quello dove le indagini sono state iniziate, il Procuratore Delegato
che le ha iniziate o a cui sia stato assegnato il caso deve agire in stretta consultazione con
il Delegato dello Stato membro dove i provvedimenti istruttori devono essere eseguiti. In
tali casi transfrontalieri il Procuratore Europeo può associare nelle indagini diversi Delegati
e istituire team congiunti.
Il Procuratore Europeo può inoltre, in base a diversi criteri, ricollocare il caso presso
un altro Procuratore Delegato.
Si segnala che all’art. 26 della bozza di Regolamento sono riportati i provvedimenti
istruttori che l’Ufficio della Procura Europea ha il potere di richiedere ed ordinare.
Quando le indagini sono effettuate direttamente dal Procuratore Europeo, esso deve
informare il Delegato dello Stato membro in cui i provvedimenti istruttori devono essere
eseguiti in collegamento con le autorità dello Stato membro il cui territorio è interessato.
Le misure coercitive personali richieste dalla Procura Europea, arresto e custodia preventiva
cautelare, devono essere decise ed attuate dall’autorità nazionale competente secondo la
legge nazionale dello Stato di esecuzione.
Dal momento in cui un caso è iscritto, l’ufficio della Procura Europea deve poter
ottenere ogni informazione rilevante. Esso può inoltre richiedere informazioni ad Eurojust
ed Europol e richiedere il supporto di Europol.
L’ufficio della Procura Europea esercita la sua competenza all’interno del territorio
dell’UE. Nel caso in cui però un reato di sua competenza sia stato parzialmente o interamente
commesso fuori dal territorio degli Stati membri da uno dei loro cittadini, la Procura Europea
deve cercare di ottenere la cooperazione del Paese Terzo.
Il Procuratore Europeo e i Delegati devono godere dello stesso potere del pubblico
ministero nazionale in relazione agli atti di indagine ed alle modalità previste per portare
il caso a giudizio.
Quando il Delegato ritiene di aver concluso l’indagine, deve presentare al Procuratore
Europeo un riepilogo del caso, l’accusa e la lista delle prove per una supervisione. Il caso
è portato quindi nanti la Corte nazionale competente dal Delegato o dal Procuratore
Europeo, ad essa è presentata l’imputazione e la lista delle prove, le quali devono essere
convalidate dall’organo giudiziario nazionale competente, secondo le regole procedurali
nazionali di riferimento e nel rispetto del Regolamento. Ai giudici nazionali resta quindi
affidato il controllo giurisdizionale. A loro spetta trattare gli eventuali ricorsi contro gli atti
dei Procuratori Europei nonché giudicare e decidere sul caso.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
Il Procuratore Europeo può scegliere, in stretta consultazione con il Procuratore Delegato
che introduce il caso e tenendo presente la corretta amministrazione della giustizia, la
giurisdizione del giudizio e determinare quindi la Corte nazionale competente tenendo
conto dei seguenti criteri:
a) il luogo dove il reato, o in caso di diversi reati, la maggioranza dei reati, è stato
commesso;
b) il luogo dove la persona indagata ha la sua residenza abituale;
c) il luogo dove la prova è situata;
d) il luogo dove le vittime dirette hanno la loro residenza abituale.
Il Procuratore Europeo deve archiviare il caso quando la sua prosecuzione è divenuta
impossibile o nei seguenti casi:
a) morte della persona indagata;
b) la condotta oggetto delle indagini non costituisce reato;
c) amnistia o immunità sono stati concessi all’indagato;
d) scadenza della prescrizione secondo l’ordinamento nazionale;
e) la persona indagata è già stata assolta o condannata per lo stesso fatto all’interno
dell’Unione;
f) è intervenuta una transazione, in base alla quale, dopo che il danno sia stato
compensato, l’Ufficio della Procura Pubblica può proporre alla persona indagata
di pagare una somma forfettaria che, una volta pagata, comporta l’archiviazione
del caso (si tratta di una sorta di “patteggiamento” così come noto all’ordinamento
penale italiano);
g) il reato è un reato minore in base alla legge nazionale che attua la direttiva 2013/
XX/EU, la quale, come ricordato all’inizio, definirà i reati che violano gli interessi
finanziari dell’UE;
h) mancanza di prova rilevante per sostenere l’accusa in giudizio.
Ci si domanda se l’archiviazione ed il patteggiamento/transazione previsti dal
Regolamento non pongano potenziali problemi di coordinamento con gli ordinamenti
nazionali che, come in quello italiano, prevedono che tali istituti non possano essere
decisi dal pubblico ministero ma debbano essere disposti da un giudice sia pure su sua
richiesta.
La proposta di Regolamento, conferisce espressamente alle persone indagate dall’ufficio
della Procura Europea specifici diritti procedurali, ovvero: il diritto all’interpretazione e alla
traduzione, il diritto all’informazione e all’accesso agli elementi di prova, il diritto a farsi
assistere da un avvocato in caso di arresto, il diritto di non rispondere e la presunzione
di innocenza, il diritto al patrocinio a spese dello Stato, il diritto di presentare elementi di
prova e di chiedere l’audizione di testimoni.
Il punto è già stato anticipato nelle parti che precedono quanto ai limiti che caratterizzano,
in questo ambito, il rinvio pregiudiziale interpretativo previsto dall’articolo 267 TFUE. Resta
il fatto che le Corti nazionali hanno la possibilità o, in certi casi, l’obbligo di rinviare alla
Corte di Giustizia questioni pregiudiziali sull’interpretazione o la validità delle norme del
diritto UE di cui, come ovvio, questo Regolamento è parte integrante. In tale elementare
premessa, è bene ribadire e sottolineare come il Regolamento si premura, da un lato di
precisare che le Corti nazionali non possono rinviare alla Corte di Giustizia questioni
pregiudiziali interpretative che riguardino atti posti in essere dalla Procura Europea ove
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essi non siano considerati atti di un organo dell’UE, dall’altro di chiarire come non sia
ipotizzabile il rinvio pregiudiziale in ordine a questioni relative all’interpretazione delle
normative nazionali cui pure il Regolamento faccia espresso riferimento in quanto strumentali
allo svolgimento delle indagini sul territorio dei singoli Stati UE aderenti al sistema.
È previsto infine che la Procura Europea nomini un Ufficio di Protezione Dati, il quale
si assicuri che sia tenuto un registro dei trasferimenti relativi ai dati personali processati
dalla Procura Europea, prepari una relazione annuale e cooperi con lo staff dell’ufficio
della Procura Europea. I dati personali che possono essere processati sono contenuti in un
allegato e riguardano sia gli indagati, sia i testimoni, sia le vittime dei reati per i quali la
Procura è competente. I reclami contro l’Ufficio della Procura Europea, in relazione alla
responsabilità di tale Ufficio per ogni danno causato a una persona in seguito a un non
autorizzato o non corretto uso dei suoi dati, sono sottoposti al vaglio della Corte di Giustizia
ai sensi dell’articolo 268 TFUE, in base al quale la Corte è competente a conoscere delle
controversie relative al risarcimento del danno di cui all’articolo 340 TFUE (l’Unione deve
risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i danni
cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni).
Da ultimo si segnala ancora che la Danimarca, il Regno Unito e l’Irlanda non partecipano
al sistema delineato dal Regolamento, salvo che decidano volontariamente di offrire la loro
collaborazione case by case.
3. La proposta di Direttiva: struttura e analisi (cenni)
La bozza di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio UE è stata presentata
nell’ottobre/dicembre 2012 al JHA Council (il Consiglio UE dei Ministri della Giustizia e
degli Affari Interni).
Consta che il testo trasmesso il 3 giugno 2013 dalla Presidenza del Consiglio al JHA
Council sia stato esaminato dagli Stati membri (che hanno espresso riserve su vari punti)
e che, pertanto, spetti ora al Consiglio UE approvarne l’impianto complessivo in vista dei
negoziati col Parlamento europeo.
La proposta prende le mosse dalla constatazione che le presunte frodi sulle entrate
e sulle spese ammontino a non meno di 600 milioni di Euro all’anno e che, nei diversi
Stati membri, non sussista un livello di tutela equivalente e sufficientemente deterrente,
nonostante l’acquìs dell’Unione già includa la frode, la corruzione e il riciclaggio.
La Convenzione sulla protezione degli interessi finanziari (PIF), introdotta nel 1995, e gli
altri strumenti di diritto penale già esistenti a livello europeo, richiedono un aggiornamento ed
una razionalizzazione alla luce della Comunicazione del settembre 2011 della Commissione, di
cui già si è più sopra parlato, denominata “Verso una politica penale dell’Unione europea”.
Tenuto conto del fatto che il diritto penale rappresenta l’extrema ratio e fermi i
principi di sussidiarietà e proporzionalità, la proposta di Direttiva si fonda, come già detto,
sull’articolo 325.4 del TFUE nel presupposto che esso costituisca la base giuridica affinché
l’UE possa legiferare penalmente in materia di frode e di illeciti ad essa connessi a tutela
dell’interesse primario dei contribuenti europei a che il loro denaro, destinato al bilancio
UE, sia correttamente raccolto e speso.
Si afferma che la Direttiva è infatti lo strumento legislativo adeguato per armonizzare il
diritto penale in questa materia, lasciando agli Stati una certa libertà quanto alle modalità
attuative ed alla possibilità di adottare misure più severe.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
L’articolato inquadra quindi nozioni e fattispecie con particolare riferimento a:
– Definizione degli interessi finanziari dell’Unione;
– Definizione di frode che lede tali interessi;
– Configurazione delle condotte illecite connesse (corruzione attiva e passiva, reiterazione
illecita, riciclaggio connesso a tali tipologie di reato) e della nozione di “funzionario
pubblico” con particolare attenzione alla trasparenza dei bandi di gara pubblici;
– Istigazione, favoreggiamento, concorso e tentativo;
– Responsabilità delle persone giuridiche (loro definizione) che traggano vantaggio
dagli illeciti in questione e tipizzazione delle sanzioni loro applicabili;
– Sanzioni effettive e proporzionate (anche solo di natura amministrativa per le fattispecie
economicamente minori purché non presentino aspetti di particolare gravità) e soglie minime
per le pene detentive quale elemento indispensabile di armonizzazione al fine di garantire
adeguata deterrenza a livello dell’Unione;
– Congelamento e confisca dei proventi e degli strumenti dei reati individuati dalla
direttiva;
– Misure sulla giurisdizione (fra esse il divieto a che, in un ordinamento nazionale, la
giurisdizione sia subordinata all’eventuale querela della vittima e individuazione dell’ipotesi
in cui il reato sia stato commesso via web);
– Durata e interruzione della prescrizione e termine per l’esecuzione della condanna
definitiva;
– Cooperazione fra gli Stati membri e con la Commissione.
Lo spazio accordato in questa sede non consente di entrare in dettaglio nel merito
della bozza di Direttiva, in esame.
Si vuole per altro porre l’accento sul fatto che il testo della medesima appare preciso
e, presumibilmente, tale da indurre un recepimento uniforme nelle legislazioni dei singoli
Stati membri.
Voglio qui richiamare a titolo di esempio la definizione degli interessi finanziari
dell’Unione, individuata all’art. 2, ove si precisa che si intendono per tali tutte le entrate
e le spese che sono “coperte o acquisite oppure dovute” in virtù non solo del bilancio
dell’Unione in senso stretto ma anche dei bilanci delle Istituzioni, Organi ed Organismi
stabiliti a norma dei Trattati “o dei bilanci da questi gestiti e controllati”.
Così pure circostanziata risulta la definizione di “frode che lede l’interesse finanziario
dell’Unione” ove per tale si intende ogni condotta commissiva od omissiva, purché
intenzionale, che, in materia di spese, consista nell’utilizzo o nella presentazione di
dichiarazioni o documenti non solo falsi ma anche solo inesatti o incompleti cui consegua
la percezione o ritenzione illecita di fondi, la mancata comunicazione di un’informazione
cui consegua lo stesso effetto, la distrazione delle spese o passività per finalità diverse da
quelle per le quali erano state autorizzate; in materia di entrate, l’utilizzo o presentazione di
dichiarazione o documenti falsi o anche solo inesatti o incompleti, da cui derivi la diminuzione
illegittima di risorse, la mancata comunicazione di un’informazione cui consegua lo stesso
effetto e così pure la distrazione di un beneficio illecitamente ottenuto.
Del pari, all’articolo 4, appare sufficientemente analitica l’individuazione dei reati
connessi alla frode per le ipotesi di corruzione passiva, corruzione attiva e ritenzione illecita,
caratterizzata quest’ultima dalla destinazione delle risorse ad uno scopo diverso da quello
per esse previsto accompagnata dall’intento di ledere gli interessi finanziari dell’Unione.
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L’articolo 4 si conclude quindi con la definizione della nozione di “funzionario pubblico”
chiarendo che deve ritenersi tale chiunque “eserciti funzioni di pubblico servizio per l’Unione
o negli Stati membri o in Paesi terzi, svolgendo mansioni legislative, amministrative o
giudiziarie” e chiunque, anche al di fuori di tali mansioni, “partecipi alla gestione degli
interessi finanziari dell’Unione o alle decisioni che li riguardano”.
4. Conclusioni
Alla luce delle considerazioni svolte, in particolare al punto 2.1. che precede, vorrei
conclusivamente attirare l’attenzione sul fatto che, in questa fase dell’evoluzione del diritto
penale europeo ed in assenza di una struttura istituzionale e legislativa definibile come
“federale”, risulterà inevitabile convivere con fonti normative di livello diverso.
Come detto, il Procuratore europeo opererà sulla base di un Regolamento, come tale
direttamente applicabile e la cui interpretazione sarà devoluta alla Corte di Giustizia UE,
ma i suoi interventi operativi si esplicheranno all’interno dei singoli Stati membri utilizzando
gli strumenti processuali a loro propri.
Tali atti quindi saranno sottratti all’interpretazione della Corte di Giustizia e ciò potrà dar
luogo a situazioni oltre modo complesse e non chiare specie per il caso in cui l’indagine del
Procuratore europeo abbia a svolgersi sul territorio di diversi Stati membri i cui ordinamenti
processual-penali risultino fortemente differenziati.
Si aggiunga a questo il fatto che, come ovvio, uno strumento processuale non è per
sua natura indifferente a quelli che possono essere i principi di garanzia sanciti dalla Carta
dei diritti e dalla CEDU.
Tale ultimo punto non escludo quindi potrà dare luogo a problematiche interpretative
riferibili a particolari meccanismi processuali di singoli Stati membri che possano rivelarsi
potenzialmente in conflitto con tali principi generali di garanzia determinando quindi
un rinvio pregiudiziale per l’interpretazione della Carta dei diritti con riferimento alla
compatibilità con essa di tali norme processuali. E ciò per non dire delle ipotesi in cui sia
da considerarsi l’accesso alla Corte EDU ove possa ravvisarsi una violazione dei principi
del giusto processo e delle garanzie della difesa.
Ho solo evocato sommariamente questa molteplicità di problematiche per ritornare al
punto che, a mio avviso, permetterebbe quanto meno di semplificarne talune con riferimento
alla sfera di intervento oggi prevista per il Procuratore europeo in relazione ai reati che
ledono gli interessi finanziari dell’Unione, così come individuati all’articolo 325 TFUE.
Ho infatti già posto l’accento sul fatto che, attualmente, non è assolutamente possibile
per l’UE un intervento in materia penale che non sia attuato mediante il solo strumento
della Direttiva. L’articolo 83 TFUE, inserito nel capo IV sulla “cooperazione giudiziaria in
materia penale” è inequivoco sul punto.
Resta il fatto che la particolarissima tipologia di reati dei quali qui abbiamo
sommariamente trattato, è evidentemente destinataria di un regime particolare. Tanto è vero
che, al momento, solo questa tipologia di reati viene devoluta alla competenza della Procura
europea cui è attribuito l’esercizio dell’azione penale sulla base di un Regolamento.
Ribadisco poi che questa evidente particolarità mi sembra emergere anche dalla
circostanza che l’articolo 325 TFUE non indica, quale strumento legislativo dell’Unione,
né il Regolamento né la Direttiva. Esso si limita a suggerire che in questo campo l’Unione
stessa intervenga attraverso “misure”. Per chi abbia una qualche dimestichezza con il diritto
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
europeo appare davvero difficile immaginare che l’utilizzo di una terminologia così generica
sia casuale. Credo piuttosto che essa derivi da una prudenza “politica” che prende atto
delle forti resistenze nazionali in questa materia ma lascia aperta la porta alla possibilità
“tecnica” che tali resistenze vengano nel tempo a stemperarsi.
In questo contesto di ragionamento le Istituzioni comunitarie competenti hanno scelto
di individuare, attraverso lo strumento della Direttiva, gli specialissimi reati che ledono
gli interessi finanziari dell’Unione e che, in quanto tali, rientrano nella competenza
del Procuratore europeo. Si tratta di veri e propri “reati federali” e non mi pare quindi
tecnicamente plausibile (anche se è politicamente comprensibile) che essi siano definiti
attraverso uno strumento normativo che, imponendo il recepimento da parte degli ordinamenti
nazionali, darà certamente luogo a situazioni differenziate con tutte le conseguenze che
ne deriveranno.
Mi permetto di dire che, su questo punto, l’esperienza insegna che la previsione in
ordine a differenziazioni e conflitti interpretativi è solo apparentemente teorica. La casistica
giurisprudenziale mostra che in quasi tutti i casi in cui lo strumento della Direttiva è stato
usato in materia extrapenale, il problema si è posto concretamente.
Non è un problema irrisolvibile a posteriori ma mi domando se, in un settore
particolarmente sensibile quale è quello del diritto penale, non sia il caso di eliminare a priori
ogni complessità procedurale connessa/conseguente alle eventuali diversità di recepimento
ed all’esigenza di interpretazione da parte della Corte UE che ne deriverebbe.
Non vorrei infatti che l’ultimo comma dell’articolo 267 TFUE si trovasse a vivere una fase
di eccessivo successo grazie a un numero rilevantissimo di rinvii pregiudiziali caratterizzati
da procedura accelerata davanti alla Corte di Giustizia in quanto riguardanti una persona
in stato di detenzione.
Ove i reati di cui si tratta fossero individuati e normati attraverso lo strumento del
Regolamento, il che appare tecnicamente possibile, la chiarezza e la certezza del diritto
penale in questo settore ne trarrebbe indubbio giovamento.
Giuseppe M. Giacomini
Conte & Giacomini
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La direttiva del Parlamento europeo
e del Consiglio sull’ordine europeo
di indagine penale (c.d. Oei)
Sommario: 1. Il problema della raccolta transnazionale delle prove; 2. I nuovi principi creati dalla
Direttiva nella raccolta della prova; 3. Il contenuto della Direttiva: profili di criticità; 4. Prospettive
di valutazione e conclusioni.
1. Il problema della raccolta transnazionale delle prove
L’1 maggio 2014 è stata pubblicata nella G.U.U.E. L 130/1 la Direttiva 2014/41/UE del
3 aprile 2014, da recepirsi entro il 22 maggio 2017, relativa ad un inedito “Ordine Europeo
di Indagine penale” che, nelle intenzioni del legislatore europeo, dovrebbe permettere una
rapida ed efficace acquisizione delle prove a livello transnazionale.
Si tratta di uno strumento che, attraverso un dialogo diretto tra le autorità giudiziarie
dello “Stato di emissione” e quelle dello “Stato di esecuzione”, consente l’immediata raccolta
ed utilizzazione della prova, con circoscritti motivi di rifiuto, nello “Stato di emissione” e
ciò sulla base del principio del mutuo riconoscimento.
L’obiettivo è dunque quello di creare un vero e proprio sistema flessibile di libera
circolazione delle prove nei processi penali con la conseguente abrogazione di ogni altro
e diverso strumento già esistente di cooperazione giudiziaria1.
Infatti, la frammentarietà della disciplina in tema di assistenza giudiziaria penale si è
rivelata inadeguata e insoddisfacente, sia per la lentezza e il ritardo nella esecuzione delle
procedure rogatoriali, sia per il limitato ambito di applicazione (pochi gli Stati che via via
vi avevano aderito).
Ad esempio, la Decisione quadro sul blocco dei beni e sul sequestro probatorio era
risultata nella pratica di raro utilizzo poiché, garantendo solo il “blocco” dei beni, doveva
essere integrata con una ulteriore richiesta di trasferimento della prova nello Stato richiedente,
con una lunga e farraginosa disciplina procedimentale.
Ancora, il c.d. MER (mandato europeo di ricerca delle prove) risultava circoscritto
unicamente alle prove già precostituite, mentre per le prove ancora da acquisire – come
le prove dichiarative, le intercettazioni, l’acquisizione di dati bancari – era necessario
utilizzare i tradizionali meccanismi di assistenza giudiziaria.
Ecco che allora l’adozione di questa Direttiva rappresenta una vera e propria inversione
di tendenza che però, in sé, porta il germe di un possibile scardinamento del principio del
contraddittorio immediato tra le parti e dell’esercizio effettivo dei diritti della difesa.
1Si pensi alla esecuzione nella U.E. dei provvedimenti di blocco dei beni o alla esecuzione del sequestro probatorio
(Decisione quadro del Consiglio 2003/577/GAI del 22 luglio 2003); al mandato europeo di ricerca delle prove diretto
alla acquisizione di oggetti, documenti e dati da utilizzare nei procedimenti penali (Decisione quadro del Consiglio
2008/978/GAI del 18 dicembre 2008); alla Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20
aprile 1959 con i protocolli aggiuntivi I e II; alla Convenzione dell’Unione europea di assistenza giudiziaria del 29
maggio 2000 con il protocollo aggiuntivo del 2001.
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2. I nuovi principi creati dalla Direttiva nella raccolta della prova
La Direttiva in esame ha come principale scopo la previsione di traslare una prova da
un ordinamento ad un altro senza che vi possano essere questioni di ammissibilità e di
utilizzabilità nel momento della decisione finale.
L’affermazione di principio è di notevole e indubbio impatto, anche se la Direttiva non
pare porsi, all’interno dell’impianto normativo, alcuna particolare problematica applicativa
con riguardo alle molteplici implicazioni derivanti dalle, a volte profondissime, differenze
tra i vari ordinamenti cui la Direttiva rimanda con il plurimo richiamo al “rispetto delle
tradizioni giuridiche” e alle “garanzie di tutela dei diritti fondamentali” dei singoli Stati
membri.
Se è vero che le norme che disciplinano la ammissibilità della prova sono evidentemente
riservate al diritto interno e che, pertanto, l’Unione europea non può dare istruzioni ai singoli
Stati membri sulla tipologia di prove da ritenersi ammissibili o meno davanti ai Giudici
nazionali, tuttavia, il risultato è quello di aver creato un “sistema di libera circolazione
delle prove” tanto libero da non prevedere parametri o vincoli specifici e concreti cosicché
qualunque prova formata legalmente sulla base della normativa vigente nello “Stato di
emissione” ove è in corso l’indagine penale viene riconosciuta ammissibile in qualunque
altro Stato membro.
La violazione del principio di certezza del diritto con riguardo alla mancata applicazione
delle norme nazionali sulla ammissibilità delle prove appare eclatante, anche perché l’OEI,
rappresentando un unico e rigido strumento di indagine, non distingue affatto tra le varie
tipologie di atti investigativi o tra le diverse fasi procedimentali e processuali, tra mezzi di
prova e mezzi di ricerca della prova, introducendo anche la categoria non omogenea di
alcune attività di polizia quali le operazioni sotto copertura e le consegne controllate.
Un esempio può chiarire meglio il concetto sol che si ponga mente alle abissali differenze,
proprio con riguardo alla acquisizione delle prove, tra un sistema processuale inquisitorio
ed uno accusatorio: ci si devono sicuramente attendere, nel singolo caso concreto, dei
risultati assolutamente contrastanti e dunque ingiusti.
È una vera e propria mutazione genetica delle regole che disciplinano la prova: sono
ora in gioco principi dalla struttura “aperta” a contenuto variabile a seconda del Giudice
chiamato ad applicarli che dovrà bilanciare le varie esigenze nella raccolta delle prove
a livello transnazionale rispetto alla indagine e al processo. Il rischio immediato è quello
che l’autorità giudiziaria ecceda i poteri conferitile, sempre che non si utilizzi, come
elemento di equilibrio, il principio di equivalenza con gli standards di protezione dei
diritti fondamentali evincibili dalla CEDU e dalle singole Costituzioni degli Stati membri,
ma anche il principio di proporzionalità2.
L’unione europea, infatti, non tollera che i diritti fondamentali vengano conculcati
a meno che non si tratti di proteggere eccezionalmente interessi degni di rilevanza, ma
sempre controbilanciati da adeguate garanzie (“… possono essere apportate limitazioni
solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale
riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”).
2 Si
vedano, al riguardo, gli artt. 52 e 53 della Carta di Nizza.
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diritto europeo - cedu
3. Il contenuto della Direttiva: profili di criticità
Ai sensi dell’art. 1 della Direttiva, l’OEI è una decisione giudiziaria, emessa o convalidata
da un’autorità competente di uno Stato membro detto “di emissione”, affinché siano compiuti
uno o più atti di indagine specifici in un altro Stato membro detto “di esecuzione” ai fini
della acquisizione di prove. Tale strumento, sempre secondo l’art. 1, può essere altresì emesso
per ottenere prove già in possesso delle autorità competenti dello “Stato di esecuzione”.
È quindi un nuovo e più agile modello di ricerca e acquisizione della prova applicabile
a qualsiasi atto di indagine, fatta eccezione, come statuisce l’art. 3, per “il materiale raccolto
dalle squadre investigative comuni”.
L’allegato A alla Direttiva prevede un modello unico di emissione dell’OEI che dovrà
essere utilizzato da un organo giurisdizionale o da un magistrato inquirente ovvero, dovrà
essere necessariamente “convalidato” da questi ultimi prima della trasmissione all’autorità
di esecuzione, qualora sia stato disposto da altra autorità (vedi art. 2).
La vera novità di questa particolare disciplina è però rappresentata dalla previsione
contenuta nell’art. 1 § 3 secondo cui “l’emissione di un OEI può essere richiesta anche
dalla persona sottoposta alle indagini o dall’imputato, nonché dal difensore di questi ultimi,
nel quadro dei diritti della difesa applicabili conformemente al diritto e alla procedura
penale nazionale”. Tuttavia, non v’è chi non veda come vi potranno essere delle disparità
di trattamento nel caso in cui l’ordinamento nazionale non preveda o non riconosca la
possibilità per la difesa di svolgere indagini difensive o queste siano previste solo per
determinati atti o limitate a una specifica fase procedimentale o processuale. Ciò creerà, in
presenza di uguali condizioni di emissione e di successiva esecuzione dell’OEI, delle evidenti
disparità di trattamento. Peraltro, la richiesta di OEI da parte dell’indagato o imputato o del
suo difensore non è stata regolamentata dalla Direttiva e dunque le modalità della citata
richiesta dovranno essere oggetto di apposita previsione da parte dei singoli ordinamenti
interni con riguardo sia alla autorità giudiziaria che dovrà decidere sulla richiesta, sia sui
mezzi di impugnazione attivabili in caso di rigetto. Il rischio è che tale riconoscimento a
favore della difesa finisca con l’essere puramente formale, senza una dimensione che ne
garantisca effettività e certezza.
L’art. 4, nell’elencare i “tipi di procedimento per i quali può essere emesso un OEI”, oltre
a un “procedimento penale avviato da un’autorità giudiziaria o che può essere promosso
davanti alla stessa, relativamente a un illecito penale ai sensi del diritto nazionale dello Stato
di emissione”, prevede pure il caso del “procedimento avviato dalle autorità amministrative
in relazione a fatti punibili in base al diritto nazionale dello Stato di emissione in quanto
violazioni di norme giuridiche, quando la decisione può dar luogo a un procedimento
davanti a un organo giurisdizionale competente, segnatamente, in materia penale” oppure
con riguardo a fatti punibili in base al diritto nazionale dello “Stato di emissione” in quanto
violazioni di norme giuridiche non meglio specificate. La portata della disposizione è vasta
dato che potrebbero rientrarvi, facendo l’esempio dell’ordinamento giuridico italiano, le
procedure di accertamento dello Spisal, dell’Agenzia delle Entrate, della Dogana.
Ai sensi del successivo art. 6, poi, l’autorità di emissione può emettere un OEI solamente
quando ritiene soddisfatte alcune condizioni: quando l’emissione dell’OEI è necessaria e
proporzionata ai fini del procedimento, tenendo conto dei diritti della persona sottoposta
ad indagini o imputata e quando l’atto o gli atti di indagine richiesti nell’OEI avrebbero
potuto essere emessi alle stesse condizioni in un caso interno analogo.
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L’OEI viene quindi trasmesso dall’autorità di emissione a quella di esecuzione “con ogni
mezzo che consenta di conservare una traccia scritta e che permetta allo Stato di esecuzione
di stabilirne l’autenticità” (vedi art. 7). A tal fine, sarà possibile avvalersi della Rete giudiziaria
europea, di Eurojust, di Europol o di altri canali istituzionali internazionali.
Ogni ulteriore comunicazione ufficiale è veicolata direttamente tra l’autorità di emissione
e quella di esecuzione, tenute anche a risolvere, attraverso contatti diretti, le problematiche
connesse alla trasmissione o alla esecuzione dell’OEI. Proprio questi contatti diretti tra
autorità non paiono tener conto dei correlativi diritti all’informazione nei procedimenti
penali spettanti all’indagato sulla base della Direttiva 2012/13/UE e sarebbe invece stato
sommamente opportuno farvi espresso riferimento.
Nell’allegato B alla Direttiva vi è il modulo che l’autorità competente dello Stato di
esecuzione deve compilare, senza ritardo e comunque entro una settimana dalla ricezione,
quale comunicazione di ricevuta dell’OEI.
A questo punto, il riconoscimento e l’esecuzione dell’OEI avvengono senza alcuna
ulteriore formalità dato che, ai sensi dell’art. 9, l’autorità dello “Stato di esecuzione”
deve adottare immediatamente tutte le misure necessarie, “secondo le stesse modalità che
sarebbero osservate qualora l’atto di indagine fosse stato disposto da un’autorità dello Stato
di esecuzione”, a meno che quest’ultima non adduca uno dei “motivi di non riconoscimento
o di non esecuzione” tassativamente elencati dall’art. 11 (qualora la legislazione dello Stato
di esecuzione preveda immunità o privilegi che rendano impossibile l’esecuzione dell’OEI,
ovvero norme sulla determinazione e limitazione della responsabilità penale relative alla
libertà di stampa e alla libertà di espressione in altri mezzi di comunicazione; quando
l’esecuzione dell’OEI leda interessi essenziali di sicurezza nazionale o metta in pericolo
la fonte delle informazioni o comporti l’uso di informazioni classificate riguardanti attività
di intelligence specifiche).
L’art. 12 prevede che la tempistica debba avere caratteristiche di “celerità e priorità”
analoghe a quelle usate in un caso interno. Più precisamente, la decisione sul riconoscimento
o sull’esecuzione dell’OEI viene adottata “il più rapidamente possibile e comunque entro 30
giorni, eventualmente prorogabili per ulteriori 30 giorni, previa informativa all’autorità emittente,
tenendo conto delle specifiche esigenze eventualmente indicate da quest’ultima”.
L’autorità di esecuzione deve compiere l’atto di indagine richiesto senza indugio e
comunque entro 90 giorni dall’adozione della decisione, trasferendolo infine all’autorità
di emissione “senza indebito ritardo” o immediatamente, se richiesto nell’OEI e consentito
dalla legislazione dello “Stato di esecuzione” (vedi art. 13).
L’art. 10 prevede una interessante clausola di salvezza poiché se l’atto di indagine
richiesto nell’OEI non è previsto dall’ordinamento giuridico dello Stato di esecuzione oppure
non sia disponibile in un caso interno analogo, “l’autorità di esecuzione dispone, ove possibile, un atto di indagine alternativo”.
Tuttavia, il § 2 del medesimo art. 10 non consente la possibilità di disporre l’atto
alternativo quando si tratti della acquisizione di alcuni specifici atti di indagine che
“devono sempre essere disponibili in base al diritto dello Stato membro di esecuzione”.
Ad esempio, l’acquisizione di informazioni o prove che sono già in possesso dell’autorità
di esecuzione; l’acquisizione di informazioni contenute in banche dati della polizia o delle
autorità giudiziarie; l’audizione di un testimone, di un esperto, di una vittima, di una persona
sottoposta ad indagini o di un imputato o di terzi che si trovino sul territorio dello Stato di
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esecuzione; atti di indagine non coercitivi definiti dal diritto dello “Stato di esecuzione”;
l’individuazione di persone titolari di un abbonamento a un ben preciso numero telefonico
o indirizzo IP. Si tratta di categorie di atti talmente vaste che solo raramente sarà consentito
allo “Stato di esecuzione” di sottrarsi all’obbligo di dare corso alla richiesta di OEI così
come è stata formulata.
Il § 3 del citato art. 10, infine, prevede che l’autorità di esecuzione può anche “ricorrere
ad un atto d’indagine diverso da quello richiesto nell’OEI quando l’atto scelto dall’autorità di
esecuzione assicuri lo stesso risultato dell’atto richiesto nell’OEI con mezzi meno invasivi”,
disposizione questa assolutamente condivisibile.
Nella procedura diretta ad acquisire la prova deve essere comunque assicurata “la
riservatezza dell’indagine” (vedi art. 19) e il rispetto dei diritti fondamentali e dei principi
sanciti dall’art. 6 del T.U.E., compresi, naturalmente i diritti della difesa delle persone
sottoposte ad indagine.
Disposizioni particolari sono previste agli artt. da 22 a 29 per determinati atti di indagine
che richiedano il trasferimento temporaneo di persone detenute, l’audizione mediante
video o teleconferenza, l’acquisizione di informazioni su conti od operazioni bancarie, le
consegne controllate o le operazioni di infiltrazione.
Gli artt. 30 e 31 dispongono che è possibile ricorrere all’OEI per le operazioni di
intercettazione di comunicazioni. In siffatta evenienza, l’OEI deve contenere le informazioni
necessarie ai fini della identificazione della persona sottoposta alla intercettazione, la
durata auspicata dell’intercettazione, sufficienti dati tecnici, in particolare gli elementi
di identificazione dell’obiettivo, per assicurare che l’OEI possa essere eseguito. Desta
preoccupazione che nel testo di tali articoli non sia stata prevista una durata massima per
l’attività di intercettazione o, in alternativa, il controllo dell’autorità giudiziaria sulla necessità di prolungarla. Così pure nessuna indicazione sulla autorità competente ad autorizzare
le intercettazioni, sulla tipologia di provvedimento autorizzativo, sui mezzi di impugnazione
a disposizione dell’indagato ai fini del controllo della legittimità dell’attività intercettativa.
Si tratta di una omissione che si auspica venga colmata in sede di attuazione, e ciò in
considerazione della particolare e rilevante intrusività di tale mezzo di prova, anche al fine
di evitare arbitrarie interferenze nella vita privata della persona sottoposta ad indagini.
Quanto alle impugnazioni, gli Stati membri devono garantire ad ogni soggetto interessato
la facoltà di attivare nei confronti dell’OEI gli stessi mezzi di impugnazione resi disponibili
dalla legislazione interna avverso un atto di indagine analogo a quello richiesto, mentre le
ragioni attinenti al merito dell’OEI possono essere fatte valere solamente con impugnazione
presentata nello “Stato di emissione”, fatte sempre salve le garanzie dei diritti fondamentali
nello “Stato di esecuzione” (vedi art. 14).
Certo non va sottaciuto che vi potranno essere delle difficoltà pratiche ad accedere
a strumenti giuridici propri di una autorità giudiziaria diversa da quella interna e in una
lingua potenzialmente sconosciuta. Inoltre, non sono previste garanzie e tutele per i terzi
che possano essere indirettamente oggetto di indagine, di ricerche, di intercettazione o di
perquisizione.
L’art. 21, con riguardo ai costi connessi all’esecuzione dell’OEI, statuisce che lo “Stato
di esecuzione” deve sopportarli tutti, salvo che questi siano eccezionalmente elevati. In tal
caso l’autorità di esecuzione può consultare quella di emissione sulla possibilità e sulle
modalità di condivisione delle spese o di modifica dell’OEI.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
4. Prospettive di valutazione e conclusioni
In definitiva, è agevole affermare che il percorso verso un comune diritto europeo delle
prove penali è periglioso e difficile, con evidenti criticità non così semplici da superare
e che dovranno essere tenute in considerazione nel momento in cui si dovrà elaborare la
normativa interna di attuazione dell’OEI.
Il difetto più evidente nell’impianto della direttiva è quello della mancata previsione
di regole comuni di acquisizione ed utilizzazione delle prove, come invece auspicato nel
“Green Book” (COM(2009) 624 dell’11 novembre 2009) sulla ricerca della prova in materia
penale tra Stati membri e sulla garanzia della loro ammissibilità.
Ancora, non sono previste adeguate garanzie di tutela delle prerogative defensionali
della persona sottoposta ad indagini e ciò in favore delle autorità giudiziarie dello “Stato
di emissione” che potranno acquisire i risultati dell’OEI senza particolari difficoltà.
Il rinvio che si legge nel “considerando” n. 15 alle tre Direttive sulle garanzie processuali
dell’indagato e dell’imputato3 non è certo sufficiente a sventare il pericolo di derive non garantiste
senza la previsione di specifiche modalità di esercizio di tali diritti in relazione all’OEI.
Paola Rubini
Studio Ghedini – Longo
3Si fa riferimento alla Direttiva 2010/64/UE del 20 ottobre 2010 sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali; alla Direttiva 2012/13/UE del 22 maggio 2012 sul diritto all’informazione nei procedimenti penali e
alla Direttiva 2013/48/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 ottobre 2013 relativa al diritto ad avvalersi
di un difensore.
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Il rapporto tra la sanzione amministrativa
e la sanzione penale alla luce del principio
del ne bis in idem nella giurisprudenza
della Corte edu
Sommario: 1. Premessa; 2. Sanzione penale e sanzione amministrativa; 3. Il criterio sostanzialistico
della Corte di Strasburgo. Gli Engel criteria; 4. L’identità dei fatti concreti all’origine del procedimento
amministrativo e del processo penale; 5. Il ne bis in idem e la normativa tributaria; La giurisprudenza della Corte di Strasburgo: 5.1. Il ne bis in idem e il sistema del doppio binario tributario.
Problemi applicativi; 6. Conclusioni.
1. Premessa
L’art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo sancisce il divieto di
perseguire o giudicare una persona per un secondo “reato” quando quest’ultimo scaturisca
dal medesimo fatto contestato nel primo (“1. Nessuno può essere perseguito o condannato
penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto
o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura
penale di tale Stato. 2. Le disposizioni del paragrafo precedente non impediscono la riapertura
del processo, conformemente alla legge e alla procedura penale dello Stato interessato, se
fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura antecedente
sono in grado di inficiare la sentenza intervenuta. 3. Non è autorizzata alcuna deroga al
presente articolo ai sensi dell’articolo 15 della Convenzione.»”).
Del principio sancito da tale norma (“ne bis in idem”), la Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo si è occupata in diverse pronunce1 allo scopo di individuarne la portata applicativa
anche per le sanzioni amministrative di natura afflittiva.
Alla luce dell’interpretazione prospettata dalla Corte di Strasburgo, infatti, la possibile
violazione del “ne bis in idem” si presenta anche nelle ipotesi in cui l’ordinamento interno
preveda, a fronte di una condotta sostanzialmente identica, l’irrogazione di una sanzione
penale e di una sanzione formalmente amministrativa ma di natura afflittiva.
1Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi; Corte europea dei diritti dell’uomo 4
marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia; Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 20 maggio 2014 Nikänen c. Finlan‑
dia.
Si evidenzia, altresì, che, in materia di abusi di mercato, la Corte di Strasburgo è stata preceduta dalla Corte di Lussemburgo. La Corte di giustizia dell’Unione Europea, difatti, già nel 2009 aveva sostenuto la natura sostanzialmente
penale delle sanzioni formalmente amministrative previste dagli Stati membri per il market abuse in attuazione della
direttiva 2003/6/CE. Le deduzioni cui era pervenuta la Corte di giustizia poggiavano sulla verifica della sostanziale
natura della sanzione amministrativa e sul grado di severità delle stesse (Corte di giustizia, 23 dicembre 2009, causa C-45/08, Spector Photo Group NV e altri: «È vero che l’art. 14, n. 1, della direttiva 2003/6 non impone agli Stati
membri di prevedere sanzioni penali nei confronti degli autori di abusi di informazioni privilegiate, ma si limita ad
affermare che tali Stati sono tenuti a garantire che “possano essere adottate le opportune misure amministrative o
irrogate le opportune sanzioni amministrative a carico delle persone responsabili del mancato rispetto delle disposi‑
zioni adottate in attuazione di [tale] direttiva”, essendo gli Stati membri, inoltre, tenuti a garantire che queste misure
siano «efficaci, proporzionate e dissuasive». Tuttavia, considerata la natura delle violazioni di cui trattasi, nonché
dato il grado di severità delle sanzioni che esse possono comportare, siffatte sanzioni, ai fini dell’applicazione della
CEDU, possono essere qualificate come sanzioni penali (v., per analogia, sentenza 8 luglio 1999, causa C‑199/92 P,
Hüls/Commissione, Racc. pag. I‑4287, punto 150, nonché sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo 8 giugno
1976, Engel e altri c. Paesi Bassi, serie A n. 22, par. 82; 21 febbraio 1984, Öztürk c. Germania, serie A n. 73, par. 53,
e 25 agosto 1987, Lutz c. Germania, serie A n. 123, par. 54.»).
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
Ma non solo. Detta garanzia deve operare anche sul piano procedimentale (“ne bis
in idem processuale”). Ne consegue il divieto di perseguire o giudicare un soggetto dopo
che, per il medesimo fatto illecito, lo stesso sia stato sottoposto a diverso procedimento
già concluso con decisione passata in giudicato.
In particolare, i giudici di Strasburgo hanno sostenuto che la contemporanea
celebrazione di due distinti procedimenti è compatibile con la Convenzione a condizione
che quello incardinato per secondo venga interrotto nel momento in cui il primo divenga
definitivo2.
Le deduzioni ermeneutiche della Corte EDU hanno tratto spunto da una vicenda
(già richiamata ed ampiamente trattata nel corpo del presente lavoro 3) che ha portato
all’emanazione della cd. sentenza Grande Stevens.
Sul punto, la Corte di Strasburgo ha chiarito che il rispetto della predetta garanzia
convenzionale va verificato in relazione alla natura (sostanzialmente) penale di una sanzione,
indipendentemente dalla qualificazione formale con la quale la stessa è contraddistinta nel
diritto interno. Qualora la sanzione “amministrativa” applicata rilevi una natura repressiva
– afflittiva, la sanzione penale scaturente da un successivo procedimento per la medesima
condotta non può trovare applicazione, pena la violazione del principio del ne bis in
idem.
2. Sanzione penale e sanzione amministrativa
Il ragionamento della Corte EDU muove dalla normativa dettata dal Legislatore italiano
in materia di abusi di mercato. Il richiamo è dato dagli artt. 185 e 187 ter del D.Lgs. n.
58/1998 (T.U.I.F.), di seguito riportati:
Art. 185: “Chiunque diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate o altri
artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti
finanziari, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro ventimila
a euro cinque milioni.
2. Il giudice può aumentare la multa fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci
volte il prodotto o il profitto conseguito dal reato quando, per la rilevante offensività del fatto,
per le qualità personali del colpevole o per l’entità del prodotto o del profitto conseguito
dal reato, essa appare inadeguata anche se applicata nel massimo.”
Art. 187 ter, comma 1: “Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, è
punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro ventimila a euro cinque milioni
chiunque, tramite mezzi di informazione, compreso internet o ogni altro mezzo, diffonde
informazioni, voci o notizie false o fuorvianti che forniscano o siano suscettibili di fornire
indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti finanziari”.
Quid iuris, dunque, nell’ipotesi di concorso, per uno stesso comportamento, di una
norma penale e di altra amministrativa?
2Tanto si desume dal § 223 della sentenza Corte EDU 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia. A. GIOVANNINI,
Il ne bis in idem pe la Corte EDU e il sistema sanzionatorio tributario domestico in Rassegna Tributaria 5/2014:
l’autore sottolinea come questa lettura “allargata” del ne bis in idem espressa nella richiamata sentenza della Corte
di Strasburgo sia ripresa, con riguardo alla materia tributaria, nella sentenza Corte EDU 20 maggio 2014, Nikanen c.
Finlandia.
3Area 1: Avv.ti CASTAGNOLA e VISCO, “La tutela contro il market abuse: aspetti sanzionatori, amministrativi e penali.
Interventi legislativi e recenti applicazioni giurisprudenziali”.
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diritto europeo - cedu
Il rischio, per niente infrequente nella prassi, è che una medesima condotta illecita,
rilevante sia sul piano penale che su quello amministrativo, veda concorrere entrambe le
disposizioni, con conseguente cumulo delle rispettive sanzioni [in deroga al principio di
specialità sancito dall’art. 9, L. 24 novembre 1981, n. 689 (“Quando uno stesso fatto è
punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative,
si applica la disposizione speciale”) e palese violazione del ne bis in idem sostanziale e
processuale.
In realtà, il predetto assetto normativo, in un’ottica “efficientista” del sistema, vuole
“colpire prontamente i responsabili degli abusi di mercato con un robusto pacchetto di
sanzioni, applicate con il più snello procedimento amministrativo (gestito dall’Autorità di
vigilanza di settore) e connotate tendenzialmente da un maggior grado di indefettibilità (perché
sottratte a meccanismi inibitori sul piano esecutivo, quale la sospensione condizionale),
lasciando, poi, al processo penale il compito di “rincarare”, lento pede, la dose”4.
Benchè la scelta legislativa possa essere funzionale al perseguimento di tale finalità,
la stessa genera fondati dubbi di compatibilità tra la normativa nazionale e la normativa
convenzionale in tutte le ipotesi in cui vige il sistema del doppio binario, con il conseguente
problema degli effetti delle sentenze rese dalla Corte EDU5.
3. Il criterio sostanzialistico della Corte di Strasburgo. Gli Engel criteria
I giudici di Strasburgo, con un approccio interpretativo di tipo sostanzialistico, hanno
delineato i confini della “matière penale”6. Con l’ausilio degli Engel criteria7, più volte
richiamati nella consolidata giurisprudenza della Corte, è stato possibile riconoscere la natura
penale di una sanzione, indipendentemente dal nomen iuris con il quale è contraddistinta
nell’ordinamento interno.
Precisamente, i criteri direttivi elaborati nella sentenza Engel mirano a focalizzare
l’attenzione:
1) sulla qualificazione giuridica della misura;
2) sulla natura della misura;
3) sulla natura e il grado di severità della sanzione.
4G. M. FLICK – V. NAPOLEONI, Cumulo tra sanzioni penali e amministrative: doppio binario o binario morto? Pubblicata sulla “Rivista Associazione Italiana Costituzionalisti”, n. 3/2014 dell’11 luglio 2014.
5Si ricorda che la direttiva 2003/6/CE, attuata in Italia con le disposizioni contenute nel Titolo I bis della parte V del
TUIF, ha richiesto, all’art. 14, che gli illeciti di market abuse fossero sanzionati solo amministrativamente, essendo
l’impiego di una sanzione penale aggiuntiva solo una mera facoltà degli stati membri. Il Legislatore, nel disciplinare
il cumulo sanzionatorio in subiecta materia, ha reso manifesto l’intento dell’Italia di avvalersi della prevista facoltà.
6Tale operazione riveste una funzione di particolare importanza atteso che rende possibile segnare il limite di operatività di alcune garanzie sancite dalla Convenzione e dai suoi Protocolli, prime tra tutte quelle del fair traile del nullum
crimen sine lege previa (artt. 6 e7 CEDU) nonché quella del ne bis in idem processuale (art. 4 Protocollo n. 7)
7Corte Europea dei diritti dell’Uomo, Caso Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, §82, serie A n. 22. Cfr. A. M.
MAUGERI, La confisca misura di prevenzione ha natura “oggettivamente sanzionatoria” e si applica il principio di
irretroattività: una sentenza storica?, in Diritto Penale Contemporaneo, 2013, pag. 15. L’autore ritiene che attraverso i criteri Engel la Corte abbia ricondotto all’interno della “materia penale” diverse tipologie di provvedimenti tutti
accomunati dal medesimo carattere afflittivo: l’illecito amministrativo punitivo, si pensi alle Ordnungswidrigkeiten
dell’ordinamento tedesco (Ozturk c. Germania, 21 febbraio 1984) o ai Verwaltungsstrafverfahren dell’ordinamento austriaco (Mauer c. Austria, 18 febbraio 1997), le sanzioni disciplinari (Campbell c. Regno Unito, 28 giugno 1984), alcune tipologie di misura di sicurezza preventiva come la tedesca Sicherungsverwahnung (M. c. Germania, 17 dicembre
2009), le sanzioni interdittive pecuniarie irrogate dalla Commissione Bancaria in Francia (Dubus S. A. c. Francia, 11
giugno 2009).
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Mentre il primo criterio (la qualificazione del diritto interno) non è, da solo, decisivo per
la Corte, gli altri due, anche se assunti separatamente in quanto alternativi e non cumulativi,
sono determinanti ai fini della riconduzione nella “materia penale” di una sanzione o di
un procedimento amministrativo.
Perché si possa, pertanto, parlare di «accusa in materia penale» è sufficiente che il reato
in causa sia di natura «penale» rispetto alla Convenzione o abbia esposto l’interessato ad
una sanzione che, “per natura e livello di gravità”, rientri, in linea generale, nell’ambito
della «materia penale».
Tuttavia, qualora i predetti criteri ermeneutici, singolarmente considerati, non consentissero di individuare la natura della violazione, occorrerà fare ricorso ad una verifica cumulativa,
con conseguente applicazione di tutte le regole sopra richiamate8.
Dette regole sono state determinanti nel percorso argomentativo che ha portato la
Corte di Strasburgo, nella celebre sentenza Grande Stevens, a ravvisare la natura penale
del procedimento svoltosi dinnanzi la CONSOB e a considerare, in seguito alla definitività
di tale procedimento, i ricorrenti come “già condannati per un reato a seguito di una
sentenza definitiva”.
Nel caso di specie, infatti, considerata l’entità delle sanzioni pecuniarie comminate dalla
CONSOB ai ricorrenti, ai sensi del citato art. 187 ter T.U.I.F., la Corte EDU ha ritenuto che
le stesse rientrassero, per la loro severità e per la indiscussa finalità repressiva e deterrente,
nell’ambito della materia penale.
In ultimo, per quanto prettamente attiene all’individuazione della natura della sanzione,
la Corte, pur rilevando che le misure inflitte non sono state applicate nel loro ammontare
massimo e che non è stata disposta alcuna confisca, precisa che il carattere penale di
un procedimento è subordinato al grado di gravità della sanzione di cui è a priori passibile il soggetto interessato, indipendentemente dalla gravità della sanzione effettivamente
inflitta9.
8Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 2006-XIII Jussila c. Finlandia n. 73053/01, §§ 30 e 31, e Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo 2007 – IX “Zaicevs c. Lettonia”, n. 65022/01, § 31.
9Nella sentenza Grande Stevens, la sanzione pecuniaria, anche se non convertibile nell’ipotesi di mancato pagamento
nella misura limitativa della libertà personale, è fissata, nel suo massimo edittale, in euro 25.000.000 (euro 5.000.000
all’epoca dei fatti). Qualora tale importo sia ritenuto inadeguato in relazione alla gravità dell’illecito commesso, può
lievitare ancora fino a tre volte tanto o fino a dieci volte il profitto. Alla sanzione pecuniaria si accompagnano, inoltre,
una serie di sanzioni accessorie di natura amministrativa avente carattere inabilitante, della durata massima di tre
anni, quali l’incapacità temporanea ad assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo nell’ambito delle
società quotate in borsa, la temporanea sospensione dagli ordini professionali. Tali misure incidono negativamente
sulla collocazione nel mondo del lavoro da parte dei soggetti coinvolti. In ogni caso, i ricorrenti erano stati sanzionati
con ammende variabili tra 500.000,00 e 3.000.000 euro: il loro ammontare ha, indubbiamente, inciso negativamente
sul loro assetto patrimoniale. Ai sigg.ri Gabetti, Grande Stevens e Marrone era stata, inoltre, inflitta l’interdizione dall’amministrare, dirigere o controllare delle società quotate in borsa per un tempo compreso tra due e quattro mesi,
con conseguente lesione della loro collocazione nel mondo del lavoro.
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diritto europeo - cedu
4. L’identità dei fatti concreti all’origine del procedimento amministrativo e del processo
penale
Affinché possa dirsi violato il ne bis in idem è necessario che la duplicazione sanzionatoria
abbia interessato uno stesso soggetto a fronte di una medesima condotta.
Sul punto, i giudici di Strasburgo, mutuando quanto già affermato in una precedente
sentenza della Grande Chambre, hanno precisato che l’identità tra due condotte, oggetto
di due distinti procedimenti, non va verificata con riguardo alla corrispondenza degli
elementi costitutivi delle fattispecie astratte tipizzate rispettivamente nelle norma penale
ed in quella amministrativa10.
Qualora una stessa condotta solleciti, infatti, l’applicazione di una norma penale e di una
norma amministrativa, l’identità del fatto dedotto nei due procedimenti andrà verificato con
riguardo alla corrispondenza spazio temporale tra il comportamento oggetto del procedimento
amministrativo ed il comportamento oggetto del giudizio penale11 (per una sintesi degli
orientamenti della Suprema Corte di Cassazione in tema di perimetrazione del concetto di
“stesso fatto giudicato”, da intendersi come “idem factum” e non come “idem legale”, si
veda Sez. II, n. 18376 del 2013, P.G. in proc. Cuffaro, Rv. 255837, che richiama, tra le altre,
Sez. Un., n. 34655 del 28 giugno 2005, P.G. in proc. Donati e altro, Rv. 231799).
Ribadito che la garanzia sancita all’articolo 4 del Protocollo n. 7 entra in gioco quando
viene avviato un nuovo procedimento e la precedente decisione di assoluzione o di condanna
è già passata in giudicato, in questa fase, “gli elementi del fascicolo comprenderanno
ovviamente la decisione con la quale si è concluso il primo «procedimento penale» e la
lista delle accuse mosse nei confronti del ricorrente nell’ambito del nuovo procedimento.
Tali documenti includono ovviamente un’esposizione dei fatti relativi all’illecito per cui il
ricorrente è stato già giudicato e una descrizione del secondo illecito di cui è accusato. Tali
esposizioni costituiscono un utile punto di partenza, per l’esame da parte della Corte, per
poter stabilire se i fatti oggetto dei due procedimenti sono identici o sono in sostanza gli
stessi. La Corte, pertanto, deve esaminare la causa dal punto di vista dei fatti descritti nelle
suddette esposizioni, che costituiscono un insieme di circostanze fattuali concrete a carico
dello stesso contravventore e indissolubilmente legate tra loro nel tempo e nello spazio;
l’esistenza di tali circostanze deve essere dimostrata affinché possa essere pronunciata una
condanna o esercitata l’azione penale (Sergueï Zolotoukhine, sopra citata, § 84)”12.
10CEDU, 10 febbraio 2009 ric. 14939/03, caso Sergey Zolotukhin c. Russia. par. 55. Nel caso Zolotukhin, la Grande
Camera, dopo aver constatato nella giurisprudenza della Corte la coesistenza di criteri differenti, ha elaborato un’interpretazione uniforme del concetto “same offence”. Secondo la Corte, porre l’accento sulla fattispecie astratta (legal
characterisation) rischia di indebolire la garanzia di cui all’art. 4, prot. n. 7 della Convenzione. Per questo motivo il
punto di riferimento deve essere il fatto concreto, non l’astratta previsione legislativa. CEDU 10 febbraio 2009.
11Dall’interpretazione sostanzialistica adottata dalla Corte EDU, si possono cogliere i principi fondamentali che operano
in materia di concorso di procedimenti e di sanzioni. A. GIOVANNINI, Il ne bis in idem per la Corte EDU e il sistema
sanzionatorio tributario domestico, cit. “Il primo è …: sanzione penale e altra sanzione afflittiva, pur formalmente
qualificata come amministrativa dalla legislazione nazionale di un singolo Stato, non possono essere applicate allo
stesso soggetto e per fatti sostanzialmente identici. Affinché il divieto operi, però, è necessario che entrambi i procedi‑
menti siano divenuti definitivi in forza di una decisione finale o che uno dei procedimenti sia divenuto definitivo e
l’altro sia ancora aperto… Il secondo: la connotazione afflittiva deve essere verificata con un accertamento plurimo
di elementi sebbene alternativi tra di loro… Il terzo: la valutazione del fatto coincide con la valutazione della condot‑
ta tenuta in concreto. I fatti, intesi nel senso ora precisato, devono essere “sostanzialmente gli stessi” affinché si possa
parlare di loro identità, con la conseguenza che non può venire in considerazione, ai fini del divieto, una valutazione
astratta incentrata soltanto sul dato testuale delle disposizioni.”
12Grande Stevens cit. § 220 e 221. Facendo applicazione di tali principi, la Corte, nel caso Grande Stevens, ricorda che
la accuse mosse ai ricorrenti dinanzi alla CONSOB, concernevano il non aver menzionato nei comunicati stampa del
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5. Il ne bis in idem e la normativa tributaria. La giurisprudenza della Corte di
Strasburgo
Benché la fattispecie sottoposta al vaglio dei Giudici di Strasburgo nella sentenza Grande
Stevens non abbia avuto ad oggetto i rapporti tra il diritto penale ed il diritto tributario,
i principi ivi espressi trascendono la tematica del market abuse, acquisendo una portata
applicativa di carattere generale. Gli approdi cui è giunta la Corte EDU, difatti, incidono,
con profonda forza innovativa, sul rapporto tra le sanzioni penali (previste dal D.Lgs. del
10 marzo 2000 n. 74) e le sanzioni tributarie (di cui al D.Lgs. del 18 dicembre 1997 nn.
471, 472 e 47313) caratterizzato, nel tradizionale assetto giurisprudenziale, dal principio
della separazione tra le due categorie di sanzioni ed i relativi procedimenti applicativi.
Ebbene, successivamente alla pronuncia del 4 marzo 2014, la Corte di Strasburgo ha
confermato in toto il proprio orientamento ed il 20 maggio 2014, nel caso Nikänen c.
Finlandia, ha condannato lo Stato finlandese per violazione del principio del ne bis in
idem in relazione ad una ipotesi di doppio binario sanzionatorio (penale-amministrativo)
presente nella legislazione tributaria interna.
Volendo, brevemente, fornire un sunto della vicenda, nel caso citato, le autorità fiscali
finlandesi avevano comminato al ricorrente una sanzione amministrativa pecuniaria (cd.
sovrattassa) di importo pari ad euro 1.700,00. Per gli stessi fatti che avevano originato
l’irrogazione della sanzione amministrativa, veniva iniziato un procedimento penale, all’esito
del quale la Corte di appello Helsinki (con sentenza poi confermata dalla Corte suprema
finlandese) condannava il Sig. Nikänen ad una pena di 10 mesi di reclusione ed al pagamento
di euro 12.420,00 (somma pari all’importo delle tasse evase) per il reato di frode fiscale.
La Corte EDU, con l’ausilio, anche in questo caso, dei criteri ermeneutici enucleati dalla
stessa giurisprudenza CEDU, ha considerato inequivocabilmente “penali” i procedimenti
che comportano l’imposizione di una sovrattassa
Ne consegue, pertanto, che la celebrazione di due procedimenti paralleli è compatibile
con l’art. 4 del Protocollo n. 7, a condizione che il secondo venga interrotto nel momento
in cui il primo sia divenuto definitivo.
Lo scorso 27 novembre 2014, a soli pochi mesi dalla sentenza Nikänen c. Finlandia, i
Giudici di Strasburgo hanno nuovamente affrontato le problematiche connesse con il sistema
del doppio binario penale-amministrativo, pronunciandosi, all’esito, con una sentenza di
condanna della Svezia per violazione del divieto di ne bis in idem.
Ripercorriamo brevemente il caso.
24 agosto 2005 il piano di rinegoziazione del contratto di equity swap con la Merrill Lynch International Ltd (mentre
tale progetto già esisteva e si trovava in una fase di realizzazione avanzata). Successivamente, essi sono stati condannati per tale fatto dalla CONSOB e dalla Corte d’Appello di Torino. Dinanzi ai giudici penali, gli interessati sono stati
accusati di avere dichiarato, negli stessi comunicati stampa del 24 agosto 2005, che la Exor non aveva “né avviato né
messo a punto iniziative con riguardo alla scadenza del contratto di finanziamento, mentre l’accordo che modificava
l’equity swap era già stato esaminato e concluso, informazione che sarebbe stata tenuta nascosta allo scopo di evitare
un probabile crollo del prezzo delle azioni FIAT ”.
13D.Lgs. del 10 marzo 2000 n. 74 “Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a
norma dell’art. 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205”; D.Lgs. del 18 dicembre 1997 n. 471, “Riforma delle sanzioni
tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, a norma
dell’articolo 3, comma 133, lettera q), della legge 23 dicembre 1996, n. 662”; n. 472 “Disposizioni generali in materia
di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell’articolo 3, comma 133, della legge
23 dicembre 1996, n. 662”; n. 473 “Revisione delle sanzioni amministrative in materia di tributi sugli affari, sulla
produzione e sui consumi, nonché di altri tributi indiretti, a norma dell’articolo 3, comma 133, lettera q), della legge
23 dicembre 1996, n. 662”.
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Nel 2005, l’Amministrazione finanziaria svedese contestava alla sig.ra Lucky Dev l’omessa
dichiarazione dei redditi per un importo pari a circa 83.000,00 euro nonché l’evasione
dell’IVA per un ammontare pari a circa 41.000,00 euro. A seguito di tali contestazioni,
la sig.ra Lucky Dev veniva condannata a pagare, rispettivamente, sanzioni pecuniarie (cd.
sovrattasse) del 40% e del 20%.
Per gli stessi fatti che avevano originato la procedura amministrativa, veniva avviato
nei confronti della sig.ra Lucky Dev un procedimento penale, conclusosi con la condanna
della stessa ad una pena condizionalmente sospesa e con l’obbligo di prestare 160 ore di
lavoro di pubblica utilità (community service) per non aver correttamente tenuto le scritture
contabili e con l’assoluzione in relazione al reato di frode fiscale.
Incardinato nel medesimo anno, il processo penale ha seguito il suo iter parallelamente
al procedimento amministrativo, divenendo definitivo nel gennaio del 2009, nove mesi
prima di quello amministrativo.
Adita per pronunciarsi in merito alla asserita violazione del ne bis in idem, la Corte
EDU, in linea con precedenti in materia (Janosevic c. Svezia, Göktan c. Francia e Manasson
c. Svezia, Nikänen c. Finlandia, Häkkä c. Finlandia, Glantz c. Finlandia e Pirttimäki c.
Finlandia), afferma la natura sostanzialmente penale della sanzione pecuniaria irrogata
all’esito del tax proceeding. La ricorrente, pertanto, era stata illegittimamente esposta ad
un cumulo sanzionatorio in presenza di un idem factum.
Diversamente da quanto verificatosi, dunque, il rispetto del principio convenzionale
avrebbe voluto l’interruzione del procedimento amministrativo dopo il passaggio in giudicato
della sentenza penale.
Sulla scorta di tali argomentazioni, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato
la Svezia per l’accertata violazione del ne bis in idem.
Alla luce di questo ulteriore intervento della Corte di Strasburgo, sarebbe auspicabile
una modifica dell’indirizzo giurisprudenziale dei Giudici di Piazza Cavour, che, al contrario,
nonostante l’oramai consolidato orientamento sviluppatosi in materia tributaria in seno
alla Corte EDU, hanno, più volte, confermato la conformità convenzionale del sistema di
duplicazione penale-amministrativa presente nell’ordinamento italiano (cfr. Cass., 8 aprile
2014, n. 20266; più di recente v. Cass., 8 aprile 2014, n. 40526; Cass. 8 maggio 2014,
n. 30267).
5.1 Il ne bis in idem e il sistema del doppio binario tributario. Problemi applicativi
Abolito l’istituto della pregiudiziale tributaria ed abrogata, per effetto dell’art. 25 del
D.Lgs. n. 74 del 2000, la legge n. 516 del 1982 che, all’art 12, enunciava il principio
dell’efficacia vincolante della pronuncia penale nel procedimento e nel processo tributario,
il Legislatore ha ridisegnato il complesso aspetto dei rapporti tra procedimento tributario
e processo penale in un’ottica di autonomia del primo rispetto al secondo (cd. principio
del doppio binario in virtù del quale “il procedimento amministrativo di accertamento
ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento
penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende
la relativa definizione”)14.
14Art. 29 del D.Lgs. n. 74 del 2000.
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L’Amministrazione finanziaria potrà, pertanto, procedere all’irrogazione delle sanzioni
amministrative relative alle accertate violazioni della normativa fiscale, benché le stesse
costituiscano oggetto di notizia di reato.
Rebus sic stantibus, il riformato assetto normativo sembrerebbe consentire, in caso di
concorso di norme tributarie e norme penali applicabili al medesimo episodio di vita, un
cumulo di sanzioni in aperto contrasto con la garanzia del ne bis in idem.
Senonché il Legislatore, all’art. 19 del D.Lgs. n. 74 del 2000, ha codificato il principio
di specialità tra disposizioni sanzionatorie penali e le disposizioni sanzionatorie amministrative.
In applicazione di detto principio, quando uno stesso fatto è punito da una delle norme
incriminatrici del decreto delegato e da una disposizione che prevede sanzioni amministrative, si applica la sola disposizione speciale, evitando che il medesimo fatto venga
punito due volte in capo allo stesso soggetto (una volta come illecito amministrativo e
l’altra come illecito penale).
Le sanzioni tributarie, pertanto, benché irrogate, diverranno eseguibili, per espressa
previsione normativa (art. 21 D.Lgs. n. 74 del 2000), dopo che il procedimento penale sia
definito o con provvedimento di archiviazione o con sentenza irrevocabile di assoluzione o
di proscioglimento con formula che escluda la rilevanza penale della fattispecie. Pertanto,
a differenza di quanto avviene per gli illeciti in tema di market abuse, le sanzioni penali
e le sanzioni amministrative (tributarie) non si cumulano in capo al responsabile.
Alla base dell’intervento normativo vi è l’esigenza di evitare, come si legge nella
Relazione Governativa al D.Lgs. n. 74 del 2000, un “rallentamento dei tempi di applicazione
delle sanzioni”.
In tale ottica, l’Amministrazione finanziaria, senza attendere la definizione del giudizio
penale ma in pendenza di quest’ultimo, si precostituisce un titolo. L’Erario, tuttavia, potrà
mettere in esecuzione il titolo precostituito solo se la definizione del giudizio penale abbia
accertato che il fatto contestato non costituisce reato.
Benché tale impostazione assicuri il rispetto del principio del ne bis in idem sul piano
sostanziale, l’obiettivo sancito nell’art. 4 del Protocollo n. 7 non può considerarsi realizzato
sul versante processuale.
Come si è autorevolmente evidenziato15, infatti, può accadere che “un soggetto si trovi
sottoposto a procedimento penale dopo che, per il medesimo illecito fiscale, gli è già stata
inflitta in via definitiva una sanzione amministrativa. Al riguardo, è dubbio se, ad evitare
il contrasto con il divieto convenzionale di un secondo giudizio, basti la circostanza che
l’accertamento in sede «amministrativa» abbia una funzione solo «cautelare» e «sussidiaria»
rispetto all’ipotesi in cui quello penale si concluda con un «nulla di fatto»”.
Se l’intento del Legislatore era quello di trovare una meccanismo che rispettasse la
sancita garanzia convenzionale, quanto detto evidenzia, al contrario, come l’applicazione
del principio di specialità nella pratica porti a risultati che si pongono in netto contrasto
con il divieto di bis in idem.
Si dirà di più. Il nostro sistema normativo penale-tributario prevede delle eccezioni
all’operatività del principio di specialità.
15G. M. FLICK -V. NAPOLEONI, Cumulo tra sanzioni penali e amministrative: doppio binario o binario morto? , Op. cit.
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diritto europeo - cedu
Un’ipotesi può verificarsi in sede di accertamento con adesione (D.Lgs. n. 218/1997)
qualora il contribuente e l’Amministrazione finanziaria convengono di chiudere la lite
mediante la riscossione delle sanzioni amministrative nonostante la pendenza di un
procedimento penale o il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna.
Ebbene, sulla scorta di quanto sin qui argomentato, appare difficile avallare la legittimità
di tali scelte legislative che, contravvenendo al principio sancito dall’art. 4 del Protocollo
7, consentono la duplicazione di sanzioni, cui fa da pandant un cumulo procedurale.
In concomitanza con la Sentenza Nikänen c. Finlandia, la Corte di Cassazione (con
Sentenza depositata il 15 maggio 2014, n. 20266), con grande stupore della dottrina, ha
escluso che il concorso tra sanzioni amministrative e sanzioni penali (in caso di omesso
versamento di ritenute ex art. 10 bis D.Lgs. n. 74/2000 e art. 13 D.Lgs. n. 471/1997) potesse
costituire una violazione del principio del ne bis in idem.
I Giudici di Piazza Cavour, respingendo, in quanto inconferente, il richiamo operato
dalla difesa al caso Grande Stevens c. Italia, motivano la loro decisione adducendo l’assenza di una natura penale nella sanzione amministrativa e l’assenza di un rapporto di
specialità tra l’illecito amministrativo e l’illecito penale, in quanto caratterizzati da elementi
costitutivi parzialmente divergenti.
Esclusa, pertanto, l’ipotesi di un cumulo sanzionatorio, gli Ermellini hanno ritenuto possibile la “convivenza” tra sovrattasse e sanzioni penali se queste afferiscono a fattispecie di
diritto diverse e se tra le due norme non sussiste un rapporto di specialità ma di “progressione illecita di violazioni con l’art. 13, comma primo, D.Lgs. n. 471 del 1997, che punisce
con la sanzione amministrativa l’omesso versamento periodico delle ritenute alla data delle
singole scadenze mensili, con la conseguenza che al trasgressore devono essere applicate
entrambe le sanzioni (Sez. Unite n. 37425 del 28 marzo 2013)”16. Tale contesto legittima,
ad avviso della Suprema Corte, l’applicazione della norme penale e di quella amministrativa.
La Corte di Cassazione ha richiamato la sentenza Frasson C-617-10 del 26 febbraio
2013, con la quale la Corte di Giustizia UE17 è intervenuta a chiarire l’ambito applicativo
del principio del ne bis in idem di cui all’art. 4, protocollo n. 7 della CEDU e 50 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. È stato affermato in tale occasione che
l’azione penale nei confronti di un contribuente accusato di frode finanziaria aggravata
può essere accompagnata anche da sanzioni fiscali, se queste afferiscono a fattispecie di
diritto diverse.
Gli Stati membri, dunque, possono, ad avviso della Cassazione, “legittimamente ritenere
che un cittadino sia assoggettabile, per lo stesso caso, a sanzioni fiscali e penali, con l’unico
limite (ai fini della rivalutazione della eventuale natura penale delle sanzioni tributarie): a)
di dover considerare la qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale; b) di dover
valutare la natura dell’illecito e il grado di severità della sanzione. Le sanzioni tributarie, nel
16Cass. pen. 15 maggio 2014 n. 20266.
17“Non va trascurato che la stessa Corte di Giustizia UE era in recente passato intervenuta a chiarire la portata del
principio del ne bis in idem di cui agli artt. 4, protocollo n. 7 della Cedu e 50 della Carta dei diritti fondamentali del‑
l’Unione Europea quando applicato a procedimenti penali con il responso “Frasson” C-617-10 del 26 febbraio 2013.
È stato affermato in tale occasione che l’azione penale nei confronti di un contribuente accusato di frode finanziaria
aggravata può essere accompagnata anche da sanzioni fiscali. È possibile, infatti, per la Corte di Strasburgo, in linea
di principio, che esistano sovrattasse e sanzioni penali se queste afferiscono a fattispecie di diritto diverse”.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
caso de quo – a differenza di quanto ritenuto dalla Corte di Strasburgo per quelle ben più
severe irrogate dalla CONSOB nell’invocato caso Grande Stevens c. Italia – reggono a tale
vaglio. Ciò, coerentemente con il recente dictum delle Sezioni Unite di questa Suprema
Corte” 18.
La pronuncia della Suprema Corte ha suscitato non poche e fondate perplessità in
dottrina.
Confrontando, difatti, le sanzioni amministrative rispettivamente irrogate dall’autorità
fiscale finlandese e dall’autorità fiscale italiana, non può non colpire la maggiore “gravità”
della sanzione comminata dall’Amministrazione finanziaria italiana (pari al 30% dell’importo
non versato). E, dunque, se la prima ha, secondo la Corte EDU, violato, per il suo carattere
penale, la garanzia del ne bis in idem, ciò dovrebbe, a maggior ragione, valere nell’ipotesi
sottoposta al vaglio dei Giudici di Piazza Cavour.
Vi è di più. La Cassazione, a dispetto del criterio sostanzialistico (indirizzato ad una
verifica concreta dei fatti) che ha ispirato le decisioni della Corte EDU in materia, opera
un confronto in astratto tra le fattispecie legali rispettivamente tipizzate agli artt. 10 bis
D.Lgs. n. 74/2000 e 13 D.Lgs. n. 471/1997.
Ciò nonostante, il forte impatto che la giurisprudenza della Corte EDU è destinata ad
avere sul nostro sistema penale-tributario è confermato dal provvedimento del 27 ottobre
2014 con il quale il Tribunale di Torino, in composizione monocratica, ha sospeso il processo
penale dinanzi ad esso pendente per il reato di cui all’art. 10 bis D.Lgs. n. 74/2000 ed
ha contestualmente sottoposto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea una questione
interpretativa pregiudiziale del seguente tenore letterale: “Se ai sensi degli artt. 4 Prot.
CEDU e 50 CDFUE, sia conforme al diritto comunitario la disposizione di cui all’art. 10
bis del D.Lgs. n. 74/2000 nella parte in cui consente di procedere alla valutazione della
responsabilità penale di un soggetto il quale, per lo stesso fatto (omissione versamento delle
ritenute), sia già stato destinatario della sanzione amministrativa irrevocabile di cui all’art.
13 del D.Lgs. n. 471/1997 (con l’applicazione della sovrattassa)”.
18Per l’ipotesi di concorso tra sanzione amministrativa e sanzione penale che non ritiene sussistente il rapporto di
specialità cfr. Sezioni Unite n. 37425 del 28 marzo 2013. La Suprema Corte, ha precisato che il reato di omesso versamento di ritenute certificate di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis, che si consuma con il mancato versamento
per un ammontare superiore ad Euro cinquantamila delle ritenute complessivamente risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti entro la scadenza del termine finale per la presentazione della dichiarazione annuale, non si pone
in rapporto di specialità ma di progressione illecita con il D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13, comma 1, che punisce con
la sanzione amministrativa l’omesso versamento periodico delle ritenute alla data delle singole scadenze mensili, con
la conseguenza che al trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni. In realtà, nell’analisi delle due fattispecie sanzionatorie le Sezioni Unite hanno rilevato come esse abbiano un nucleo comune di presupposti e condotta
ma presentino anche divergenze che inducono a ricostruire il rapporto tra i due illeciti in termini non di specialità,
ma piuttosto di “progressione” criminosa. Le Sezioni Unite, investite della problematica connessa al rapporto le due
fattispecie, una di rilievo amministrativo e l’altra, di nuova introduzione, a rilievo penale, affermano che con l’art.
10 bis del D.Lgs. n. 74 del 2000 non si è determinata la sostituzione di un regime sanzionatorio ad un altro, ma si è
aggiunta, alla generale previsione di illecito amministrativo di cui al comma 1 dell’art. 13, D.Lgs. n. 471 del 18 dicembre 1997, la previsione di una specifica fattispecie penale, ancorata a presupposti fattuali e temporali nuovi e diversi
ancorché operante nell’ambito del medesimo fenomeno omissivo. Si è di fronte, pertanto, secondo la Corte, non già
ad un fenomeno di successione di norme sanzionatorie bensì ad una questione di eventuale concorso apparente di
norme (penale ed amministrativa) da risolversi in generale e in applicazione del principio di specialità quale previsto
dall’art. 9, comma 1, della legge 24 novembre 1981, n. 689.
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diritto europeo - cedu
6. Conclusioni
Alla luce delle pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, si auspica un
intervento normativo, convenzionalmente orientato, volto ad eliminare inutili “duplicazioni”
procedimentali e sanzionatorie a fronte di un unico fatto storico.
Nel presente lavoro si è cercato di evidenziare i forti punti di attrito della legislazione
italiana con i principi convenzionali e con l’interpretazione garantista che degli stessi è
stata offerta dalla Corte EDU.
Il cumulo sanzionatorio generato dal diritto interno, è stato guardato con non poca
preoccupazione e diffidenza da parte dei Giudici di Strasburgo.
Nella dissenting opinion alla sentenza Grande Stevens, i giudici Karakaşe e Pinto de
Albuquerque evidenziano che “Il sistema di sanzioni a doppio binario viola il principio del
ne bis in idem, sia nella sua concezione dogmatica, sia nella sua attuale applicazione …. La
sovrapposizione materiale di sanzioni penali ed amministrative non soltanto sovraccarica lo
Stato, che deve farsi carico di due inchieste autonome, con il rischio di giungere a conclusioni
differenti sui medesimi fatti, ma viola altresì il principio di specialità. (paragrafo 27)”19.
Chiarito l’orientamento della Corte EDU, si pone il problema della collocazione delle
decisioni da quest’ultima rese, nell’ordinamento interno.
In mancanza di un intervento legislativo sul punto, la dottrina ha prospettato diverse
soluzioni:
– la proposizione di una questione di costituzionalità ex art. 117, primo comma, Cost.
sulla scorta dell’orientamento avviato dal Giudice delle Leggi nel 200720;
– la diretta applicazione dell’art. 50 della Carta di Nizza21;
– un’esegesi, convenzionalmente orientata, dell’art. 649 c.p.p. La norma (riferibile, nel suo
dato letterale, alla coesistenza fra sentenze e procedimenti penali) dovrebbe, infatti, trovare
applicazione anche nell’ipotesi in cui l’imputato sia stato già giudicato, con provvedimento
irrevocabile e per il medesimo fatto, nell’ambito di un procedimento amministrativo, all’esito
del quale gli sia stata irrogata una sanzione sostanzialmente penale22.
19Si aggiunga, inoltre, che la scelta di penalizzare una condotta già (“gravemente”) sanzionata amministrativamente non
solo viola il ne bis in idem, ma stride con la logica deflattiva ed il criterio di ragionevolezza che dovrebbero, in radice,
animare gli interventi legislativi. Cfr. A. Lanzafame, “Il ne bis in idem vale anche per le sanzioni amministrative di
natura afflittiva: la Corte di Strasburgo conferma l’approccio sostanzialistico e traccia la strada per il superamento
del «doppio binario»”: “È innegabile che la mancanza di benefici per l’ordinamento, correlata ad un aumento dei costi
umani, sociali e finanziari, derivanti dalla duplicazione dei procedimenti sanzionatori, costituisca un chiaro sinto‑
mo di irragionevolezza delle scelte di politica criminale sottese alla penalizzazione di una condotta già sanzionata
amministrativamente”.
20Corte Costituzionale con le pronunce 348 e 349 del 2007. Il Giudice della Leggi considera le norme CEDU, norme
interposte dell’art. 117 Cost. ed, in quanto tali, vincolanti per il legislatore nazionale con l’unico limite rappresentato
dal contrasto delle prime con le norme costituzionali.
21F. VIGANÒ, Ne bis in idem: la sentenza Grande Stevens è ora definitiva in www.penalecontemporaneo.it: “L’art. 50
della Carta – disposizione di diritto primario dell’Unione, e come tale direttamente applicabile nell’ambito di applica‑
zione del diritto UE (che a sua volta pacificamente comprende la materia degli abusi di mercato) – ha come proprio
contenuto minimo (art. 52 § 3 della Carta) il contenuto della corrispondente norma convenzionale, e dunque dell’art.
4 Prot. 7 CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza di Strasburgo: giurisprudenza che ci dice ora forte e
chiaro che celebrare un processo penale dopo la conclusione di un procedimento sanzionatorio avanti alla CONSOB
– un procedimento formalmente qualificato come ‘amministrativo’ dal nostro ordinamento, ma in realtà di natura
penale ai fini dell’applicazione delle garanzie convenzionali – viola il diritto al ne bis in idem dell’imputato”.
22F. VIGANÒ Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta applicazione dell’art. 50 della Carta?
(a margine della sentenza Grande Stevens della Corte EDU) in www.penalecontemporaneo.it: “Un’interpretazione,
questa, apparentemente orientata in senso “convenzionalmente conforme”, ma in realtà basata su una estensione, o
forse dilatazione, del dato letterale e sistematico, che sembra difficilmente percorribile non solo alla luce delle prime
prese di posizione assunte dalla Corte di Cassazione (v. sent. n. 19915/2014, cit.), ma anche in ragione del rispetto
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
Una soluzione a tale questione si spera possa essere fornita dal Giudice delle leggi.
Con ordinanza di rimessione dell’11 novembre 2014, la V Sezione della Corte di
Cassazione ha sollevato una questione di legittimità costituzionale, in via principale, per
violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7,
dell’art. 187 bis, comma 1, del D.Lgs. n. 58/1998.
In via subordinata, la Suprema Corte ha sollevato la questione di legittimità costituzionale,
per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7,
dell’art. 649 c.p.p., “nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto
di un secondo giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento
irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo per
l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della
Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali e dei
relativi Protocolli23.”
Concludendo, il consolidato orientamento giurisprudenziale formatosi in seno alla Corte
di Strasburgo deve indurre il Legislatore italiano a ridefinire, in linea con le garanzie
convenzionali, i rapporti tra le sanzioni penali e le sanzioni amministrative di natura
afflittiva, la cui distinzione, alla luce dei criteri sopra esposti, diventa sempre meno visibile
all’occhio dell’interprete.
Angela Coppola
del Plato e Associati
del margine di apprezzamento nazionale – inevitabilmente riservato ad uno Stato parte nella definizione, “sovrana”,
delle sue fondamentali scelte di politica criminale – e del collegamento funzionale tra l’effetto preclusivo introdotto
dall’art. 649 e la salvaguardia della oggettiva incontrovertibilità del dictum penale da cui quell’effetto deriva secondo
la correlata disposizione processuale di cui all’art. 648 c.p.p.”.
23Cass. Sez. V pen., Notizia di decisione 27/2014, ordinanza 10 novembre 2011 .
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Pubblica amministrazione
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La lotta alla corruzione nell’UE
e la L. n. 190/2012
Sommario: 1. Brevi cenni introduttivi; 2. L’attuazione degli obblighi disciplinati dalla Convenzione
penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa nella c.d. legge anticorruzione: le misure preventive;
3. Segue: le misure repressive; 4. Le lacune della legge anticorruzione in relazione alla normativa
internazionale ed europea; 5. Considerazioni conclusive.
1. Brevi cenni introduttivi
La L. 6 novembre 2012, n. 190 (di seguito, legge anticorruzione)1 ha introdotto per
la prima volta nell’ordinamento italiano una disciplina organica in tema di lotta alla
corruzione nella pubblica amministrazione, avendo riguardo non solo al tradizionale
strumento penale repressivo, ma anche a misure di carattere amministrativo e destinate a
svolgere una funzione preventiva. La novella legislativa, in particolare, ha inteso adempiere,
seppur con notevole ritardo, agli obblighi di adattamento dell’ordinamento interno rispetto
agli strumenti internazionali ed europei in tema di lotta alla corruzione, segnatamente, la
Convenzione contro la corruzione delle Nazioni Unite del 2003 e la Convenzione penale
sulla corruzione del Consiglio d’Europa del 1999. Inoltre, la legge anticorruzione è altresì
il risultato della produzione di strumenti per lo più di soft law svolta soprattutto dal Gruppo
di Stati contro la corruzione (GRECO)2 e dalle istituzioni dell’Unione europea. Trattasi di
atti che, come è noto, sono formalmente privi di valore giuridico vincolante, ancorché
dotati di un potenziale impatto in termini di moral suasion3.
La presente trattazione analizza le modifiche più significative introdotte dalla legge in
discorso alla luce del quadro normativo e delle iniziative in tema di lotta alla corruzione
elaborati nel contesto regionale della “grande” Europa, atteso che è proprio da tale contesto
che sono derivate le maggiori sollecitazioni alla riforma.
2. L’attuazione degli obblighi disciplinati dalla Convenzione penale sulla corruzione
del Consiglio d’Europa nella c.d. legge anticorruzione: le misure preventive
In linea con le disposizioni della richiamata Convenzione penale del Consiglio d’Europea e
con le raccomandazioni del GRECO4, il legislatore italiano ha conferito un ruolo di tutto rilievo
ai rimedi normativi di carattere amministrativo al fine di contrastare in maniera più efficace il
malcostume sistemico ed endemico che caratterizza oramai la pubblica amministrazione.
1L. 6 novembre 2012, n. 190, recante: “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità
nella pubblica amministrazione”, in G.U. n. 265, 13 novembre 2012, p. 1. La legge è entrata in vigore il 28 novembre
2012.
2Il GRECO, è stato istituito nel 1999 dal Consiglio d’Europa con l’obiettivo di monitorare il rispetto degli standards
anti-corruzione da parte degli Stati Membri. Esso, inoltre, raccoglie le migliori prassi in tema di prevenzione della
corruzione.
3BERNARDI A., Réflexions sur les rapports entre droit pénal et soft law, in HACHEZ I., CARTUYVELS Y., DUMONT H.
et al. (sous la direction de), Les sources du droit revisitées. Normes internes infraconstitutionnelles, vol. 2, 2013, pp.
105 ss.
4Sul punto si vedano le raccomandazioni degli organi di controllo dell’OCSE e del Consiglio d’Europa. GRECO, Joint
First and Second Round Evaluation. Compliance Report on Italy, 27 May 2011, disponibile all’indirizzo www.coe.int.,
par. 115; Third Evaluation Round. Evaluation Report on Italy. Incriminations (Theme I), 23 March 2012, parr. 101,
107, 108, disponibile all’indirizzo www.coe.int.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
A questo proposito, i principali punti cardine intorno ai quali si è sviluppata la novella
legislativa sono: la gestione del rischio corruttivo, il rafforzamento dell’etica e della trasparenza
e la lealtà tra amministrazioni e dipendenti5. Una delle principali novità introdotte dalla
legge anticorruzione, è costituita, in primis, dall’obbligo per le amministrazioni pubbliche
di predisporre dei piani di prevenzione della corruzione, ispirati alla logica del risk
management6. A mezzo di siffatti “piani di prevenzione”7, ciascuna amministrazione, a
livello nazionale e subnazionale, dovrebbe individuare le attività maggiormente esposte al
rischio di corruzione e indicare, di conseguenza, le opportune misure di contrasto.
Al contempo, la legge in esame ha introdotto delle norme relative alla trasparenza
amministrativa. Quest’ultima, disciplinata dal D.Lgs. n. 33 del 20138, approvato dal Governo
nell’esercizio della delega contenuta nella legge anticorruzione9, viene intesa come possibilità per tutti i cittadini di avere accesso diretto al patrimonio informativo delle pubbliche
amministrazioni10. Nonostante la dottrina non si sia espressa in maniera uniforme in ordine
alla portata innovativa del concetto di trasparenza così come disciplinato dal decreto in
discorso11, va rilevata di sicuro una nuova percezione del rapporto tra la pubblica amministrazione e i suoi cittadini12. In particolare, il decreto legislativo determina un mutamento
nella posizione giuridica dei cittadini, in capo ai quali viene espressamente riconosciuta la
titolarità di un diritto soggettivo alla pubblicazione online delle informazioni delle pubbliche
amministrazioni13. Da ciò deriva la legittimazione per gli amministrati di richiedere tale
pubblicazione in caso di inerzia da parte dell’ente.
A seguito soprattutto delle sollecitazioni derivanti dalle organizzazioni internazionali e
dalle istituzioni europee14, l’art. 1, commi 44 e 45 della legge anticorruzione ha novellato
5GIAMPAOLINO L., Intervento alla Tavola rotonda: “Come reprimere l’illegalità e prevenire lo sperpero del pubblico
denaro, in CAPELLI F. (a cura di), Una battaglia di civiltà e per lo sviluppo. Combattere la corruzione e prevenire lo
sperpero del pubblico denaro, pp. 185 ss.
6La prevenzione della corruzione mediante il risk-based approach è mutuato dal settore delle imprese private ed è stato introdotto nell’ordinamento italiano dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Cfr. DI CRISTINA F., I piani per la prevenzio‑
ne della corruzione, in MATTARELLA B.G., PELISSERO M. (a cura di), La legge anticorruzione. Prevenzione e repres‑
sione della corruzione, Torino, 2013, pp. 98 ss. L’opportunità di fare riferimento a tale approccio è stato sottolineato
recentemente anche dalla Commissione europea: EUROPEAN COMMISSION, EU Anti-corruption Report, 3 febbraio
2014, pp. 7 ss. Per un quadro generale sull’“organizzazione dell’anticorruzione” si veda anche MATTARELLA B.G., La
prevenzione della corruzione in Italia, in Giornale di diritto amministrativo, fasc. 2, 2013, pp. 125 ss.
7Art. 1, comma 5, L. 6.11.2012, n. 190, cit.
8D.Lgs. 14 marzo 2013, n. 33, recante: “Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e
diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”, in G.U. n. 80, 5 aprile 2013.
9Art. 1, comma 35, L. 6 novembre 2012, n. 190, cit.
10Per una disamina dei più significativi contributi in dottrina sulla riforma in tema di trasparenza amministrativa, si vedano: MATARAZZO A.E., Il nuovo codice della trasparenza, in Lo stato civile italiano, n. 5, 2013, pp. 50 ss.; PONTI B.
(a cura di), La trasparenza amministrativa dopo il D.Lgs. 14 marzo 2013, n. 33, Rimini, 2013; PATRONI GRIFFI F., La
trasparenza della Pubblica Amministrazione tra accessibilità totale e riservatezza, in www.federalismi.it, 2013, n. 8.
11Per una esemplificazione delle posizioni dottrinali relative alla portata innovativa o meno del concetto di trasparenza,
si vedano SIMONATI A., La trasparenza amministrativa e il legislatore: un caso di entropia normativa?, in Diritto
amministrativo, fasc. 4, 2013, pp. 749 ss.; GAROFOLI R., La nuova legge anticorruzione, tra prevenzione e repres‑
sione, 2013, disponibile al sito www.magistraturademocratica.it., p. 6 s.
12SIMONATI A., La trasparenza amministrativa, cit., pp. 749 ss.
13L’art. 5, del D.Lgs. in esame introduce il nuovo istituto dell’“accesso civico”. Ibidem.
14I codici di condotta elaborati in ambito internazionale ed europeo sono strettamente connessi all’attuazione di programmi anticorruzione nel settore pubblico. Cfr. UN Resolution 51/59, “Action against corruption” – “International
Code of Conduct for Public Officials” (Annex), 1996; GRECO, Recommendation No. R (2000)10 of the Committee of
Ministers to Member States on Codes of Conduct for Public Officials, 2001. Nel 2000 l’Unione europea ha adottato un
Codice di buona condotta amministrativa. Relazioni con il pubblico, disponibile al link ec.europa.eu/transparency/
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Pubblica amministrazione
l’art. 54 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 intitolato “Codici di comportamento dei dipendenti
pubblici” 15. Il nuovo Codice di condotta dei pubblici dipendenti è stato adottato dal Governo
con D.P.R. 16 aprile 2013, n. 6216. L’obiettivo perseguito dalla legge anticorruzione e dal
recente decreto presidenziale è duplice. In primo luogo, si è inteso rivisitare il quadro dei
doveri dei dipendenti pubblici, al fine di assicurare l’indipendenza personale e l’esercizio
imparziale delle funzioni affidate. In secondo luogo, il decreto in esame prevede che la
violazione dei doveri di comportamento ivi disciplinati, nonché di quelli contenuti nei codici
adottati dalle singole amministrazioni, configura una diretta responsabilità disciplinare per
i pubblici dipendenti. La previgente normativa in materia demandava, invece, ai contratti
collettivi la concreta determinazione delle norme disciplinari17.
Un’altra modifica introdotta dalla legge anticorruzione nell’ordinamento italiano,
modifica più volte evocata dal Gruppo di lavoro OCSE e dal GRECO, riguarda la tutela
dei whistleblowers, vale a dire quei soggetti che, in buona fede, forniscono informazioni
sulle pratiche corruttive negli uffici pubblici o privati18. Il comma 51 dell’art. 1 della legge
anticorruzione, infatti, stabilisce alcune garanzie a favore delle “vedette civiche”, vale a
dire: l’impossibilità di subire sanzioni, licenziamento, o essere sottoposte ad un “misura
discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati
direttamente o indirettamente alla denuncia”. Altra garanzia prevista per coloro che segnalano
eventuali illeciti è quella dell’anonimato. Quest’ultima garanzia può venire meno qualora
la conoscenza dell’identità del segnalante sia “assolutamente indispensabile per la difesa
dell’incolpato”19. La disciplina in esame, tuttavia, è stata ritenuta insoddisfacente dalla
dottrina. Essa, tra l’altro, non è stata estesa al settore privato.
A seguito della legge anticorruzione, il governo ha emanato il D.Lgs. 31 dicembre
2012, n. 235 sulla incandidabilità a cariche elettive20 e il D.Lgs. 8 aprile 2013, n. 39 sulla
ineleggibilità ed incompatibilità a cariche amministrative per coloro che subiscono condanne,
anche non definitive, per reati contro le pubbliche amministrazioni21.
code/_docs/code_it.pdf. Sull’opportunità di adottare un codice di comportamento nelle pubbliche amministrazioni
italiane si vedano in particolare le sollecitazione del GRECO e dell’OCSE. Cfr. Joint First and Second Round Evaluation. Compliance Report, cit., parr. 72, 78 e 83; OECD, Rapporto OCSE sull’integrità in Italia: Rafforzare l’integrità nel
settore pubblico, ripristinare la fiducia per una crescita sostenibile, OECD Publishing, 2013. In generale, in dottrina, v.
CHITI M.P., Do we need codes and/or laws for better administrative procedure and conduct of officials?, in European
Business Law Review, 2008, fasc. 2, vol 19, pp. 233 ss.
15D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, recante: “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle ammini‑
strazioni pubbliche”, in G.U. n. 106, 9 maggio 2001.
16D.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, rubricato: “Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a nor‑
ma dell’articolo 54 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165”, in G.U. n. 129, 4 giugno 2013.
17Cfr. D’ALTERIO E., I codici di comportamento e la responsabilità disciplinare (art. 1, commi 44, 45 e 48), in MATTARELLA G.B., PELISSERO M. (a cura di), cit., pp. 211 ss.
18Per un’analisi del fenomeno del whistleblowing e delle sue origini si veda CANTONE R., La tutela del whistleblower:
l’art. 54 bis del DLgs. n. 165/2001 (art. 1, comma 51), in MATTARELLA G.B., PELISSERO M., cit., pp. 244 ss.
19Art. 1, comma 51, L. n. 190/2012, cit.
20D.Lgs. 31 dicembre 2012, n. 235, recante: “Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di
ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma
dell’art. 1, comma 63, della L. 6 novembre 2012, n. 190”, in G.U. n. 3, 4 gennaio 2013.
21D.Lgs. 8 aprile 2013, n. 39, recante: “Disposizioni in materia di incompatibilità di incarichi presso le pubbliche am‑
ministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’art. 1, commi 49 e 50, della L. 6.11.2012”,
n. 190, in G.U. n. 92, 19 aprile 2013.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
Infine, per quanto riguarda il finanziamento della politica, l’abolizione dei contributi
pubblici disciplinata dal D.L. n. 149/2013, convertito nella legge 13/2014, non ha previsto
una adeguata regolazione dei flussi finanziari dei partiti.
3. Segue: le misure repressive
Sotto il profilo delle misure di carattere repressivo, la legge anticorruzione ha introdotto
significative novità. Innanzitutto, va rilevato che il legislatore italiano, anche al fine di
adeguare la normativa interna alle fonti internazionali ed europee rammentate, ha introdotto
modifiche di rilievo in tema di corruzione impropria (art. 318 c.p.), lasciando, invece,
sostanzialmente immutato il reato di corruzione propria (art. 319 c.p.). Come è noto, a
mente del previgente art. 318 c.p., rubricato “Corruzione per un atto di ufficio”, veniva
incriminato l’accordo corruttivo volto al compimento di un atto d’ufficio, distinguendo tra
l’ipotesi in cui il pubblico ufficiale riceva denaro o altra utilità o ne accetti la promessa
con riferimento ad un atto non ancora compiuto (cd. corruzione impropria antecedente)
e l’ipotesi in cui il pubblico ufficiale riceva la retribuzione per un atto di ufficio già
compiuto (cd. corruzione impropria susseguente). Il nuovo art. 318 c.p., come si evince
dalla mutata rubrica dello stesso, disciplina il delitto inedito di “Corruzione per l’esercizio
delle funzioni” 22. La modifica in questione persegue l’obiettivo precipuo di svincolare la
punibilità di entrambe le parti del pactum sceleris da un atto o da una condotta chiaramente
individuabili. Altresì, l’intervento normativo non distingue tra corruzione antecedente e susseguente, conformemente agli strumenti convenzionali più volte rammentati. Infatti, sia la
Convenzione penale del Consiglio d’Europa sia il Protocollo addizionale alla Convenzione
relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee escludono espressamente
la rilevanza penale della corruzione susseguente23. Per di più, la mancata distinzione tra
corruzione antecedente e susseguente amplia la punibilità del privato (art. 321 c.p.) anche
al caso in cui questi retribuisca il pubblico funzionario per una condotta conforme ai doveri
d’ufficio che sia stata già posta in essere (c.d. corruzione attiva impropria susseguente) 24.
Una delle principali riguarda la disciplina della nuova ipotesi di reato del “traffico di
influenze illecite” attualmente collocata tra i delitti dei privati contro la pubblica amministrazione all’art. 346 bis c.p25. In tal modo il legislatore italiano si è uniformato ad un
espresso obbligo di incriminazione contenuto nella Convenzione penale del Consiglio
d’Europa (art. 12), oltre che nella Convenzione sulla lotta alla corruzione delle Nazioni Unite
(art. 18), ed evocato più volte nelle raccomandazioni rivolte all’Italia da parte dell’OCSE
22Per una disamina dei profili relativi alla nuova fattispecie corruttiva, si veda GAMBARDELLA M., Profili di diritto in‑
tertemporale della nuova corruzione per l’esercizio della funzione, in Cassazione penale, 2013, fasc. 11, pp. 3857 ss.
23Cfr. COUNCIL OF EUROPE, Criminal Law Convention on Corruption. Explanatory Report, parr. 34 e 43, disponibile
al sito conventions.coe.it; Relazione esplicativa sul Protocollo della Convenzione relativa alla tutela degli interessi
finanziari delle Comunità europee, in G.U.C.E .C11, 15 gennaio 1998, p. 6, par. 2.5. In dottrina, si veda per tutti DI
MARTINO A., Le sollecitazioni extranazionali alla riforma dei delitti di corruzione, in MATTARELLA B.G., PELISSERO M., cit., pp. 355 ss.
24Infatti, prima della novella legislativa in questione, l’art. 321 c.p., recante “Pene per il corruttore”, richiamava soltanto il primo comma del precedente art. 318 c.p., relativo alla corruzione impropria antecedente. In dottrina, contra,
GROSSO C.F., Novità, omissioni e timidezze della legge anticorruzione in tema di modifiche al c.p., in MATTARELLA
B.G., PELISSERO M., cit., p. 10, in cui l’Autore si pronuncia a favore dell’abrogazione della corruzione impropria susseguente.
25In argomento, si rinvia, ex multis, a IMPERATO L., Traffico di influenze illecite, in FORTUNA F.S. (a cura di), I delitti
contro la pubblica amministrazione, pp. 37 ss.
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Pubblica amministrazione
e del GRECO26. Inoltre, la necessità di sanzionare il reato di traffico di influenze illecite è
stata stimolata anche dal diritto penale di altri Paesi europei, dove già da tempo la figura
criminosa aveva fatto la sua comparsa27.
L’articolo 346 bis c.p. punisce, con la pena della reclusione da 1 a 3 anni, il ruolo di
soggetti terzi che agiscano in qualità di mediatori ai fini della realizzazione del pactum sceleris
tra corrotto e corruttore. Il momento sanzionatorio interviene in una fase “propedeutica” 28 al
perfezionamento del delitto di corruzione c.d. propria per un atto contrario ai doveri d’ufficio
(art. 319 c.p) o di corruzione in atti giudiziari (art. 319 ter c.p.). Tale norma sanziona due distinte
ipotesi di condotte illecite: la prima, in cui la remunerazione viene data o semplicemente
promessa al mediatore come compenso per l’attività illecita svolta; la seconda, in cui la
remunerazione è data o promessa al pubblico funzionario che si intende corrompere.
Il legislatore ha altresì inteso distinguere il reato di traffico di influenze illecite dal reato
contiguo del millantato credito (art. 346 c.p.) sulla base dei rapporti tra l’intermediario e il
pubblico agente. Infatti, mentre nel traffico di influenze illecite i rapporti tra i due soggetti
devono essere “esistenti”, vale a dire reali, nel caso del millantato credito tali rapporti sono
inesistenti e incentrati sulla venditio fumi.
Un aspetto particolarmente critico e dibattuto in dottrina in ordine all’art. 346 bis c.p.
riguarda la possibilità che, nel traffico di influenze illecite, vengano ricomprese anche le attività
di lobbying, vale a dire quelle attività remunerate, volte ad influenzare i decisori pubblici a favore
dei gruppi di interesse rappresentati. L’assenza di una regolamentazione sul piano nazionale del
fenomeno del lobbying non consente di discernere con chiarezza, da un lato, la “mediazione
illecita” dalle attività lecite di interlocuzione con i pubblici agenti, dall’altro, la dazione o
promessa di denaro o altro vantaggio patrimoniale indebito dal pagamento dovuto29.
Per quanto riguarda l’adattamento dell’ordinamento italiano al reato di trading in influence,
disciplinato dall’art. 12 della Convenzione penale del Consiglio d’Europa, giova soffermarsi,
da ultimo, su due considerazioni. In primo luogo, va rilevato che la Relazione esplicativa
della Convenzione, dopo aver chiarito che l’elemento decisivo per qualificare l’influenza
“indebita” è l’intento corruttivo dell’influence peddler, esclude espressamente le attività di
lobbying dall’ipotesi di reato in discorso. D’altra parte, il lobbying è ampiamente riconosciuto
e disciplinato dalla normativa europea. In secondo luogo, è opportuno sottolineare che, sul
piano soggettivo, il legislatore italiano ha delineato un’ipotesi di reato meramente interna.
Infatti, a seguito delle riserve apposte dall’Italia al testo della Convenzione, il traffico di
influenze illecite è previsto soltanto per i pubblici funzionari nazionali, e non anche per i
pubblici ufficiali stranieri e internazionali, per i membri di assemblee pubbliche straniere e
internazionali, nonché per i giudici e gli agenti di corti internazionali30.
26GRECO, Joint First and Second Evaluation Round. Evaluation Report, cit., par. 25; Third Evaluation Round. Evaluation
Report, cit., parr. 111-114, 34-35.
27Cfr. BONINI S., Traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.), in Giurisprudenza Italiana, 2012, pp. 2694 ss.
28Cassazione, Sezione VI Penale, 11 febbraio-12 marzo 2013, n. 11808. Cfr. sul punto FUX A., La natura propedeutica
del reato di cui all’art. 346 bis c.p. rispetto a quello di corruzione, osservazioni a: Cassazione Penale, Sez. VI, 11 feb‑
braio 2013 , n. 11808, in Cassazione Penale, 2013, fasc. 7/8, vol. 53, pp. 2642 ss.
29Sull’ipotesi di incostituzionalità dell’art. 346 bis c.p. per violazione degli artt. 25, comma 2 e 3, comma 2 della Costituzione si veda RONCO M., Note per l’audizione avanti alle Commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia del
Senato della Repubblica, p. 7 s.
30Art. 12, Criminal Law Convention on Corruption, 27.01.1999, European Treaty Series n. 173, disponibile al sito www.
conventions.coe.int.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
Un’altra novità degna di menzione introdotta dalla legge anticorruzione riguarda la
modifica dell’art. 2635 c.c.31 oggi rubricato “Corruzione tra privati” (precedentemente,
“infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità”). L’intervento del legislatore è stato
mosso ancora una volta dalla necessità di adempiere a precisi obblighi internazionali ed
europei. Infatti, l’incriminazione della corruzione attiva e passiva nel settore privato è richiesta
dalla Convenzione ONU sulla corruzione del 2003 (art. 21)32, dalla Convenzione penale
del Consiglio d’Europa (artt. 7 e 8), dalla Convenzione civile del Consiglio d’Europa (artt.
7-9), nonché dalla Decisione quadro dell’Unione europea 2003/568/GAI (art. 2).
Il novellato art. 2635 c.c. punisce con la reclusione da 1 a 3 anni i dirigenti preposti
alla redazione di documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori che, a seguito della
dazione o promessa di denaro o altra utilità, compiano ovvero omettano atti in violazione
degli obblighi inerenti al loro ufficio (o degli obblighi di fedeltà) cagionando nocumento alla
società. Al di là del mutato nomen juris dell’articolo in esame, il legislatore ha introdotto
esigue modifiche alla fattispecie di reato che era stata introdotta nel nostro ordinamento dal
D.Lgs. n. 61/2002, in occasione della riforma del diritto penale societario. In particolare, è
stato ampliato l’elenco dei soggetti attivi, comprendendo anche coloro che sono sottoposti
alla direzione o vigilanza dei soggetti di cui all’art. 2635 c.c., comma 1. Inoltre, oltre alla
dazione a sé stessi, viene in rilievo anche quella a favore di terzi. Soprattutto allo scopo di
attuare una raccomandazione del GRECO, la corruzione tra privati è stata inserita anche tra i
c.d. “reati presupposto” della responsabilità degli enti, disciplinata dal D.Lgs. n. 231/2001 33.
La struttura del reato in oggetto rimane sostanzialmente immutata e ricorda i delitti contro
il patrimonio, quali l’estorsione (art. 629 c.p.) e la truffa (art. 640 c.p.).
Tuttavia, preme sottolineare che la novazione legislativa non è valsa a dare attuazione agli
obblighi europei ed internazionali al riguardo34. Infatti, va rilevato, in primis, che la norma
italiana di cui all’art. 2635 c.c. limita all’ambito societario l’applicazione della corruzione
tra privati, a differenza del più ampio e generico obbligo di incriminazione disciplinato sia
dalla Convenzione penale sia dalla decisione quadro dell’Unione europea35.
Infine, va rilevato che la nuova disciplina delle fattispecie incriminatrici è stata
accompagnata da un aumento generalizzato dei minimi edittali per le stesse. Tale misura, oltre
a potenziare l’efficacia dissuasiva delle norme incriminatrici, ha delle ricadute importanti
sul piano processuale, dal momento che in relazione a tutti questi delitti sarà ora possibile
l’adozione di misure cautelari (anche di natura custodiale, in presenza di massimi edittali
sempre superiori ai quattro anni di reclusione), e sarà possibile altresì l’intercettazione delle
conversazioni o comunicazioni sulla base dell’art. 266, co. 1, lett. b), c.p.p36.
31Art. 1, comma 76, L. 6 novembre 2012, n. 190, cit.
32Siffatta Convenzione dispone una mera facoltà incriminatrice a differenza delle fonti pattizie del Consiglio d’Europa
e della decisione quadro dell’Unione europea.
33In argomento SARDELLI M., Corruzione internazionale e D.Lgs. 231/01, il problema delle sanzioni interdittive, ivi, pp.
34GRECO, Joint First and Second Evaluation Round. Evaluation Report, cit., par. 25; Joint First and Second Round Evaluation. Compliance Report, cit., parr. 98-100; Third Evaluation Round. Evaluation Report, cit., parr. 109-110 e 128, 3435.
35Sul fatto che l’inadempienza dell’Italia derivi da una diversa struttura dell’incriminazione italiana rispetto a quella degli strumenti internazionali ed europei, si veda RONCO M., Note per l’audizione, cit., pp. 10-14.
36Cfr. GROSSO C.F., Novità, omissioni e timidezze della legge anticorruzione in tema di modifiche al codice penale, in
MATTARELLA B.G., PELISSERO M., op. cit., pp. 3 ss.; STRAZIOTA F., Legge anticorruzione e attuazione degli obblighi
europei: l’ennesima occasione mancata?, in Studi sull’integrazione europea, IX, 2014, p. 162.
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Pubblica amministrazione
4. Le lacune della legge anticorruzione in relazione alla normativa internazionale
ed europea
Dall’analisi normativa che precede emerge che l’attuazione da parte del legislatore italiano
della disciplina europea in tema di lotta alla corruzione rimane per alcuni aspetti lacunosa, come
è stato rilevato, oltre che in dottrina, anche dalla Commissione europea nella Relazione sulla
lotta alla corruzione del febbraio 201437. Nel suo cahier de doléances, l’esecutivo europeo ha
evidenziato perduranti criticità della normativa de quo sia sul piano delle misure amministrative
sia su quello delle misure più propriamente penali. Sotto il primo profilo, la Commissione ha
evidenziato la mancanza di una disciplina della corruzione politica. La novella legislativa, infatti,
non affronta la questione del finanziamento dei partiti politici e delle campagne elettorali, né
tantomeno il conflitto di interesse per i politici. Non da ultimo, il codice di comportamento
dei dipendenti pubblici non trova applicazione nei confronti di coloro che ricoprono un ufficio
elettivo. Sotto il profilo delle misure penali, la Relazione della Commissione si sofferma sulla
necessità di una rivisitazione della disciplina della prescrizione, nonché su una maggiore
attenzione ai reati “sentinella” preordinati a quelli corruttivi (si pensi al falso in bilancio e
all’auto-riciclaggio). Infine, la Commissione suggerisce all’Italia di garantire il pieno recepimento
della decisione quadro del Consiglio sulla lotta alla corruzione nel settore privato.
Nel giugno 2014 il GRECO, riprendendo i rilievi presentati dalla Commissione europea,
ha indirizzato nuove raccomandazioni all’Italia invitandola ad adottare, entro il 31 dicembre
2015, dei rimedi normativi idonei a rendere la normativa italiana in linea con i pertinenti
obblighi assunti sul piano internazionale38.
5. Considerazioni conclusive
Giova rilevare infine che, la timida attuazione della disciplina internazionale ed europea
in materia di lotta alla corruzione, risulta in linea con l’intento del legislatore italiano di
salvaguardare le caratteristiche tipiche della struttura dell’incriminazione penale nazionale,
come espresso in occasione dell’apposizione dell’inusuale numero di riserve – rinnovabili
ad infinitum – al testo della Convenzione penale del Consiglio d’Europa in sede di ratifica.
Tale approccio, tuttavia, risulta essere parzialmente stemperato dalla recente apertura alle
istanze internazionalistiche espressa dalla Corte di Cassazione sulla legge anticorruzione 39.
Infatti, il criterio ermeneutico adottato dalla Corte, vale a dire quello della presunzione di
conformità della normativa interna al diritto internazionale, indica una volontà di garantire
il rispetto degli obiettivi e dei principi alla base dei trattati internazionali anticorruzione che
vincolano l’Italia. L’orientamento giurisprudenziale in questione sembra seguire, peraltro,
la linea direttrice di quel principio di coerenza del rispetto degli obblighi internazionali
introdotto dall’articolo 117, comma 1, della Costituzione italiana.
Maria Sardelli
Coccia De Angelis Pardo & Associati
37Commissione Europea, COM(2014) 38 final, Relazione dell’Unione sulla lotta alla corruzione. Allegato sull’Italia,
3.2.2014. Cfr. DI MASCIO F., Una relazione della Commissione europea sulle politiche anti-corruzione, in Rivista Tri‑
mestrale di Diritto Pubblico, fasc. 2, 2014, pp. 548 ss.
38Cfr. GRECO, Third Evaluation Round. Compliance Report on Italy, 20 June 2014.
39Corte di Cassazione, Sentenza del 12 marzo 2013, n. 11792, par. 5.2.
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La normativa anticorruzione negli enti
di diritto privato in controllo pubblico
Sommario: 1. Il quadro normativo; 2. Gli adempimenti anticorruzione; 3. Ambito soggettivo di
applicazione delle norme anticorruzione; 4. Nuovi oneri per gli enti pubblici e per gli enti di
diritto privato in controllo pubblico; 5. L’oggetto del decreto 39; 6. L’ente di diritto privato in
controllo pubblico secondo il decreto 39; 7. L’ente di diritto privato regolato o finanziato secondo
il decreto 39; 8. Le limitazioni imposte dal decreto 39 in ordine al conferimento degli incarichi;
9. La vigilanza sul rispetto degli obblighi derivanti dal decreto 39; 10. L’oggetto del decreto 33;
11. I nuovi obblighi di trasparenza per gli enti pubblici e gli enti privati in controllo pubblico;
12. Applicazione del decreto 33 agli enti di diritto privato in controllo pubblico; 13. Contrastanti
definizioni normative degli enti di diritto privato in controllo pubblico; 14. Integrazione dei
Modelli Organizzativi degli enti di diritto privato in controllo pubblico.
1. Il quadro normativo
La legge 6 novembre 2012, n. 190 (nota come «Legge Severino») ha introdotto
nell’ordinamento giuridico una serie di disposizioni per la prevenzione e la repressione
della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione. La legge in questione ha
sia modificato alcune norme del codice penale relative ai reati di corruzione e concussione, sia introdotto un lungo elenco di obblighi per le pubbliche amministrazioni e per
gli «enti di diritto privato in controllo pubblico». I princìpi generali contenuti nella legge
delega del 2012 sono stati tradotti in disposizioni concrete dai successivi decreti delegati,
in particolare i decreti legislativi 33 e 39 del 2013.
2. Gli adempimenti anticorruzione
Gli adempimenti che nascono dalla normativa anticorruzione, sia per gli enti pubblici
che per gli enti di diritto privato in controllo pubblico, sono notevoli per numero e complessità. Basti citare i principali, tenendo conto che nelle norme suindicate ne sono presenti
molti altri:
– nomina di un responsabile anticorruzione;
– redazione di un piano triennale anticorruzione che contenga una valutazione dei
rischi di corruzione e le relative contromisure e norme interne dirette ad impedire la
corruzione;
– obbligo di vigilare costantemente in forma tracciabile sul rispetto delle misure definite
nel piano anticorruzione;
– obbligo di creare un modello organizzativo specifico contro la corruzione, nell’ambito
delle procedure adottate secondo il decreto legislativo 231 del 2001;
– estensione dei doveri di controllo dell’organismo di vigilanza ai rischi di
corruzione;
– obbligo di pubblicare su Internet un lungo elenco di dati (tra cui organigramma
dell’ente, nominativi dei componenti degli organi, compensi di costoro e dei loro parenti,
contratti di fornitura di beni e servizi con relativi costi ...);
– redazione di un piano triennale sulla trasparenza e nomina di un incaricato che vigili
sul rispetto degli obblighi di pubblicità.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
3. Ambito soggettivo di applicazione delle norme anticorruzione
Le norme anticorruzione si applicano alle pubbliche amministrazioni ed agli «enti di
diritto privato in controllo pubblico», categoria, quest’ultima, di non facile individuazione
e che sarà oggetto di successivo approfondimento.
L’estensione ad alcuni enti privati degli obblighi in oggetto sta quindi determinando
la creazione, seppure ai limitati fini della sua applicazione, della seguente nuova classificazione degli enti nell’ordinamento giuridico italiano:
1) enti pubblici: sicuramente devono adempiere a tutti gli obblighi anticorruzione;
2) enti di diritto privato che non operano in controllo pubblico: sicuramente non sono
tenuti a questi obblighi;
3) enti di diritto privato in controllo pubblico: sono soggetti agli adempimenti
anticorruzione (con l’ulteriore elemento di complessità, che sarà a seguire analizzato,
determinato dalla circostanza che i decreti attuativi della legge 190 forniscono definizioni
parzialmente diverse di tale categoria di enti, sicché la tripartizione rischia di trasformarsi
in quadripartizione).
4. Nuovi oneri per gli enti pubblici e per gli enti di diritto privato in controllo
pubblico
Prima di affrontare la questione dell’individuazione della «nuova» tipologia di enti, è
bene chiarire in concreto cosa implica per un ente essere inserito in questo meccanismo
e, quindi, dover attuare tutte le misure già elencate:
– notevole aumento di costi di gestione;
– necessità di individuare e formare nuove figure professionali, cui assegnare un
delicato compito di controllo e vigilanza (almeno due: il responsabile della corruzione ed
il responsabile della trasparenza);
– redazione di nuovi e complessi documenti (piano anticorruzione e piano per la
trasparenza), che andrebbero a sommarsi alla gigantesca mole di adempimenti burocratici
che la legislazione europea e nazionale continua ad imporre alle imprese, nonostante le
costanti dichiarazioni d’intenti dei governanti di turno sulla riduzione della burocrazia;
– sottoposizione alla vigilanza strettissima della pubblica amministrazione per gli enti
privati in controllo pubblico: la normativa anticorruzione prevede infatti che le pubbliche
amministrazioni inseriscano nel proprio sito web l’elenco degli enti di diritto privato
controllati e che prevedano, all’interno del proprio piano anticorruzione, un rigoroso sistema
di controlli sull’attività degli stessi;
– obbligo di rendere trasparente e di dominio pubblico attraverso la rete Internet ogni
aspetto dell’organizzazione e del funzionamento dell’ente: l’anticorruzione si fonda infatti
sulla regola dell’amministrazione trasparente, sicché tutto dev’essere noto alla cittadinanza
(dall’organigramma, ai poteri di ciascun esponente dell’ente, ai compensi di tutti gli
addetti dell’ente e dei loro familiari, ai contratti di consulenza e di approvvigionamento,
ai procedimenti in corso e così via).
Non è necessario proseguire nell’elencazione per rendersi conto delle dimensioni del
problema.
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pubblica amministrazione
5. L’oggetto del decreto 39
Il decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 39 contiene disposizioni in materia di inconferibilità
e incompatibilità di incarichi dirigenziali e di responsabilità amministrativa di vertice nelle
pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo
pubblico.
6. L’ente di diritto privato in controllo pubblico secondo il decreto 39
Il decreto 39 definisce l’ente di diritto privato in controllo pubblico all’articolo 1, lettera
c), così disponendo: «ai fini del presente decreto s’intende per enti di diritto privato in
controllo pubblico, le società e gli altri enti di diritto privato che esercitano funzioni amministrative, attività di produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o
di gestione di servizi pubblici, sottoposti a controllo ai sensi dell’art. 2359 cod. civ. da parte
di amministrazioni pubbliche, oppure gli enti nei quali siano riconosciuti alle pubbliche
amministrazioni, anche in assenza di una partecipazione azionaria, poteri di nomina dei
vertici o dei componenti degli organi».
Il decreto comprende quindi nella categoria due diverse tipologie di enti:
a) enti che svolgono un servizio pubblico (o comunque funzionale all’attività amministrativa) e che siano sottoposti al regime dei controlli societari previsti dall’art. 2359 cod.
civ. che si riporta in nota1. I due requisiti devono sussistere contestualmente: ne consegue
che non sono sottoposti agli obblighi del decreto 39 né gli enti privati che svolgono un
servizio di interesse pubblico ma che non sono controllati dalla PA ai sensi dell’art. 2359,
né gli enti privati che sono viceversa controllati dalla PA ma non svolgono uno dei servizi
puntualmente indicati dal decreto 39;
b) enti nei quali, a prescindere da qualsiasi altro requisito, i vertici o i componenti
degli organi siano nominati dalla pubblica amministrazione.
7. L’ente di diritto privato regolato o finanziato secondo il decreto 39
Il decreto 39 prende in considerazione una seconda categoria di enti privati, rispetto
ai quali introduce specifiche disposizioni in materia di conferimento degli incarichi: gli
enti di diritto privato regolati o finanziati, che sono le società e gli altri enti di diritto
privato, anche privi di personalità giuridica, nei confronti dei quali l’amministrazione che
conferisce l’incarico:
1) svolga funzioni di regolazione dell’attività principale che comportino, anche attraverso
il rilascio di autorizzazioni o concessioni, l’esercizio continuativo di poteri di vigilanza,
di controllo o di certificazione;
1Art. 2359 cod. civ. Società controllate e società collegate
Sono considerate società controllate:
1) le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria;
2) le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea
ordinaria;
3) le società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.
Ai fini dell’applicazione dei numeri 1) e 2) del primo comma si computano anche i voti spettanti a società controllate,
a società fiduciarie e a persona interposta: non si computano i voti spettanti per conto di terzi.
Sono considerate collegate le società sulle quali un’altra società esercita un’influenza notevole. L’influenza si presume
quando nell’assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se la società ha
azioni quotate in mercati regolamentati
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
2) abbia una partecipazione minoritaria nel capitale;
3) finanzi le attività attraverso rapporti convenzionali, quali contratti pubblici, contratti
di servizio pubblico e di concessione di beni pubblici.
8. Le limitazioni imposte dal decreto 39 in ordine al conferimento degli incarichi
Le due tipologie di enti privati contemplate dal decreto 39 sono sottoposte a differenti
limitazioni in ordine al conferimento degli incarichi, che possono essere così sintetizzate,
con riferimento ad alcuni dei più significativi articoli del decreto 39, fermo restando che
l’elencazione non è esaustiva:
– art. 4: non possono essere conferiti incarichi nelle amministrazioni statali, regionali
e locali a soggetti provenienti da enti di diritto privato regolati o finanziati, limitatamente a
coloro che, nei due anni precedenti, abbiano svolto incarichi e ricoperto cariche in enti di
diritto privato o finanziati dall’amministrazione o dall’ente pubblico che conferisce l’incarico
ovvero abbiano svolto in proprio attività professionali, se queste sono regolate, finanziate
o comunque retribuite dall’amministrazione o ente che conferisce l’incarico;
– art. 5: non possono essere conferiti gli incarichi di direttore generale, direttore sanitario
e direttore amministrativo nelle aziende sanitarie locali a coloro che, nei due anni precedenti,
abbiano svolto incarichi e ricoperto cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati
dal servizio sanitario regionale;
– art. 9, comma 1: gli incarichi amministrativi di vertice e gli incarichi dirigenziali,
comunque denominati, nelle pubbliche amministrazioni, che comportano poteri di vigilanza
o controllo sulle attività svolte dagli enti di diritto privato regolati o finanziati dall’amministrazione che conferisce l’incarico, sono incompatibili con l’assunzione e il mantenimento,
nel corso dell’incarico, di incarichi e cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati
dall’amministrazione o ente pubblico che conferisce l’incarico;
– art. 9, comma 2: gli incarichi amministrativi di vertice e gli incarichi dirigenziali,
comunque denominati, nelle pubbliche amministrazioni, gli incarichi di amministratore
negli enti pubblici e di presidente e amministratore delegato negli enti di diritto privato in
controllo pubblico sono incompatibili con lo svolgimento in proprio, da parte del soggetto
incaricato, di un’attività professionale, se questa è regolata, finanziata o comunque retribuita
dall’amministrazione o ente che conferisce l’incarico;
– art. 13, comma 1: gli incarichi di presidente e amministratore delegato di enti di diritto
privato in controllo pubblico, di livello nazionale, regionale e locale, sono incompatibili
con la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro, Vice Ministro, sottosegretario
di Stato e di commissario straordinario del Governo o di parlamentare.
– art. 13, comma 2: gli incarichi di presidente e amministratore delegato di ente di
diritto privato in controllo pubblico di livello regionale sono incompatibili:
– con la carica di componente della giunta o del consiglio della regione interessata;
– con la carica di componente della giunta o del consiglio di una provincia o di un
comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni
avente la medesima popolazione della medesima regione;
– con la carica di presidente e amministratore delegato di enti di diritto privato in
controllo pubblico da parte della regione, nonché di province, comuni con popolazione
superiore ai 15.000 abitanti o di forme associative tra comuni aventi la medesima popolazione
della medesima regione.
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pubblica amministrazione
9. La vigilanza sul rispetto degli obblighi derivanti dal decreto 39
L’art. 15 del decreto affida l’onere della vigilanza sul rispetto delle limitazioni individuate
nel precedente paragrafo (e delle altre previste dal decreto 39) al responsabile del piano
anticorruzione, figura che va istituita sia per gli enti pubblici che per gli enti di diritto privato
in controllo pubblico, per i quali, peraltro, tale ruolo potrebbe essere affidato all’Organismo
di vigilanza costituito secondo il decreto 231.
Il responsabile anticorruzione è a sua volta tenuto a segnalare i casi di possibile
violazione del decreto all’Autorità Nazionale anticorruzione (ANAC).
L’art. 17 del decreto prevede poi che gli atti di conferimento di incarichi adottati
in violazione delle disposizioni del presente decreto e i relativi contratti siano affetti da
nullità.
10. L’oggetto del decreto 33
Il decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 riguarda un altro aspetto della lotta alla
corruzione, ritenuto particolarmente importante da parte del legislatore, come emerge
continuamente anche dal dibattito politico: quello della trasparenza. L’oggetto del decreto
è infatti il riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e
diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni.
Il decreto delinea quindi nell’orizzonte normativo il concetto di amministrazione
trasparente, esteso agli enti di diritto privato in controllo pubblico. Il concetto di trasparenza
viene peraltro puntualmente definito all’art. 1 come “accessibilità totale delle informazioni
concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di
favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo
delle risorse pubbliche”.
11. I nuovi obblighi di trasparenza per gli enti pubblici e gli enti privati in controllo
pubblico
L’applicazione del decreto 33 comporta l’obbligo di adottare una serie di misure volte
a realizzare il principio dell’amministrazione trasparente. Anche per il decreto 33 si riassumono i principali obblighi con il riferimento al corrispondente articolo del decreto, con
la precisazione che, in forza dell’art.11 del medesimo decreto, quando viene usata dal
legislatore l’espressione “amministrazione” va riferita anche agli enti di diritto privato in
controllo pubblico (aspetto che sarà approfondito nei successivi paragrafi):
– art. 5. Accesso civico: l’obbligo previsto dalla normativa vigente in capo alle pubbliche
amministrazioni di pubblicare documenti, informazioni o dati comporta il diritto di chiunque
di richiedere i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione. La richiesta
di accesso civico non è sottoposta ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva
del richiedente non deve essere motivata, è gratuita e va presentata al responsabile della
trasparenza dell’amministrazione. L’amministrazione, entro trenta giorni, procede alla
pubblicazione nel sito del documento, dell’informazione o del dato richiesto e lo trasmette
contestualmente al richiedente, ovvero comunica al medesimo l’avvenuta pubblicazione.
Si coglie con evidenza l’ampliamento del diritto di accesso agli atti amministrativi rispetto
ai requisiti ben più rigorosi della legge 241 del 1990;
– art. 6. Obbligo di garantire la qualità delle informazioni pubblicate: le pubbliche
amministrazioni garantiscono la qualità delle informazioni riportate nei siti istituzionali
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nel rispetto degli obblighi di pubblicazione previsti dalla legge, assicurandone l’integrità,
il costante aggiornamento, la completezza, la tempestività, la semplicità di consultazione,
la comprensibilità, l’omogeneità, la facile accessibilità, nonché la conformità ai documenti
originali in possesso dell’amministrazione, l’indicazione della loro provenienza e la
riutilizzabilità. L’esigenza di assicurare adeguata qualità delle informazioni diffuse non
può, in ogni caso, costituire motivo per l’omessa o ritardata pubblicazione dei dati, delle
informazioni e dei documenti;
– art. 9. Accesso alle informazioni pubblicate nei siti. Sezione “Amministrazione
trasparente” sul sito web: ai fini della piena accessibilità delle informazioni pubblicate,
nella home page dei siti istituzionali è collocata un’apposita sezione denominata «Amministrazione trasparente», al cui interno sono contenuti i dati, le informazioni e i documenti
pubblicati ai sensi della normativa vigente. Le amministrazioni non possono disporre filtri e
altre soluzioni tecniche atte ad impedire ai motori di ricerca web di indicizzare ed effettuare
ricerche all’interno della sezione «Amministrazione trasparente»;
– art. 10. Programma triennale per la trasparenza e l’integrità: ogni amministrazione ha
l’obbligo di adottare un Programma triennale per la trasparenza da aggiornare annualmente.
Il Programma fa parte integrante del Piano anticorruzione dell’ente e definisce le misure,
i modi e le iniziative volti all’attuazione degli obblighi di pubblicazione previsti dalla
normativa, comprese le misure organizzative volte ad assicurare la regolarità e la tempestività
dei flussi informativi. Il Programma dev’essere inoltre pubblicato sul sito web dell’ente;
– art. 13. Obbligo di pubblicazione di tutte le informazioni riguardanti l’organizzazione
dell’ente, con particolare riferimento all’organigramma, alle mansioni di ogni ufficio o
persona fisica in posizione apicale e dei soggetti cui il cittadino si possa rivolgere per
qualsiasi richiesta, con tanto di numero di telefono ed indirizzo di posta elettronica;
– art. 14. Obblighi di pubblicazione concernenti i componenti degli organi d’indirizzo
politico: per ciascuno di tali soggetti (la cui identificazione nei singoli enti già sta creando
notevoli difficoltà, in particolare negli enti di diritto privato in controllo pubblico) le amministrazioni devono pubblicare, tra le altre, le informazioni relative all’atto conferimento
dell’incarico, al curriculum, alle cariche ricoperte altrove e soprattutto ai compensi di
qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici;
– art. 15. Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi dirigenziali e di
collaborazione o consulenza: le pubbliche amministrazioni hanno l’obbligo di pubblicare
e aggiornare le informazioni relative ai titolari di incarichi amministrativi di vertice e di
incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, nonché di collaborazione o consulenza,
anche qui con particolare riferimento ai compensi percepiti;
– art. 25. Obblighi di pubblicazione concernenti i controlli sulle imprese: le pubbliche
amministrazioni, in modo dettagliato e facilmente comprensibile, pubblicano sia sul proprio
sito istituzionale che sul sito: www.impresainungiorno.gov.it l’elenco delle tipologie di
controllo a cui sono assoggettate le imprese in ragione della dimensione e del settore
di attività, indicando per ciascuna di esse i criteri e le relative modalità di svolgimento;
nonché l’elenco degli obblighi e degli adempimenti oggetto delle attività di controllo che
le imprese sono tenute a rispettare per ottemperare alle disposizioni normative. La norma
è evidentemente di particolare significato per il vasto insieme delle imprese sottoposte ai
controlli della PA;
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pubblica amministrazione
– art. 26. Obblighi di pubblicazione degli atti di concessione di sovvenzioni, contributi,
sussidi e attribuzione di vantaggi economici a persone fisiche ed enti pubblici e privati: le
pubbliche amministrazioni pubblicano gli atti di concessione delle sovvenzioni, contributi,
sussidi ed ausili finanziari alle imprese, e comunque di vantaggi economici di qualunque
genere a persone ed enti pubblici e privati di importo superiore a mille euro, il che peraltro
costituisce condizione legale di efficacia dei provvedimenti che dispongano concessioni
e attribuzioni di importo complessivo superiore a mille euro nel corso dell’anno solare al
medesimo beneficiario;
– art. 43. Nomina del responsabile per la trasparenza: tale figura di regola coincide con
il responsabile anticorruzione (e quindi negli enti privati in controllo pubblico potrebbe
coincidere con l’Organismo di vigilanza), fermo restando che le due figure possono essere
tenute separate. Il decreto prevede che il responsabile debba provvedere sia all’aggiornamento
del Programma che al controllo sul rispetto degli obblighi definiti sia dalla normativa che
dalla regolamentazione interna all’ente;
– art. 46. Violazione degli obblighi di trasparenza. Sanzioni generali: l’inadempimento
degli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa vigente o la mancata predisposizione
del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità costituiscono elemento di valutazione
della responsabilità dirigenziale, eventuale causa di responsabilità per danno all’immagine
dell’amministrazione e sono comunque valutati ai fini della corresponsione della retribuzione
di risultato e del trattamento accessorio collegato alla performance individuale dei
responsabili. Il responsabile non risponde dell’inadempimento degli obblighi in tema di
trasparenza se prova che tale inadempimento è dipeso da causa a lui non imputabile;
– art. 47. Sanzioni per violazione degli obblighi di pubblicazione di cui all’art. 14
del decreto: la mancata o incompleta comunicazione delle informazioni e dei dati di cui
all’articolo 14, concernenti la situazione patrimoniale complessiva del titolare dell’incarico al
momento dell’assunzione in carica, la titolarità di imprese, le partecipazioni azionarie proprie,
del coniuge e dei parenti entro il secondo grado, nonché tutti i compensi cui da diritto l’assunzione della carica, dà luogo a una sanzione amministrativa pecuniaria da 500 a 10.000
euro a carico del responsabile della mancata comunicazione e il relativo provvedimento è
pubblicato sul sito internet dell’amministrazione o organismo interessato.
12. Applicazione del decreto 33 agli enti di diritto privato in controllo pubblico
L’art. 11 del decreto 33 estende la generalità degli obblighi di trasparenza imposti dal
decreto “limitatamente all’attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o
dell’Unione europea, agli enti di diritto privato in controllo pubblico, ossia alle società e
agli altri enti di diritto privato che esercitano funzioni amministrative, attività di produzione
di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici,
sottoposti a controllo ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile da parte di pubbliche
amministrazioni, oppure agli enti nei quali siano riconosciuti alle pubbliche amministrazioni, anche in assenza di una partecipazione azionaria, poteri di nomina dei vertici o
dei componenti degli organi”. Questa prima definizione contenuta nel decreto 33 coincide
esattamente con quella del decreto 39.
L’art. 22 del decreto 33 contempla nuovamente gli enti di diritto privato in controllo
pubblico, stavolta con riferimento all’obbligo per le pubbliche amministrazioni di aggiornare
annualmente sul proprio sito web l’elenco degli enti di diritto privato in controllo
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dell’amministrazione, con l’indicazione delle funzioni attribuite e delle attività svolte in
favore dell’amministrazione o delle attività di servizio pubblico affidate. Il dato che colpisce
è che l’art. 22 definisce l’ente di diritto privato in controllo pubblico in modo diverso sia
dal decreto 39, che dall’art. 11 del decreto 33 medesimo. L’art. 22, comma 1, lettera c),
prevede infatti quanto segue: “ai fini delle presenti disposizioni sono enti di diritto privato
in controllo pubblico gli enti di diritto privato sottoposti a controllo da parte di amministrazioni pubbliche, oppure gli enti costituiti o vigilati da pubbliche amministrazioni nei
quali siano a queste riconosciuti, anche in assenza di una partecipazione azionaria, poteri
di nomina dei vertici o dei componenti degli organi”.
13. Contrastanti definizioni normative degli enti di diritto privato in controllo
pubblico
La differenza tra le due definizioni è evidente, giacché il testo letterale dell’art. 22
lascia intendere che possono essere qualificati enti in controllo pubblico, ai soli fini della
pubblicazione sul sito web dell’amministrazione controllante, una serie di enti che invece
sarebbero esonerati dall’applicazione dei vari obblighi anticorruzione. In altri termini, se
realmente il legislatore avesse scelto di configurare due tipologie diverse di enti privati in
controllo pubblico, si dovrebbe concludere che l’inserimento sul sito web dell’amministrazione controllante non determinerebbe di per sé l’obbligo di attuare le misure previste
dalla normativa anticorruzione, ma sarebbe comunque necessario verificare la presenza
degli ulteriori requisiti.
È davvero così? La questione allo stato attuale è oggetto di posizioni discordanti,
inevitabile conseguenza dell’avere il legislatore italiano, con il rigore scientifico e la chiarezza
espressiva che ormai lo contraddistinguono, formulato due definizioni diverse della stessa
entità giuridica, addirittura all’interno della stessa norma!
Sul piano giuridico-formale certamente la strada del doppio binario (in base alla quale
le due definizioni vanno interpretate letteralmente, sicché l’elenco degli enti privati tenuti
all’applicazione delle misure anticorruzione sarebbe ben più ristretto rispetto all’elenco
dei soggetti in qualsiasi modo controllati dalla PA e che la stessa PA deve menzionare sui
propri siti web) appare l’unica coerente con la regola generale secondo cui le leggi vanno
interpretate alla luce del tenore letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore. Questa
conclusione è stata tuttavia messa in discussione dal Ministro per la pubblica amministrazione
e la semplificazione, che il 14 febbraio 2014 ha pubblicato la Circolare n. 1, stabilendo,
con un’interpretazione piuttosto audace della normativa anticorruzione, che non può essere
accolta la compresenza di due diverse tipologie di enti privati in controllo pubblico e che
quindi, superando l’apparente contraddizione delle due definizioni, devono essere ritenuti
sottoposti all’applicazione integrale della normativa anticorruzione tutti gli enti che in ogni
caso «concorrono a realizzare l’interesse generale utilizzando risorse pubbliche».
In sostanza il Ministro, pur perseguendo il meritevole intento di rimediare alla confusione
creata dal contrasto tra i due decreti delegati, sceglie una strada piuttosto avventurosa:
siccome i due decreti definiscono in modo diverso gli enti in controllo pubblico, si introduce
una terza e nuova definizione per risolvere il problema! E così si è prodotto il risultato di
alimentare, invece che eliminare, la confusione in materia.
Appare peraltro evidente che l’ampliamento in tal modo operato potrebbe trascinare
nel meccanismo anticorruzione una platea vastissima di enti che a prima vista parrebbero
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pubblica amministrazione
del tutto esclusi dagli obblighi anticorruzione, giacché gli enti che perseguono un interesse
generale con risorse pubbliche sono certamente una porzione molto più vasta di quelli
individuabili sia in base al decreto 39, che al decreto 33.
14. Integrazione dei Modelli Organizzativi degli enti di diritto privato in controllo
pubblico
Ferma restando la presenza, allo stato attuale, dei molti nodi interpretativi ed applicativi
messi a fuoco nei punti precedenti, dalla normativa anticorruzione emerge comunque un
chiaro elemento che deve determinare una pronta risposta da parte degli enti di diritto privato
che operano a contatto con la pubblica amministrazione: la necessità di integrare il Modello
Organizzativo già in vigore con le misure definite dalla legge 190 e dai decreti attuativi,
ovviamente tenendo conto della realtà specifica dell’ente in questione (natura giuridica, tipologia
di attività, dimensioni, assetto organizzativo, livello d’interazione con la PA e così via).
Al riguardo, peraltro, va evidenziato che espressamente il Piano Nazionale Anticorruzione
auspica che, proprio negli enti privati in controllo pubblico, sia il sistema di prevenzione degli
illeciti in vigore secondo il decreto 231 (Modello Organizzativo, Codice Etico, Organismo di
Vigilanza) lo strumento eletto dall’ente a guidare anche la prevenzione alla corruzione.
A tale scopo, le più urgenti iniziative da porre in essere sono certamente le seguenti:
– inserire nell’analisi dei rischi una valutazione puntuale del rischio di corruzione per
ciascun’area aziendale, con la chiara individuazione delle attività esposte a tale rischio (i
famosi “processi sensibili”);
– inserire nell’organigramma dell’ente le funzioni del responsabile anticorruzione e
del responsabile della trasparenza, che potrebbero coincidere sia tra di loro, che con
l’Organismo di vigilanza;
– prevedere, per le attività classificate a tale scopo come sensibili, meccanismi
di formazione, attuazione e controllo delle decisioni idonei a prevenire il rischio di
corruzione;
– prevedere obblighi di informazione nei confronti del responsabile anticorruzione, del
responsabile della trasparenza e dell’Organismo di vigilanza (qualora le rispettive funzioni
non siano accentrate nella stessa figura);
– prevedere un robusto piano di formazione ed aggiornamento continuo in materia
anticorruzione del personale maggiormente coinvolto in tali processi, corredato da un
sistema tracciabile di verifiche di efficacia delle azioni formative;
– prevedere procedure efficaci di selezione del personale interno e dei collaboratori
esterni, con adeguate verifiche in ordine all’assenza di conflitti d’interesse;
– inserire le disposizioni interne relative alla lotta alla corruzione nei regolamenti
aziendali e nel codice etico, al fine di favorire l’adozione degli opportuni provvedimenti
disciplinari in caso di violazione;
– inserire nei piani di audit sul sistema di prevenzione degli illeciti un adeguato numero
di sessioni dedicate alle misure contro la corruzione;
– elevare a principio cardine dell’attività dell’ente la trasparenza ad ogni livello del suo
agire, con particolare riferimento ai principi generali codificati all’art. 1 del decreto 33 (che
vanno richiamati nel codice etico) ed alle misure operative contenute nel medesimo decreto,
primi fra tutti l’ampliamento del sito web e la definizione di un programma triennale per
la garanzia della trasparenza;
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
– adottare ogni altra misura che, in ragione delle specificità del singolo ente, sia idonea
a ricondurre il rischio di corruzione nell’ambito di quella “soglia di normale tollerabilità”
oltre la quale si delinea lo spettro della colpa organizzativa dell’ente.
Tale integrazione è certamente la strada necessaria per tutti gli enti privati che, in base
a quanto esposto, possano rientrare nel vasto orizzonte della normativa anticorruzione. Al di
là delle norme di diritto amministrativo, infatti, occorre scongiurare il rischio che la magistratura penale provveda a «bocciare» i modelli organizzativi degli enti di diritto privato
che operano a contatto con la pubblica amministrazione, per non avere gli stessi definito
adeguati protocolli contro la corruzione e nominato organismi di vigilanza indipendenti e
professionalmente competenti anche in materia di diritto amministrativo, oltre che penale.
Anche prescindendo dall’intricata vicenda fin qui riassunta, resta infatti chiaro che tra i
reati presupposto la cui commissione il modello organizzativo, per quanto imposto dall’art.
25, D.Lgs. n. 231/2001, deve essere preordinato a prevenire, sono ricompresi proprio la
corruzione, la concussione e l’induzione indebita a dare o promettere utilità.
Emanuele Montemarano
Studio legale e commerciale Montemarano
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Linee guida per la redazione del piano
triennale per la prevenzione della corruzione
da parte degli enti di diritto privato
in controllo pubblico
Sommario: 1. Finalità del presente contributo; 2. Contenuto del PTPC dell’ente di diritto privato
in controllo pubblico; 3. Il concetto di corruzione alla base del PTPC; 4. Gli strumenti da mettere
in campo per la prevenzione della corruzione; 5. Gli obiettivi strategici che l’ente deve realizzare
attraverso il PTPC; 6. Soggetti dell’ente che devono partecipare alla predisposizione del PTPC;
7. Mappatura delle attività dell’ente esposte al rischio di corruzione; 8. Protocollo da adottare
per prevenire condotte corruttive; 9. Modalità di formazione del personale in materia di lotta alla
corruzione; 10. Sistema sanzionatorio in caso di violazione delle regole del PTPC; 11. Piano di
monitoraggio sull’implementazione delle misure di prevenzione della corruzione; 12. Relazione
annuale sulla prevenzione della corruzione.
1. Finalità del presente contributo
Il presente contributo contiene linee guida, rivolte agli enti di diritto privato in controllo
pubblico, per la definizione del piano triennale di prevenzione della corruzione previsto dalla
recente legislazione anticorruzione, oggetto di altro articolo all’interno del presente lavoro
curato da ASLA e che costituisce premessa essenziale delle linee guida ora presentate.
Il piano, per comodità individuato con la sigla PTPC, dev’essere inserito all’interno del
sistema di prevenzione degli illeciti dell’ente secondo il decreto legislativo 231 del 2001,
come espressamente previsto, proprio per gli enti di diritto privato in controllo pubblico, dal
Piano Nazionale Anticorruzione (PNA) approvato dal Governo per il triennio 2014/2016
2. Contenuto del PTPC dell’ente di diritto privato in controllo pubblico
Il PTPC dell’ente di diritto privato in controllo pubblico si deve basare, secondo le
indicazioni del PNA, sull’analisi e valutazione dei rischi specifici di corruzione e sulla
definizione dei conseguenti interventi organizzativi volti a prevenirli, a tal fine integrando
quanto già dovrebbe essere previsto dall’analisi dei rischi di illecito presupposto inserita
nel Modello Organizzativo dell’ente (si precisa che la presente linea guida si fonda sulla
presunzione che gli enti di diritto privato in controllo pubblico abbiano tutti pienamente
ottemperato alle prescrizioni del decreto 231).
L’impostazione del piano deve prendere come modello di riferimento la seconda sezione
del PNA, che è dedicata all’illustrazione della strategia di prevenzione a livello decentrato,
vale a dire del singolo ente che deve adottare il piano di prevenzione della corruzione.
Nello sviluppo del piano si deve fare riferimento puntuale agli allegati al PNA, che
contengono tutte le indicazioni e gli approfondimenti di carattere interpretativo, procedurale
e metodologico per la redazione del documento.
3. Il concetto di corruzione alla base del PTPC
Ai fini della prevenzione degli illeciti amministrativi, l’ente deve prendere come
riferimento la definizione di corruzione contenuta nel PNA e che ha un’accezione ben
più ampia rispetto a quella del codice penale. Il concetto di corruzione adottato come
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
parametro del PTPC comprende infatti le varie situazioni in cui, nel corso dell’attività
dell’ente, si riscontri l’abuso da parte di un addetto del potere a lui affidato, al fine di
ottenere vantaggi privati. Vi rientrano quindi tutti le situazioni in cui, a prescindere dalla
rilevanza penale, venga in evidenza un malfunzionamento dell’ente cagionato dall’uso a
fini privati delle funzioni di interesse collettivo che sono proprie di chi opera all’interno
di enti che, sebbene privati, concorrono a realizzare, in quanto “in pubblico controllo”,
anche interessi superindividuali (se così non fosse, del resto, l’ente sarebbe esonerato dagli
obblighi anticorruzione).
La nozione più ampia di corruzione adottata ai fini preventivi e su base volontaria
nel PTPC consente peraltro di riferire le misure anti corruzione a tutti i livelli di attività
dell’ente, a prescindere dall’inquadramento ai fini penali del suo addetto come incaricato
o meno di pubblico servizio, il che andrà valutato volta per volta in ragione di tutte le
circostanze del caso concreto.
4. Gli strumenti da mettere in campo per la prevenzione della corruzione
Gli strumenti che l’ente privato in controllo pubblico deve mettere in campo per adottare
un’efficace strategia anticorruzione devono essere, almeno, i seguenti:
1) adozione del PTCP triennale;
2) inserimento del PTCP all’interno del sistema di prevenzione degli illeciti già adottato
secondo il decreto 231/01 e quindi nell’ambito della vigilanza affidata all’OdV;
3) adempimenti in materia di trasparenza amministrativa (decreto 33/13), in base ad uno
specifico programma di adeguamento in grado di contemperare il rispetto della normativa
anti corruzione con quella, altrettanto complessa, della privacy (le due esigenze possono
spesso entrare in conflitto, sicché il PTCP deve chiarire con sufficiente chiarezza i confini
entro i quali i dati sensibili possono essere resi di pubblico dominio);
4) integrazione del codice etico con ulteriori regole di comportamento, coerenti con
i rischi di corruzione individuati nel PTPC;
5) adozione di criteri di conferimento degli incarichi all’interno dell’ente che, per le
attività esposte al rischio di corruzione, riducano al minimo possibile il rischio di condotte
illecite o inopportune, con particolare riferimento ai potenziali conflitti d’interesse;
6) previsione delle massime forme di tutela per l’addetto dell’ente, dirigente, dipendente
o collaboratore, che effettui segnalazioni di possibile illecito (whistleblower);
7) potenziamento della formazione del personale su tutte le tematiche attinenti alla
prevenzione della corruzione, con particolare riguardo agli addetti dell’ente che operano
nei processi maggiormente esposti al rischio di corruzione;
8) integrazione dei protocolli di comportamento (procedure) già in vigore all’interno
del Modello Organizzativo con ulteriori misure e cautele idonee a prevenire il rischio
della corruzione;
9) rafforzamento dell’integrazione tra i vari organismi che a tutti i livelli svolgono attività
di controllo all’interno dell’ente (sistema qualità, sistema di gestione per la sicurezza, OdV,
Collegio Sindacale, Responsabile della Trasparenza ...) in modo che le informazioni circolino
in maniera condivisa e che si adottino strategie preventive e di controllo omogenee;
10) potenziamento dell’analisi dei rischi rispetto ai reati societari e contro il patrimonio,
che sono strettamente collegati alla prevenzione della corruzione, pur appartenendo a
categorie penalistiche di reati presupposto diverse dai reati amministrativi.
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pubblica amministrazione
5. Gli obiettivi strategici che l’ente deve realizzare attraverso il PTPC
Lo sviluppo del PTPC deve consentire, ai sensi del PNA, la realizzazione dei seguenti
obiettivi strategici in materia di lotta alla corruzione:
1) ridurre le opportunità in cui si possano manifestare casi di corruzione;
2) aumentare la capacità di scoprire casi di corruzione;
3) creare un contesto ambientale sfavorevole alla corruzione.
Al raggiungimento degli obiettivi strategici di lotta alla corruzione devono partecipare
tutti gli organi e le funzioni dell’ente, in base al ruolo ricoperto.
6. Soggetti dell’ente che devono partecipare alla predisposizione del PTPC
Premesso che le riflessioni che seguono devono essere calate nell’organizzazione di
ciascun ente, si può comunque indicare, in via generale, che alla predisposizione di un
buon PTCP debbano partecipare almeno:
– i componenti dell’Organismo di Vigilanza;
– gli esperti legali dell’ente, interni o esterni;
– i componenti dell’alta direzione;
– i responsabili delle singole aree aziendali a rischio corruzione;
– il responsabile del sistema qualità (se si tratta di ente certificato);
– il responsabile per la privacy e la sicurezza sul lavoro;
– altri addetti interni consultati in base alle specifiche competenze settoriali.
7. Mappatura delle attività dell’ente esposte al rischio di corruzione
Per ogni processo esposto al rischio di corruzione il PTPC deve contenere la valutazione
del rischio di corruzione, nelle tre fasi richieste dal PNA (identificazione del rischio, analisi
del rischio, ponderazione del rischio).
La quantificazione numerica del rischio va effettuata utilizzando i criteri contenuti
nell’allegato 5 al PNA e tenendo conto che l’impatto va considerato almeno a tre livelli
(economico, organizzativo e reputazionale).
Nell’individuare le aree a rischio corruzione, si deve tenere particolare conto delle
situazioni tipiche di rischio corruzione definite nella legge 190/2012 (la ben nota “legge
Severino”) e compatibili con la natura giuridica, l’organizzazione e l’attività del singolo
ente (a partire da selezione del personale e dei collaboratori, affidamento a fornitori di
lavori e servizi ed a tutti i processi finalizzati all’adozione di provvedimenti ampliativi della
sfera giuridica dei destinatari).
In tale fase devono essere con estremo dettaglio individuati i rapporti tra l’ente privato
e la Pubblica Amministrazione, con particolare riferimento alla presenza di dipendenti
pubblici negli organi dell’ente, ai rapporti economici e contrattuali dalla Pubblica Amministrazione e ad ogni altro elemento che riguardi il rapporto tra l’ente in questione e la
PA.
8. Protocollo da adottare per prevenire condotte corruttive
La parte finale del PTPC, logicamente successiva all’individuazione dei rischi, dev’essere costituita dai protocolli di comportamento definiti dall’alta direzione dell’ente, vale
a dire procedure dettagliate che contengano regole chiare alle quali il personale si deve
attenere nell’esecuzione di attività che sono esposte al rischio di corruzione.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
I protocolli di un sistema penal-preventivo (sia derivanti dal decreto 231 che dalla normativa
anticorruzione) devono essere puntuali ed oggetto di controlli periodici e documentati da parte
delle funzioni aziendali a ciò preposte. Occorre invece rifuggire dalla pericolosa attitudine,
tipicamente italiana, di redigere e sbandierare all’universo mondo altisonanti dichiarazioni di
principio prive di qualunque carattere operativo, che probabilmente possono impressionare
un poco esperto lettore, ma non certamente il magistrato penale che, in ultima analisi, sarà
chiamato a valutare la correttezza del sistema aziendale di prevenzione degli illeciti.
A tale scopo, si evidenzia come, seguendo le indicazioni del PNA, per ogni protocollo
anti corruzione il PTPC debba prevedere almeno:
– obiettivi perseguiti attraverso il protocollo;
– tempistica per l’effettiva attuazione;
– responsabili sia dell’attuazione delle misure che del successivo controllo;
– indicatori attraverso i quali si possa misurare l’efficacia del protocollo;
– modalità e responsabilità per la verifica dell’attuazione, dell’efficacia e dell’adeguatezza
del protocollo.
Un sistema di protocolli anti corruzione che non sia in grado di fornire con precisione
tali informazioni sarà certamente inadeguato perché privo della necessaria concretezza
richiesta dalla normativa, sicché dovrà essere tempestivamente potenziato, sotto l’impulso
dell’Organismo di Vigilanza.
9. Modalità di formazione del personale in materia di lotta alla corruzione
Una delle priorità di tutti i sistemi di prevenzione della corruzione è certamente la
formazione giuridica del personale dell’ente, con particolare riferimento a:
– legislazione penale e giurisprudenza sulla corruzione;
– contenuto della legge anticorruzione (190/12) e successivi decreti delegati;
– piano nazionale anticorruzione (PNA 2014/2016);
– PTCP dell’ente ed in particolare i protocolli di comportamento).
L’importanza della formazione come misura preventiva nasce evidentemente dal dovere
del datore di lavoro di mettere il personale che opera in attività a rischio a conoscenza dei
limiti legali della propria azione, evitando di cadere in quella “colpa organizzativa” per
omessa o incompleta informazione/formazione del personale che in alcuni settori (ad esempio
la sicurezza sul lavoro) costituisce un parametro ampiamente utilizzato dalla magistratura.
10. Sistema sanzionatorio in caso di violazione delle regole del PTPC
Il sistema 231 già adottato dall’ente dovrebbe prevedere l’inflizione di sanzioni a fronte
della violazione delle regole poste alla base del sistema di prevenzione degli illeciti (con
un puntuale catalogo o almeno con riferimento al contratto collettivo, allo statuto o al
regolamento aziendale).
Il sistema disciplinare ovviamente si articola in modo diverso per ciascuna delle tipologie
giuridiche che legano gli addetti all’ente (appartenenza alle funzioni apicali dell’ente,
rapporto di lavoro subordinato, collaborazione esterna, fornitura di beni e servizi ...).
La particolare importanza della prevenzione alla corruzione determina sicuramente
l’esigenza di una più puntuale regolamentazione del sistema sanzionatorio interna,
con introduzione di specifiche sanzioni connesse alla violazione del protocollo
anticorruzione.
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pubblica amministrazione
11. Piano di monitoraggio sull’implementazione delle misure di prevenzione della
corruzione
Una volta definiti nel PTPC tutti gli strumenti di prevenzione della corruzione, occorre
strutturare di conseguenza un piano di monitoraggio, che preveda almeno le seguenti
modalità di tenuta sotto controllo dell’efficacia del sistema anticorruzione:
– audit periodici, sia programmati che non programmati;
– interviste ai responsabili dell’ente maggiormente coinvolti nelle attività esposte al
rischio della corruzione;
– controlli a campione;
– reportistica sui flussi informativi in entrata ed in uscita con l’Organismo di
vigilanza;
– questionari rivolti agli stakeholders interni ed esterni dell’ente;
– analisi di tutte le situazioni di rilievo legale connesse alla corruzione (procedimenti
civili e penali, esito delle ispezioni pubbliche ...);
– risultato dei controlli svolti da tutte le funzioni dell’ente con compiti di vigilanza
(Collegio sindacali, revisori dei conti, comitati di indirizzo e garanzia, auditor interni,
responsabile qualità, responsabile della sicurezza ...);
– analisi dei reclami ricevuti dall’ente.
12. Relazione annuale sulla prevenzione della corruzione
Il PNA prevede la redazione di una relazione annuale sui risultati della prevenzione
della corruzione all’interno dell’ente. Poiché i sistemi 231 (Modelli Organizzativi) prevedono
già di regola che l’OdV indirizzi all’organo dirigente dell’ente una relazione annuale sulla
propria attività, si suggerisce di inserire all’interno di tale documento una sezione relativa
alla prevenzione della corruzione ed all’effettiva attuazione del PTPC dell’ente.
La relazione dovrà trattare almeno i seguenti punti, relativi al periodo di riferimento:
– azioni intraprese per affrontare i rischi di corruzione;
– controlli svolti sulla gestione dei rischi di corruzione;
– iniziative eventuali di standardizzazione dei processi intraprese per ridurre i rischi
di corruzione;
– resoconto puntuale sulla formazione anticorruzione svolta nell’anno, su tutti gli aspetti
(formatori, destinatari, contenuti, efficacia, feedback dei partecipanti, eventuali scostamenti
rispetto a quanto pianificato, problematiche emerse, bisogno formativo per l’anno successivo ...);
– esito degli audit interni relativi alla prevenzione della corruzione;
– segnalazioni ricevute e forme di tutela dei whistleblowers;
– numero di violazioni accertate e provvedimenti sanzionatori adottati.
Emanuele Montemarano
Studio legale e commerciale Montemarano
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Corruzione internazionale e D.Lgs. n. 231/2001.
Il problema delle sanzioni interdittive
Sommario: 1. L’introduzione nell’ordinamento italiano della fattispecie di corruzione internazionale;
2. L’inapplicabilità delle sanzioni interdittive ai reati ex art. 322 bis, comma 2, c.p.; 3. La sentenza
della Corte di Cassazione relativa all’estensione delle sanzioni interdittive all’ipotesi di corruzione
internazionale: il rispetto degli obblighi internazionali; 4. Il dibattito dottrinale; 5. Considerazioni
conclusive.
1. L’introduzione nell’ordinamento italiano della fattispecie di corruzione
internazionale
Il fenomeno della corruzione dei pubblici funzionari stranieri ha suscitato recentemente
l’attenzione della comunità internazionale. Infatti, a partire dalla metà degli anni ’90 del
secolo scorso, la crescente globalizzazione degli affari commerciali ha costituito il terreno
d’elezione per il proliferare di pratiche corruttive tra imprese multinazionali e pubblici
ufficiali stranieri, con un innegabile pregiudizio per il gioco della concorrenza nei mercati
interni ed internazionali1.
La lotta alla corruzione dei funzionari stranieri è stata per lungo tempo caratteristica
del solo sistema statunitense. Infatti, il Foreign Corrupt Practices Act del 19772, e successive
modifiche, costituisce il primo atto legislativo volto a sanzionare le commesse illecite delle
imprese americane, od operanti nel mercato americano, nei confronti di pubblici ufficiali
ed esponenti politici stranieri. Negli altri Paesi, in ossequio alla tradizione “territorialista”
del diritto penale, era prevalsa, fino all’entrata in vigore della Convenzione OCSE contro
la corruzione dei pubblici ufficiali stranieri3, una concezione della disciplina penale della
corruzione limitata esclusivamente a fattispecie di tipo interno, nulla prevedendo per le
attività di corruzione svolte all’estero dalle società nazionali.
La normativa sul punto elaborata in ambito statunitense ha influenzato le legislazioni
nazionali attraverso gli strumenti convenzionali internazionali, secondo un modello di
“cross-pollination”4.
Per quanto concerne l’Italia, nello specifico, il dibattito sul punto si è concluso con
l’adozione della legge 29 settembre 2000, n. 3005, con la quale si è inteso dare attuazione
ad una serie di strumenti convenzionali in tema di protezione degli interessi finanziari
comunitari e di contrasto alla corruzione internazionale, vale a dire: 1) la Convenzione sulla
tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee del 1995 con il suo primo Protocollo
1D.Lgs. Cfr. MANACORDA S., La corruzione internazionale del pubblico agente, Iovene, 1999.
2D.Lgs. Pub.L.No. 95-213, 91 Stat. 1494 (1977).
3D.Lgs. OCDE, Convention on Combating Bribery of Foreign Public Officials in International Business Transactions,
21.11.1997, disponibile al sito www.oecd.org.
4D.Lgs. Cfr. SACERDOTI G., The 1997 OECD Convention on Combating Bribery of Foreign Public Officials in Inter‑
national Business Transactions: an example of Piece-meal Regulation of Globalization, in The Italian Yearbook of
International Law, Vol. 9, 1999, pp. 26 ss.; SPAHN E.K., Implementing Global Anti-Bribery Norms: from the Foreign
Corrupt Practices Act to the OECD Anti-Bribery Convention to the U.N. Convention Against Corruption, in Indiana
International & Comparative Law Review, 2013, vol. 23, pp. 1 ss.
5D.Lgs. L. 29.09.2000, n. 300, in G.U. n. 250, 25.10.2000.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
firmato a Dublino il 27 settembre 1996 ed il Protocollo concernente l’interpretazione
in via pregiudiziale, da parte della Corte di Giustizia delle Comunità europee di detta
Convenzione; 2) la Convenzione di Bruxelles del 26 maggio 1997 relativa alla lotta contro la
corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri
dell’Unione europea; 3) la Convenzione OCSE di Parigi del 17 dicembre 1997 sulla lotta
alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali.
In particolare, a seguito della ratifica della Convenzione OCSE, è stato inserito nel
Codice penale italiano, inter alia, l’art. 322 bis, dedicato ai reati di peculato, concussione, corruzione e istigazione alla corruzione sia di membri degli organi delle Comunità
europee, sia di funzionari delle stesse Comunità e di Stati esteri. La corruzione dei pubblici
funzionari stranieri, siano essi di uno Stato estero o di un’organizzazione internazionale,
viene disciplinata nel comma 2, n. 2 dell’articolo ora richiamato. Va ricordato che la norma
in esame dispone la punibilità soltanto del soggetto corruttore extraneus, e non anche del
soggetto estero corrotto, in ossequio al principio per il quale il funzionario è incriminato
sulla base dell’ordinamento giuridico di appartenenza.
Inoltre, con l’introduzione della fattispecie di reato in discorso, il legislatore non ha
inteso tutelare la pubblica amministrazione straniera, ma la libera concorrenza sul mercato
internazionale, in quanto l’art. 322 bis, comma 2, n. 2, c.p. non sanziona qualunque tipo
di corruzione internazionale, ma solo quella riferita a transazioni economiche e finanziarie
internazionali. Ciò in ragione della finalità della corruzione internazionale, chiaramente
rilevabile dalla littera legis, che consiste nel “procurare a sé o ad altri un indebito vantaggio
in operazioni economiche internazionali, ovvero al fine di ottenere o di mantenere un’attività
economica o finanziaria”.
2. L’inapplicabilità delle sanzioni interdittive ai reati ex art. 322 bis, comma 2, c.p.
Una delicata questione ermeneutica affrontata recentemente in ambito dottrinale e giurisprudenziale riguarda la possibilità di applicare le sanzioni interdittive, e relative misure
cautelari6, anche ai delitti di corruzione internazionale di cui all’art. 322 bis, comma 2,
n. 2, c.p. Il dubbio interpretativo nasce dalla formulazione dell’art. 25 del D.Lgs. 231 del
2001, il cui quinto comma disciplina l’applicabilità delle sanzioni interdittive solamente
in relazione ai delitti indicati ai commi secondo e terzo, senza fare alcuna menzione
del delitto di corruzione internazionale di cui all’art. 322 bis c.p7. Quest’ultimo delitto,
invece, è espressamente richiamato soltanto dal comma quarto dell’art. 25 che disciplina
le sanzioni pecuniarie.
Il tema è stato di recente oggetto di un procedimento avviato dal Tribunale di Milano
nei confronti delle società Eni S.p.A. e Saipem S.p.A., con sede principale in Italia, per aver
corrisposto dei compensi illeciti in favore di pubblici ufficiali nigeriani al fine di ottenere
6D.Lgs. È da considerarsi ius receptum il principio della inapplicabilità delle misure interdittive a quegli illeciti che
non le prevedono già in sede di condanna. Si veda, ex plurimis, Cass., sez. II, sentenza del 26.02.2007, n. 10500, D.A.,
guida dir. 2007, n. 18, 80, con nota di AMATO G.
7D.Lgs. Il comma 2, dell’art. 25, D.Lgs. n. 231/2001, cit., richiama i delitti di cui agli articoli 319, 319 ter, comma 1, 321,
322 commi 2 e 4, c.p. Il comma 3 dello stesso articolo richiama, invece, i delitti di cui agli artt. 317, 319, aggravato
ai sensi dell’art. 319 bis, quando dal fatto l’ente ha conseguito un profitto di rilevante entità, 319 ter, comma 2, 319
quater e 321, c.p.
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Compliance
contratti per la realizzazione di impianti di liquefazione di gas naturale in Nigeria 8. Nella
fattispecie in esame, il Tribunale ambrosiano, confermando l’ordinanza del Giudice per le
indagini preliminari, ha ritenuto assente il presupposto edittale per l’applicazione di misure
cautelari interdittive sulla base di argomenti relativi al tenore letterale dell’art. 25 del D.Lgs.
231, alla struttura del reato presupposto di cui all’art. 322 bis c.p., nonché a ragioni legate
al buon funzionamento delle relazioni diplomatiche con gli Stati stranieri.
Il Tribunale ha osservato, in primis, che, oltre al principio di tassatività dell’illecito (art.
2, D.Lgs. 231), in base al quale l’illecito a carico dell’ente sussiste solo per quei reati espressamente previsti dal legislatore come idonei a fondare la responsabilità dell’ente medesimo,
è doveroso considerare il principio di tassatività dell’applicazione delle sanzioni interdittive
(art. 13, comma 1, D.Lgs. 231), a mente del quale siffatte sanzioni sono applicabili solo “in
relazione ai reati per i quali sono espressamente previste”. Sicché, non potendosi ritenere
che l’art. 25, D.Lgs. 231, preveda “espressamente” l’applicazione di sanzioni interdittive
per il reato di corruzione internazionale, dette sanzioni non possono trovare applicazione
neppure in sede cautelare9.
Il percorso argomentativo del Tribunale di Milano si è basato altresì sull’analisi della
struttura del reato presupposto di cui all’art. 322 bis c.p. Quest’ultima disposizione, invero,
non si limita ad una estensione soggettiva della corruzione ordinaria interna, ma configura
una fattispecie autonoma di reato, quella di corruzione internazionale. Il Tribunale di Milano
ha rilevato gli elementi suscettibili di distinguere la fattispecie delittuosa in discorso dalla
corruzione ordinaria interna. In riferimento ai reati di cui all’322 bis c.p., infatti, non rileva
ogni atto contrario ai doveri d’ufficio, ma solo quelli compiuti nelle operazioni economiche
o finanziarie internazionali. Ciò si ricollega al mutato bene giuridico tutelato, che non
consiste più nel buon andamento e nell’imparzialità della pubblica amministrazione, ma
nella leale concorrenza sui mercati internazionali. Inoltre, il dolo specifico dell’indebito
vantaggio escluderebbe la configurabilità sia della corruzione propria susseguente sia della
corruzione impropria antecedente. Infine, l’art. 322 bis c.p. disciplina altresì la responsabilità
dei soli privati. Alla luce di tali considerazioni, il Tribunale ha ritenuto che, in relazione alla
fattispecie autonoma di corruzione internazionale, il legislatore avrebbe dovuto disporre
l’applicazione di sanzioni interdittive in maniera espressa e inequivocabile.
Non da ultimo, il Tribunale ha osservato che la scelta del legislatore italiano relativa alla
non applicabilità delle sanzioni interdittive ai reati di corruzione internazionale è motivata
dalla volontà di preservare le relazioni internazionali con gli Stati stranieri. Infatti, le misure
cautelari interdittive potrebbero incidere indirettamente sull’attività di enti pubblici di Stati
stranieri o di organismi sovranazionali coinvolti. Pertanto, la discrezionalità del legislatore in
ordine alla definizione del sistema sanzionatorio di cui al D.Lgs. 231/2001 non sarebbe stata
esercitata in modo “manifestamente irragionevole, arbitrario o radicalmente ingiustificato”10,
e risulterebbe in linea, inter alia, con la Convenzione OCSE.
8D.Lgs. Trib. riesame Milano (ord.), 19.01.2010, Eni-Saipem, in Foro ambrosiano, 2010, p. 85, con nota di CAMERA G.
9D.Lgs. Cfr. art. 46, comma 2 e 13, comma 1, D.Lgs. n. 231, cit.
10D.Lgs. Corte Cost., sentenza n. 161/2009.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
3. La sentenza della Corte di Cassazione relativa all’estensione delle sanzioni interdittive
all’ipotesi di corruzione internazionale: il rispetto degli obblighi internazionali
Su ricorso del titolare della pubblica accusa è stata successivamente investita della questione
la Corte di Cassazione11, la quale, seguendo un differente percorso ermeneutico, ha affermato
per converso l’astratta applicabilità delle misure cautelari interdittive anche ai casi di corruzione
internazionale. È opportuno rilevare che la Suprema Corte ha inteso utilizzare un approccio
interpretativo sistematico fondato, oltre che sul rispetto della littera legis, sull’intenzione del
legislatore quale emerge dalla legge n. 300 del 2000 e dal D.Lgs. 231/ 2001, ossia quella
di rafforzare la lotta alla corruzione interna ed internazionale alla luce degli obblighi assunti
dall’Italia sul piano internazionale, in particolare con la ratifica della Convenzione OCSE.
Muovendo da detta premessa, la Corte ha ritenuto che l’art. 25, comma 4, del D.Lgs. 231,
non configuri una fattispecie di reato autonoma, bensì operi una mera estensione ai pubblici
funzionari stranieri della sfera soggettiva dei reati di corruzione base richiamati dai primi
tre commi dello stesso articolo. Pertanto, il comma 5 dell’art. 25 deve considerarsi riferito
sia alle ipotesi di corruzione base di cui ai commi 2 e 3, espressamente richiamati, sia alle
estensioni soggettive contemplate nel comma 4 dell’articolo. Per converso, afferma il supremo
Collegio, qualora si accogliesse l’argomento relativo all’asserita inapplicabilità delle sanzioni
interdittive ai reati di corruzione internazionale, il sistema sanzionatorio per i delitti contro
la pubblica amministrazione, delineato dall’art. 25, D.Lgs. 231/2001, risulterebbe incoerente
e irragionevole. In primo luogo, infatti, il trattamento sanzionatorio più severo accordato alla
corruzione domestica rispetto alla corruzione internazionale si porrebbe in contrasto, inter
alia, con la Convenzione OCSE che, all’art. 3, sancisce il principio del pari trattamento della
corruzione in ambito interno ed internazionale. In secondo luogo, una lettura meramente
testuale dell’art. 25, D.Lgs. 231 porterebbe ad escludere l’applicabilità delle sanzioni interdittive
anche per la persona incaricata di pubblico servizio, atteso che l’art. 320 c.p. – relativo alla
“corruzione di persona incaricata di pubblico servizio” – non viene richiamato dal comma 5,
ma dal solo comma 4 dell’art. 25 ai fini dell’applicazione delle sanzioni pecuniarie12.
Un’altra questione delicata affrontata nella sentenza della Corte riguarda la concreta
esecuzione delle sanzioni per reati corruttivi commessi all’estero. I giudici di legittimità
riconoscono, infatti, che alcune sanzioni interdittive possono comportare, anche se solo
indirettamente, il coinvolgimento delle pubbliche amministrazioni straniere. Si pensi alle
misure di sospensione o revoca di autorizzazioni o licenze rilasciate dagli Stati esteri (art.
9, comma 2, lett. b), D.Lgs. 231/2001). Si pensi alle misure che vietano di contrattare
con la pubblica amministrazione o che escludono agevolazioni o finanziamenti (art. 9,
comma 2, lett. d), D.Lgs. 231/2001) concessi da organismi pubblici stranieri. La concreta
esecuzione delle menzionate sanzioni, infatti, richiede la necessaria collaborazione delle
amministrazioni pubbliche straniere. Tuttavia, come è noto, il giudice penale italiano non
ha alcuna giurisdizione sulle autorità straniere, né alcuna possibilità di imporre particolari
condotte alle stesse o di realizzare i controlli del caso. Lo ius puniendi nazionale, infatti,
non può comportare l’esercizio di atti sovrani oltre i confini statuali, in ossequio al principio
di diritto internazionale della sovranità degli Stati.
11D.Lgs. Cass., Sez. VI, 30 settembre – 1° dicembre 2010, n. 42701, in Rivista penale, 2011, p. 34.
12D.Lgs. Sul punto, giova rilevare, tuttavia, che la novella legislativa di cui alla legge italiana n. 190/2012 ha inserito nel
nuovo art. 308, comma 2 bis, c.p.p., anche l’articolo 320 c.p. relativamente alle sanzioni interdittive.
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Compliance
4. Il dibattito dottrinale
La pronuncia della Corte di Cassazione ha aperto la strada ad un vivace dibattito
dottrinale sul tema in discorso13. In particolare, è stato rilevato in dottrina che, anche alla
luce dell’obbligo di interpretazione internazionalmente conforme14, l’applicazione delle
sanzioni interdittive ai reati di corruzione internazionale non si potrebbe desumere dal
testo della Convenzione OCSE. Infatti, il richiamato art. 3, comma 1, di detta Convenzione
non impone al legislatore nazionale un vincolo di “assimilazione”, secondo il modello
europeo di tutela degli interessi finanziari15, ma un semplice vincolo di “comparabilità”
tra le sanzioni per i reati di corruzione internazionale e per quelli di corruzione interna 16.
In questa prospettiva, è stato pertanto rilevato come le già gravose sanzioni pecuniarie
sarebbero state sufficienti a soddisfare l’obbligo internazionale17.
Altresì, è stato osservato in dottrina che l’interpretazione estensiva fornita dalla Corte
di Cassazione in relazione all’applicazione delle sanzioni interdittive anche ai reati di
corruzione internazionale sembra configurarsi come un’interpretazione analogica con effetti
sfavorevoli al reo (in malam partem), in contrasto con il principio di riserva di legge in
materia penale di cui all’art. 25, comma 2, Cost18. Peraltro, una siffatta interpretazione si
porrebbe in contrasto con il principio di legalità di cui all’art. 7 della CEDU, nonché con
la relativa giurisprudenza delle Corti di Strasburgo e di Lussemburgo che a più riprese
hanno affermato il principio della legalità dei delitti e delle pene19.
13D.Lgs. In senso favorevole alla pronuncia della Corte di Cassazione, si veda CERQUA L.D., PRICOLO C.M., Corruzione
internazionale, responsabilità degli enti e sanzioni interdittive. Note a margine di una recente sentenza della Corte
di Cassazione, in Rivista 231, n. 3, 2011, pp. 29 ss.
14D.Lgs. L’obbligo in parola rappresenta una “filiazione specifica” dell’obbligo più generale di interpretazione costituzionalmente conforme, essendo teso a prevenire, oltre al contrasto diretto degli obblighi internazionali (definiti anche
“parametri interposti”), un contrasto indiretto dell’art. 117 Cost. Per un’analisi del metodo di interpretazione conforme
in ambito penale, si veda VIGANÒ F., Il giudice penale e l’interpretazione conforme alle norme sopranazionali, in
CORSO P.-ZANETTI E. (a cura di), Studi in onore di Mario Pisani, vol. II, Piacenza, 2010, pp. 617 ss.
15D.Lgs. Il c.d. “principio di assimilazione”, elaborato dapprima in via giurisprudenziale sulla base del principio di leale
collaborazione, è attualmente disciplinato dall’art. 325 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Siffatto
principio impone agli Stati membri di applicare alle frodi contro le finanze dell’Unione le stesse misure previste per
contrastare le frodi ai danni degli interessi finanziari interni. Si veda sul punto ADAM R., TIZZANO A., Manuale di
diritto dell’Unione europea, Giappichelli editore, Torino, 2014, p. 126 s.
16D.Lgs. Il testo ufficiale inglese della Convenzione OCSE, art. 3, comma 1, dispone infatti che: “the bribery of a foreign
public official shall be punishable by effective, proportionate and dissuasive criminal penalties. The range of penalties shall be comparable to that applicable to the bribery of the Party’s own public officials […]” (corsivo aggiunto).
OCDE, Convention on Combating Bribery of Foreign Public Officials, cit. Si veda sul punto SCOLETTA M.M. e CHIARAVIGLIO P., Corruzione internazionale e sanzioni interdittive per la persona giuridica: interpretazione sistematicointegratrice o sentenza “additiva” in malam partem?, in Le Società, 6, 2011, p. 699; MONTESANO M., L’applicazione di
sanzioni interdittive e cautelari al reato di corruzione internazionale, in Rivista 231, 2011, n. 2, p. 179; CENTONZE
F., DELL’OSSO V., La corruzione internazionale. Profili di responsabilità delle persone fisiche e degli enti, in Rivista
italiana di diritto e procedura penale, fasc. 1, 2013, pp. 194 ss.
17D.Lgs. Cfr. SCOLETTA M.M. e CHIARAVIGLIO P., Corruzione internazionale e sanzioni interdittive per la persona
giuridica, cit., p. 699.
18D.Lgs. Sul punto si veda SCOLETTA M.M. e CHIARAVIGLIO P., Corruzione internazionale e sanzioni interdittive per
la persona giuridica, cit.; MONGILLO V., La corruzione tra sfera interna e dimensione internazionale. Effetti, poten‑
zialità e limiti di un diritto penale “multilivello” dallo Stato-nazione alla globalizzazione, Esi, Napoli, 2012, p. 343
s. In generale sui principi interpretativi nel diritto penale si veda MARINUCCI G., DOLCINI E., Manuale di Diritto
Penale. Parte Generale, Giuffré editore, 2012, pp. 64 ss.
19D.Lgs. Cfr. sul punto CENTONZE F., DELL’OSSO V., La corruzione internazionale. Profili di responsabilità, cit.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
5. Considerazioni conclusive
Benché la Corte Suprema, nella sentenza in discorso, sembri aver forzato il dato testuale
in ragione di considerazioni di politica criminale, di esclusiva competenza del legislatore,
è pur vero che ha richiamato l’attenzione del dibattito interno sulla pertinente normativa
internazionale.
Penso al primo atto globale per la lotta contro la corruzione, vale a dire la Convenzione
delle Nazioni Unite del 2003, ratificata dall’Italia con la legge 3 agosto 2009, n. 116 20.
L’art. 30, comma 7, di detta Convenzione, infatti, prevede la possibilità di introdurre nelle
legislazioni nazionali delle sanzioni interdittive, azionabili a seguito di una decisione
giudiziaria, per le persone fisiche responsabili dei reati di corruzione previsti dalla
Convenzione.
Penso, soprattutto, al favore con il quale il Working Group on Bribery dell’OCSE ha
salutato l’estensione delle sanzioni interdittive ai reati di corruzione internazionale operata
dalla Corte di Cassazione21.
Maria Sardelli
Coccia De Angelis Pardo & Associati
20D.Lgs. Cfr. United Nations Convention against Corruption, General Assembly resolution 58/4 of 31.10.2003, disponibile al sito www.unodc.org.
21D.Lgs. “With regard to legal persons, the lead examiners welcome confirmation of the availability of interdictive sanctions for the foreign bribery offence, which can significantly deter companies from engaging in bribery, in spite of the
multiple ways companies can evade such interdictive sanctions”. OECD, Phase 3 Report on implementing the OECD
Anti-Bribery Convention in Italy, December 2011, parr. 67-71.
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Reati transnazionali e responsabilità degli enti
Sommario: 1. I reati transnazionali nella legge n. 146/2006: l’attuazione della Convenzione di
Palermo; 2. Profili problematici relativi alla giurisdizione italiana in tema di reati transnazionali;
3. Oltre la Convenzione di Palermo. Gli strumenti di lotta al crimine organizzato transnazionale
e la responsabilità delle persone giuridiche in ambito europeo: cenni; 4. Conclusioni.
1. I reati transnazionali nella legge n. 146/2006: l’attuazione della Convenzione di
Palermo
La “moltiplicazione degli spazi giuridici” in epoca globale ha fatto sì che la sfera
di rilevanza dell’illecito penale abbia assunto, oltre alle dimensioni sovranazionale ed
internazionale, anche una dimensione transnazionale, in cui a rilevare non sono le
organizzazioni statali, ma alcuni soggetti di natura privatistica1.
Il dibattito dottrinale italiano relativo alla natura transnazionale del consortium sceleris ha
assunto un rilievo di grande momento a seguito dell’adozione della legge 16 marzo 2006, n. 1462,
che ha ratificato e dato esecuzione alla Convenzione delle Nazioni Unite del 2001 sul crimine
organizzato transnazionale e relativi protocolli (di seguito, Convenzione di Palermo)3.
Con la legge in parola il legislatore ha ampliato il novero dei c.d. “reati presupposto”
che possono determinare la responsabilità amministrativa da reato degli enti di cui al D.Lgs.
8 giugno 2001, n. 2314. A differenza dei precedenti interventi normativi additivi, i reati
di cui alla legge 146/2006 non sono stati inseriti nel corpus del D.Lgs. n. 231/2001, ma
sono stati collocati in una legge estranea5.
1Sul fenomeno della “globalizzazione giuridica” si veda FERRARESE M.R., (voce) Globalizzazione giuridica, in Enci‑
clopedia del diritto, Annali, vol. 4, Giuffré, Milano, 2011, pp. 547-570. Per una disamina approfondita dei caratteri propri degli illeciti penali nello spazio giuridico internazionale e transnazionale, si veda FOUCHARD I., Crimes interna‑
tionaux. Entre internationalisation du droit pénal et pénalisation du droit international, Bruylant, Bruxelles, 2014,
passim.
2L. 16 marzo 2006, n. 146, in G.U. n. 85, 11.04.2006.
3United Nations Convention against Transnational Organized Crime and the Protocols thereto, 15.11.2000, disponibile
al sito www.unodc.org. La Convenzione è stata aperta alla firma degli Stati a Palermo il 12 dicembre 2000.
4D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, recante “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle
società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre
2000”, n. 300, in G.U. n. 140, 19 giugno 2001. L’entrata in vigore del D.Lgs. n. 31/2001, emanato in attuazione della
delega conferita al governo dalla legge 29 settembre 2000, n. 300, ha rappresentato un accadimento di assoluta importanza nell’ordinamento giuridico italiano. Con il D.Lgs. in discorso, infatti, è stato abbandonato definitivamente
il principio cardine del sistema penale italiano efficacemente sintetizzato nel brocardo che recita societas delinquere
non potest ed è stata introdotta la responsabilità da reato delle persone giuridiche. Il principio testé menzionato era
stato considerato come un corollario del principio costituzionale (art. 27, comma 1, Cost.) della personalità della responsabilità penale e del principio della necessità che la sanzione penale persegua finalità rieducative del condannato. Si veda sul punto, DOLCINI E., Sanzione penale o sanzione amministrativa: problemi di scienza della legislazione,
in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1984, pp. 589 ss.; MANGIONE A., Principi costituzionali e responsa‑
bilità penale della persona giuridica nell’ordinamento italiano, in Legalità e giustizia, 2003, n. 3, pp. 58 ss. Va rilevato, altresì, che l’ampliamento della categoria dei reati presupposto tesi a far scattare la responsabilità amministrativa
degli enti, risulta in linea con le medesime misure sul piano internazionale e sovranazionale. Si pensi ad un sempre
maggiore orientamento verso una disciplina comune in ambito europeo in tema di responsabilità, penale e non, delle
persone giuridiche. In argomento, tra i contributi più recenti, si vedano: FIORELLA A., Corporate Criminal Liability
and Compliance Programs. Towards a Common Model in the European Union, Jovene Editore, Vol. 2, 2012; CERQUA
F., La responsabilità degli enti: la creazione di una disciplina comune a livello europeo, in CAMALDO L.B.C. (a cura
di), L’istituzione del procuratore europeo e la tutela penale degli interessi finanziari dell’Unione europea, Giappichelli
Editore, Torino, 2014, pp. 97 ss.
5Una parte della dottrina ha ritenuto che una siffatta scelta da parte del legislatore è suscettibile di frammentare la
normativa in tema di responsabilità degli enti. Per converso, un’altra parte della dottrina ha accolto con favore tale
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L’art. 10, comma 2, della legge 146/2006, stabilisce la responsabilità degli enti in
relazione a taluni gravi reati, ove essi siano connotati dalla transnazionalità, così come
definita dall’art. 3 della medesima legge; si tratta dei seguenti reati: l’associazione per
delinquere (art. 416 c.p.); l’associazione di stampo mafioso (art. 416 bis c.p.); l’associazione
per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291 quater d.p.r.
43/1973); l’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74
d.p.r. 309/1990); il traffico di migranti (art. 12, commi 3, 3 bis, 3 ter e 5, del Testo unico
di cui al D.Lgs. 25.07.1998, n. 286 e successive modificazioni); l’induzione a non rendere
dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria e il favoreggiamento
personale (artt. 377 bis e 378, c.p.).
L’art. 10 della legge 146/2006 dispone che la responsabilità amministrativa6 da reato degli
enti viene in rilievo solo qualora sia riconosciuta la natura transnazionale dei reati disciplinati
dall’articolo in discorso. A tal proposito, è stata evidenziata una “non corrispondenza
per difetto” tra l’art. 10 della legge 146/2006 e l’art. 10 della Convenzione di Palermo.
Quest’ultimo, infatti, stabilisce il presupposto della responsabilità delle persone giuridiche in
relazione ai serious crimes compiuti da un gruppo criminale organizzato anche a prescindere
dall’elemento della transnazionalità7. Lo stesso art. 34, comma 2, della Convenzione di
Palermo stabilisce che i reati ivi disciplinati vengono inseriti nella legislazione degli Stati
parte indipendentemente dalla loro natura transnazionale o dal coinvolgimento di un
gruppo criminale organizzato, salvo per quanto attiene alla fattispecie descritta all’art. 5
(partecipazione ad un gruppo criminale organizzato, in quanto tale elemento plurisoggettivo
è elemento costitutivo della fattispecie) 8. Sicché, come è stato osservato in dottrina, l’art.
10 della legge n. 146/2006 si configura come uno strumento inefficace nella lotta contro
il crimine organizzato, in quanto lascerebbe l’ente impunito qualora esso sia legato ad un
gruppo criminale interno9.
Altresì, poco chiara risulta la previsione per la quale la natura transnazionale dei reati di
cui all’art. 10 debba farsi discendere dal collegamento ad un gruppo criminale organizzato.
Invero, numerose fattispecie criminose presentano in re ipsa un carattere transnazionale;
si pensi agli illeciti inerenti al commercio di tabacchi lavorati esteri o che presuppongono
l’impiego di strumenti informatici e delle comunicazioni a mezzo internet; si pensi ai reati
scelta normativa, in quanto un intervento di tipo additivo avrebbe dovuto chiarire che la responsabilità dell’ente, solo
per taluni reati presupposto, viene in rilievo a condizione che siano integrati i requisiti della transnazionalità. Si veda
in proposito, Cfr. PASCULLI M.A., Osservazione in tema di reato transnazionale, quale presupposto della responsabi‑
lità degli enti collettivi, in SPAGNOLO G., (a cura di), La responsabilità da reato degli enti collettivi. Cinque anni di
applicazione del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Atti del Convegno organizzato dalla facoltà di Giurisprudenza e dal
dipartimento di diritto comparato e penale dell’Università di Firenze (15-16 marzo 2002), CEDAM, Padova, p. 127;
CADOPPI A., GARUTI G., VENEZIANI P., Enti e responsabilità da reato, Woulters Kluwer Italia, 2010, p. 459.
6Si veda sul punto, DE SIMONE G., La responsabilità da reato degli enti: natura giuridica e criteri (oggettivi) d’imputa‑
zione), in penalecontemporaneo.it, 2012; PULITANÒ D., Diritto penale, quinta edizione, Giappichelli editore, Torino,
2013, pp. 634 ss.;
7Cfr. PAZIENZA S., Reati transnazionali e responsabilità degli enti, 2008, pp. 4 ss., disponibile al sito web reatisocietari.it. Inoltre, come è stato osservato, la formulazione dell’art. 10 in esame lasciava privi del presidio sanzionatorio i
reati di riciclaggio commessi esclusivamente in ambito nazionale, benché caratterizzati da maggiore gravità rispetto a
quelli a carattere transnazionale. Si veda sul punto TRAVERSI A., Nuovi profili di responsabilità amministrativa delle
società per riciclaggio, in Responsabilità amministrativa delle società e degli enti, IV, 2006, p. 149.
8Cfr. Art. 34, comma 2, Convenzione di Palermo, cit.
9Cfr. MARENGHI F., La responsabilità delle persone giuridiche nel crimine organizzato transnazionale, in ROSI E. (a
cura di), Criminalità organizzata transnazionale e sistema penale italiano. La Convenzione ONU di Palermo, Ipsoa,
Milano, 2007, pp. 266 ss.
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compliance
sui mercati finanziari; ai reati concernenti la falsificazione dell’euro e a quelli di frode degli
interessi finanziari dell’UE. Trattasi di aree criminologiche transnazionali ma non necessariamente governate da strutture criminali organizzate10.
L’art. 10 rinvia alla definizione di reato transnazionale contenuta nell’art. 3 della legge
146/2006. In questa prospettiva, le fattispecie delittuose di cui all’art. 10 sono definite
fattispecie complesse, in quanto, ai fini della loro integrazione si richiede la sovrapposizione
delle norme di “parte speciale” del D.Lgs. 231/200111 e, al contempo, i requisiti della
transnazionalità di cui all’art. 3 della legge 14612. Quest’ultima disposizione ha indicato
quale requisito indispensabile ai fini della determinazione della natura transnazionale di
un reato il “coinvolgimento di un gruppo criminale organizzato”. Inoltre, la disposizione in
esame stabilisce che si considera reato transnazionale solo quel reato che sia punito con
una pena non inferiore nel massimo a quattro anni. Altresì, l’art. 3 dispone che, affinché si
possa parlare di reato transnazionale, occorre che esso presenti un elemento di collegamento
con uno o più Stati esteri. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, vale notare che l’art. 3
in discorso disciplina una transnazionalità sotto il profilo oggettivo (art. 3, lett. a), b) e d)
e una sotto il profilo soggettivo (art. 3, lett. c).
Sotto il primo profilo, l’art. 3, lett. a) della legge 146/2006 collega la transnazionalità
al momento di perfezionamento del crimine, laddove stabilisce che si considera reato
transnazionale il reato che “sia commesso in più di uno Stato”. Inoltre, la lettera b) dello
stesso articolo dispone che si qualifica come reato transnazionale il reato che “sia commesso
in uno Stato, ma una parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione,
o controllo avvenga in altro Stato”. In questo caso, la transnazionalità si ricollega ad un
elemento pre-delittuoso e ad un’attività di direzione e controllo. Da ultimo, la lettera d)
dell’art. 3 stabilisce che si possa definire transnazionale il reato che “sia commesso in uno
Stato ma abbia effetti sostanziali in un altro Stato. In questo caso, la transnazionalità del
reato è ricollegata all’offesa, vale a dire alle conseguenze che sopraggiungono a seguito
della realizzazione del reato stesso13.
Sotto il profilo della transnazionalità di tipo soggettivo, la lettera c) dell’art. 3 stabilisce
che si possa qualificare come transnazionale il reato che “sia commesso in uno Stato, ma in
esso sia implicato un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di
uno Stato”. Per quanto attiene al significato di “gruppo criminale organizzato”, va rilevato
che nell’ordinamento italiano non esiste una nozione legislativa di criminalità organizzata.
La stessa legge 146/2006 non ha individuato una categoria terminologica di criminalità
organizzata. Ha cercato di porre rimedio a tale lacuna la Corte di Cassazione, la quale ha
affermato che, in tutti i casi in cui la legge utilizza l’espressione “criminalità organizzata”,
il riferimento deve intendersi non solo ai reati di criminalità mafiosa o assimilata o ai delitti
associativi previsti da norme incriminatrici speciali, ma anche a qualsiasi tipo di associazione
10Cfr. BERNASCONI A., PRESUTTI A., FIORIO C., La responsabilità degli enti. Commento articolo per articolo al D.Lgs.
8 giugno 2001, n. 231, Wolters Kluwer Italia, Padova, 2008, p. 303 s.
11Il D.Lgs. 231/2001 si compone di una “Parte generale”, che accoglie il nuovo diritto punitivo degli enti collettivi, e di
una “Parte speciale”, che contiene il catalogo dei reati suscettibili di attivare la responsabilità dell’ente.
12ASTROLOGO A., I reati transnazionali come presupposto della responsabilità degli enti, cit., p. 72; CADOPPI A., GARUTI G., VENEZIANI P., Enti e responsabilità da reato, Woulters Kluwer Italia, 2010, p. 460.
13Cfr. CADOPPI A., GARUTI G., VENEZIANI P., Enti e responsabilità da reato, cit., p. 460.
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per delinquere “correlata alle attività criminose più diverse, con l’esclusione del mero
concorso di persone nel reato, nel quale manca il requisito della organizzazione”14.
La natura transazionale del reato rileva, inoltre, quale circostanza aggravante speciale per
i delitti puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, “nella commissione dei quali abbia dato il suo contributo un gruppo criminale organizzato”.
Nella Convenzione di Palermo, per converso, la natura transnazionale dei reati non
necessariamente si deve riconnettere ad un gruppo criminale organizzato.
Nel caso di condanna per uno dei delitti di cui all’art. 10 della legge 146/2006 viene
applicata all’ente la sanzione amministrativa pecuniaria da quattrocento a mille quote nonché
le sanzioni interdittive disciplinate dall’art. 9, comma 2, per una durata non inferiore ad un
anno. Per i reati di cui agli artt. 377 bis e 378, c.p., invece, sono comminabili all’ente le
sole sanzioni pecuniarie15. Inoltre, l’art. 16, comma 3, della legge 146/2006 dispone che,
qualora l’ente o una sua unità organizzativa venga utilizzato unicamente o prevalentemente
a consentire o agevolare il compimento dei delitti transnazionali richiamati, viene applicata
all’ente la sanzione amministrativa dell’interdizione dall’esercizio dell’attività.
2. Profili problematici relativi alla giurisdizione italiana in tema di reati
transnazionali
La legge 146/2006 non contiene alcuna disposizione relativa alla giurisdizione. Secondo
una parte della dottrina16, l’art. 10, ultimo comma17, richiama la disciplina di cui al D.Lgs.
231/2001 senza prefigurare alcuna deroga all’art. 4 del decreto legislativo relativo alla
responsabilità degli enti per i reati compiuti all’estero. Per converso, un’altra parte della
dottrina ha sostenuto che gli artt. 3 e 10 della legge 146/2006 avrebbero introdotto una
deroga implicita all’art. 4 della stessa legge, in quanto la normativa speciale avrebbe
creato un criterio di collegamento autonomo basato sul carattere transnazionale del reato
presupposto18. Pertanto, la natura transnazionale di tali reati sarebbe sufficiente a radicare
la giurisdizione interna su fatti compiuti all’estero.
L’art. 4, comma 1, dispone che gli enti con sede principale in Italia sono considerati
responsabili anche qualora i reati presupposto vengano commessi all’estero, nei casi e nei
limiti di cui agli artt. 7, 8, 9 e 10, c.p., purché nei loro confronti non proceda lo Stato del
luogo in cui è stato commesso il reato. Tali ipotesi si riferiscono ai casi in cui i reati siano
commessi interamente all’estero. Tuttavia, il D.Lgs. n. 231/2001 non contiene nessuna regola
che consente di determinare quando un reato sia stato commesso in Italia o all’estero, sicché
14Cort. Cass. S.U., sentenza del 22 marzo 2005, dep. l’11 maggio 2005.
15Ibidem, p. 471.
16Si veda, in particolare, CERQUA L.D., I reati transnazionali nel sistema della responsabilità degli enti, in AA.VV., Lo
straniero nel diritto penale del lavoro e dell’impresa, a cura di F. Curi, Bononia University Press, Bologna, 2011, pp.
118 ss.; VARRASO G., Il procedimento per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, Giuffré editore, Milano, 2012,
p. 116; MONGILLO V., La corruzione tra sfera interna e dimensione internazionale. Effetti, potenzialità e limiti di un
diritto penale “multilivello” dallo Stato-nazione alla globalizzazione, Esi, Napoli, 2012, p. 338 s.
17L’art. 10, u.c., L. n. 146/2006, cit., recita: “Agli illeciti amministrativi previsti dal presente articolo si applicano le disposizioni di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231”.
18Si veda PISTORELLI L., Profili problematici della “responsabilità internazionale degli enti” per i reati commessi nel
loro interesse o vantaggio, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, fasc. 1, 2011, p. 17; ANGELINI
M., Art. 4 Reati commessi all’estero, in AA.VV., La responsabilità degli enti: commento articolo per articolo al D.Lgs. 8
giugno 2001, n. 231, Padova, 2008, pp. 91 ss.
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dovrà farsi riferimento all’art. 6 c.p., relativo ai reati commessi nel territorio dello Stato.
L’articolo 6, comma 2, c.p. stabilisce che il reato si considera commesso nel territorio dello
Stato, quando l’azione o l’omissione è avvenuta in tutto o in parte nello Stato, ovvero si
è ivi verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione o dell’omissione 19. Pertanto, ne
deriva che, anche quando l’azione o l’omissione sono commesse solo in parte in Italia,
queste sono sottoposte alla giurisdizione italiana. Come si è detto, ai fini dell’art. 4 della
legge 146/2006, è necessario che l’ente abbia la sua sede principale in Italia, da un lato, e
che nei suoi confronti non deve procedere lo Stato in cui è stato commesso il reato da cui
discende la sua responsabilità, dall’altro. Sotto il primo profilo, nel caso di reati commessi
da gruppi multinazionali, vigendo il principio di autonomia tra controllante e controllate,
si dovrà prendere in considerazione la sede dell’ente nel cui ambito è stato commesso il
reato. Pertanto, se la sede dell’ente si trova all’estero e il reato è stato compiuto all’estero,
allora non sarà applicabile la legge penale italiana.
Sotto il secondo profilo, rileva la questione della litispendenza internazionale, alla luce
dei possibili conflitti internazionali che potrebbero porsi20.
In proposito, la formulazione dell’art. 21 della Convenzione di Palermo (rubricato
“Transfer of criminal proceedings”) risulta alquanto generica, nella misura in cui stabilisce che
gli Stati parte valutino la possibilità di trasferire i procedimenti per i reati ivi disciplinati ad
un altro Stato al fine di preservare la corretta amministrazione della giustizia, in particolare
quando sono coinvolte più giurisdizioni. L’art. 7 della legge 146/2006, invece, dispone
soltanto che il trasferimento dei procedimenti penali, di cui all’art. 21 della Convenzione di
Palermo, avvenga “esclusivamente nelle forme e nei limiti degli Accordi internazionali”.
3. Oltre la Convenzione di Palermo. Gli strumenti di lotta al crimine organizzato
transnazionale e la responsabilità delle persone giuridiche in ambito europeo: cenni
Oltre alla Convenzione di Palermo, molti altri strumenti normativi internazionali
richiedevano all’Italia un aggiornamento delle ipotesi di responsabilità delle persone
giuridiche, come il secondo Protocollo sulla protezione degli interessi finanziari delle
Comunità europee del 1997, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla Corruzione del
1999, e la Convenzione ONU di Mérida sulla Corruzione del 2003.
Per quanto riguarda l’ambito dell’Unione europea, in particolare, la strategia di lotta
alla criminalità organizzata, anche di natura transnazionale, è stata inserita sia nel diritto
primario europeo, all’art. 29 TUE, sia nel diritto secondario21. Sotto quest’ultimo profilo,
giova richiamare la decisione-quadro 2008/841/GAI, quale risposta più recente in materia
di lotta alla criminalità organizzata, anche transnazionale22. Gli artt. 5 e 6 della detta
19Cfr. CERQUA L.D., I reati transnazionali nel sistema della responsabilità degli enti, cit., p. 119.
20Cfr. Ibidem; ROSI E., Corruzione transnazionale e/o corruzione internazionale: una breve riflessione, in Diritto pe‑
nale e processo, 2013, pp. 55 ss.
21Occorre sottolineare che la Convenzione di Palermo è stata negoziata in un periodo di forte sviluppo dell’azione dell’UE in materia di cooperazione giudiziaria penale, ed in particolare di lotta contro la criminalità organizzata. Infatti,
il Trattato di Amsterdam, entrato in vigore il 1° maggio 1999, individuava quale obiettivo dell’Unione quello di “conservare e sviluppare l’Unione quale spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la prevenzione della
criminalità e la lotta contro quest’ultima” (art. 2 Trattato UE), da perseguirsi “prevenendo e reprimendo la criminalità
organizzata o di altro tipo, in particolare il terrorismo” ed una serie di gravi reati a tipica valenza transnazionale”.
22Cfr. Decisione quadro 2008/841/GAI del Consiglio relativa alla lotta contro la criminalità organizzata, 24 ottobre 2008,
in G.U.U.E. L 300, 11 novembre 2008, p. 42.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
decisione-quadro stabiliscono la responsabilità giuridica e le relative pene per fatti di
criminalità organizzata. È opportuno notare come, in linea con la Convenzione di Palermo,
la decisione-quadro non fa discendere la responsabilità delle persone giuridiche per i reati
di criminalità organizzata soltanto dalla loro natura transnazionale.
4. Conclusioni
La lotta alla criminalità organizzata transnazionale in Italia ha consentito di intercettare i
patrimoni criminali delle imprese e delle società coinvolte in tali reati. Inoltre, la possibilità di
applicare le misure sanzionatorie di cui al D.Lgs. 231/2001 anche a siffatti reati, ha consentito
di contrastare in maniera più efficace il fenomeno dell’evasione fiscale. Si ponga mente ai
fenomeni di frode all’Iva nello spazio europeo, in cui è presente quasi sempre l’elemento
della transnazionalità. Non da ultimo, giova citare la recente sentenza della Corte di Cassazione del 3 luglio 2014, n. 2896023, che risolve la questione particolarmente dibattuta
relativa all’estensione della responsabilità amministrativa degli enti, in base al D.Lgs. 231,
anche ai reati tributari se questi rientrano nel programma associativo dell’organizzazione
criminale transnazionale. Ne deriva, in tal modo, la legittimità del sequestro applicato nei
confronti dei beni di una società i cui vertici sono imputati di associazione per delinquere
transnazionale, finalizzata alla frode fiscale24.
Restano, infine, da valutare gli effetti concreti dell’introduzione in parola di siffatti reati
sul piano dell’adozione di modelli organizzativi ed operativi in funzione di prevenzione. Ci si
chiede, pertanto, quale sistema di controllo potrà essere esercitato sul piano multiterritoriale
dal già oberato organismo di vigilanza.
Maria Sardelli
Coccia De Angelis Pardo & Associati
23Corte di Cassazione, sez. II penale, Sentenza 3 luglio 2014 n. 28960.
24Cfr. CUOMO L., La confisca per equivalente come misura di contrasto all’evasione fiscale, in Diritto Penale dell’Im‑
presa, 2014, pp. 1 ss.
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Il ruolo dell’avvocato nei sistemi di gestione
Sommario: 1. Un fenomeno in crescita; 2. Crescente interferenza tra norme cogenti e norme
tecniche; 3. Un percorso nuovo: il sistema integrato; 4. Il ruolo dell’avvocato nel sistema di
gestione integrato; 5. Diritto penale e sistemi di gestione; 6. Diritto civile e sistemi di gestione;
7. Diritto del lavoro e sistemi di gestione; 8. Importanti prospettive per gli studi associati.
1. Un fenomeno in crescita
Con l’espressione “sistema di gestione” si può fare riferimento a tutti gli schemi normativi
che, ciascuno con un diverso oggetto (es. sicurezza sul lavoro, privacy, prevenzione degli
illeciti, qualità, etica, ambiente ...), impongono all’azienda la definizione di Manuali,
procedure scritte, regolamenti interni, sessioni di formazione e addestramento del personale,
audit e controlli interni, tracciabilità di tutte le operazioni poste in essere ed ogni altro
adempimento idoneo ad attestare il rispetto di una norma giuridica o tecnica.
I sistemi di gestione sono ormai una realtà diffusa nel diritto d’impresa a livello sia
nazionale che comunitario, il che sta determinando in molti casi la crescita esponenziale
degli adempimenti e dei conseguenti costi, senza che a ciò corrisponda il più delle volte
un effettivo beneficio. Basti pensare che l’Italia è la seconda nazione al mondo, dopo la
Cina, per numero di certificazioni di qualità ISO 9001.
2. Crescente interferenza tra norme cogenti e norme tecniche
Fino a qualche anno fa, il mondo dei sistemi di gestione era il più delle volte del tutto
estraneo alla professione forense, rigidamente confinato nell’ambito di altri settori professionali. La consulenza aziendale veniva così abitualmente suddivisa in due settori ben
distinti: la norma cogente affidata alle cure dell’avvocato, la norma tecnica dell’esperto di
turno. Quanti studi legali in Italia, ad esempio, hanno seguito il percorso della certificazione
di qualità o ambientale delle aziende proprie clienti? La risposta è sotto gli occhi di tutti e
forse aiuta a capire il diffuso senso di scarsa utilità, per molte aziende, di tale certificazione,
talora abilmente pubblicizzata da scaltri venditori come soluzione per il miglioramento e
poi rivelatasi nulla più che un ingente spreco di risorse ed infausto aggravio burocratico.
La legislazione sta però “cambiando verso” (sia concesso in questa sede utilizzare
un’espressione attualmente in voga nel dibattito politico): la rigida separazione tra norme
giuridiche e norme tecniche è infatti messa in discussione da alcune delle leggi più note
dell’ultimo decennio, che hanno ormai innestato un corto circuito irreversibile tra i due
livelli della normazione. La strada percorsa dal legislatore risulta con chiarezza se solo
si mettono in fila, collocandole all’interno di un unico quadro di riferimento, le seguenti
novità venute alla ribalta nell’ultimo decennio:
– in molti settori, la certificazione ISO 9001 non viene più adottata a base volontaria,
ma è imposta come requisito normativo dalla legislazione nazionale o regionale: così
avviene, ad esempio, nel settore delle strutture sanitarie private o dei centri di formazione
professionale ai fini dell’accreditamento regionale;
– il decreto legislativo 231 del 2001 impone a tutte le persone giuridiche l’adozione
di un sistema tracciabile di prevenzione degli illeciti, con una struttura ed un impianto
documentale analoghi a quelli di un sistema di gestione di tipo ISO (un Manuale di
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
riferimento, una serie di procedure e protocolli per le singole aree sensibili, regolamenti
interni diretti a fornire istruzioni di comportamento coerenti con i rischi rilevati, un sistema
interno ed imparziale di controllo e di audit, e così via);
– le norme internazionali OHSAS, che fino a poco tempo fa erano rilevanti ai soli fini
della volontaria certificazione di parte terza del sistema di gestione della sicurezza, sono
diventate, in forza dell’art. 30 del Testo Unico Sicurezza sul Lavoro, una vera e propria
condizione esimente rispetto alla responsabilità amministrativa dell’ente per illeciti, anche
colposi, commessi da propri addetti in materia di sicurezza sul lavoro;
– la normativa comunitaria in materia di privacy, che ben presto diventerà pienamente
operativa, richiederà alle imprese un ulteriore sistema di gestione da definire e mettere in
pratica, ancora una volta con elementi tipici dei sistemi ISO (analisi dei rischi, procedure,
audit ...);
– la recente legislazione anti-corruzione impone agli enti pubblici ed agli enti di diritto
privato in controllo pubblico la definizione di un sistema rigorosamente documentato di
lotta alla corruzione, ancora una volta utilizzando lo schema logico della normativa ISO
(piano anticorruzione, piano della trasparenza, formazione del personale, nomina di un
responsabile anticorruzione, definizione di un sistema di audit interno ...);
– la nuova legislazione sulle professioni non regolamentate, in vigore dall’inizio del 2013,
prevede come criterio legale di definizione dello standard professionale di ogni categoria di
lavoratori (che non rientri già nel novero delle poche professioni regolamentate dalla legge)
il rispetto di una norma tecnica elaborata dall’UNI insieme alle parti sociali, la cui vigilanza,
per i lavoratori che intenderanno far certificare con valore legale il rispetto di tale standard,
sarà affidata ad un organismo di certificazione accreditato. Qui il meccanismo previsto
dalla legge è addirittura speculare a quello della certificazione di qualità aziendale.
L’elenco potrebbe proseguire a lungo, analizzando normative più specifiche e settoriali
che ormai impongono ex lege l’adozione di sistemi di gestione (come ad esempio il sistema
HACCP per tutte le aziende che forniscono prodotti alimentari).
Senza immergersi in questa sede nell’analisi dei singoli sistemi di gestione previsti
dall’attuale normativa, si è fornito comunque un quadro generale che consente di cogliere
la natura del problema e definire una strada per il futuro, con particolare riferimento alla
prospettiva degli studi legali associati.
3. Un percorso nuovo: il sistema integrato
La descritta evoluzione normativa richiede soluzioni nuove, in grado di riportare
ordine nel quadro sempre più complesso degli adempimenti aziendali, di fronte ai quali
l’imprenditore, soprattutto nelle piccole e medie imprese che caratterizzano il sistema
produttivo italiano, rischia di trovarsi impreparato.
La più efficace risposta è sicuramente la definizione di un sistema integrato, vale a
dire di un unico sistema interno di regole, procedure e controlli che metta in relazione i
diversi livelli normativi cui l’azienda deve attenersi (sia di natura coercitiva che su base
volontaria) e che fornisca all’imprenditore un modello tracciabile sia di gestione del rischio,
che di controllo sulle aree più significative della propria attività.
Obiettivo ambizioso e che determina la necessaria revisione di molti dei sistemi
attualmente esistenti, ma l’epoca attuale di profonda crisi del sistema produttivo e normativo
occidentale impone certamente scelte coraggiose e soluzioni innovative.
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4. Il ruolo dell’avvocato nel sistema di gestione integrato
L’integrazione dei sistemi impone evidentemente la necessità di creare un collegamento
stabile tra le diverse categorie di consulenti ed esperti di settore dei quali l’impresa si avvale.
Non vi è dubbio, però, che la vis actractiva che la legislazione sta imponendo alle norme
tecniche, sempre più spesso spostate dalla volontarietà all’obbligatorietà, rende necessaria
la supervisione legale rispetto a momenti della vita aziendale che un tempo erano del tutto
estranei alla professione forense. Si tratta quindi di creare una cabina di regia, governata
dal management dell’impresa e dai propri legali di fiducia, in grado di definire un sistema
omogeneo di protocolli interni e tenerne costantemente sotto controllo il rispetto da parte
di tutte le componenti aziendali.
Vi è poi da considerare che gli aspetti normativi connessi ai sistemi di gestione (e
quindi al sistema integrato) toccano inevitabilmente i diversi settori del diritto. Limitando
l’attenzione all’integrazione tra i due sistemi numericamente più diffusi in Italia (certificazione
di qualità secondo la Norma ISO 9001 e modello organizzativo di prevenzione degli illeciti
secondo il decreto legislativo 231 del 2001), è facile osservare come vi siano coinvolti tutti
gli ambiti della professione forense, il che verrà evidenziato nei successivi paragrafi.
5. Diritto penale e sistemi di gestione
Il diritto penale è il settore più direttamente coinvolto nel sistema di gestione integrato,
in ragione dell’onere, per tutte le persone giuridiche, di adottare un sistema tracciabile di
prevenzione degli illeciti.
Il penalista è ormai in Italia la figura centrale nella definizione del Modello Organizzativo
dell’impresa, dovendo costruire un sistema di procedure e di controlli idoneo a impedire, o
comunque ostacolare in modo netto (e suscettibile di prova in giudizio), la commissione di
reati da parte del personale dell’ente, in posizione sia apicale che subordinata, tenendo in
particolare conto del diverso onere della prova che caratterizza le due tipologie di persone
fisiche che operano all’interno dell’impresa.
Il coinvolgimento del penalista nel sistema di gestione deve quindi toccare almeno
tre livelli:
– analisi dei rischi, con l’individuazione e la rappresentazione scritta delle aree aziendali
a rischio di commissione di reati;
– definizione dei protocolli di comportamento imposti o richiesti a tutti gli stakeholders
dell’azienda;
– partecipazione all’Organismo di Vigilanza aziendale.
Non sempre ciò avviene, con evidenti ripercussioni negative sul funzionamento e
sull’immagine dell’impresa ed a volte con notevoli conseguenze sul piano sanzionatorio.
Si può fare riferimento, al riguardo, al numero ormai cospicuo di sentenze con le quali
la magistratura penale ha negato il valore esimente al Modello Organizzativo, a fronte di
analisi rischi viziate da macroscopici errori sul piano giuridico, di procedure e regolamenti
interni non coerenti con il reale rischio di commissione di illeciti e, soprattutto, di Organismi
di Vigilanza privi di reale autonomia e competenza professionale in materia legale. È
ragionevole costituire un organismo che per legge è competente a prevenire reati, senza
la presenza di almeno un penalista? La risposta parrebbe evidente, ma è clamorosamente
smentita dalla prassi seguita da molte aziende e, circostanza ancora più preoccupante,
confortata da vari organismi di categoria.
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6. Diritto civile e sistemi di gestione
Se la presenza del penalista nel sistema integrato è certamente imprescindibile, essendo
il sistema di prevenzione dei reati uno dei capitoli fondamentali del sistema integrato, è
parimenti significativa l’interferenza tra quest’ultimo e le competenze dell’avvocato civilista,
a partire dalla gestione dei vari contratti di cui l’impresa è parte.
La contrattualistica, infatti, è un momento centrale di ogni sistema di gestione, soprattutto
nei settori in cui sono frequenti le esternalizzazioni. L’attuale legislazione sugli appalti,
ad esempio, determina numerosi obblighi di controllo in capo all’impresa committente, a
partire dalla solidarietà nei confronti dei lavoratori utilizzati dall’appaltatore nell’esecuzione
dell’appalto, fino alle norme che estendono all’appaltante la responsabilità per i rischi da
interferenza cui sono esposti i lavoratori appaltati.
La gestione dei fornitori critici (selezione, contratti, monitoraggio, controlli, audit,
valutazione e qualificazione) è quindi un passaggio essenziale, sia ai fini della certificazione
di qualità (i requisiti 4.1 e 7.4 dell’edizione in vigore della ISO 9001 impongono all’impresa
di garantire che i fornitori critici soddisfino standard qualitativi analoghi a quelli propri delle
attività gestite internamente) che della prevenzione degli illeciti secondo il decreto 231 (si
ricorda, tra le altre, l’importante sentenza con la quale il Tribunale di Trani ha condannato
un’impresa committente ai sensi del decreto 231, a fronte di un infortunio sul lavoro subito ad
un dipendente di una ditta appaltatrice, per non aver l’impresa committente adeguatamente
valutato i rischi da interferenza all’interno del proprio modello organizzativo).
In un mondo in cui l’outsourcing è spesso diventato la norma, il controllo di gestione
deve quindi affrontare il nodo decisivo del vincolo imposto ai fornitori e del sistema dei
controlli e delle relative responsabilità. L’auditor interno all’azienda (e quindi in primis
l’Organismo di Vigilanza) è perciò chiamato a svolgere anche audit di seconda parte, che si
ricorda essere, secondo la terminologia adottata dalla ISO 19011, gli audit presso i fornitori
critici, in fase sia di selezione che di controllo. Anche il civilista, di conseguenza, assume
le caratteristiche di un necessario ingranaggio del sistema di gestione.
7. Diritto del lavoro e sistemi di gestione
La gestione del personale, in tutte le fasi che la caratterizzano (selezione, formazione,
controllo, disciplina e valutazione) è elemento centrale di ogni sistema di gestione.
Nel sistema di prevenzione degli illeciti, in particolare, la rilevanza del rapporto del
lavoro è evidente in ciascuna delle tre fasi del sistema:
– analisi dei rischi di illecito: l’individuazione del rischio di reato è strettamente
connessa all’analisi dei comportamenti del personale, dei processi critici affidati ai lavoratori
dell’azienda oppure erogati in outsourcing, delle attitudini di costoro, delle interviste
effettuate direttamente con il personale, della preparazione professionale e delle necessità
formative sia del management che dei livelli inferiori;
– definizione dei protocolli di comportamento: la fase di stesura delle regole aziendali
richiede il supporto professionale del giuslavorista. Una regola interna, infatti, ben potrebbe
essere coerente con le esigenze di prevenzione dei reati ma al contempo non corretta sul
piano del rapporto di lavoro. Parimenti, una procedura di controllo sui lavoratori (ad esempio,
videosorveglianza o controllo sugli accessi alla rete Internet aziendale) potrebbe essere
efficacissima dal punto di vista penal-preventivo, ma porsi in contrasto con l’art. 4 dello
Statuto dei Lavoratori, che sottopone a rigorosi requisiti di liceità i controlli a distanza sui
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lavoratori. Ancora, il sistema interno delle regole deve necessariamente essere differenziato
in ragione della tipologia legale dei rapporti di lavoro. Una regolamentazione interna
molto prescrittiva, ad esempio, potrebbe essere imposta a collaboratori a progetto (che, si
ricorda, sono lavoratori autonomi che non possono essere sottoposti al potere gerarchico
e direttivo del committente), in tal modo favorendo una pronuncia del giudice del lavoro
nel senso della natura oggettivamente subordinata del rapporto di lavoro e le conseguenti
pesantissime sanzioni a danno dell’impresa. In altri termini, un sistema di regole predisposte
o suggerite da un non avvocato ovvero da un avvocato non esperto in diritto del lavoro
potrebbe essere considerato eccellente dal punto di vista della prevenzione dei reati, ma
disastroso per l’impresa dal diverso punto di vista della regolarità dei rapporti di lavoro;
– gestione dell’Organismo di Vigilanza: l’OdV, in particolare nell’attività di audit che
ne costituisce il core business, è chiamato spesso a valutare i comportamenti del personale
e adottare (o suggerire all’organo dirigente) provvedimenti disciplinari nei confronti dei
lavoratori che hanno posto in essere comportamenti non conformi ai protocolli interni. In
questi casi, di frequenza quotidiana nei sistemi 231 correttamente funzionanti, il supporto
del giuslavorista è indispensabile, giacché il rilievo formulato dall’OdV può determinare
l’avvio di un procedimento disciplinare, che deve svolgersi nel rispetto dei requisiti formali e
sostanziali dettati dallo Statuto dei lavoratori e di regola integrati dai contratti collettivi.
8. Importanti prospettive per gli studi associati
I casi proposti, che rappresentano solo una minima parte delle situazioni giuridicamente
rilevanti che caratterizzano il sistema di gestione integrato, ben consentono di individuare
non solo la centralità della consulenza legale nella pianificazione e nello sviluppo dei
processi aziendali, ma anche la necessaria compresenza degli specialisti dei vari settori
del diritto.
Questo obiettivo, ovviamente, ben può essere realizzato creando opportune forme
di coordinamento tra i singoli professionisti che collaborano con l’impresa. Non sfugge,
tuttavia, che caratteristica peculiare degli studi legali associati, che hanno in ASLA la
propria rappresentanza di riferimento, è proprio la compresenza di esperti nei vari settori
del diritto, la cui appartenenza al medesimo studio ben può costituire un vantaggio per il
cliente, sia nei termini di una più facile integrazione, che di contenimento dei costi. Per
questa ragione, in un certo senso insita nella stessa natura di ASLA, l’attenzione al ruolo
dello studio legale associato come soggetto centrale nel sistema di gestione aziendale
rappresenta non solo un elemento di riflessione rispetto alla situazione attuale del Paese,
ma soprattutto un’importante sfida per il futuro.
Emanuele Montemarano
Studio legale e commerciale Montemarano
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L’applicabilità del D.Lgs. n. 231/2001
agli enti stranieri: modelli equivalenti
e modelli a forma libera
Sommario: 1. Introduzione; 2. La tesi dell’inapplicabilità del Decreto 231 agli enti stranieri: 2.1 Banche
estere; 3. La tesi dell’applicabilità del Decreto 231 agli enti stranieri (in dottrina); 4. Giurisprudenza
“classica” in materia: 4.1 Caso Siemens; 4.2 Caso Parmalat (banche); 4.3 Sentenza di primo grado nel
Caso Derivati Milano; 5. Un possibile superamento della dicotomia; 6. Ultimi sviluppi giurisprudenziali:
sentenza d’appello nel Caso Derivati Milano; 7. Linee Guida Confindustria; 8. Conclusioni.
1. Introduzione
Il tema oggetto del presente approfondimento si inserisce in quello più ampio
correttamente denominato da alcuni della “internazionalizzazione” della responsabilità degli
enti ai sensi del Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (“Decreto 231” o “Decreto”).
Come noto, il Decreto 231 nasce storicamente sotto la spinta di istanze di carattere
internazionale e comunitario, costituenti a loro volta una risposta all’espandersi (ed aggravarsi)
del fenomeno della criminalità d’impresa, ovvero posta in essere da soggetti a struttura
organizzata e complessa1.
Nel contesto attuale, contraddistinto, da un lato, da un mercato economico sempre
più globalizzato e, dall’altro, dalla presenza di una molteplicità di normative nazionali
spesso diverse ma tutte ugualmente poste a presidio della legalità dell’attività di impresa,
assume senz’altro rilievo la questione dell’efficacia spaziale della disciplina dettata dal
legislatore italiano: in particolare, ci si chiede entro che limiti essa possa estendersi a
fattispecie con un elemento di extraterritorialità, tanto con riferimento al luogo di commissione del reato quanto con riferimento al luogo in cui ha sede l’ente nel cui interesse il
reato è commesso2.
Tale questione, peraltro, è caratterizzata da importanti risvolti pratici, toccando, da
un lato, il problema/necessità per le imprese operanti su più mercati in nazioni diverse di
adattare la propria organizzazione interna ai diversi standard di prevenzione imposti per
ciascuno di essi, e, dall’altro, il delicato rapporto tra ordinamenti ed autorità (giudiziarie
ma anche, di vigilanza o regolamentari) di Stati diversi.
Qui ci si occuperà del secondo dei due aspetti sopra evidenziati, ossia se il Decreto
231 sia o no applicabile alle società straniere operanti in Italia (soprattutto quando esse non
vi posseggano una struttura organizzata), e se sì in quali termini. Si esamineranno quindi le
tesi dottrinarie favorevoli alla soluzione negativa (forse le più convincenti in linea teorica,
1In particolare: la Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26
luglio 1995 (e relativi Protocolli siglati il 27 settembre 1996 e il 29 novembre 1996), la Convenzione relativa alla
lotta alla corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione
europea, fatta a Bruxelles il 26 maggio 1997, e la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali
stranieri nelle operazioni economiche internazionali, siglata a Parigi il 17 dicembre 1997.
2Cfr. SCARCELLA, La c.d. “internazionalizzazione” della responsabilità da reato degli enti, in Riv. 231 www.rivista231.
it., p. 35, e FONDAROLI, La responsabilità dell’ente straniero per il reato-presupposto commesso in Italia. le succursali
italiane di banche «estere», in Riv. 231, 1, 2014, p. 49.
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ma prive finora di riscontro in giurisprudenza, tanto che ci si chiede se mai l’avranno o se
il loro “momentum” non sia, invece, passato), e quelle diametralmente opposte, nonché
le statuizioni dei giudici, queste ultime tutte coerenti nel riconoscere l’obbligatorietà della
disciplina interna anche per gli enti stranieri. Si cercherà infine di individuare possibili
aperture verso un superamento della rigida bipartizione, e, di lì, capire se non siano già in
atto soluzioni capaci di contemperare le diverse, ed ugualmente importanti, finalità concrete
che i sostenitori dell’una e dell’altra soluzione si preoccupano di assicurare.
2. La tesi dell’inapplicabilità del Decreto 231 agli enti stranieri
Il Decreto 231 non contiene alcuna previsione che regoli espressamente il caso del reato
presupposto commesso in Italia a favore di un ente la cui sede principale sia all’estero. Nel
silenzio, le interpretazioni fornite in dottrina si sono fondamentalmente assestate su due
filoni contrapposti, sostanzialmente a seconda del diverso valore assegnato all’autonomia
del fatto illecito dell’ente rispetto al fatto di reato del suo esponente persona fisica3.
Per una parte della dottrina, il riconoscimento della responsabilità degli enti esteri ai
sensi della normativa italiana e la loro assoggettabilità alle relative sanzioni non solo non
trova fondamento alcuno nel Decreto 231, ma si porrebbe in violazione di tutto un insieme
di principi generali, nazionali e comunitari.
Tale filone evidenzia innanzitutto il dato letterale: l’art. 1 del Decreto individua come
destinatari delle proprie previsioni gli “enti forniti di personalità giuridica” e le “società e
associazioni anche prive di personalità giuridica” mentre, al comma 3, ne esclude esplicitamente
l’applicazione “allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici
nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale”. Non solo, quindi, non si
dice se tra tali enti rientrino anche quelli di nazionalità non italiana ma la disposizione stessa
rimanderebbe chiaramente a realtà tipicamente italiane4. Né, è stato argomentato, dalla mancata
menzione degli enti esteri tra i soggetti esclusi dall’applicazione del decreto sarebbe possibile
desumere la tacita opposta intenzione del legislatore di includerli: ubi lex voluit dixit, ubi noluit
tacuit. La stessa Relazione al Decreto non contiene alcun riferimento a riguardo.
A fornire spessore a tale interpretazione letterale si porrebbe il principio di legalità
(nelle sue articolazioni di riserva di legge, tassatività e irretroattività), e l’imprescindibile
funzione garantista che esso assolve nel sistema, di indubbia matrice penalistica, della
responsabilità da reato degli enti5. Il principio di legalità trova anche una propria collocazione
3Cfr. MANACORDA, Limiti spaziali della responsabilità degli enti e criteri d’imputazione, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 1,
2012, 91, para. 3.
4Cfr. DI GIOVINE, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in AA.VV., Reati e responsabilità degli enti. Guida
al D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Milano, 2010, p. 45. Lo stesso è stato detto dell’art. 4 del Decreto 231 (reati commessi all’estero a favore di ente con sede principale in Italia), che sembra “alludere a fenomeni organizzativi tipicamente
italiani”, v. GEMELLI, Società con sede all’estero e criteri di attribuzione della responsabilità ex D.Lgs. 231/2001: com‑
patibilità ed incompatibilità, in Resp. Amm. Soc., 4-2012, pp. 12 e 13.
5Sul punto cfr. Relazione al Decreto 231 (par. 3, Premessa): “… il nuovo sistema di responsabilità sanzionatoria, pur
essendo formalmente ascritto all’ambito dell’illecito amministrativo, reclama alcuni aggiustamenti rispetto all’insie‑
me dei principi enucleabile dalla c.d. parte generale della legge 689/1981. Ciò in considerazione non soltanto della
peculiarità dei soggetti suoi destinatari (enti e non persone fisiche), ma soprattutto della distinta impronta penalistica
che lo segna e che deriva dall’essere comunque costruito in dipendenza della verificazione di un reato. Si aggiunga
la gravità delle conseguenze che la legge delega fa derivare alla commissione dell’illecito, conseguenze che possono
spingersi fino alla chiusura definitiva dello stabilimento o all’interdizione definitiva dall’attività, sanzioni capitali
per l’ente; si comprenderà, allora, come in questo settore appaia più che mai viva l’esigenza, già diffusamente av‑
vertita (soprattutto dagli organi di giustizia europei) di omogeneizzare i sistemi di responsabilità amministrativa e
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ed enunciazione all’art. 2 del Decreto, ai sensi del quale, perché un ente possa essere
ritenuto responsabile per un fatto costituente reato e sottoposto alle relative sanzioni, tale
responsabilità amministrativa e tali sanzioni devono essere espressamente previste dalla
legge. Previsione espressa che, appunto, manca per gli enti costituiti all’estero e soggetti
ad un ordinamento giuridico straniero, anche quando il presunto illecito risulti collegato
alla perpetrazione di un reato in Italia.
A superare l’“ostacolo” della rilevata lacuna legislativa non verrebbe sicuramente in
soccorso la disciplina dell’art. 4 del Decreto, che regola esclusivamente il caso speculare o
inverso del reato commesso all’estero a vantaggio della società con sede principale in Italia6.
Più in generale, in assenza di una disposizione espressa, qualsiasi interpretazione estensiva
(peraltro in malam partem) delle norme del Decreto 231 contrasterebbe con il divieto di
analogia, sancito all’art. 14 delle Disposizioni della legge in generale (r.d. 16 marzo 1942,
n. 262). Alla stessa logica di garanzia del principio di legalità, viene osservato, obbediscono
anche i criteri di imputazione della responsabilità amministrativa previsti nel Decreto.
Per andare esenti da censure di anticostituzionalità, tali criteri devono infatti avere un
contenuto sia oggettivo (identificazione delle persone fisiche che impegnano sul piano
sanzionatorio l’ente collettivo e commissione del reato “a vantaggio o nell’interesse dell’ente”,
secondo quanto previsto all’art. 5) sia soggettivo (disciplinato agli artt. 6 e 7, per cui il reato
deve costituire espressione della politica aziendale o quanto meno derivare da una “colpa
di organizzazione”7). Tali criteri assolvono al tempo stesso anche ad un imprescindibile
ruolo di prevenzione: nelle parole del legislatore delegato, “ancorare il rimprovero dell’ente
alla mancata adozione o al mancato rispetto di standard doverosi, significa motivarlo all’osservanza degli stessi, e quindi a prevenire la commissione di reati da parte delle persone
fisiche che vi fanno capo. Piuttosto che sancire un generico dovere di vigilanza e di controllo
dell’ente sulla falsariga di quanto disposto dalla delega (…) si è preferito allora riempire tale
dovere di specifici contenuti: a tale scopo, un modello assai utile è stato fornito dal sistema
dei compliance programs da tempo funzionante negli Stati Uniti”8.
di responsabilità penale all’insegna delle massime garanzie previste per quest’ultimo, spingendo verso la nascita di
un sistema punitivo che – nel caso degli enti – rappresenta senza dubbio un tertium genus rispetto ad entrambi”. Si
veda anche il par. 1.1, dove si parla di “un tertium genus che coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello
amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficacia preventiva con quelle, ancor più ineludibili,
della massima garanzia”. Questa impostazione è stata fatta propria anche dalla giurisprudenza di legittimità, v. Cass.
16 luglio 2010, n. 27735.
6E dal quale anzi emergerebbe che il radicamento della giurisdizione italiana (riconosciuto in caso di reato commesso
all’estero solo quando in Italia vi sia la sede principale della società, non rilevando quindi sedi secondarie), è giustificato proprio dal fatto che è in quel territorio che si svolge l’attività di organizzazione e gestione dell’ente ed è
quindi lì che si verifica la mancanza organizzativa che fonda il rimprovero dell’ente. Cfr. STAMPACCHIA, La respon‑
sabilità “amministrativa” degli enti con sede all’estero, in www.penalecontemporaneo.com, p 4. Cfr. anche, tra gli
altri, BRUNELLI – RIVERDITI, Art. 1, in PRESUTTI, BERNASCONI, FIORIO, “La responsabilità degli enti. Commento
articolo per articolo al D.Lgs. 8 giugno 2001”, n. 231, Padova 2008, p. 81, il quale, con riferimento al presunto criterio
di reciprocità basato a fortiori su quanto stabilito dall’art. 4, e muovendo dal fatto che “la responsabilità dell’ente non
nasce come ammennicolo di quella individuale, ma si fonda proprio su un comportamento omissivo o commissivo
dell’ente nell’ambito della propria attività di impresa ed acquista giuridicamente una precisa spiccata autonomia dal
suo presupposto”, conclude che “da un lato nessun ragionamento a fortiori potrebbe farsi derivare dal successivo art.
4. (…) dall’altro, in mancanza di un’espressa norma che estenda la responsabilità dell’ente anche a fatti (dell’ente)
commessi all’estero, vale per questi l’ordinaria limitazione circa la territorialità del diritto positivo italiano”.
7Cfr. anche la Relazione al Decreto 231, paragrafi da 3.3 a 3.5. Ampiamente, sul concetto di “colpa di organizzazione”,
v. anche GEMELLI, cit., p 11-12.
8V. Relazione al Decreto 231, par. 3.3.
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A tal riguardo, si è affermato quindi che ammettere l’applicabilità del Decreto ad enti
stranieri “determinerebbe un’incostituzionale disparità di trattamento tra una società italiana, o
anche straniera con una sede in Italia, la quale potrebbe usufruire dell’esimente dell’art. 6 del
citato decreto, ed una società estera con nessuna sede in Italia, la quale ultima non potrebbe
usufruire di tale esimente in quanto la sua organizzazione non può avvantaggiarsi a questi fini
di parametri organizzativi normati da una disciplina pubblicistica straniera”9. Un tale approccio
porterebbe quindi alla conseguenza inaccettabile di trattare la responsabilità dell’ente (straniero)
come una vera e propria responsabilità oggettiva, essendo appunto inesigibile nei confronti
dell’ente stesso il rispetto di norme pubblicistiche quali quelle in materia di organizzazione
delle società ai sensi del Decreto 231, vigenti nell’ordinamento di uno Stato diverso da quello di
appartenenza, ed essendo conseguentemente inesigibile l’adozione di un’organizzazione diversa
da quella che avrebbe presumibilmente consentito il verificarsi del reato. Questo a maggior
ragione alla luce della circostanza che “l’istituto italiano del “Modello di organizzazione”, come
strutturato e formalizzato nel diritto interno, non trova corrispondenze precise in altri ordinamenti
europei, quale causa di esonero (o anche di attenuazione) della responsabilità dell’ente e
supporto materiale della colpa di organizzazione”10. Un obbligo di rispettare tali norme sarebbe
configurabile solo nel momento in cui la società straniera abbia strutture in Italia rispetto alle
quali è concretamente possibile adottare modelli secondo i dettami del diritto italiano11.
Più in generale, la tesi che ritiene configurabile la responsabilità ex Decreto 231 dell’ente
con sede all’estero, in quanto svilente l’elemento soggettivo della colpa di organizzazione (a
sua volta il riflesso dell’art. 27 della Costituzione), risulterebbe incompatibile con i principi
ispiratori del nuovo tipo di responsabilità, ed in particolare con i criteri di attribuzione
della stessa stabiliti nel Decreto, e quindi giuridicamente infondata12.
Appare evidente come la questione della punibilità o meno degli enti esteri ai sensi
del Decreto 231 sia intimamente connessa a quella della natura autonoma dell’illecito
amministrativo rispetto al reato della persona fisica, per cui quest’ultimo ne costituirebbe
solo il presupposto, solo una condizione, necessaria ma non sufficiente, per l’attivazione
della risposta punitiva13. Tale separazione giuridica a sua volta si riverbera sulla soluzione
del problema del locus commissi delicti.
Si tratta di un passaggio importante, il vero cuore delle tesi in esame. Come visto, la
responsabilità dell’ente, in quanto fondata su profili di tipicità soggettiva, andrebbe innanzitutto
riportata nell’alveo del comportamento colpevole di quest’ultimo commesso nell’ambito della
propria attività d’impresa. Ciò, si ribadisce, in affermazione (a nostro avviso giustamente)
del principio di personalità della responsabilità sancito dall’art. 27 della Costituzione, della
cui applicabilità anche alle persone collettive ormai non è più dato dubitare14.
9Cfr. GEMELLI, cit., pp. 10-11.
10Cfr. SCARCELLA, cit., p. 36. Si veda però infra per il possibile superamento anche di questo assunto.
11V. GEMELLI, cit, pp.13-14.
12V. GEMELLI, cit.,p. 20.
13Tanto ciò è vero che, ai sensi dell’art. 8 del Decreto, l’ente risponde anche se “l’autore del reato non è stato identificato
o non è imputabile”. V. anche par. 4 della Relazione. V. anche GEMELLI, cit., p. 12: “la disposizione che più di ogni altra
assevera normativamente la capacità dell’ente di commettere reati (sic) è quella dell’art. 8 del decreto, che stabilisce
l’autonomia della responsabilità della persona giuridica, chiamata a rispondere del reato anche se la persona fisica
non è imputabile o non è punibile ovvero ignota”.
14V., tra gli altri, GEMELLI, op. cit., p. 18, il quale, parafrasando la Relazione al Decreto, rileva come è innanzitutto il
concetto di “immedesimazione organica” (di cui la formula del “vantaggio o interesse” è l’espressione normativa) che
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Se quindi il comportamento tipico dell’ente degno di sanzione consiste nella violazione
di un obbligo cautelare15, in un’omissione o lacuna organizzativa e gestionale dell’ente,
o comunque in condotte inottemperanti ad un dovere di diligenza16, esso non potrà che
concretizzarsi nel luogo in cui l’ente ha costituito la sua sede amministrativa ed il suo
apparato organizzativo17, con conseguente difetto della giurisdizione italiana quando “la
collocazione spaziale dell’omessa o carente vigilanza – elemento essenziale della fattispecie
complessa realizzabile dall’ente – [sia] al di fuori del territorio nazionale”18.
A lato delle suddette argomentazioni, vale la pena ricordare come alcuni autori
propendono per la tesi in esame in quanto in linea con un’avvertita esigenza di contenimento
delle tendenze espansionistiche del diritto interno: l’ammissione del sindacato del giudice
italiano, in presenza di norme simili adottate in altri Stati, creerebbe il rischio di pericolose
duplicazioni nel perseguimento e punizione della medesima condotta, in violazione del
principio del ne bis in idem a livello internazionale 19. Rischio non meramente teorico,
considerato che attualmente forme di responsabilità penale o punitiva, o comunque
sanzioni direttamente applicabili alle persone giuridiche, sono previste in pressoché tutti
gli ordinamenti giuridici europei, mentre in Paesi di tradizione giuridica anglosassone (es.
USA, Canada, Australia, Nuova Zelanda) tale tipo di responsabilità è conosciuta da tempo
ed è già ampiamente consolidata20.
consente di superare le critiche che in passato ruotavano intorno alla violazione del principio di personalità della
responsabilità penale nell’accezione minima di “divieto di responsabilità per fatto altrui”. Quanto invece all’altra accezione, più ampia, di “responsabilità per fatto colpevole”, ossia della necessità di un legame psichico/psicologico tra
fatto ed autore, essa viene adattata agli enti collettivi proprio grazie all’affermarsi dalla nozione di colpevolezza in
senso normativo, ossia di “riprovevolezza” (o, per usare le parole della Corte d’Appello di Milano, nella sentenza n.
1937/2014 sotto esaminata, di “colpevolezza rimproverabile” (v. p. 474)).
15O come specifica MANACORDA, cit., par. 3, “violazione delle regole cautelari sub specie di mancata/inadeguata ado‑
zione/attuazione del modello organizzativo”. A riguardo, il legislatore delegato precisava: “all’ente viene in pratica
richiesta l’adozione di modelli comportamentali specificamente calibrati sul rischio-reato, e cioè volti ad impedire, at‑
traverso la fissazione di regole di condotta, la commissione di determinati reati” (v. Relazione al Decreto, para. 3.3).
16V. anche STAMPACCHIA, cit., p. 5, che parla di deficit della struttura aziendale.
17V. sul punto AMODIO, Rischio penale d’impresa e responsabilità degli enti nei gruppi multinazionali, in Rivista Dir.
Proc. Pen, 2007, p. 1294, il quale, dopo aver affermato che il riconoscimento di un obbligo degli enti stranieri di osservare la legge italiana quando operano in Italia è in contrasto con la descrizione della fattispecie costitutiva della
responsabilità amministrativa, sostiene che: “Se l’ente è ritenuto dalla legge responsabile quando “la commissione del
reato è stata resa possibile dalla inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza” (art. 7, comma 1), il luogo di
commissione dell’illecito non può che essere individuato nel territorio in cui la società incolpata ha costituito la sua
sede amministrativa e il suo apparato organizzativo nonché la sua struttura contabile. Sarebbe al contrario inesigi‑
bile una condotta di controllo da parte dei soggetti in posizione apicale, che si dovesse estendere a tutte le operazioni
materialmente svolte da questi ultimi in luoghi geograficamente lontani dalla sede societaria”. V. anche DI GIOVINE,
cit., p. 45, che, muovendo dalla natura composita dell’illecito, rileva come “la commissione del reato rappresenti più
che altro il presupposto necessario perché si incardini la responsabilità dell’ente: per il resto fondata (anche e soprat‑
tutto) su profili di tipicità soggettiva, vale a dire, integrata da condotte inottemperanti ad un dovere di diligenza,
eventualmente realizzate là dove l’ente ha la sua sede. Sicché in base a questa lettura laddove le carenze organizzati‑
ve si siano verificate nella sede straniera, sarebbe quanto meno dubbio che l’illecito sia stato commesso in Italia (solo
perché il reato viene qui realizzato) e che possa essere dunque assoggettato alla normativa del D.Lgs. 231/2001”.
18Cfr. SCARCELLA, cit., p. 39.
19Cfr. DI GIOVINE, cit., p. 46: “non ultimo, si consideri il rischio di bis in idem determinato dalla diversa soluzione: ri‑
schio che si profilerebbe quante volte – in mancanza di un’apposita regolamentazione convenzionale – si attivi, oltre
a quella italiana, la giurisdizione dello Stato estero”. Cfr. anche, e soprattutto, MANACORDA, cit., in particolare ai
para. 2, 3 e 6, sulla reale necessità di prevedere meccanismi di coordinamento nell’esercizio dell’azione penale che
attenuino il rischio di una moltiplicazione incontrollata delle risposte repressive.
20SCARCELLA, cit., pp. 35-36. Interessante anche la segnalazione di FONDAROLI, cit., p. 55, che ravvisa un significativo
rischio di violazione del principio del ne bis in idem in interventi normativi nazionali, quali il Bribery Act del 2010,
in forza del quale, in materia di responsabilità delle società per fatti di corruzione anche tra privati, prevede una disciplina applicabile tanto alle società inglesi, operanti nel territorio e fuori di esso, tanto alle società non inglesi che
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2.1 Banche estere
Quando poi gli enti stranieri in questione siano banche comunitarie, ulteriori
considerazioni a sostegno della tesi in esame vengono attinte dai principi di matrice
comunitaria della libertà di stabilimento e dell’home country control.
Come noto, il primo, di fonte primaria, è previsto dagli artt. 49 e ss del Trattato sul
funzionamento dell’Unione Europea, per cui “le restrizioni alla libertà di stabilimento dei
cittadini [a cui a norma dell’art. 54 sono equiparate le società] di uno Stato membro nel
territorio di un altro Stato membro vengono vietate”21.
Il secondo, emanazione del primo, costituisce il criterio mediante il quale il legislatore
comunitario mira a realizzare un’armonizzazione minima delle condizioni di accesso e di
esercizio e di vigilanza dell’attività bancaria in ambito comunitario. In base a tale principio,
le banche autorizzate in uno Stato membro dell’Unione sono libere di esercitare la propria
attività negli altri Stati membri in regime di mutuo riconoscimento, senza dover chiedere
ulteriori autorizzazioni ma semplicemente dandone comunicazione alle autorità di vigilanza
competenti e restano sottoposte alla normativa dello Stato membro d’origine ed alla vigilanza
ed autorità di questo. I poteri dello Stato membro ospitante sono correlativamente delimitati
ed ammessi solo se in attuazione di disposizioni contenute nella direttiva stessa.
Il principio dell’home country control era già pienamente vigente all’epoca dell’adozione
del Decreto 231 (si veda la direttiva 2000/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio
del 20 marzo 2000 relativa all’accesso all’attività degli enti creditizi ed al suo esercizio 22)
ed è ribadito da ultimo dalla direttiva 2013/36/CE del Parlamento europeo e del Consiglio
del 26 giugno 2013 sull’accesso all’attività degli enti creditizi e sulla vigilanza prudenziale
sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento, che modifica la direttiva 2002/87/CE e
abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE23.
Nel nostro diritto interno, esso è recepito all’art. 16 del Testo Unico Bancario, che al
comma 3 prescrive “le banche comunitarie possono esercitare le attività previste dal comma
1 [ossia quelle ammesse al mutuo riconoscimento] nel territorio della Repubblica senza
operano nel Regno Unito, anche attraverso la controllata, ed “indipendentemente dal luogo in cui la società è stata
costituita e dal luogo in cui è stato commesso il fatto corruttivo”.
21Cfr. anche l’art. 50 del Trattato, ai sensi del quale, tra i criteri a cui devono ispirarsi Consiglio e Parlamento europeo
nel realizzare tale libertà di stabilimento, rientra quello di “sopprimere quelle procedure e pratiche amministrative
contemplate dalla legislazione interna ovvero da accordi precedentemente conclusi tra gli Stati membri, il cui man‑
tenimento sarebbe di ostacolo alla libertà di stabilimento”.
22Ad esempio, l’art. 17 (Organizzazione e procedure di controllo interno) della direttiva 2000/12/CE enunciava la regola
per cui “Le autorità competenti dello Stato membro d’origine esigono che ciascun ente creditizio sia dotato di una
buona organizzazione amministrativa e contabile e di adeguate procedure di controllo interno”.
23V. considerando 15 della direttiva in questione per cui: “È opportuno realizzare solo l’armonizzazione necessaria e
sufficiente per pervenire ad un mutuo riconoscimento delle autorizzazioni e dei sistemi di vigilanza prudenziale che
consenta il rilascio di un’unica autorizzazione valida in tutta l’Unione e l’applicazione del principio della vigilanza
da parte dello Stato membro d’origine”. Cfr. anche l’art. 49 (Competenza delle autorità competenti dello Stato membro
d’origine e dello Stato membro ospitante) che dispone: “1. La vigilanza prudenziale sull’ente, compresa quella sulle
attività che esso esercita in virtù degli articoli 33 e 34, spetta alle autorità competenti dello Stato membro d’origine, fatte
salve le disposizioni della presente direttiva che prevedono una competenza dell’autorità dello Stato membro ospitante”.
Anche ove si riconosce la possibilità di “imporre, in relazione all’esercizio del diritto di stabilimento e della libera pre‑
stazione di servizi, l’osservanza delle disposizioni specifiche della propria normativa o regolamentazione nazionale
da parte delle entità che non sono autorizzate come enti creditizi nei propri Stati membri d’origine o con riguardo alle
attività che non figurano nell’elenco delle attività soggette a mutuo riconoscimento” ciò è possibile solo a patto che
“da un lato, tali disposizioni non siano già disposte dal regolamento (UE) n. 575/2013, siano compatibili con il diritto
dell’Unione e motivate da ragioni di interesse generale e, dall’altro lato, che tali entità o tali attività non siano sottoposti
a regole equivalenti nella normativa o regolamentazione dello Stato membro d’origine”(considerando 21).
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compliance
stabilirvi succursali dopo che la Banca d’Italia sia stata informata dall’autorità competente
dello Stato di appartenenza.”
Pertanto, se una banca straniera fosse obbligata a rispettare, oltre alle procedure interne
prescritte dal Paese d’origine, anche gli adempimenti richiesti dal Decreto 231, primo fra
tutti l’adozione di modelli di controllo interni secondo i dettami di quest’ultimo (pena il
possibile azionarsi di una responsabilità e sanzioni di tipo penale), vedrebbe fortemente
limitato il proprio diritto, sancito dalle fonti comunitarie, ad essere sottoposta alla sola
legge ed alle sole autorità dello Stato d’origine24.
Inoltre, se si considera che tra i vari Paesi dell’UE che hanno adottato discipline
sanzionatorie degli enti in attuazione agli atti internazionali sopracitati, l’Italia - come
visto - è quello ad aver introdotto uno dei sistemi più complessi ed onerosi, si vede come
la frustrazione della libertà di stabilimento sia strettamente correlata ad una forma di
concorrenza sleale che verrebbe a crearsi tra Paesi25.
In particolare, non solo le banche ma qualsiasi società straniera sarebbe disincentivata
ad entrare nel mercato italiano se questo implicasse automaticamente l’alternativa o di
sostenere i costi dell’adozione di modelli organizzativi (diversi o in aggiunta a quelli del
Paese d’origine), o viceversa di soggiacere alle sanzioni del Decreto in caso di commissione di reati in Italia da parte degli esponenti aziendali, in quanto impossibilitate ad
avvalersi dell’esimente: “in entrambi i casi, tali società si troverebbero (…) in una situazione
di svantaggio competitivo [e di ostacolo all’esercizio della libertà di stabilimento] rispetto
alle concorrenti italiane: nel primo caso la penalizzazione sarebbe di natura economica
(oneri aggiuntivi), nel secondo caso, invece, l’aggravio sarebbe di natura legale (l’impossibilità di opporre l’esimente dei modelli organizzativi diversi, previsti dalla lex societatis,
rispetto alla responsabilità ai sensi del Decreto 231 e dunque l’imposizione delle sanzioni,
anche gravose, previste in questi casi)”26.
Con il paradosso che, se in ogni Paese si adottasse la medesima interpretazione estensiva
di chi richiede la pedissequa adesione al modello prescritto dalla legislazione nazionale,
una banca dovrebbe dotarsi di tanti modelli quanti sono i Paesi in cui opera.
Completa il novero delle disposizioni richiamate a sostegno della tesi qui esaminata con
riferimento alle banche, l’art. 97 bis del Testo Unico Bancario, rubricato “Responsabilità per
illecito amministrativo dipendente da reato” 27. Secondo parte della dottrina, la formulazione
24GAGLIARDI, La responsabilità delle banche ad operatività transfrontaliera ai sensi del D.Lgs. 231/2001 in Riv. 231,
http://www.rivista231.it/Legge231/Pagina.asp?Id=750.
25Cfr. posizione della prof.ssa SEVERINO DI BENEDETTO, nel Comunicato stampa del convegno “Gruppi multinazio‑
nali e responsabilità da reato delle persone giuridiche” organizzato dal Centro Studi “Federico Stella” presso l’Università Cattolica di Milano, 20 marzo 2009.
26BARIATTI, L’applicazione del D.Lgs. n. 231 del 2001 a società estere operanti in Italia: il caso degli istituti di credito
e degli intermediari finanziari, in Dir. comm. inter., 2006, p. 828
27L’art. 97 bis (Responsabilità per illecito amministrativo dipendente da reato) prevede quanto segue:
1. Il pubblico ministero che iscrive, ai sensi dell’articolo 55 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, nel registro
delle notizie di reato un illecito amministrativo a carico di una banca ne dà comunicazione alla Banca d’Italia e, con
riguardo ai servizi di investimento, anche alla CONSOB. Nel corso del procedimento, ove il pubblico ministero ne
faccia richiesta, vengono sentite la Banca d’Italia e, per i profili di competenza, anche la CONSOB, le quali hanno, in
ogni caso, facoltà di presentare relazioni scritte.
2. In ogni grado del giudizio di merito, prima della sentenza, il giudice dispone, anche d’ufficio, l’acquisizione dalla
Banca d’Italia e dalla CONSOB, per i profili di specifica competenza, di aggiornate informazioni sulla situazione della
banca, con particolare riguardo alla struttura organizzativa e di controllo.
3. La sentenza irrevocabile che irroga nei confronti di una banca le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2, lettere a) e b), del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, decorsi i termini per la conversione delle sanzioni
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di tale articolo confermerebbe chiaramente che lo Stato membro ospitante, se da un lato
mantiene una limitata potestà in materia di organizzazione interna/modelli organizzativi sulle
succursali italiane di banche comunitarie, non ne ha alcuna sulle banche che agiscono in
regime di prestazione di servizi. L’estensione espressa della portata della norma (e quindi
della disciplina a cui esse rinviano, ovvero della responsabilità amministrativa degli enti)
“in quanto compatibile” alle prime si giustifica proprio in quanto tali fattispecie non si
ritengono contemplate nella disciplina generale, che non si occuperebbe a maggior ragione
delle seconde. Non si vede, infatti, per quale ragione il silenzio della norma in merito
alle banche in libera prestazione di servizi dovrebbe far concludere per un’applicazione
generale delle norme del Decreto a quest’ultime28.
3. La tesi dell’applicabilità del Decreto 231 agli enti stranieri (in dottrina)
Secondo il filone interpretativo opposto a quello esaminato nel precedente paragrafo, “la
persona giuridica “straniera” che intenda operare nel territorio italiano, indipendentemente
dai vincoli cui è sottoposta dalla sua legge nazionale, deve inevitabilmente conformarsi alla
disciplina introdotta dal D.Lgs. 231/2001 se vuole sfuggire alla responsabilità per i reati
commessi nel suo interesse o a suo vantaggio nello stesso territorio”29.
La dottrina favorevole all’assoggettabilità al Decreto degli enti esteri muove dal
ruolo centrale che il reato presupposto assumerebbe, per chiara volontà e scelta del
legislatore, nel sistema di responsabilità introdotto dal Decreto. La consumazione del reato
rappresenterebbe al tempo stesso la componente di disvalore dell’illecito e la conseguenza
della mancata adozione o funzionamento dei presidi organizzativi idonei a prevenirlo, e
quindi cronologicamente l’ultimo elemento della fattispecie tipica a realizzarsi 30.
Quindi, se da un lato non vi sono dubbi sulla natura complessa dell’illecito amministrativo, di certo questa non può essere enfatizzata al punto tale da sminuire tale ruolo. In
particolare, l’illecito amministrativo costituirebbe una “fattispecie plurisoggettiva a concorso
necessario: l’ente partecipa, attraverso la sua particolare colpevolezza, al reato materialmente
posto in essere, nel suo interesse o a suo vantaggio, da una persona fisica legata all’ente
stesso da un determinato rapporto”31. Pertanto, nel momento in cui la disorganizzazione
dell’ente ha reso possibile la commissione di un reato tra quelli contemplati nel Decreto,
è del tutto indifferente ai fini della giurisdizione italiana che la sede dell’ente stesso sia
all’estero, e che quindi la decisione di adottare o no il modello di cui agli artt. 6 e 7 del
Decreto sia stata presa fuori dai confini del nostro Paese. Affermare di converso l’esclusione
medesime, è trasmessa per l’esecuzione dall’Autorità giudiziaria alla Banca d’Italia. A tale fine la Banca d’Italia può
proporre o adottare gli atti previsti dal titolo IV, avendo presenti le caratteristiche della sanzione irrogata e le preminenti finalità di salvaguardia della stabilità e di tutela dei diritti dei depositanti e della clientela.
4. Le sanzioni interdittive indicate nell’articolo 9, comma 2, lettere a) e b), del decreto legislativo 8 giugno 2001, n.
231, non possono essere applicate in via cautelare alle banche. Alle medesime non si applica, altresì, l’articolo 15 del
decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231.
5. Il presente articolo si applica, in quanto compatibile, alle succursali italiane di banche comunitarie o extracomunitarie.
28Cfr. BARIATTI, cit., pp. 834-835 e STAMPACCHIA, cit., pp. 10-11 e 13-14
29Cfr. PISTORELLI, Profili problematici della “responsabilità internazionale” degli enti per i reati commessi nel loro
interesse o vantaggio, in Rivista 231, 1/2011, p. 20.
30Id.
31CERQUA, L’applicabilità del D.Lgs. 231/2001 alle società estere operanti in Italia e alle società italiane per reati com‑
messi all’estero, in Riv. 231, 2009, p. 116.
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degli enti solo in ragione della diversa “residenza” introdurrebbe illegittime discriminazioni
e potenziali distorsioni nel mercato32.
A ben vedere, tale tesi muove dall’assunto che l’illecito amministrativo non consiste nella
mancata adozione di modelli organizzativi, i quali rileverebbero solo ai fini dell’esimente di
responsabilità, ma non ci dice allora in cosa esattamente consisterebbe l’autonomo illecito
dell’ente. Riteniamo di converso che l’identificazione in positivo della fattispecie a cui si
attaglia la conseguenza punitiva per l’ente, in aggiunta a quella della persona fisica, sia un
passaggio ineludibile se si vuole evitare di cadere in forme “oggettive” o automatiche di
ascrizione di responsabilità amministrativa per il solo fatto della verificazione del reato.
In ogni caso, secondo la dottrina qui richiamata, la sussistenza della giurisdizione
italiana si ricaverebbe da altre norme del Decreto 231, ed, in particolare, l’art. 34, che
rinvia alle norme del codice di procedura penale e quindi anche al principio generale della
giurisdizione del giudice penale di cui all’art. 1 c.p.p., e l’art. 36, che nello stabilire che
il giudice competente per il reato presupposto è competente anche per l’illecito amministrativo ad esso collegato, confermerebbe che tale competenza si estenderebbe a tutti gli
illeciti amministrativi collegati a reati commessi nel nostro territorio, indipendentemente
dalla nazionalità dell’ente chiamato a risponderne.
La stessa disciplina dell’art. 4 conterrebbe un’ulteriore (indiretta) conferma della volontà
del legislatore di prevedere anche la responsabilità dell’ente straniero. Nel momento in
cui tale articolo enuncia i casi tassativi in cui l’autorità italiana può procedere contro
l’ente nonostante il reato presupposto sia commesso all’estero, in deroga al principio di
territorialità, riaffermerebbe proprio quest’ultimo (per cui “chiunque nell’ambito di naturale
applicazione della legge – e cioè nel territorio dello Stato che l’ha adottata – è tenuto a
rispettarla”) e mostrerebbe di individuare nel luogo di consumazione del reato quello di
consumazione anche dell’illecito amministrativo33.
Quanto all’art. 1, discusso sopra, esso non conterrebbe alcuna lacuna normativa; anzi,
il legislatore avrebbe volutamente utilizzato una formula ampia nell’identificare i destinatari
del Decreto proprio per consentire di ricomprendere tra questi anche le società aventi il
proprio apparato organizzativo all’estero34.
Infine, l’art. 97 bis del Testo Unico Bancario summenzionato non risulterebbe in
contraddizione con le conclusioni sopra enunciate, anzi viene invocato in loro sostegno
proprio in quanto estende, seppure con alcune deroghe, le sanzioni per l’illecito
amministrativo dipendente da reato alle succursali italiane delle banche comunitarie o
extracomunitarie, mentre in tutti gli altri casi varrebbero le regole generali35.
32Cfr. PISTORELLI, cit., p. 19. Cfr. anche FUSCO, Applicabilità del D.Lgs. 231/2001 alle banche estere, in Riv. 231,
2007, 61 nonché in Comunicato stampa del convegno “Gruppi multinazionali e responsabilità da reato delle persone
giuridiche”, cit., secondo il quale, ove non si applicasse il Decreto, si consentirebbe una deleteria alterazione della
concorrenza tra imprese.
33PISTORELLI, cit., p. 19
34Cfr. CERQUA, cit., p. 117, nonché FUSCO, cit.: “ma l’art. 1, quando parla degli enti che sono sottoposti a questo decreto
legislativo, parla di enti dotati di personalità giuridica, vale a dire enti che abbiano un’organizzazione, un interesse,
un patrimonio separato da quello della persona fisica che agisce. Punto. Non c’è nessuna distinzione tra enti di di‑
ritto nazionale ed enti di diritto straniero. Vogliamo dare rilevanza al fatto che l’ente sia regolato da norme di diritto
estero per escludere la responsabilità in Italia?”. Cfr. anche STAMPACCHIA, cit., p. 6
35CERQUA, cit., p. 117. In senso critico, STAMPACCHIA, cit., pp. 11 e 13.
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4. Giurisprudenza “classica” in materia
Le tesi che giungono all’affermazione dell’obbligo di conformazione alla disciplina
interna del Decreto 231 da parte degli enti esteri operanti in Italia hanno, come si è detto,
un pieno e constante avallo in giurisprudenza.
Si deve premettere che la questione dell’applicabilità del Decreto 231 agli enti esteri non è
stata ancora affrontata dalla giurisprudenza di legittimità, mentre la giurisprudenza di merito è
costante nel risolverla in senso positivo, affermando la sussistenza della giurisdizione italiana.
4.1. Caso Siemens
L’ordinanza del g.i.p. dott. Salvini nel caso Siemens36 è stata la prima decisione giudiziale
ad esprimersi sull’argomento, oltre ad essere una delle prime applicazioni giurisprudenziali
della nuova normativa. Una delle questioni principali di quel procedimento riguardava
proprio l’applicabilità alla Siemens AG, con sede in Germania, di un provvedimento cautelare
ex Decreto 231 in relazione alla presunta commissione in Italia di diversi reati di corruzione
aggravata da parte di alcuni dirigenti della società, nonostante l’assenza di analoghe norme
in materia nel Paese di origine.
In quella sede, il giudice ha rigettato l’argomentazione difensiva della non assoggettabilità
della società tedesca alle norme italiane ed alla relativa giurisdizione, affermando di converso
che “è quasi ovvio rilevare che sia le persone fisiche che le persone giuridiche straniere nel
momento in cui operano in Italia (anche eventualmente, come nel caso in esame, tramite una
Associazione Temporanea di Impresa) hanno semplicemente il dovere di osservare e rispettare
la legge italiana e quindi anche il D.L.vo n. 231/01, indipendentemente dall’esistenza o meno
nel Paese di appartenenza di norme che regolino in modo analogo la medesima materia, ad
esempio il modello organizzativo richiesto alle imprese per prevenire reati come quelli che si
sono verificati e scoprire ed eliminare tempestivamente, tramite organismi di controllo e anche
con l’adozione di misure disciplinari, situazioni a rischio. Un paragone quasi banale ma assai
esplicativo può fare riferimento alle norme in tema di circolazione stradale”. Ed inoltre “vale,
sotto il profilo antinfortunistico e con riferimento a qualsiasi norma che abbia una funzione
preventiva suscettibile, se non adottata, di conseguenze in termini di responsabilità [NDR si
riconosce quindi espressamente tale valore anche al Decreto 231], la regola della lex loci”.
La posizione è stata poi confermata in sede di riesame dal Tribunale di Milano37.
L’ordinanza in questione, oltre a riprodurre l’esempio sull’obbligo delle cinture di sicurezza
contenuto nel provvedimento impugnato, ha ribadito che “è pacifico che anche una società
straniera ha l’obbligo di osservare la legge italiana quando opera in Italia, come nel caso di
specie, dato che il contratto venne stipulato in Italia e l’illecito amministrativo è contestato
a Siemens AG in relazione al reato commesso a Milano, con conseguenza della piena
giurisdizione italiana sia in ordine alla valutazione dei presupposti applicativi della legge
vigente in Italia, sia in ordine all’applicazione delle sanzioni o delle misure interdittive”.
Alla stregua di tali argomenti, alla società tedesca è stata applicata la misura interdittiva del
divieto di contrattare con la PA per un anno (salvo che per ottenere la prestazione di un
pubblico servizio) nonostante appunto l’ordinamento tedesco, come detto, non contemplasse
36Ordinanza Trib. Milano 24 aprile 2004.
37Ordinanza Trib. Milano 28 ottobre 2004.
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né tale genere di sanzione (ma solo quelle pecuniarie) né soprattutto l’obbligo di adottare
modelli organizzativi di prevenzione dei reati.
4.2. Caso Parmalat (banche)
Altro precedente degno di nota, e spesso citato accanto a quello del caso Siemens, è
l’ordinanza del dott. Tacconi nel “troncone banche” del caso Parmalat38, che peraltro affronta
il tema in riferimento specifico appunto ad istituti finanziari stranieri. Dopo aver affermato
che “già questa disposizione [dell’art. 1, terzo comma, del Decreto 231] non contempla
esclusioni relative ad enti esteri”, e facendo leva invece sulle disposizioni degli artt. 34 e
36 in tema di norme procedurali applicabili e di competenza a decidere, il giudice giunge
alla conclusione che “la competenza per l’accertamento dell’illecito amministrativo si radica
nel luogo di commissione del reato presupposto. Il sistema del D.L.vo 231/01 è chiarissimo nello stabilire che una volta sussistente il reato presupposto, il Giudice ha competenza
anche a conoscere della sussistenza o meno della responsabilità amministrativa dell’ente.
Il dovere di diligenza dell’ente in tanto rileva ed ha giuridica rilevanza in quanto viene
commesso il reato. Da ciò consegue, e non potrebbe essere altrimenti, che nel momento
in cui l’ente estero decide di operare in Italia ha l’onere di attivarsi e di uniformarsi alle
previsioni normative italiane. Ragionando diversamente l’ente si attribuirebbe una sorta di
auto-esenzione dalla normativa italiana in contrasto con il principio di territorialità della
legge, in particolare con l’art. 3 del c.p.”.
4.3. Sentenza di primo grado nel Caso Derivati Milano
Discorso a parte merita la sentenza di primo grado nel caso dei derivati di Milano39.
In quel caso le banche erano state tutte accusate di “non aver adottato ed efficacemente
attuato modelli di organizzazione di gestione idonei a prevenire il reato contestato agli
imputati persone fisiche”. Nella sentenza invece il tema della presenza ed efficacia di
suddetti modelli viene di molto ridimensionato ed analogamente si dedica pochissimo
spazio alla questione dell’applicabilità della normativa italiana in materia di responsabilità
amministrativa agli enti imputati. Il giudice si limita a riprodurre due estratti delle decisioni
citate sopra, aggiungendo poche scarne affermazioni quali:
“le banche in esame … sono società di diritto straniero, ma non vi è dubbio circa
l’applicabilità alle stesse della normativa italiana”;
“in sostanza, quando un ente opera in Italia è tenuto ad osservare le leggi italiane, così
come qualsiasi persona fisica che agisca sul medesimo territorio”;
“nel momento, quindi, in cui UBS [sic] ha deciso di operare sul territorio italiano,
si è assunta la responsabilità per i fatti di reato commessi in Italia dai suoi esponenti o
dipendenti”.
Non di secondaria importanza invece la circostanza che il giudice, in quel breve passaggio in cui ne parla, qualifica i modelli di organizzazione e gestione di tutte le banche
estere imputate “idonei, in astratto, a prevenire fatti come quelli fin qui considerati” (v.
pag. 229 della sentenza), e ciò nonostante si trattasse di modelli obiettivamente “stranieri”,
38Ordinanza Trib. Milano 13 giugno 2007.
39Sentenza Trib. Milano n. 13976/12 del 19 dicembre 2012.
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formulati in base ai parametri fissati da norme non italiane e di certo non avendo quale
fine specifico quello di ottemperare al Decreto 231 (anche a ragione, non avendo tali
banche neppure una succursale in Italia). Non di secondaria importanza, si diceva, per
quegli spunti che verranno trattati nei prossimi paragrafi.
5. Un possibile superamento della dicotomia
Nei paragrafi precedenti ci siamo occupati di riprodurre le principali argomentazioni
logico-giuridiche riconducibili agli opposti filoni dell’affermazione o negazione
dell’applicabilità del Decreto 231 agli enti esteri. Non possiamo fare a meno di notare
che, rimanendo su un piano puramente teorico e di interpretazione delle norme, nessuna
tesi può dirsi in modo aprioristico meno meritevole dell’altra (anzi spesso le argomentazioni
poste a sostegno dell’una sono il semplice ribaltamento di quelle utilizzate dell’altra) con
la conseguenza che entrambe le soluzioni sarebbero astrattamente ammissibili40.
Notiamo altresì, che, al di là della diatriba teorica, le due tesi dell’ammissibilità/inammissibilità sono contraddistinte da specifiche finalità o motivi ispiratori. Più precisamente, è possibile riscontrare come i fautori della prima siano maggiormente mossi dalla preoccupazione
di proteggere e ribadire tutte quelle istanze garantiste che non possono (e non devono)
mancare in un sistema quale quello del Decreto 231 contraddistinto da una pesante risposta
sanzionatoria ed affine a quello penale; laddove i secondi sono maggiormente ispirati dalla
necessità di evitare elusioni della disciplina nazionale (appunto stabilendo strumentalmente
una sede all’estero) e, più in generale, da ragioni di politica criminale nel senso di una più
efficace lotta contro la criminalità economica perpetrata attraverso gli enti collettivi.
Ed è proprio nel tentativo (o esigenza) di preservare, contemperandole, entrambe le
suddette finalità, ci sembra si assestino le tesi meno radicali, o comunque degli approcci
meno rigidi nella soluzione del problema qui esaminato. Il quadro quindi non sarebbe
completo se non si tentasse di portare alla luce anche questo terzo filone, forse non
altrettanto ben definito, ma che si contraddistingue per il tentativo di mediazione tra le
due opposte correnti.
Innanzitutto, si segnala la posizione (definita “meno radicale”) che ammette la
giurisdizione nazionale anche rispetto all’illecito dell’ente estero, ma ritiene che vada fatto
riferimento alle regole e principi dettati nel Paese d’origine in ordine alla struttura ed al
contenuto del modello organizzativo, “ciò anche per evitare che la giurisprudenza finisca
per dichiarare sempre inadeguati i modelli di compliance stranieri, per il solo fatto di non
essere formalmente conformi a quanto previsto dalla normativa nazionale”41.
Vi è poi chi propone un correttivo muovendo dalla constatazione che lo stesso legislatore
avrebbe escluso un collegamento necessario tra adozione del modello e responsabilità dell’ente.
Ciò infatti che vale ad evitare la responsabilità, insieme all’adozione di un modello idoneo, è la
efficace attuazione dello stesso, ossia l’aver concretamente posto in essere un comportamento
conforme alla regola cautelare. Ammettendo quindi per un attimo la giurisdizione italiana,
40Anche se c’è chi afferma che “la soluzione affermativa al problema dell’applicabilità del D.Lgs. 231/01 agli enti
stranieri produce numerosi punti di aperta frizione con i principi ordinamentali, prestandosi a numerose critiche e
calzanti obiezioni”, cfr. STAMPACCHIA, cit., p. 18. Cfr. però Comunicato stampa del convegno “Gruppi multinazionali
e responsabilità da reato delle persone giuridiche”, cit., in cui si afferma che, nell’incertezza normativa, entrambe le
soluzioni sono “razionalmente sostenibili”, ma danno entrambe luogo ad inconvenienti.
41Per la menzione di tale tesi, v. SCARCELLA, cit., p. 39.
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si giunge affermare che “l’ente con sede principale fuori dal territorio nazionale che operi
in Italia e ivi commetta un reato, in questo senso, dovrebbe andare esente da responsabilità
quando provi di aver concretamente posto in essere misure preventive astrattamente idonee
ad impedire i reati verificatisi, di aver adottato una organizzazione efficiente nella prevenzione
del rischio reato e che, in sostanza, il comportamento conforme (non solo sostanzialmente
ma anche formalmente) alle norme del D.Lgs. 231 non avrebbe potuto impedire la commissione del reato, in ossequio ai principi penalistici in materia di causalità della colpa.
A nostro avviso, il portato di questa interpretazione, per cui ciò che assumerebbe rilievo
al fine di escludere la configurazione dell’elemento soggettivo dell’illecito dipendente da
reato è l’adozione di idonei, specifici e concreti accorgimenti per la gestione del rischio reato
da parte dell’ente, anche qualora non esternalizzati in modelli cartacei di organizzazione
e gestione, appare pienamente applicabile anche quando al vaglio del giudice vi sia la
condotta di enti italiani.
Infine, uno spunto parimenti interessante viene fornito partendo da un’applicazione (in
via analogica) di principi di diritto comunitario così come elaborati dalla giurisprudenza
europea, ed in particolare del principio di proporzionalità che, accanto a quello di non
discriminazione, viene preso in considerazione nella valutazione della compatibilità con il
diritto comunitario di provvedimenti nazionali restrittivi di libertà fondamentali. Secondo la
giurisprudenza comunitaria il principio di proporzionalità viene soddisfatto se i provvedimenti
adottati non eccedono quanto oggettivamente necessario a tal fine.
Applicando tale principio in via analogica all’introduzione di modelli di organizzazione
e controllo, accorta dottrina giunge ad affermare che “il giudice italiano non deve limitarsi
ad accertare se la società si sia dotata dei modelli organizzativi idonei ex Decreto 231: al
contrario esso dovrebbe verificare se il sistema di sorveglianza e controllo adottato dalla
società in osservanza delle leggi dello Stato d’origine non sia comunque in grado di garantire
un’adeguata prevenzione delle frodi, della corruzione e del riciclaggio, indipendentemente
dal fatto che si tratti di un sistema adottato in tale Stato in attuazione degli atti internazionali
sopra menzionati, effettuando così un giudizio di equivalenza. Solo qualora si dimostri che
una società, in un caso specifico, non ha adottato un sistema di sorveglianza e controllo
idoneo a prevenire le fattispecie criminose appena menzionate, a prescindere dall’osservanza
formale del sistema di modelli organizzativi disegnato dalla legge italiana, allora il rifiuto
dell’esimente per i fatti commessi dai funzionari di tale società sarebbe proporzionato” 42.
Si vede come seguendo il suddetto approccio molte delle obiezioni viste sopra in
merito alla non utilizzabilità ab origine dell’esimente del Decreto 231 da parte degli enti
stranieri verrebbero meno.
Ci si chiede però se ci si possa spingere anche oltre e, superando una concezione
formalistica dell’istituto del “modello di organizzazione” ed affermando che, ai sensi del
diritto italiano, sia pienamente ammissibile un modello “a forma libera” purché assolva
concretamente alle istanze prevenzionistiche che il Decreto mira ad assicurare, non si possa
arrivare ad operare una valutazione unica, applicando gli stessi principi, sia che si tratti di
un ente estero sia che si tratti di un ente italiano, senza passare per la categoria intermedia
dell’equivalenza. Tale superamento non si porrebbe in contrasto ma anzi valorizzerebbe
42BARIATTI, cit., pp. 830-831.
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la stessa genesi normativa dei modelli, essendosi il legislatore italiano ispirato, nella loro
introduzione, non ad esempi pre-esistenti nella tradizione giuridica italiana ma ai compliance
programs di tradizione statunitense.
6. Ultimi sviluppi giurisprudenziali: sentenza d’appello nel Caso Derivati Milano
Arriviamo quindi alla recente sentenza della Corte d’Appello di Milano (n. 1937,
udienza 7 marzo 2014, depositata il 3 giugno 2014) del noto caso dei derivati di Milano.
In quell’occasione, le quattro banche internazionali straniere sono state tutte assolte per
“manifesta insussistenza di fatti di reato” riguardanti le persone fisiche (accusate, per la
precisione, di truffa aggravata ai danni del Comune di Milano in relazione a contratti
derivati afferenti un’emissione obbligazionaria del 2005).
Sul punto specifico dell’applicabilità del Decreto 231 agli enti stranieri operanti in
Italia, i giudici della Corte d’Appello non sembrano apparentemente discostarsi dalla
precedente giurisprudenza nell’affermare la propria competenza e l’obbligatorietà delle
norme italiane, anzi la portano in un certo senso a maturazione, laddove introducono
argomentazioni indubbiamente molto più convincenti rispetto al noto paragone con le
norme sulla circolazione stradale del precedente Siemens.
In particolare, affermano i giudici, il principio dell’home country control non appare
sufficiente ad escludere l’Autorità giudiziaria italiana, e non solo perché, altrimenti, non si
spiegherebbero gli sforzi delle banche stesse (appurati in sede dibattimentale) di attenersi
anche alle normative locali.
I giudici d’appello si sforzano però di superare l’arbitrarietà delle interpretazioni, a
seconda del caso, estensive o riduttive, dell’ambito di applicazione normativamente definito
del Decreto, ed individuano con nettezza quali soggetti ricadrebbero in quest’ultimo: “le
società di capitali, le società di persone, le società cooperative, le associazioni con o senza
personalità giuridica e con o senza scopo di lucro, gli enti pubblici economici, le fondazioni
e i comitati”. In tale ambito sono incluse sicuramente le banche italiane. Affermare di
converso che non vi rientrino (sarebbe da aggiungere, solo in base alla nazionalità) le
banche di diritto straniero che perseguono obiettivi d’investimento in Italia si porrebbe in
violazione dell’art. 3 della Costituzione (cfr. pagg. 480 e 481 della sentenza in esame).
Invero quest’ultimo passaggio sembra in parte echeggiare quanto già affermato dal dott.
Fusco, per il quale l’inclusione nel raggio d’azione del Decreto delle società straniere non
aventi sede in Italia, deve essere necessariamente ammessa in forza del principio della
imperatività della norma penale per chiunque agisca nel territorio dello Stato, ma anche
in ragione dell’importante argomento politico-criminale, per cui ove il Decreto 231 non si
applicasse si consentirebbe una deleteria alterazione della concorrenza tra le imprese43.
Apparentemente, quindi, nulla di nuovo nella pronuncia milanese sull’applicabilità del
Decreto 231 agli enti esteri. Eppure ad un esame più sottile la sentenza si rivela interessante
per un altro profilo pur sempre attinente al tema in esame, ossia quello della rilevanza di
“modelli” costruiti in base a norme di altri ordinamenti, e già accennato sopra. Nessuna
delle banche in questione all’epoca dei fatti aveva in essere un “Modello 231” propriamente
detto, si potrebbe dire di “stampo 231”. Tanto ciò è vero che, per difendersi sulle accuse
43Comunicato stampa del convegno “Gruppi multinazionali e responsabilità da reato delle persone giuridiche”, cit.
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mosse in punto di responsabilità amministrativa ex Decreto 231, gli avvocati delle banche
si son trovati a far ricorso al su esaminato concetto di “equivalenza”, e più precisamente
equivalenza tra un modello costituito in base ai dettami di diritto straniero (in molti versi
simili a quelli imposti dal Decreto 231) e quello appunto richiesto dalla normativa italiana.
Solo in un momento successivo, superando il passaggio dell’equivalenza, alcuni difensori
sono anche giunti ad argomentare direttamente l’ammissibilità di un modello a “forma
libera” ma pur sempre rispondente alla funzione preventiva richiesta dal Decreto.
Ebbene, il fatto che gli enti imputati fossero dotati di sistemi di controllo, di certo non
originati avendo in mente la disciplina italiana e magari in essere già prima dell’entrata in
vigore della stessa, non pare minimamente “turbare” i giudici d’appello (in verità neppure il
giudice di primo grado), i quali trattano tali sistemi alla stregua di un qualsivoglia “Modello
231”, riconoscendo la pienezza della prova positiva della scriminante data dalle difese
e concludendo coerentemente, nel caso in esame, che “non mancano invece modelli
organizzativi idonei ed efficacemente attuati ben prima degli accadimenti per cui è stato
processo” (p. 479 della sentenza in esame).
In questo è possibile riscontrare un’apertura importantissima verso l’ammissibilità (ai
sensi del diritto italiano) di forme più elastiche, più “libere” di strutturazione del modello, il
cui esame sotto il profilo della loro efficacia preventiva e quindi scriminante (o si potrebbe
anche dire sotto il profilo della colpevolezza), deve essere condotto con un approccio
altrettanto elastico e senza pregiudizi ma al tempo stesso più cosciente ed approfondito (e
basato innanzitutto su “una raccolta rigorosa di prove che deponga nel senso affermato”,
p. 474 della sentenza in esame). Ciò senza minimamente sminuire le esigenze di politica
criminale ma, al tempo stesso, neppure quelle di garanzia.
In quest’ottica, si attenuerebbe anche quello svantaggio, concorrenziale ma non solo,
subito dagli enti stranieri che, operando su più mercati, si trovano costretti a conformarsi
a più sistemi normativi nazionali tra loro anche molto diversi.
7. Linee Guida Confindustria
Da ultimo, si segnalano per completezza le Linee Guida Confindustria (aggiornate al
marzo 2014 ed approvate il 10 settembre 2014). Esse non sembrano fornire spunti utili
o determinanti nella definizione del tema. Il “confine territoriale di applicazione della
responsabilità da reato” viene infatti trattato solo con riferimento all’ormai noto art.4 del
Decreto 231, nel cui ambito di applicazione, si dice in modo in verità non chiarissimo,
rientra “ogni ente costituito all’estero in base alle disposizioni della propria legislazione
domestica che abbia, però, in Italia la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale” 44.
Una fattispecie, è evidente, diversa da quella che qui ci occupa. Ma è nell’affermazione
successiva che, a nostro avviso, si riscontra una conferma di quell’apertura accennata sopra,
la conferma del progressivo distacco (finalmente!) da una visione formale e formalistica
di “Modello Organizzativo 231”, che dovrebbe guidare il giudice anche nel momento
in cui si appresta a decidere della colpa dell’ente estero. Si legge, infatti, subito dopo la
frase sopra riportata: “ne deriva il problema del riconoscimento da parte dell’ordinamento
44Cfr. “Linee Guida per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo ai sensi del decreto legislativo
8 giugno 2001, n. 231”, pubblicate sul sito di Confindustria, pag. 11.
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italiano dell’efficacia esimente dei modelli organizzativi adottati in base a legge straniere.
Tali modelli potranno ritenersi idonei a spiegare efficacia esimente laddove rispondano ai
requisiti del decreto 231 e risultino efficacemente attuati”.
Non rileva (più), quindi, solo il “modello organizzativo ai sensi del Decreto 231”,
aderente anche nella forma a quel template che si è andato attestando nella prassi delle
società italiane dopo l’entrata in vigore del decreto, ma il “modello” in senso lato, il
“sistema di presidi e controlli aziendali”, anche adottati ai sensi di una normativa straniera
purché rispondenti alle finalità preventive del Decreto ed ai principi (di sostanza prima
ancora che di forma) fissati da quest’ultimo. E senza dover passare per il concetto della
“equivalenza”.
Ebbene, le Linee Guida parlano di “problema”, ma a ben vedere, alla luce del percorso
evolutivo al momento ancora non pienamente definito ma sicuramente in atto, a noi pare
più che si tratti proprio della “soluzione”.
8. Conclusioni
I riferimenti normativi regolanti la materia (artt. 1, 2, 4, 34 e 36 del Decreto e per
quanto riguarda gli enti banche, anche gli artt. 16 TUB e 97 bis TUB) non affrontano espressamente il problema, e ciò lascia inevitabilmente incerta l’estensione della giurisdizione
italiana su base personale. Tanto ciò è vero che da più parti si auspica un intervento
legislativo ad hoc, a livello sovranazionale (quantomeno comunitario) prima ancora che
a livello nazionale45.
Alle incertezze sopra evidenziate, sembra poi aggiungersi la riscontrata difficoltà
(derivante dalla specifica modulazione della disciplina italiana) nell’assegnare un ruolo
preciso all’adozione (ed efficace attuazione) del modello di organizzazione e gestione.
Si tratta di un onere, una facoltà o un obbligo? Assume rilievo solo ai fini dell’esimente
(come pare affermare parte della giurisprudenza) o come elemento costitutivo dell’illecito
o come criterio di attribuzione di quest’ultimo (se è possibile operare tale distinzione)? Ed
ancora in cosa consistono esattamente i modelli previsti dal Decreto 231, è configurabile
(come riteniamo) un modello a forma libera nel nostro sistema46? A seconda delle risposte,
sembra atteggiarsi in modo diverso il contenuto del giudizio sulla condotta degli enti
stranieri senza sede in Italia.
45V. ad es. SCARCELLA, pp. 36-37, con riferimento al ruolo delle istituzioni comunitarie: “Le sostanziali differenze tra le
diverse legislazioni degli Stati membri in ordine ai presupposti della responsabilità degli enti, ai soggetti destinatari
e alle conseguenze sanzionatorie, pone all’attenzione delle istituzioni comunitarie la questione di come assicurare
una maggiore armonizzazione, anche per scongiurare forme deteriori di cd. forum shopping, cioè di scelta da parte
del singolo operatore economico dell’ordinamento più congeniale ai propri, talvolta non limpidi, interessi. V. anche
Comunicato stampa del convegno “Gruppi multinazionali e responsabilità da reato delle persone giuridiche”, cit., in
cui il Prof. CAPRIO parla di “necessaria opera di armonizzazione delle normative nazionali”.
46Ferma la convinzione di chi scrive che un modello a forma libera sia ammissibile in ogni caso, esso sembra sicuramente coerente con quanto previsto dall’art. 7 del Decreto 231, proprio in conseguenza della diversa formulazione di
quest’ultimo rispetto all’art. 6: laddove infatti l’art. 6, relativo al caso, sicuramente connotato da maggiore gravità, del
reato commesso da soggetti apicali, dà indicazioni puntuali circa le caratteristiche ed il contenuto del “modello” (ma
non circa la forma!), l’art. 7, relativo al caso di reato commesso da sottoposti, contiene una formulazione volutamente
più generica e sintetica, e dà rilievo decisivo alla circostanza che il modello sia parametrato alla natura e alla dimensione dell’organizzazione, nonché al tipo di attività svolta. Nel caso dell’ente estero, tanto più se operante in Italia in un
settore in cui vige il principio dell’home country control, il riferimento alla “natura e dimensione dell’organizzazione”
costituisce ulteriore conferma della correttezza dell’ammissibilità, per tali enti, di un modello a forma libera, quanto
meno rispetto ai reati commessi dai sottoposti.
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compliance
Le risposte giurisprudenziali, pur sicuramente coerenti tra loro nell’ammettere il sindacato
del giudice italiano sugli enti esteri, si prestano ad una molteplicità di critiche, fondate su
argomenti validi tanto sotto un profilo puramente giuridico quanto da un punto di vista
pratico (si pensi alla necessità di razionalizzazione nel ricorso agli ordinamenti penali
suscettibili di investire un medesimo caso).
In attesa di possibili interventi legislativi, i giudici sono però inevitabilmente investiti
di una funzione delicatissima. Le ultime tendenze, che hanno il merito di aprirsi ad una
valutazione di apparati organizzativi interni adottati (principalmente) secondo i dettami
delle normative straniere regolanti la materia corrispondente a quella del Decreto 231,
sembrano offrire un valido approccio alla questione, ancora più apprezzabile in quanto in
linea con la dimensione sovranazionale del Decreto 231 stesso.
Tale approccio elastico ed al tempo stesso rigoroso (anche sotto il profilo della tipicità
soggettiva dell’illecito amministrativo, e delle garanzie del reo) dovrebbe riverberarsi anche
sull’applicazione delle medesime norme agli enti italiani, nel senso da un lato di distaccarsi
da un concetto di modello organizzativo “rigido e formalistico” e dall’altro di attenuare il
rischio di surrettizie reintroduzioni di forme di responsabilità oggettiva a fronte della mera
verificazione di un reato di un apicale o sottoposto, ferma sempre la finalità di contrasto
alla criminalità economica delle imprese, anche e soprattutto di quelle operanti su scala
internazionale.
Claudio Visco
e Marianna Settimi
Macchi di Cellere Gangemi
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La responsabilità delle persone giuridiche
nella normativa statunitense (Foreign Corrupt
Practices Act) e nella normativa italiana
(D.Lgs. n. 231/2001), con riferimento
alle procedure di compliance societaria
richieste da entrambe le normative
Sommario: 1. Breve storia del contrasto alla criminalità societaria in materia di corruzione; 2.
Introduzione nell’ordinamento statunitense del Foreign Corrupt Practices Act; 3. Introduzione
nell’ordinamento italiano del D.Lgs. n. 231/2001; 4. I modelli di organizzazione, gestione e
controllo previsti dal D.Lgs. n. 231/2001; 5. I “compliance programs” finalizzati ad evitare le
violazioni del Foreign Corrupt Practices Act; 6. Conclusioni.
1. Breve storia del contrasto alla criminalità societaria in materia di corruzione
È un dato di fatto storico che lo sviluppo della consapevolezza e conseguente sensibilità
circa il problema rappresentato dalle attività corruttive poste in essere da soggetti giuridici
diversi dalle persone fisiche, quindi, da parte di persone giuridiche (e, segnatamente,
società) nasce e si sviluppa, nell’ambito della riflessione giuridica internazionale, solo
recentemente. Si tratta, infatti, di questione che è stata posta per la prima volta solo ed
esclusivamente quaranta anni fà, ossia negli anni ’70 del secolo scorso, nell’ambito di un
dibattito sorto in allora negli Stati Uniti d’America. Tale dibattito, sorto in prima battuta in
sede politica, ha poi avuto un coerente e conseguente approdo in ambito giuridico. Ci si
riferisce, evidentemente, a due fatti che turbarono l’opinione pubblica americana di quegli
anni: lo scandalo “Watergate” e, soprattutto, lo scandalo “Lockheed”. Com’è noto, il primo
scandalo è nato nel 1972, quando emerse che il Partito Repubblicano (allora al potere
con il Presidente Richard Nixon1) aveva effettuato delle intercettazioni abusive delle linee
telefoniche in uso presso il Comitato Nazionale Democratico sito a Washington, nell’albergo
del “Watergate Complex”. Il secondo scandalo, è nato, invece, alcuni anni più tardi, quando,
tra il 1975 ed il 1976, la Commissione del Senato competente per il controllo delle attività
dei servizi di intelligence2, guidata dal Senatore democratico Frank Church, effettuando delle
audizioni di responsabili/amministratori delle principali “corporations” americane (già allora
operanti a livello globale), accertò che queste società effettuavano pagamenti di tangenti a
uomini politici ed alti dirigenti della pubblica amministrazione di Stati stranieri al fine di:
1. poter far fronte alla concorrenza in quei mercati interni pervasi da un altissimo tasso
di corruzione politica ed amministrativa; 2. poter acquisire le commesse pubbliche offerte
al miglior contraente dai vertici politici/amministrativi di detti Stati stranieri. Nel corso di
1Poi costretto, come noto, proprio a causa di questa vicenda, a dare le dimissioni, mediante la procedura del c.d. “im‑
peachment”.
2Si tratta della “United States Senate Select Committee to study Governmental Operations with respect to Intelligence
Activities”.
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queste audizioni, nello specifico, i responsabili/amministratori della Lockheed 3 ammisero
di avere effettuato dazioni di natura corruttiva in favore di uomini politici/alti dirigenti
della PA di diversi Stati stranieri (Giappone, Germania Ovest, Olanda ed Italia), al fine di
poter acquisire le commesse relative all’acquisto di aerei da trasporto da impiegare nelle
rispettive aviazioni militari4. Lo scandalo portò l’amministrazione americana5 a chiedersi
se, dato per assodato l’altissimo livello di corruzione nei paesi nei quali le corporations
americane operavano:
– fosse accettabile o meno che le società americane ponessero in essere attività corruttiva
all’estero?;
– fosse possibile favorire l’espansione internazionale6 delle corporations/multinazionali
statunitensi in un contesto mondiale pervaso da un tasso di corruzione più basso e controllato/
controllabile?
2. Introduzione nell’ordinamento statunitense del Foreign Corrupt Practices Act
Il dibattito politico/istituzionale sopra ricordato, passato sul piano strettamente giuridico,
ha condotto l’amministrazione americana ad introdurre nell’ordinamento federale una nuova
normativa molto severa in materia di contrasto alla corruzione internazionale. Si tratta,
naturalmente, del “Foreign Corrupt Practices Act” (per il prosieguo, a beneficio di chi legge,
FCPA), inserito nello United States Code7, al Titolo 158, paragrafi 78 dd-1 e seguenti9.
Ebbene, il FCPA si applica a:
– Soggetti emittenti titoli quotati in Borsa10, ai sensi del paragrafo 78 dd-1;
– Persone fisiche o giuridiche statunitensi o residenti negli Stati Uniti, ai sensi del
paragrafo 78 dd-2;
– Persone fisiche o giuridiche non statunitensi né residenti negli Stati Uniti, ai sensi
del paragrafo 78 dd-3.
A fini esplicativi, si può citare il paragrafo 78 dd-2, a mente del quale: “It shall be unlawful for any domestic concern… or for any officer, director, employee, or agent of such
domestic concern or any stockholder thereof acting on behalf of such domestic concern,
to make use of the mails or any means or instrumentality of intestate commerce corruptly
in furtherance of an offer, payment, promise to pay, or authorization of the payment of any
money, or offer, gift, promise to give, or authorization of the giving of anything of value
to any foreign official for purposes of influencing any act or decision…”. La definizione di
“domestic concerns”, ai sensi del paragrafo 78 dd-2-h), ricomprende le persone fisiche
(“any individual who is a citizen, national, or resident of the United States”) e una vasta
3Oggi Lockheed Martin, Corporation operante nel settore aerospaziale e della difesa.
4Si trattava dell’aereo da trasporto C-130 “Hercules”.
5In allora, dopo le dimissioni di Nixon, il Presidente era Jimmy Carter.
6In allora, siamo nella seconda metà degli anni ’70, vigente ancora il blocco sovietico, non si poteva certo parlare di
“mercato globale”, ma è chiaro che ogni modifica strutturale dell’assetto economico internazionale va preparata largamente in anticipo.
7Lo U.S. Code è la codificazione generale e permanente del diritto federale degli Stati Uniti d’America, v. http://uscode.
house.gov/.
8Titolo dedicato al “Commerce and Trade”.
9V. http://www.justice.gov/criminal/fraud/fcpa/statutes/regulations.html.
10V. Sezione 30A della Legge sulla Borsa e sui titoli del 1934.
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ed onnicomprensiva elencazione di persone giuridiche quali: “any corporation, partnership, association, joint-stock company, business trust, unincorporated organizations, or sole
proprietorship which has its principal place in the United States…”. È bene segnalare, al
fine di sottolineare il percorso storico dello sviluppo di questa normativa, che solo alla fine
degli anni ’90, precisamente nel novembre del 1998, è stato introdotto il paragrafo 78 dd3, che estende la medesima fattispecie criminosa e le relative sanzioni anche alle persone
fisiche o persone giuridiche straniere operanti, in modo diretto o indiretto sul territorio degli
Stati Uniti. Si è trattato, evidentemente, di una estensione normativa finalizzata ad imporre
a tutte le società non americane (o non stabilite negli USA), aventi una connessione con
il territorio degli Stati Uniti11, la stessa stringente normativa di contrasto alla corruzione
internazionale già applicata dal 1977 alle corporations a stelle e striscie. D’altra parte, non
può essere considerato un caso che, proprio in quel medesimo periodo storico, precisamente
nel 1997, la Convenzione sulla protezione degli interessi della Comunità Europea e la
Convenzione OCSE sulla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri raccomandavano agli
Stati la previsione della responsabilità diretta degli enti12.
3. Introduzione nell’ordinamento italiano del D.Lgs. n. 231/2001
Com’è noto, la Legge n. 300/2000 ha ratificato la Convenzione relativa alla lotta
contro la corruzione, nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli
Stati membri dell’Unione europea, fatta a Bruxelles il 26 maggio 1997, e la Convenzione
OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche
internazionali, con annesso, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997. Alla luce di tale ratifica e
conseguente inserimento nell’ordinamento giuridico italiano di tali trattati, l’art. 11 della
Legge n. 300/2000 ha conferito al Governo la delega finalizzata ad introdurre nel nostro
ordinamento la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di
personalità giuridica. Dall’esercizio di tale delega da parte del Governo, è nato il celeberrimo
D.Lgs. n. 231/2001.
4. I modelli di organizzazione, gestione e controllo previsti dal D.Lgs. n. 231/2001.
Com’è noto, l’art. 6, comma 3, del D.Lgs. n. 231/2001, trattando dei modelli organizzativi
che l’ente deve adottare al fine di evitare la propria responsabilità amministrativa da reato
di soggetti apicali e/o “employees”, prevede che: “I modelli di organizzazione e di gestione
possono essere adottati… sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni
rappresentative degli enti…”. Di tal che, nel nostro ordinamento rappresentano un punto
di riferimento le “Linee guida per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e
controllo ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231”, approvate il 7/3/2002 ed
aggiornate nel marzo del 2014 da Confindustria. Prendendo, pertanto, come parametro tale
documento, si può agevolmente rilevare come la c.d. “Parte Generale” del modello, ossia
la parte introduttiva dello stesso che indica i principi (di “policy” aziendale ed operativi)
che ispirano la costruzione di tale protocollo operativo, richieda:
11Il paragrafo 78 dd-3 parla di soggetto straniero e non stabilito che opera “while in the territory of the United States”;
ma è chiara la potenzialità analogico-estensiva che tale clausola normativa presenta in una giurisdizione basata sul
“common law”.
12V. in “Diritto Penale” di Ferrando Mantovani, Cedam, V° Ed., 2007, pag. 112.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
– L’individuazione dei rischi, ossia la c.d. “mappatura del rischio” o “risk assessment”,
all’interno dell’organizzazione aziendale;
– L’adozione di un “Codice etico”, che possa ispirare ogni aspetto della “policy”
aziendale;
– L’inserimento nell’organizzazione aziendale di un Organismo di Vigilanza, finalizzato
a controllare, dall’interno dell’azienda, ma in maniera indipendente, l’operato dei soggetti
apicali della stessa e dei dipendenti a questi ultimi subordinati;
– Adozione/implementazione del sistema sanzionatorio disciplinare (già previsto in sede
giuslavoristica), in una con l’attivazione della conseguente formazione dei dipendenti, ai
fini del rispetto di rigorose procedure finalizzate ad impedire che, all’interno dell’azienda,
vengano commessi reati.
5. I “compliance programs” finalizzati ad evitare le violazioni del Foreign Corrupt
Practices Act.
Il FCPA, a differenza del D.Lgs. n. 231/2001, non prevede espressamente l’adozione, da
parte delle persone giuridiche, di modelli organizzativi e di gestione finalizzati ad evitare
di incorrere nei gravi illeciti previsti da tale “statute” federale. È un fatto, peraltro, che,
dall’anno di vigenza di tale normativa (ossia, il 1977), le corporations abbiano adottato
autonomamente delle procedure interne finalizzate ad evitare ai propri vertici e dipendenti
di commettere illeciti di natura corruttiva, rilevanti ai sensi del FCPA. È pur vero, inoltre,
che un’utile fonte per l’interprete, al fine di ricostruire gli elementi costitutivi che devono
avere tali procedure interne di contrasto alle pratiche corruttive, è rappresentata dai “deferred
prosecutions agreements”13 (per il prosieguo, DPA), stipulati negli scorsi decenni dalle
società, che hanno violato la normativa del FCPA, e l’Autorità federale istituzionalmente
deputata a far rispettare tale normativa, ossia il “Department of Justice” (per il prosieguo,
DOJ). Alla luce di tali accordi, aventi ad oggetto la modifica degli aspetti procedurali che
hanno condotto alla c.d. “colpa di organizzazione”, è possibile vedere, come sul negativo
di una fotografia, i requisiti organizzativi che, secondo le Autorità federali, devono avere le
procedure interne delle corporations al fine di non incorrere nella violazione della normativa
espressa dal FCPA e nella conseguente applicazione delle relative sanzioni. Ebbene, alcuni
studi (tra cui quello condotto da Vincenzo Mongillo)14 hanno messo in evidenza come,
sulla base dei DPA siglati con il DOJ, sia possibile inferire che i “compliance programs”
interni alle società devono avere (tra gli altri) i seguenti requisiti:
– Essere adottati sulla base di uno specifico “risk assessment”;
– Ricomprendere un “Codice di condotta”, cui deve ispirarsi la “policy” aziendale;
– Prevedere un organismo di controllo interno, ma dotato di autonomia, chiamato
“Compliance Officer”;
13Il deferred prosecution agreement è un accordo tra il prosecutor e l’indagato/imputato, mediante il quale la parte
pubblica si impegna a non procedere penalmente a fronte dell’impegno, da parte dell’indagato/imputato, oltre che a
pagare multe e a collaborare pienamente all’inchiesta, anche e soprattutto ad attuare delle modifiche dell’organizzazione aziendale.
14V. “La corruzione tra sfera interna e dimensione internazionale – Effetti, potenzialità e limiti di un diritto penale
«multilivello» dallo Stato-nazione alla globalizzazione” di Vincenzo Mongillo, Edizioni Scientifiche Italiane, 2012,
pagg. 400-404.
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compliance
– Prevedere un sistema disciplinare ed un sistema interno di comunicazione/formazione
dei vertici e del personale, in relazione alla normativa anticorruzione ed alle procedure
interne finalizzate ad attuare detto contrasto.
6. Conclusioni
Alla luce di quanto sopra, appare del tutto sostenibile la tesi secondo cui sussiste una
sostanziale sovrapponibilità degli obblighi di “compliance” da parte delle società, operanti
negli USA ed in Italia, nei confronti, da un lato, della normativa prevista dal D.Lgs. n.
231/2001, dall’altro, della normativa espressa dal FCPA statunitense.
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Conte & Giacomini
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Sicurezza sul lavoro
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Profili penali in materia di sicurezza
sul lavoro a bordo delle navi sulla base
del D.Lgs. n. 271/1999
Sommario: 1. Eterogeneità della normativa sulla responsabilità penale in materia di sicurezza sul
lavoro a bordo delle navi; 2. Il Codice internazionale per la sicurezza delle navi e della prevenzione
dell’inquinamento (codice ISM), come prevista dalla Convenzione SOLAS del 1974, al Capitolo
IX; 3. La problematica della “safety” a fronte della Convenzione del Lavoro Marittimo del 2006;
4. Il D.Lgs. n. 271/1999; 5. Il rapporto tra il D.Lgs. n. 271/1999 ed il D.Lgs. n. 81/2008; 6. La
conseguente applicazione degli artt. 589 e 590 c.p.
1. Eterogeneità della normativa sulla responsabilità penale in materia di sicurezza
sul lavoro a bordo delle navi
La complessa tematica della responsabilità penale colposa in materia di sicurezza sul
lavoro a bordo delle navi non può essere affrontata partendo dalla normativa espressa dagli
artt. 589, comma 21, e 590, comma 32, c.p. Ed, infatti, la disciplina della “safety” a bordo
delle navi, rilevante al fine di una eventuale contestazione a titolo di colpa c.d. generica 3,
ovvero c.d. specifica4 ai sensi dell’art. 43 c.p., risulta essere estremamente vasta, composita
e derivante da diversi ordinamenti. Nello specifico, esistono rilevantissime fonti di diritto
internazionale pattizio, come la Convenzione SOLAS5 del 1974, che prevede al Capitolo IX
la normativa relativa al Codice internazionale per la sicurezza delle navi e della prevenzione
dell’inquinamento (codice ISM), e la Convenzione del Lavoro Marittimo del 2006, oltre
che, in ambito nazionale, norme di legge extrapenali, riportanti una specifica disciplina
della sicurezza del lavoro a bordo delle navi, espresse dal D.Lgs. n. 271/1999.
2. Il Codice internazionale per la sicurezza delle navi e della prevenzione
dell’inquinamento (codice ISM), come prevista dalla Convenzione SOLAS del 1974,
al Capitolo IX
È un dato storico assodato che le migliorie della normativa in materia di sicurezza
a bordo delle navi sono state previste ed apportate, a tale disciplina di settore, sempre e
comunque all’esito di gravissime sciagure marittime. Com’è noto, nella notte tra il 14 ed il
15 aprile del 1912, nell’Oceano Atlantico, affondava il transatlantico britannico “Titanic”.
Il naufragio costò la vita a 1518 passeggeri imbarcati su 22236. Il fatto destò una grandissima impressione nell’opinione pubblica mondiale e portò alla convocazione della prima
1Comma che prevede l’aggravante della violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.
2Vedi nota che precede.
3Com’è noto, l’art. 43 c.p. parla di responsabilità colposa “per negligenza o imprudenza o imperizia”.
4Com’è noto, l’art. 43 c.p. parla anche di responsabilità colposa “per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o disci‑
pline”.
5Convenzione internazionale, il cui acronimo significa “Safety of Life at Sea”, ratificata dopo il tragico naufragio del
Titanic nella notte tra il 14 ed il 15 aprile del 1912 e oggi vigente nel testo-base modificato e ratificato nel 1974.
6Se ne salvarono, pertanto, solo 705.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
conferenza sulla sicurezza della vita in mare. All’esito di tale conferenza, fu approvata e
ratificata la prima versione della Convenzione SOLAS,“Safety of Life at Sea”, nel 1914. Le
ulteriori versioni furono adottate dall’IMO7 nel 1929, 1948, 1960 e 1974, che è l’ultima
versione-base della Convenzione, oggi vigente. Successivamente, in data 6 marzo 1987, il
traghetto battente bandiera inglese “Herald of Free Enterprise”, uscendo dal porto di Zeebrugge8, si capovolgeva su di un fianco, a causa della mancata chiusura dei portelloni 9 di
accesso al garage. Il sinistro, considerato il più grave riguardante una nave battente bandiera
britannica dopo il precedente disastro del “Titanic”, provocò la morte di ben 193 passeggeri.
Lord Justice Barry Sheen10, in qualità di alto magistrato incaricato di effettuare l’inchiesta
sul sinistro nautico affermò che, almeno in parte, le cause di tale evento dovessero essere
rinvenute nell’errore umano, consistente da parte del comandante e del suo equipaggio in
una negligente gestione della sicurezza della nave, parlando espressamente di: “disease
of sloppiness”11. A fronte di questo nuovo gravissimo sinistro nautico, l’IMO, nel mese di
ottobre del 1989, ha adottato la risoluzione A.647, avente ad oggetto le linee guida sulla
gestione per la sicurezza delle navi e della prevenzione dell’inquinamento. Lo scopo di tali
linee-guida è quello di adiuvare i comandanti e gli equipaggi delle navi ad una migliore
e più responsabile gestione del mezzo su cui sono imbarcati e svolgono la propria attività
lavorativa, al fine di poter essere messi in condizione di garantire nel migliore dei modi,
da un lato, la tutela dell’ambiente, dall’altro, la sicurezza stessa di tale attività lavorativa
posta in essere a bordo12. Nel 1993, l’IMO ha adottato il Codice internazionale per la
sicurezza delle navi e della prevenzione dell’inquinamento (c.d. codice ISM), inserendolo
nel Capitolo IX della Convenzione SOLAS nella sua ultima versione, ossia, quella risalente
al 1974. È bene precisare che tale parte della Convenzione SOLAS è entrata in vigore,
divenendo vincolante, nel 1998. Questa normativa opera su due livelli: a) al livello della
società armatrice; b) al livello della singola nave. Ed, infatti, tale normativa richiede:
– Un sistema di gestione della sicurezza (SMS, ossia, “Safety Management System”),
che deve essere adottato dall’armatore (o gestore o noleggiatore a scafo nudo della nave),
che, in quanto tale, ha assunto la responsabilità per l’esercizio della nave. Si tratta di un
“sistema” di regole e procedure che non riguarda la singola nave, ma l’intera organizzazione
aziendale del soggetto armatore (si tratta, evidentemente, di società);
– Le procedure di cui sopra devono essere documentate ed inserite in manuali di
gestione della sicurezza, che devono essere adottati con riferimento specifico ad ogni singola
nave gestita dal soggetto armatore (evidentemente, una copia di tale manuale deve essere
presente a bordo della nave e messo a disposizione dell’equipaggio al fine di una compiuta
conoscenza dello stesso, nell’ottica della formazione continua dei marittimi imbarcati).
7International Maritime Organization.
8Porto belga.
9Portelloni posti a prua!
10Barry Sheen (31/8/1918-25/10/2005) fu “Admiralty Judge of the High Court” dal 1978 al 1993.
11Immaginifica espressione del Lord Justice che si potrebbe tradurre come: “patologia della sciatteria/trascuratezza”.
12http://www.imo.org/OurWork/HumanElement/SafetyManagement.
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Sicurezza sul lavoro
3. La problematica della “safety” a fronte della Convenzione del Lavoro Marittimo
del 2006
In data 7 febbraio 2006, l’ILO13 ha adottato la Convenzione del Lavoro Marittimo,
che è entrata in vigore successivamente, in data 20/8/2013. La Regola 4.3 “Tutela della
salute e della sicurezza, prevenzione degli infortuni”14, prevede espressamente che: “Ogni
Stato Membro vigila affinchè i marittimi che lavorano a bordo delle navi battenti la sua
bandiera beneficino di un sistema di tutela della salute sul posto di lavoro e vivano, lavorino
e facciano formazione a bordo in un ambiente sicuro e sano. Ogni Stato Membro elabora
e promulga linee guida per la gestione della sicurezza e della salute sul lavoro a bordo
delle navi battenti la sua bandiera … tenendo conto dei codici applicabili, linee guida e
standard raccomandati dagli organismi internazionali …”. Risulta, pertanto, evidente come
il richiamo ai “codici applicabili” da parte della Convenzione ILO rappresenti un chiaro
rimando al Codice ISM previsto al Capitolo IX della Convenzione SOLAS. Inoltre, sempre
nello specifico, si deve tenere in considerazione come la Linea guida B4.3.1 “Disposizioni
riguardo a infortuni e malattie professionali”15, a sua volta preveda che: “Le disposizioni
previste ai sensi dello Standardo A4.316 dovrebbero tenere conto del codice di buone
prassi dell’ILO del 1996, intitolato «Prevenzione degli infortuni a bordo delle navi in mare
e nei porti» …”. A tal proposito, al fine di rendere l’idea concreta di come queste buone
prassi siano specifiche e possano, a buon titolo influenzare il giudizio circa la sussistenza
o meno di una colpa “generica” e/o “specifica” ai sensi e per gli effetti dell’art. 43 c.p.,
basterà considerare quella figura centrale nell’ambito della conduzione delle navi che
è il comandante17. Ebbene, il punto 2.4 di tali buone prassi18 afferma che: “The master
should implement the shipowner’s safety and health policy and programme on board the
ship. The policy and programme, including safety rules and instructions, should be clearly
communicated to all members of the crew. The master should ensure that work carried
out on or from the ship is carried out in such way as to avoid the possibility of accidents
and the exposure of seafarers to conditions which may lead to injury or damage to their
health”. Ancora, queste linee guida introducono un istituto giuridico molto importante,
quando si ha a che fare con la configurazione della responsabilità penale del comandante
e la delimitazione della relativa posizione di garanzia, oltre che con riferimento alla ricostruzione dell’elemento soggettivo della condotta (commissiva od omissiva) che ha portato
alla produzione di un evento lesivo. Si tratta del c.d. “quasi incidente”, di cui al successivo
punto 2.4.7.: “The master should investigate all accidents or near accidents and record and
report them in compliance with national laws and regulations and the shipowner’s reporting
procedures …” (sottolineatura aggiunta). Ed, infine, si deve prendere atto che la normativa
13International Labour Organization, ossia, l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere un lavoro dignitoso, in condizioni di libertà, uguaglianza e sicurezza.
14V. pag. 66 del testo della traduzione non ufficiale Convenzione, a cura del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti
– Direzione Generale per il trasporto marittimo e per vie d’acqua interne.
15V. pag. 69 del testo della traduzione non ufficiale Convenzione, a cura del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti
– Direzione Generale per il trasporto marittimo e per vie d’acqua interne.
16Si tratta della normativa “Standard” alla quale dovrebbe ispirarsi la normativa attuativa della Convenzione ILO.
17V. artt. 292 e ss. del Codice della Navigazione.
18Pag. 8 del testo in inglese dal titolo “Accident prevention on board ship at sea and in port – International Labour Of‑
fice Geneva”.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
in questione ha complessivamente una sua sistematicità, quando il successivo punto 2.4.8.
afferma che: “The master should ensure the availability of operating manuals, vessel plans,
national laws and regulations…”, laddove, quando si parla di manuali che devono essere
presenti a bordo della nave a disposizione dei membri dell’equipaggio (ed in vista della
loro necessaria formazione continua), si rimanda l’interprete ai manuali di gestione della
sicurezza, che devono essere adottati con riferimento specifico ad ogni singola nave gestita
dal soggetto armatore, previsti dalla normativa sul Codice ISM.
4. Il D.Lgs. n. 271/1999
Il D.Lgs. 27/7/1999 n. 271, intitolato “Adeguamento della normativa sulla sicurezza e
salute dei lavoratori marittimi a bordo delle navi mercantili, da pesca nazionali, a norma
della L. 31 dicembre 1998, n. 485”, prevede, nell’ambito dell’ordinamento italiano, la
normativa di riferimento in materia di sicurezza del lavoro a bordo delle navi. Tale decreto,
dopo avere chiarito il proprio ambito di applicazione all’art. 2 (“Le norme del presente
decreto si applicano ai lavoratori marittimi imbarcati a bordo di tutte le navi o unità
mercantili, nuove ed esistenti, adibite a navigazione marittima ed alla pesca nonché alle
navi o unità mercantili in regime di sospensione temporanea di bandiera, alle unità veloci
e alle piattaforme mobili”), prevede al seguente art. 5 che: “A bordo di tutte le navi o
unità di cui all’art. 2 – ai fini della prevenzione degli infortuni e dell’igiene del lavoro dei
marittimi – sono attuate le seguenti misure di tutela: a) valutazione delle situazioni di
rischio per la salute e la sicurezza, connesse all’esercizio dell’attività lavorativa di bordo;
b) eliminazione dei rischi derivanti dall’impiego di materiali nocivi…; c) riduzione dei
rischi alla fonte…”. Alla luce di quanto sopra, l’armatore, ai sensi dell’art. 6 del decreto,
è tenuto a predisporre il piano di sicurezza dell’ambiente di lavoro che deve contenere
i seguenti elementi: “a) progetto dettagliato dell’unità… b) specifica tecnica dell’unità…
c) relazione tecnica sulla valutazione dei rischi per la tutela della salute e la sicurezza
del lavoratore marittimo connessi allo svolgimento dell’attività lavorativa a bordo …”. Si
tratta, evidentemente, di obblighi da parte dell’armatore che trovano anch’essi un chiaro
riscontro nella normativa in materia di Codice ISM, laddove, è previsto che devono essere
adottati dei manuali di gestione della sicurezza, con riferimento specifico ad ogni singola
nave gestita dal soggetto armatore. Di questo da esplicita conferma l’art. 17 del medesimo
decreto, a mente del quale: “Nel «Manuale di gestione per la sicurezza dell’ambiente di
lavoro a bordo» sono riportati gli strumenti e le procedure utilizzate dall’armatore per
adeguarsi alle disposizioni previste dal presente decreto e dalle norme internazionali. Esso
può costituire parte integrante del «Safety Management Manual» redatto ai sensi di quanto
previsto dal codice internazionale di gestione per la sicurezza delle navi (ISM Code) di
cui alla Convenzione Solas”.
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Sicurezza sul lavoro
5. Il rapporto tra il D.Lgs. n. 271/1999 ed il D.Lgs. n. 81/2008
Com’è noto, il D.Lgs. 3 aprile 2008, n. 81, intitolato “Attuazione dell’articolo 1 della
legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di
lavoro”, esprime la normativa di sistema e di riferimento nazionale in materia di sicurezza sul
lavoro. È opportuno, pertanto, chiedersi quale sia il raccordo normativo tra tale normativa e
quella prevista, in materia di sicurezza a bordo delle navi, dal D.Lgs. n. 271/1999; trattandosi
quest’ultima di normativa introdotta nell’ordinamento in vigenza del D.Lgs. n. 626 del 1994,
che è stato il provvedimento legislativo diretto antesignano del D.Lgs. n. 81/2008. Ebbene,
tale normativa di settore, con evidenti conseguenze sulla sistematicità del sistema, non è
affatto coordinata con il vigente D.Lgs. n. 81/2008. A tal proposito, si deve segnalare come
l’art. 3, comma 2, del D.Lgs. n. 81/2008 avesse previsto fin dall’inizio l’emissione di un
nuovo decreto riportante la nuova normativa sulla sicurezza a bordo delle navi, in linea con
l’impostazione del nuovo “Testo Unico”. Purtroppo, il termine entro il quale doveva essere
emesso tale decreto è stato, a più riprese, prorogato. L’ultima dilazione, apportata dal D.L.
12 maggio 2012, n. 57 (convertito con Legge n. 12 luglio 2012, n. 101), prevedeva che il
Governo dovesse provvedere entro cinquantacinque mesi dall’entrata in vigore del D.Lgs.
n. 81/2008: “Con decreti, da emanare entro cinquantacinque mesi dalla data di entrata
in vigore del presente decreto, ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto
1988, n. 400, su proposta dei Ministri competenti, di concerto con il Ministro del lavoro,
della salute e delle politiche sociali, acquisito il parere della Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, si provvede
a dettare le disposizioni necessarie a consentire il coordinamento con la disciplina recata
dal presente decreto della normativa relativa alle attività lavorative a bordo delle navi, di
cui al decreto legislativo 27 luglio 1999, n. 271 …”. Come detto, il termine è scaduto, ma
il nuovo decreto non è ancora stato emanato.
6. La conseguente applicazione degli artt. 589 e 590 c.p.
Alla luce di quanto sopra, è evidente che la Magistratura requirente e giudicante, nel
momento è chiamata a valutare una condotta dell’armatore e/o del comandante e/o degli
ufficiali e/o dei marittimi membri dell’equipaggio che abbia cagionato un evento morte o
lesivo, al fine di ritenere o meno sussistente l’elemento psicologico della colpa, non potrà
esimersi da effettuare tale vaglio nella prospettiva sistemica sopra individuata. Sul punto,
basterà citare la seguente sentenza del Tribunale in Composizione Monocratica di Livorno
– Giudice Dott. Lombardi, del 24 novembre 2011, pubblicata su “Il Diritto Marittimo” del
2012, con nota di Paola Astegiano19. Questo arresto giurisprudenziale di merito è molto
interessante, nella prospettiva sopra ricordata, se solo si prende in considerazione la massima che da tale sentenza è stata espunta: “Il sinistro occorso ad un marinaio che doveva
liberare il cavo di traino del rimorchiatore dalla bitta poppiera della nave le cui mani, per
una improvvisa tensione del cavo, erano rimaste imprigionate tra la bitta e il cavo, non è
imputabile al comandante della nave in quanto il personale addetto alla manovra a poppa
della nave era adeguato e il marinaio infortunatosi era pratico avendo effettuato in precedenza
l’operazione di sganciamento della gassa del cavo di trazione dalla bitta numerose volte,
19Dell’Avvocatura Regionale INAIL di Genova.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
né all’ufficiale che sovrintendeva la manovra a poppa, in quanto la tensione del cavo di
traino non era ragionevolmente prevedibile ed un suo tempestivo intervento, quando essa si
era verificata, non era possibile”. A fronte del fatto che l’ormeggio è una fase “a rischio” 20,
si deve registrare che il D.Lgs. n. 271/1999 nulla prevede circa le modalità con cui le
operazioni di ormeggio debbano essere effettuate, al fine di garantire la sicurezza degli
operatori. Sul punto, il Giudicante può essere soccorso dalla normativa procedurale e di
buona prassi, di derivazione internazionale, quali le “Guidance on shipboard towing and
mooring equipment”, emanate dall’IMO il 24 maggio 2005 ed il paragrafo 6.13 delle Linee
Guida dell’ILO sulla Sicurezza e Salute nei Porti, emanate nel dicembre del 2003.
Luca Robustelli
Conte & Giacomini
20Sulla base delle statistiche disponibili, emerge come il 54% degli infortuni, che riguardano marittimi, avvenga quando
la nave è in banchina o in fase di ormeggio, mentre solo il restante 36% avvenga durante la navigazione.
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La figura del “committente” e le relative
responsabilità penali in caso di infortunio
Sommario: 1. Premessa; 2. Le posizioni di garanzia nel D.Lgs. n. 81/2008; 3. La responsabilità
del committente secondo la Giurisprudenza recente della Suprema Corte.
1. Premessa
L’intreccio di obblighi di prevenzione e di tutela della salute dei lavoratori che spesso
coinvolge molteplici soggetti con mansioni ed incarichi diversi, rende chiara la delicatezza
– e la difficoltà – nell’individuare aree ben delineate per una corretta suddivisione della
responsabilità penale.
Tuttavia, il primario obiettivo del diritto penale del lavoro dovrebbe essere quello di
regolare situazioni dell’odierno mondo del lavoro, in cui s’interfacciano e si rapportano
molteplici soggetti, a fine di ricercare “responsabilità” e non “capri espiatori”.
Per attribuire la responsabilità di un infortunio è quindi necessario che sia individuata la
violazione di legge determinante l’incidente e che sia identificato il soggetto che era tenuto
alla sua corretta ottemperanza, o – in altri termini – che sia possibile formulare nei confronti
di un preciso soggetto un determinato addebito colposo agli obblighi di protezione previsti.
Ne consegue che è necessario analizzare – con riguardo alla specifica organizzazione
aziendale in cui l’infortunio si è verificato – come siano articolate le posizioni di garanzia
per poter identificare se si possa addebitare ad una di esse una precisa violazione agli
obblighi di legge, la cui inosservanza ha causato l’evento lesivo.
Inoltre, nel caso in cui l’attività lavorativa sia realizzata per conto di un committente,
l’analisi dovrà riguardare anche quest’ultimo ed essere attenta a discernere nell’intreccio
dei doveri imposti e gli ambiti di responsabilità di ciascuno.
2. Le posizioni di garanzia nel D.Lgs. n. 81/2008
La materia è oggi unitariamente regolata nel Testo unico sulla sicurezza sul lavoro,
di cui al D.Lgs. n. 81/2008, che oltre identificare i molteplici adempimenti volti alla
tutela psicofisica dei lavoratori, definisce le varie figure professionali responsabili della
loro compiuta e corretta implementazione.
È noto, infatti, che il sistema antinfortunistico è fondato su diverse figure garanti, che
incarnano le distinte funzioni ed i diversi livelli di responsabilità organizzativa e gestionale
aziendale.
In estrema sintesi, la figura cardine del sistema previdenziale è quella del “datore di
lavoro”, che è il responsabile dell’organizzazione dell’azienda o dell’unità produttiva, in
quanto esercita i poteri di responsabilità decisionali e di spesa. Il datore di lavoro è il soggetto
posto al vertice dell’impresa o di un’unità1 o settore di essa, ed in virtù di tale posizione
è munito dei necessari poteri, sia organizzativi che patrimoniali, per gestire l’attività e, di
1L’Art. 2, lettera t) del D.Lgs. n. 81/2008 definisce unità produttivo uno «stabilimento o struttura finalizzati alla produ‑
zione di beni o all’erogazione di servizi, dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale».
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conseguenza, anche per intraprendere tutte le azioni correttive previste dalla legge al fine
di prevenire gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.
Il “dirigente” costituisce il livello di responsabilità intermedio: è colui che attua le
direttive del datore di lavoro, organizzando l’attività lavorativa e vigilando su di essa, in
virtù di competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali alla natura dell’incarico
ricevuto. Il dirigente, pertanto, assumendo parte degli oneri e degli obblighi del datore di
lavoro, si profila come un «livello di responsabilità intermedio (…), che dirige appunto,
ad un qualche livello, l’attività produttiva, un suo settore o una sua articolazione: tale
soggetto non porta la responsabilità inerenti alle scelte gestionali generali, ma ha poteri
posti a un livello inferiore, con responsabilità connesse proprio ai poteri gestionali di cui
concretamente dispone»2.
Il “preposto” è colui che sovraintende alle attività, attua le direttive ricevute
controllandone la corretta esecuzione.
“Committente” è definito come il soggetto per conto del quale l’intera opera è realizzata
ed al quale sono affidati degli obblighi, sia in fase progettuale sia in quella esecutiva, che
vanno ad integrarsi con quelli delle altre figure sopra richiamate3.
Naturalmente è bene sottolineare che le figure qui brevemente illustrate subiscono
puntualizzazioni e variazioni in relazione alle diverse realtà in cui operano, sulla base
del settore di attività, della tipologia e della struttura organizzativa della singola azienda,
ecc.
3. La responsabilità del committente secondo la Giurisprudenza recente della Suprema
Corte
Tale complesso assetto evidenzia, inoltre, che nell’ambito della stessa attività possano
coesistere molteplici figure garanti, circostanza questa che impone – come già accennato
– che l’individuazione della responsabilità penale debba essere preceduta da un’accurata
analisi delle diverse sfere di competenza gestionale ed organizzativa effettivamente
presenti.
Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo affrontato il tema attinente
all’intreccio dei doveri e delle corrispondenti responsabilità in capo al committente ed
al datore di lavoro posto al vertice dell’azienda appaltatrice, con risultati purtroppo non
sempre del tutto soddisfacenti rispetto l’obiettivo sopra enunciato4.
In particolare – circoscrivendo la presente analisi ad alcune pronunce più recenti – i
giudici della IV Sezione, con sentenza n.10608 del 4 dicembre 2012, hanno confermato
il principio secondo cui anche il committente va considerato responsabile per gli infortuni
occorsi ai lavoratori, qualora essi si ricolleghino causalmente ad una sua colpevole omissione.
2Cass. Pen. Sez. IV, 7 aprile 2011, n. 22334.
3La cui figura ha trovato esplicito riconoscimento solo con il D.Lgs. n. 494/1994.
4Inizialmente, in assenza della normativa di settore, la giurisprudenza di legittimità aveva escluso che il committente
potesse rispondere delle inadempienze prevenzionistiche verificatesi nell’approntamento dei cantieri e nell’esecuzione dei lavori. La responsabilità del committente veniva al più ravvisata quando questi travalicava il suo ruolo, per aver
assunto di fatto una posizione direttiva, ingerendosi nell’esecuzione dei lavori o perché datore di lavoro “dissimulato”.
In sostanza, il principio a lungo dichiarato era nel senso che il committente di lavori edili non rivestisse un’autonoma
posizione di garanzia a tutela della vita e della salute dei lavoratori dipendenti dell’appaltatore.
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Omissione che la Cassazione ha identificato nella semplice circostanza che il committente
abbia consentito l’inizio dei lavori pur in presenza di situazioni pericolose.
L’orientamento è ripreso anche dalla sentenza n. 31296 del 18 aprile 2013, in cui
gli ermellini della IV Sezione hanno nuovamente identificato l’omissione penalmente
rilevante nel non aver impedito l’inizio dei lavori, quando la mancata adozione delle
misure di prevenzione sia immediatamente percepibile. La stessa Corte ha affermato che
per escludere la responsabilità del committente non è sufficiente che questi abbia impartito
direttive in materia di sicurezza, ma è necessario che ne abbia controllato anche la puntuale
osservanza.
Nella medesima sentenza è affermato come il nesso di causalità tra le omissioni del
committente e l’infortunio occorso possa essere rivenuto anche nella mancata nomina del
coordinatore della sicurezza per la progettazione e del coordinatore per la realizzazione
dell’opera, poiché la presenza di tali figure avrebbe permesso di verificare preventivamente
l’idoneità del piano operativo di sicurezza e di vigilare sul rispetto delle misure ivi indicate.
In altri termini, l’infortunio sarebbe stato scongiurato se il committente avesse nominato
una figura qualificata, che è prevista dalla legge proprio per rafforzare l’incolumità dei
lavoratori.
Secondo questo orientamento dei giudici di legittimità, gli unici limiti che incontra
la responsabilità del committente riguarderebbero i rischi specifici delle attività proprie
dell’appaltatore oppure l’avvenuta nomina di un responsabile dei lavori, al quale sono
trasferiti gli obblighi imposti al committente.
D’altra parte, la Suprema Corte ha anche affermato5 che la semplice nomina non sarebbe
in ogni caso sufficiente a schermare il committente, essendo necessaria una specifica delega
per quanto attiene agli adempimenti antinfortunistici.
In sostanza, la giurisprudenza sembra prescrivere un generale obbligo di diligenza, che
da solo è in grado di fondare la responsabilità, a titolo di colpa generica, per la mancata
prevenzione di rischi percepibili ed a cui tutti i soggetti coinvolti in attività potenzialmente
pericolose sono chiamati ad attenersi.
Tale lettura rischia tuttavia di portare ad un ampliamento indiscriminato della
responsabilità penale, praticamente richiedendo ai committenti sempre maggiori conoscenze
e capacità tecniche, anche in situazioni in cui questi ultimi si rivolgono ad altri soggetti
qualificati per l’esecuzione di lavoro edili.
Tuttavia, una più puntuale attribuzione di responsabilità sembra emergere in alcune
più recenti pronunce, in cui i giudici, pur senza discostarsi molto dall’orientamento sopra
brevemente illustrato, hanno puntualizzato alcuni aspetti, tracciando così un’area (un po’)
più circoscritta della responsabilità penale del committente.
Al riguardo, con sentenza n. 36398 del 23 maggio 2013, la IV Sezione ha affermato
che il principio della responsabilità per l’inosservanza degli obblighi antiinfortunistici non
debba essere soggetto ad un’applicazione automatica e che conseguentemente sia necessario verificare, in concreto, quale sia stata l’incidenza della condotta del committente nella
formazione dell’evento infortunistico, tenendo in considerazione l’ingerenza (o meno) di
5In tal senso, vedasi, ad esempio, Cassazione, IV Sezione Penale, 14 marzo 2008, n. 23090.
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quest’ultimo nell’esecuzione dei lavori, le capacità organizzative dell’appaltatore, nonché
l’agevole ed immediata percepibilità di situazioni di pericolo.
Nella medesima pronuncia, la Corte ha evidenziato come non esista un obbligo di
nominare un coordinatore dei lavori se non ricorrono le condizioni specificatamente
elencate nelle disposizioni di legge e che conseguentemente, se non ricorrono tali
condizioni, neppure può imputarsi al committente di non aver tramite queste figure
adottato un piano di sicurezza. Infatti, in assenza di affidamento dei lavori a più imprese
non è possibile elevare una contestazione per la mancata nomina del coordinatore per
la progettazione.
Simile impostazione è stata affermata in una pronuncia di poco successiva, del 28.5.13
n. 37738, in cui la IV Sezione ha ripetuto che è necessario individuare uno specifico
inadempimento agli obblighi di legge previsti per ciascuna figura che opera per l’esecuzione
dei lavori. In altri termini, perché sia possibile formulare uno specifico addebito colposo,
è necessario comprendere come si siano articolate le diverse posizioni di garanzia ed
individuare in concreto quale fosse l’organizzazione effettivamente in essere presso il cantiere
dove l’infortunio si è verificato.
Con specifico riferimento dalla sfera di responsabilità del committente, la Suprema
Corte evidenzia come sostanzialmente la legge attribuisca al committente due ambiti di
azione: uno progettuale ed uno in fase esecutiva e che è la stessa normativa ad ammettere
che quest’ultimo possa spogliarsi degli obblighi connessi, nel caso in cui non possa (ad
esempio perché non ha le necessarie competenze tecniche) o non voglia assumere le
relative responsabilità.
Tale spogliazione è possibile nel caso in cui il committente affidi un incarico ben
preciso al responsabile dei lavori, il quale può limitare il proprio intervento anche ad
una parte sola del progetto, oppure occuparsi esclusivamente della parte esecutiva o di
vigilanza. Conseguentemente l’esonero della responsabilità del committente deve essere
commisurato all’incarico conferito.
Pertanto, secondo la Cassazione, perché l’incarico conferito possa assumere una qualche
valenza esimente è necessario che sia formalizzato e strutturato in modo che dallo stesso
sia possibile evincere quale siano i poteri effettivamente trasferiti e specularmente quali
siano le responsabilità di cui il committente si è spogliato.
La sentenza inoltre pone l’accento sul fatto che la vigilanza posta a carico del committente
non possa essere speculare a quella dell’appaltatore (ovvero il datore di lavoro), trattandosi
di una funzione di vigilanza che si distingue da quella operativa, che rimane invece sempre
demandata al datore di lavoro (e alle figure da questi dipendenti). Sarebbe quindi erroneo
richiedere un intervento di tipo ispettivo sulla concreta situazione del cantiere da parte
del committente.
Vi è quindi una diversità di ruoli tra il datore di lavoro delle imprese appaltartici ed
il committente (o le figure da lui incaricate). Ruolo di vigilanza che per quest’ultimo,
riprendendo le parole della Cassazione, «deve limitarsi ad una generale configurazione
delle lavorazioni e non a una puntuale vigilanza delle pratiche modalità con cui le stesse
vengono eseguite»6.
6Cass., IV Sez. pen., 28.5.13 cit.
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In conclusione, la responsabilità del committente deve essere considerata concorrente
e non alternativa rispetto a quella dell’appaltatore/datore di lavoro; essa tuttavia non deve
essere ricostruita in modo simmetrico rispetto a quella riconosciuta in capo al datore di
lavoro, che rimane la figura principale a tutela della salute dei lavoratori.
Silvia Levis
Simmons & Simmons
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Il disastro ambientale: un disastro innominato
Il profilo del disastro innominato colposo tra i delitti di evento
Sommario: 1. Premessa; 2. Il disastro innominato: profili generali nell’individuazione del momento
consumativo; 3. Nozione di disastro sotto la lente della giurisprudenza; 4. Il momento iniziale e
finale dell’evento; 5. Profili del reato permanente nell’ipotesi di disastro; 6. Profili giurisprudenziali:
il caso Eternit.
1. Premessa
Deve anzitutto premettersi che il lavoro qui svolto in merito alla fattispecie delittuosa in
questione, risultante dal combinato disposto degli artt. 434, comma 1, e 449, comma 1, c.p.,
contempla tra i propri elementi costitutivi un evento naturalistico – il rapporto di derivazione
causale con una condotta a forma libera – rappresentato da un “disastro” che sia “altro”
rispetto a quelli nominativamente indicati nel capo I del titolo VI del codice penale (incendio,
inondazione, naufragio, disastro aviatorio, disastro ferroviario, crollo di costruzioni, ecc.)1.
Ci troviamo dunque, pacificamente, di fronte a un reato di evento, la cui struttura è
a ben vedere omogenea a quella dell’omicidio colposo: “chiunque cagiona per colpa la
morte di una persona”; “chiunque cagiona per colpa un disastro c.d. innominato”.
La diversa natura dell’evento naturalistico causato dalla condotta colposa si riflette sulla
direzione offensiva delle rispettive figure di reato, che reprimono, rispettivamente, l’offesa
al bene individuale della vita e l’offesa al bene collettivo dell’incolumità pubblica, cioè
della vita o dell’integrità fisica di un numero indeterminato di persone.
Più precisamente, mentre nella figura dell’omicidio colposo la verificazione dell’evento
rileva per la lesione del bene giuridico tutelato, nella fattispecie di cui all’art. 449 c.p.
l’evento-disastro colposo rileva per la mera esposizione a pericolo del bene dell’incolumità
pubblica2.
Il disastro viene dunque in considerazione, nella struttura dell’art. 449 c.p., come “evento
pericoloso” (v. art. 40, comma 1, c.p.) e non già, a differenza della morte nell’omicidio,
come evento dannoso.
2. Il disastro innominato: profili generali nell’individuazione del momento consumativo
Il preliminare inquadramento del disastro innominato colposo tra i delitti di evento è
fondamentale per l’individuazione del momento consumativo del reato. È infatti noto che il
reato si consuma quando si realizzano in concreto tutti gli estremi del fatto tipico descritto
dalla norma incriminatrice; ciò comporta, nei reati di evento, che il momento consumativo
coincide con quello della verificazione dell’evento stesso (nell’omicidio colposo come nel
disastro colposo).
In relazione a quest’ultima figura delittuosa si tratterà allora di individuare, a seconda della
tipologia di evento-concreto, il momento nel quale si verifica il disastro, con conseguente
esposizione a pericolo della pubblica incolumità.
1Cfr. Corte Cost., 1° agosto 2008, n. 327, in Giur. cost., 2008, p. 3529 s.
2Cfr. Cass. Pen. Sez. IV, 15 ottobre 2009, n. 7664, RV 246848.
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In questa prospettiva, acquista un preliminare rilievo considerare a quale tipo di evento
è riconducibile la figura legale del disastro innominato.
Fondamentale, in proposito, è la sentenza n. 327 del 2008, con la quale la Corte
costituzionale, con una sentenza interpretativa di rigetto, ha fornito la sola interpretazione
dell’espressione “altro disastro” conforme al principio di determinatezza (o precisione) della
legge penale (art. 25, comma 2, Cost.).
Il disastro innominato, secondo l’interpretazione conforme a Costituzione, scolpita
nella recente pronuncia della Corte costituzionale, deve essere concepito come species del
genus disastro, delineato dalle figure delittuose comprese nel capo I del titolo VI del codice
penale: si tratta di “un accadimento sì diverso, ma comunque omogeneo, sul piano delle
caratteristiche strutturali, rispetto ai disastri” contemplati nelle suddette figure di reato.
Dal contesto dei delitti contro l’incolumità pubblica, e in particolare dall’analisi delle
caratteristiche delle diverse figure delittuose collocate nel titolo VI del codice penale, emerge
dunque una nozione unitaria di disastro, che si caratterizza per un duplice concorrente
profilo: «da un lato, sul piano dimensionale, si deve essere al cospetto di un evento distruttivo
di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti
dannosi gravi, complessi ed estesi.
Dall’altro lato, sul piano della proiezione offensiva, l’evento deve provocare – in accordo
con l’oggettività giuridica delle fattispecie in questione (la “pubblica incolumità”) – un pericolo
per la vita o per l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro
sia richiesta l’effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti».
Alla luce di una siffatta nozione, il reato di disastro innominato colposo ex artt. 434,
comma 1, e 449, comma 1, c.p. si realizza se, e nel momento in cui, in conseguenza
di una condotta colposa si produce un evento che possiede i menzionati tratti distintivi
(dimensionale e offensivo).
3. Nozione di disastro sotto la lente della giurisprudenza
Con riferimento alla dispersione nell’ambiente di polveri di amianto o di sostanze tossiche e inquinanti, correlata a processi produttivi protrattisi per un lungo arco temporale,
va peraltro preliminarmente segnalato che la riconducibilità alla nozione legale di “disastro”, come sopra delineata, risulta sicuramente problematica, e lo è ancor più a seguito
della citata sentenza della Corte Costituzionale.
La Corte, che si è pronunciata in un giudizio incidentale relativo a un caso di “disastro ambientale”, ha sottolineato la necessità di ricostruire il “disastro innominato” come
species del genus ricavabile dalle figure “nominate”, alle quali deve risultare omogeneo.
E proprio con riguardo al “disastro ambientale”, talora ricondotto “con soluzioni
interpretative non sempre scevre da profili problematici al paradigma punitivo del disastro
innominato”, la Corte stessa ha auspicato un intervento del legislatore, volto a introdurre
“specifiche figure criminose” a tutela della salute e dell’integrità fisica.
Proprio in considerazione del monito rivolto dalla Corte al legislatore – come anche
al giudice, tenuto a rispettare il principio di legalità e a non assumere un ruolo creativo,
nell’inerzia del legislatore stesso – è oggi quantomeno problematico ricondurre al tipo
legale del “disastro innominato” la dispersione nell’ambiente di polveri di amianto o di
sostanze tossiche o inquinanti, realizzata in un lungo arco temporale nell’ambito dell’attività
d’impresa.
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È noto come, a fronte di gravi fatti d’inquinamento ambientale connessi all’attività
d’impresa, comportanti l’insorgere di malattie professionali e/o la morte di numerose persone,
la giurisprudenza sia orientata a favore della configurabilità di un disastro innominato, sub
specie di disastro ambientale.
Nel “disastro” che si assume realizzato dalla dispersione nell’ambiente di sostanze tossiche e nocive per la salute, tuttavia, assumono profili meno definiti almeno due requisiti
strutturali che caratterizzano i disastri nominati:
– una causa violenta che inneschi il verificarsi dell’evento, da ravvisarsi in una condotta
violenta, comportante cioè impiego di energia fisica (non si dimentichi l’intitolazione del
capo I, titolo VI del codice penale: “Dei delitti di comune pericolo mediante violenza”);
– un accadimento naturalistico con un inizio e una fine determinati, il cui manifestarsi
– come nel caso dell’incendio, della frana, della valanga, dell’inondazione, ecc. – fa
immediatamente sorgere il pericolo per l’incolumità pubblica.
4. Il momento iniziale e finale dell’evento
Ammesso dunque che sia possibile individuare una condotta (colposa) violenta quale
causa della dispersione delle polveri di amianto nell’ambito dell’attività d’impresa, occorrerà
identificare – il che ha primario rilievo nella prospettiva del tempus commissi delicti – un
evento, originato da quella condotta, che abbia il carattere subitaneo proprio dei disastri
nominati, che complessivamente considerati delineano la figura generale del “disastro”.
Sembra in merito praticabile un’interpretazione, pur sempre rispettosa del canone della
legalità/determinatezza della legge penale, che nel caso in esame ricostruisce il disastro
innominato come evento di natura istantanea e, pertanto, omogeneo rispetto al genus
desumibile dalle figure di disastro nominato.
Al di là delle difficoltà di ordine probatorio, ci sembra infatti in via di principio
individuabile un momento nel quale la concentrazione di polvere di amianto in un
determinato ambiente assume dimensioni tali da esporre a pericolo la pubblica incolumità: in
quel momento si realizza un disastro; si innesca una fonte di pericolo per la vita e l’integrità
fisica di un numero indeterminato di persone, realizzando il tipo di fatto penalmente
rilevante. Il momento iniziale e finale dell’evento è proprio quello dell’innesco della fonte
di pericolo, che in ipotesi di attività produttiva cessata, come nel caso di specie, non può
che essere anteriore alla data di cessazione dell’attività stessa.
Meno persuasiva – e potenzialmente in contrasto con l’interpretazione conforme a
Costituzione indicata dalla Corte costituzionale – è la tesi accolta da una parte della giurisprudenza, che ricostruisce il disastro ambientale da esposizione a sostanze tossiche in chiave
di “disastro permanente” e, conseguentemente, il delitto di disastro “innominato”, doloso
o colposo, come reato (eventualmente e proprio nell’ipotesi considerata) permanente.
Questa tesi, a ben vedere, confonde l’evento pericoloso (l’evento naturalistico fonte
di pericolo) con gli effetti conseguenti alla sua verificazione: una situazione di pericolo,
destinata fisiologicamente ad avere una durata più o meno lunga, finché non cessa per
una qualche ragione, ed eventualmente uno o più eventi dannosi per la vita e l’integrità
fisica (morte o lesioni personali).
In particolare, la tesi del reato permanente viene sostenuta in giurisprudenza con
argomentazioni tra loro diverse – che fanno riferimento alla permanenza della condotta
e/o dell’evento.
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5. Profili del reato permanente nell’ipotesi di disastro
Secondo una prima impostazione, nell’ipotesi di dispersione nell’ambiente di sostanze
tossiche il disastro può dirsi permanente a condizione che l’evento-disastro perduri nel
tempo per effetto di una persistente condotta del reo.
Si tratta – corretta o meno che sia – di un’impostazione fedele alla tradizionale e più
generale nozione di reato permanente, accolta dalla dottrina3 e dalla giurisprudenza, della
Corte di Cassazione4 e della Corte costituzionale5.
Ciò che caratterizza il reato permanente è, infatti, la volontaria e ininterrotta protrazione
della condotta tipica oltre il momento di perfezione del reato, cui corrisponde la protrazione
dello stato antigiuridico creato dall’agente e, con esso, dell’offesa al bene giuridico tutelato,
sul presupposto che questo possa essere solo compresso e non distrutto.
Chi ha realizzato un sequestro di persona, tradizionale figura di reato permanente,
continua a violare la fattispecie di cui all’art. 605 c.p., e a realizzare il fatto tipico della
privazione della libertà personale del sequestrato, fintanto che la condotta volontaria stessa
non cessi.
Ciò che permane nel reato permanente è, allora, la fase di consumazione, in
corrispondenza – questo è il punto – di una permanenza della condotta tipica, la cui cessazione segna l’esaurimento della fase di consumazione del reato e, quindi, della permanenza
stessa.
A tale caratteristica realizzazione del fatto tipico l’ordinamento collega effetti giuridici
diversi, tutti comunque ispirati all’idea per cui la permanenza della condotta tipica e
dell’offesa devono ricevere adeguato trattamento, diverso da quello previsto per l’ipotesi
di istantaneità della condotta stessa e dell’offesa.
Così, l’art. 382, comma 2, c.p.p. dispone che nel reato permanente lo stato di flagranza
dura fino a quando non è cessata la permanenza, e l’art. 158 c.p. prevede che, per
il reato permanente, il termine di prescrizione decorre dal giorno in cui è cessata la
permanenza.
Ancora, la permanenza della fase di consumazione fa sì che “legge del tempo in cui fu
commesso il reato”, a norma dell’art. 2 c.p., possa essere considerata, senza violazione del
principio di irretroattività, quella più sfavorevole sopravvenuta nel corso della permanenza,
come pacificamente si ammette, anche da parte della giurisprudenza6.
Conseguenze giuridiche di un tale rilievo possono giustificarsi, si badi bene, solo
alla luce della sopra esposta caratteristica volontaria protrazione della condotta tipica e
dell’offesa, propria del reato suscettibile di permanenza.
3Cfr. ad es. F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, VIII ed., Padova, 2013, p. 438.
4Cfr. Cass. S.U. 14 luglio 1999, n. 18, Lauriola, RV. 213932: “secondo la dottrina più moderna e la giurisprudenza più
aggiornata, confortata dalla Corte Costituzionale (sent. 26 novembre 1987 n. 520), il reato permanente trova caratterizzazione nel tipo di condotta e nella correlazione di questa con l’offesa all’interesse protetto; cioè la durata dell’offesa
è espressa da una contestuale duratura condotta colpevole dell’agente”. V. anche la sentenza di legittimità relativa al
caso del Petrolchimico di Porto Marghera, nella quale si legge, nella parte della motivazione relativa alle contravvenzioni in materia ambientale (sezione III, capitolo III) la seguente affermazione di portata generale: “In generale può
osservarsi che la natura permanente del reato deriva dalla circostanza che il fatto tipico si realizza con una lesione del
bene protetto che si protrae nel tempo, e la protrazione dipende dalla condotta dell’agente che può, in ogni momento,
far cessare la condotta antigiuridica”.
5Cfr. Corte cost., 26 novembre 1987, n. 520: “Se la lesione dell’interesse protetto è collegata ad una condotta perdurante
nel tempo nella sua stessa tipicità, il reato ha carattere permanente”.
6Cfr., per tutte, Cass., sez. I, 11 aprile 1983, Grifo, in Cass. Pen. 1985, 381.
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Di recente con l’autorevole avallo della Corte costituzionale (sent. 327/2008), la quale
ha sottolineato che un disastro è configurabile “senza che sia richiesta anche l’effettiva
verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti”. Il che significa che gli
eventi morte o lesioni, correlati al disastro di cui si tratta, non possono segnare il momento
consumativo del reato contro la pubblica incolumità, del quale non sono elementi costitutivi7.
Se ne ha conferma d’altra parte nella giurisprudenza della Suprema Corte, che ammette il
concorso tra il disastro colposo ex art. 449 c.p. e l’omicidio colposo o le lesioni personali
colpose, e ciò proprio perché “la morte di una o più persone” (al pari delle lesioni) “non
è considerata dalla legge come elemento costitutivo né come circostanza aggravante del
reato di disastro, che costituisce un’autonoma figura criminosa”8.
Il concorso formale di reati si giustifica d’altra parte in ragione del diverso bene
giuridico tutelato: l’incolumità pubblica da un lato, la vita (o l’integrità fisica individuale)
dall’altro9.
6. Profili giurisprudenziali: il caso Eternit
Secondo una diversa impostazione, accolta originariamente dal Tribunale di Torino nel
giudizio di primo grado relativo al caso Eternit, il protrarsi dell’evento-disastro allungherebbe
il periodo di consumazione del reato10, nel senso che questo sarebbe permanente finché
dura l’esposizione a pericolo della pubblica incolumità.
In applicazione di questo principio di diritto – enunciato in un caso in cui, analogamente
alla vicenda Sacelit, la condotta contestata è cessata da decenni – il Tribunale ha affermato
la permanenza del reato di disastro innominato doloso (escludendone la prescrizione) cosa
che non ha fatto, invece, recentemente la Corte Suprema di Cassazione all’udienza del 19
novembre 2014 – Sez. 1° penale, con riferimento ai soli fatti – relativi agli stabilimenti di
Casale Monferrato e Cavagnolo – che hanno comportato la dispersione di polveri di amianto
nell’ambiente esterno (in ragione della prassi dell’utilizzo dei residui di produzione per
la costruzione di strade e abitazioni), con conseguente – ancora perdurante – esposizione
della popolazione. Viceversa, il Tribunale di Torino ha ritenuto cessato il pericolo per
la pubblica incolumità – e con esso la permanenza del suddetto reato, dichiarato prescritto – con riferimento ai fatti (relativi agli stabilimenti di Bagnoli e Rubiera) per i quali
l’inquinamento era essenzialmente legato – come nel caso Sacelit – all’attività lavorativa,
sicché, cessata questa, “è cessata quella situazione di forte e grave pericolo per l’incolumità
pubblica e la salute che caratterizza il disastro”11.
Senonché, la tesi che fa dipendere la permanenza del disastro dal perdurare del pericolo
per la pubblica incolumità non appare giuridicamente sostenibile perché confonde – come
detto – la permanenza degli effetti del reato con la permanenza del reato e, ancor prima, sul
7V. anche Cass. Sez. IV, 14 marzo 2012, n. 18678.
8Cass. Sez. IV, 20 dicembre 1989, n. 1686, De Stefani, RV. 183243
9Cfr. Cass. Sez. IV, 18 ottobre 1984, n. 321, Catellani, RV. 167351; Cass. Sez. IV, 8 gennaio 1982, n. 3788, Nicoli, RV.
153177.
10Pag. 525 della sentenza, in www.penalecontemporaneo.it.
11Pag. 521 della sentenza, in www.penalecontemporaneo.it.
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piano teorico-sistematico, l’offesa al bene giuridico (il pericolo per la pubblica incolumità:
c.d. evento giuridico) con l’evento (il disastro, c.d. evento naturalistico)12.
In un ordinamento ispirato al principio di colpevolezza, d’altra parte, non avrebbe
senso collegare la punibilità del reato al protrarsi di effetti, prodotti da un evento, che
sfuggono alla condotta del reo.
Diversa è l’ipotesi in cui l’evento si verifichi solo successivamente (come per esempio
nell’omicidio). In tale caso l’interesse punitivo sorge solo nel momento del verificarsi
dell’evento ed è quindi logico che la prescrizione decorra da tale momento.
Nell’ipotesi di reato a effetti permanenti, come per esempio le lesioni personali, l’interesse
punitivo sorge con il verificarsi della malattia e quindi da tale momento decorre il termine
di prescrizione13, con la conseguenza che l’aggravamento, quando non dovuto alla condotta
del reo, non fa sorgere un nuovo termine di prescrizione.
Nel caso del disastro si desume quindi che dall’eventuale protrazione del pericolo
della lesione alla pubblica incolumità non si determina il decorrere della prescrizione
quando l’evento non é un effetto permanente del reato, ma solo quando sia determinato
dal protrarsi della condotta.
Secondo poi una tesi ancora diversa, sostenuta dalla Corte d’Appello di Torino sempre
nel caso Eternit, il disastro innominato (doloso) sarebbe un reato a consumazione prolungata,
che si consumerebbe con la cessazione del fenomeno epidemico (inteso come eccesso
numerico delle morti e delle malattie professionali nell’area interessata, che rappresenterebbe
l’evento disastroso)14.
Avendo nel caso di specie rilevato la mancata cessazione del fenomeno epidemico in
tutte le aree interessate dalla vicenda Eternit – comprese quelle nelle quali l’inquinamento
è risultato limitato agli ambienti di lavoro (Bagnoli e Rubiera) – la Corte d’Appello di Torino
ha riformato la sentenza di primo grado e affermato in ogni caso la permanenza del reato,
escludendone l’intervenuta prescrizione.
Questa tesi – come quella sostenuta dal PM ricorrente – confonde evidentemente
l’evento costitutivo del disastro (il pericolo per la pubblica incolumità) con gli eventi dei
delitti di lesioni (la malattia) e di omicidio colposo (la morte).
Valgono perciò le osservazioni critiche di cui al paragrafo successivo. Ciò anche volendo
prescindere dalla circostanza che nell’ipotesi di esposizione ad amianto il momento di cessazione del pericolo è antecedente a quello di cessazione del fenomeno epidemico, stante,
il notorio periodo di latenza che caratterizza le malattie derivanti da tale esposizione.
Secondo la recente pronuncia della Suprema Corte, invece, sempre con riferimento al
processo Eternit, celebrato il 19 novembre 2014, la Corte di Cassazione ha precisato che
“oggetto del giudizio era esclusivamente l’esistenza o meno del disastro ambientale, la cui
sussistenza è stata affermata dalla Corte, che ha dovuto, però, prendere atto dell’avvenuta
prescrizione del reato essendosi l’evento consumato con la chiusura degli stabilimenti Eternit,
avvenuta nel 1986, data dalla quale ha iniziato a decorrere il termine di prescrizione.
12Cfr. G. Marinucci, E. Dolci, Manuali di diritto penale. Parte generale 4° ed., Milano, 2012, p. 188.
13Cfr. Cass. Sez. II, 9 dicembre 1985, in Cass. Pen., 1988, p. 62,
14Pag. 478 della sentenza (v. anche pagg. 587/588), in www.penalecontemporaneo.it.
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sicurezza sul lavoro
Non erano, quindi, oggetto del giudizio i singoli episodi di morti e patologie sopravvenute
dei quali la Corte non si è occupata”.
Dietro al clamore mediatico della vicenda Eternit in questo preciso momento da parte
di chi scrive vi saranno ancora discussioni aperte tra il contrasto di una interpretazione
costituzionalmente conforme del delitto di disastro innominato, fornito dalla Corte
Costituzionale nel 2008 e il diritto vivente. Forse è plausibile il sospetto di una violazione
del principio della riserva di legge e dei suoi corollari15.
Sul punto, di rilevante interesse è il “Parere pro-veritate sulla riconducibilità del c.d.
disastro ambientale all’art. 434 c.p. di Giovanni Maria Flick (Diritto Penale Contemporaneo
28 novembre 2014)”.
Antonio Bana
Studio Bana
15G.L. Gatta – Diritto Penale Contemporaneo. Il diritto e la Giustizia Penale davanti al dramma dell’amianto: riflet‑
tendo sull’epilogo del caso Eternit (24 novembre 2014)
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I reati ambientali e il D.Lgs. n. 231/2001
Sommario: 1. Premessa; 2. I reati ambientali attualmente previsti dal D.Lgs. n. 231/2001: 2.1.
La normativa comunitaria: la Direttiva 2008/99 CE, la Direttiva 2009/123 CE; 2.2. Il Decreto
Legislativo n. 121/2011; 2.3. L’art. 25 undecies del Decreto legislativo n. 231/2001; 3. Uno rapido
sguardo alla “corporate environment liability” negli altri paesi europei: in Spagna, in Francia, in
Germania; 4. Il disegno di Legge n. 1345 del 2014; 5. Conclusioni.
1. Premessa
Come noto, il D.Lgs. n. 231/2001, concernente la regolamentazione della cosiddetta
responsabilità amministrativa degli enti, prevede fra i reati presupposto anche alcune
fattispecie a tutela dell’ambiente.
Come sempre più spesso accade, anche per questa materia, l’innovazione normativa è
avvenuta e continua ad avvenire principalmente su spinta dell’Istituzioni europee.
Altrettanto frequentemente, però, il nostro Paese è in ritardo nell’attuazione dei
provvedimenti comunitari e, di conseguenza, soggetto a procedure d’infrazione per il
mancato rispetto dei termini di recepimento.
Con riferimento proprio ai reati ambientali, il Legislatore italiano ha difatti provveduto
ad introdurre le nuove fattispecie di reato previste dalle direttive comunitarie soltanto a
seguito della comunicazione d’avvio di procedure d’infrazione.
Le iniziative delle Autorità europee in materia ambientale hanno particolarmente insistito
affinché fossero previste forme di responsabilità anche per le persone giuridiche, spesso le
principali autrici di detti illeciti o, perlomeno, frequentemente coinvolte.
Il presente articolo vuole esaminare la genesi degli interventi normativi a livello nazionale
degli ultimi anni sul tema della responsabilità delle imprese per gli illeciti ambientali,
confrontare la nostra regolamentazione con quella di alcuni altri Paesi europei nonché
fornire una preliminare analisi del progetto di riforma che, proprio nel corso della redazione
del presente articolo (novembre 2014), è in discussione nelle aule parlamentari (Disegno
di legge n. 1345 del 2014).
2. I reati ambientali attualmente previsti dal D.Lgs. n. 231/2001
Benché l’Italia sia stato uno dei Paesi che per primi hanno introdotto nei propri
ordinamenti la “corporate liabilty”, l’introduzione degli illeciti a danno dell’ambiente quali
presupposto di detta responsabilità è avvenuta solamente nel 2011 e, come sopra anticipato,
soltanto a seguito dell’approvazione di due importanti direttive della Comunità Europea:
la direttiva 2008/99/CE e la direttiva 2009/123/CE, rispettivamente sul tema della tutela
penale dell’ambiente e dell’inquinamento provocato dalle navi.
Si comprende, quindi, come possa essere utile accennare alle tappe dell’evoluzione
della responsabilità degli enti in materia ambientale nella legislazione europea per cogliere
meglio come il nostro Paese sia arrivato alla regolamentazione di cui si tratta.
Come si vedrà, il percorso iniziato a livello europeo si è rivelato sin dalle origini
piuttosto travagliato.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
2.1. La normativa comunitaria
Il primo atto a prevedere la responsabilità degli enti per la commissione di un reato
ambientale è stato la Convenzione sulla tutela penale dell’ambiente di Strasburgo siglata
dal Consiglio d’Europa il 4 novembre 1998.
Tale convenzione non ha avuto tuttavia una grande fortuna essendo stata ratificata
dalla sola Estonia.
Successivamente, il Consiglio d’Europa attraverso le decisioni quadro Gai 2003/80 e
2005/67 ha ripreso la trattazione di questo tema e ha proposto nuovamente la responsabilità
delle persone giuridiche per i casi di violazione delle normativa comunitaria a tutela
dell’ambiente. Dette decisioni sono state, però, annullate dalla Corte di Giustizia Europea
rispettivamente con le sentenze del 13 settembre 2005 (causa C-176/039) e del 23 ottobre
2007 (causa C-440/05), per assenza di una corretta base giuridica nella loro adozione.
Le direttive 2008/99 CE e 2009/123 CE hanno costituito, invece, gli atti cardine adottati
dalle Istituzioni europee per la definitiva regolamentazione della materia in esame.
La Direttiva 2008/99 CE
Nel novembre 2008, Parlamento e Consiglio Europeo hanno approvato la Direttiva
2008/99 CE1 “sulla tutela dell’ambiente”.
Le Istituzioni comunitarie, infatti, preoccupate per l’aumento dei reati ambientali e per
le loro conseguenze che, sempre più frequentemente, si stavano estendendo al di là delle
frontiere degli Stati in cui i reati venivano commessi, hanno ritenuto che la comminazione
di sanzioni penali, “adeguate ma dissuasive”, potesse produrre un effetto sufficientemente
deterrente per le attività potenzialmente lesive dell’ambiente.
Tale direttiva ha imposto, dunque, a tutti gli Stati membri di istituire misure, perlomeno
“collegate” al diritto penale, allo scopo di tutelare l’ambiente in maniera efficace.
Tre sono, in particolare, gli aspetti sui quali pare opportuno soffermarsi.
Anzitutto, agli articoli 6 e 7 la norma comunitaria ha espressamente imposto agli Stati
membri che “le persone giuridiche possano essere dichiarate responsabili dei reati di cui
agli articoli 3 e 4 (che regolano le singole fattispecie di reato ambientale) quando siano stati
commessi a loro vantaggio da qualsiasi soggetto che detenga una posizione preminente in seno
alla persona giuridica, individualmente o in quanto parte di un organo della persona giuridica”
ed, altresì, per i casi in cui la carenza di sorveglianza o controllo da parte di un soggetto
apicale “abbia reso possibile la commissione di un reato di cui agli articoli 3 e 4”.
È stata così prevista a livello comunitario la sanzione degli enti per violazioni in materia
ambientale sia per le condotte direttamente poste in essere da parte dei soggetti apicali
sia per quelle commesse dai sottoposti, che sono state rese possibili dall’omessa vigilanza
degli organi direttivi.
Secondariamente, la direttiva in oggetto ha inteso prendere in considerazione le condotte
che “intenzionalmente o per grave negligenza” configurano “gravi violazioni del diritto
comunitario in materia di tutela ambientale”.
Il Legislatore comunitario ha, dunque, voluto far perseguire agli Stati membri non solo
le condotte dolosamente commesse ma anche quelle colpose caratterizzate da una “grave
negligenza”.
1Approvata in data 19 novembre 2008 e pubblicata in G.U.C.E. del 6 dicembre 2008.
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Diritto ambientale
Infine, agli articoli 3 e 4 la Direttiva ha provveduto a tipizzare le fattispecie di cui si
è imposto a ciascun Stato membro di perseguire configurandoli quali reati.
Dette ipotesi, per quanto concerne la normativa italiana, hanno ricevuto un espresso
riconoscimento nel Decreto Legislativo n. 121/2011, perciò, saranno singolarmente esposte
nel successivo paragrafo 1.2 dedicato all’esame di detto provvedimento normativo.
La Direttiva 2009/123 CE. che modifica la Direttiva 2005/35/CE relativa all’inquinamento
provocato alle navi e all’introduzione di sanzioni per violazioni.
Quanto riguarda alla Direttiva 2009/123 CE2, invece, i rilievi sono più marginali poiché
quest’ultima ha ad oggetto una tematica piuttosto settoriale quale è quella dell’inquinamento
provocato dalle navi.
Si osservi che il presente provvedimento ha modificato quanto già in precedenza regolato
dalla Direttiva n. 2005/35/CE anch’essa concernente l’inquinamento provocato dalle navi
e l’introduzione di sanzioni per le violazioni in tale materia.
Sul punto merita di essere segnalato che, sostanzialmente, la normativa prevista nel
2009 ha imposto agli Stati membri l’adozione di sanzioni penali (“efficaci, proporzionate
e dissuasive”) per i casi di violazione degli scarichi di sostanze inquinanti effettuate dalle
navi nelle acque interne di uno Stato membro, dovendosi ritenere incluse anche le aree
portuali.
La precedente Direttiva chiedeva più genericamente che gli Stati membri considerassero semplici violazioni detti sversamenti.
Anche per questi casi, simili condotte sono state ritenute perseguibili indistintamente
sia che fossero tenute “intenzionalmente, temerariamente o per negligenza grave”.
2.2. Il Decreto Legislativo n. 121/2011
Come sopra anticipato, l’Italia ha provveduto tardivamente a dare attuazione alle due
direttive sopra richiamate; tuttavia, è riuscita a scampare la comminazione di una sanzione
dalle Autorità europee.
Difatti, nonostante le due direttive sopracitate imponessero agli Stati membri di
adottare le conseguenti disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie,
rispettivamente, entro il 26 dicembre 2010 ed il 16 novembre 2010, è stato solo nell’agosto
2011 (e precisamente il giorno 16) che il Governo italiano ha regolarizzato il nostro
ordinamento approvando il presente decreto legislativo3.
Sono state così interrotte le procedure d’infrazione che la Commissione europea aveva
avviato nei confronti dell’Italia; procedure che, di conseguenza, sono state chiuse4.
Si è trattato di un intervento relativamente poco innovativo per il nostro Paese, almeno
da un punto di vista formale, poiché, come rilevato nella stessa relazione illustrativa del
2Approvata in data 21 ottobre 2009 e pubblicata in G.U.C.E. del 27 ottobre 2009.
3L’art. 19 della Legge 4 giugno 2010, n. 96 (c.d. legge comunitaria 2009) ha delegato il Governo ad adottare, entro il
termine di nove mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi al fine di recepire le disposizioni delle direttive 2008/99/CE e 2009/123/CE.
4Procedura d’infrazione numero 2011/0207 avviata dalla Commissione Europea per mancato recepimento della Direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell’ambiente.
Procedura d’infrazione numero 2011/0216 avviata dalla Commissione Europea per mancato recepimento della direttiva 2009/123/CE che modifica la direttiva 2005/35/CE relativa all’inquinamento provocato dalle navi.
In data 26 gennaio 2011 la Commissione europea ha inviato all’Italia due lettere di messa in mora con riferimento alle
succitate infrazioni.
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Governo5, le uniche fattispecie sanzionate dalla direttiva ma assenti nell’ordinamento interno
sono state individuate nell’“uccisione, distruzione, prelievo o possesso di esemplari di
specie animali e vegetali selvatiche protette” nonché nella “distruzione o deterioramento
di habitat all’interno di un sito protetto”.
Le altre infrazioni erano infatti state già previste e tipizzate, quali contravvenzioni, nel
D.Lgs. n. 152/2006 (Codice dell’ambiente).
Il presente decreto ha così novellato nel nostro codice penale due nuove fattispecie di
reato inserite agli artt. 727 bis “Uccisione, distruzione, prelievo o possesso di esemplari di
specie animali e vegetali selvatiche protette” e 733 bis “Distruzione o deterioramento di
habitat all’interno di un sito protetto”.
Da un punto di vista sostanziale però, la valutazione complessiva circa la tutela
ambientale è apparsa incompleta.
Il Governo nella succitata relazione illustrativa ha infatti precisato che, a causa della
ristrettezza dei tempi conferiti dalla legge delega, “il recepimento delle stesse (n.d.r. delle
direttive europee) non può essere assicurato che attraverso un completo ripensamento del
sistema dei reati contro l’ambiente mediante il loro inserimento sistematico all’interno del
codice penale sostanziale e la previsione come delitti delle più gravi forme di aggressione.
Tale operazione potrà costituire oggetto separato e successivo intervento normativo”.
Si è dunque avvertito, già in fase di emanazione di detto decreto, l’esigenza di una
riorganizzazione delle norme di tutela ambientale specialmente con riferimento ai profili
di rilievo penale, auspicando un intervento diretto sul codice penale.
Detto intervento si può ritenere concretizzato nella proposizione di un nuovo disegno
di legge attualmente in discussione alle camere (Disegno di legge n. 1345 del 2014) sul
quale ci si soffermerà al successivo paragrafo 3 del presente articolo.
L’approvazione del D.Lgs. n. 121/2001 ha rappresentato anche l’estensione della
responsabilità amministrativa degli enti proprio ai reati ambientali, come si evidenzia nel
paragrafo che segue.
2.3. L’art. 25 undecies del Decreto legislativo n. 231/2001
Come sopra accennato, il D.Lgs. n. 121/2001, e specificamente il secondo comma
dell’articolo 2, ha introdotto gli illeciti ambientali stabiliti dalle due direttive sopra richiamate
fra i reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti.
Detta innovazione normativa ha trovato spazio nel testo del decreto 231 all’articolo
25 undecies.
Questi i reati presupposto ad oggi previsti:
– Art. 727 bis c.p.: “Uccisione, distruzione, cattura, prelievo, detenzione di esemplari
di specie animali o vegetali selvatiche protette”;
– Art. 733 bis c.p.: “Distruzione o deterioramento di habitat all’interno di un sito
protetto”;
– Art. 137 del D.Lgs. n. 152/2006: “Scarico illegale di acque reflue industriali”;
5Atto del Governo sottoposto al parere parlamentare n. 357 – Schema di decreto legislativo recante recepimento della
direttiva 2008/99/CE del Parlamento europeo e del Consiglio sulla tutela penale dell’ambiente, nonché della direttiva
2009/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 2005/35/CE relativa all’inquinamento
provocato dalle navi e all’introduzione di sanzioni per violazioni - Trasmesso alla Presidenza del Senato l’8 aprile
2011.
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Diritto ambientale
– Art. 256 del D.Lgs. n. 152/2006: “Attività di gestione di rifiuti non autorizzata o con
inosservanza delle prescrizioni contenute nei provvedimenti di autorizzazione o in carenza
dei requisiti e condizioni per le iscrizioni o comunicazioni”;
– Art. 257 del D.Lgs. n. 152/2006: “Omessa bonifica dei siti”;
– Art. 258, comma 4, II periodo, del D.Lgs. n. 152/2006: “Trasporto di rifiuti in mancanza
di formulario o con formulario recante dati inesatti o incompleti”;
– Art. 259, comma 1, del D.Lgs. n. 152/2006: “Traffico illecito di rifiuti”;
– Art. 260 del D.Lgs. n. 152/2006: “Attività organizzate per il traffico illecito di
rifiuti”;
– Art. 260 bis del D.Lgs. n. 152/2006: “False indicazioni sulla natura, sulla composizione
e sulle caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti nella predisposizione di un certificato di
analisi di rifiuti, trasporto di rifiuti pericolosi in mancanza di copia cartacea della scheda
SISTRI - Area Movimentazione o con copia fraudolentemente alterata, uso di un certificato
di analisi di rifiuti contenente false indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle
caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti trasportati”;
– Art. 279, comma 5, del D.Lgs. n. 152/2006: “Violazione dei valori limite di emissione o delle prescrizioni stabilite dall’autorizzazione nell’esercizio di un impianto o di
un’attività”;
– Artt. 1, 2 e 6 della Legge n. 150/92, come modificata dal D.Lgs. 275/2001: “Disciplina
relativa all’applicazione in Italia della convenzione sul commercio internazionale delle
specie animali e vegetali in via di estinzione, firmata a Washington il 3 marzo 1978
e del regolamento (CEE) n. 3626/82 e successive modificazioni, nonché norme per la
commercializzazione e la detenzione di esemplari vivi di mammiferi e rettili che possono
costituire pericolo per la salute e l’incolumità pubblica”;
– Art. 3 bis della Legge n. 150/92, come modificata dal D.Lgs. 275/2001: “Reati di cui
al libro II, titolo VII, capo III, del codice penale in relazione alle ipotesi di falsificazione o
alterazione di certificati, licenze, notifiche di importazione, dichiarazioni, comunicazioni di
informazioni al fine di acquisizione di una licenza o di un certificato, di uso di certificati
o licenze falsi o alterati”;
– Art. 3, comma 6, della Legge n. 549/93 e successive modificazioni: “Violazioni delle
disposizioni sulla tutela dell’ozono stratosferico e dell’ambiente”;
– Art. 8 del D.Lgs. n. 202/2007: “Inquinamento doloso provocato dalle navi”;
– Art. 9 del D.Lgs. n. 202/2007: “Inquinamento colposo provocato dalle navi”.
Quattro sono gli aspetti meritevoli di un breve approfondimento.
Prima di tutto, occorre chiarire come possa essere applicabile la normativa della
responsabilità amministrativa degli enti per i reati ambientali posto che, come noto, la stessa
trova applicazione soltanto nei casi in cui i reati presupposto siano commessi nell’interesse
o a vantaggio delle ente stesso (art. 5, D.Lgs. n. 231/2001).
La giurisprudenza sul punto si è recentemente espressa in maniera molto chiara.
Nei “reati colposi di evento, l’imputazione oggettiva dell’illecito all’ente si fonda
sull’interesse o vantaggio riferito alla condotta e non all’evento.
Orbene, con riguardo ad una condotta che reca la violazione di una disciplina
prevenzionistica, posta in essere per corrispondere ad istanze aziendali, l’idea di profitto si
collega con naturalezza ad una situazione in cui l’ente trae da tale violazione un vantaggio
che si concreta, tipicamente, nella mancata adozione di qualche oneroso accorgimento
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di natura cautelare, o nello svolgimento di una attività in una condizione che risulta
economicamente favorevole, anche se meno sicura di quanto dovuto. Qui si concreta il
vantaggio che costituisce il nucleo essenziale dell’idea normativa di profitto.” (cit. Cass.
pen., Sez. Un., n. 38343/2014).
Il ragionamento in sostanza è il medesimo che per i casi di infortuni sul lavoro, vale
a dire, la violazione delle normative ambientali è collegata ad un risparmio economico
dell’azienda nel porre in essere le dovute procedure; pertanto, in questo risparmio di spese
è identificato il vantaggio/interesse per l’ente.
Secondariamente, merita un cenno la tematica legata all’istituto della delega di funzioni
in materia ambientale. Per la materia di cui si tratta, infatti, non è stata prevista alcuna
regolamentazione di questo istituto, ma è stata l’evoluzione giurisprudenziale a riconoscerla
ed ammetterla.
Sul punto la Suprema Corte di Cassazione ha finito con il dettare le condizioni per
l’ammissione di detto istituto.
“In materia ambientale, per attribuirsi rilevanza penale all’istituto della delega di funzioni,
è necessaria la compresenza di precisi requisiti: a) la delega deve essere puntuale ed espressa,
con esclusione in capo al delegante di poteri residuali di tipo discrezionali; b) il delegato deve
essere tecnicamente idoneo e professionalmente qualificato per lo svolgimento del compito
affidatogli; c) il trasferimento delle funzioni delegate deve essere giustificato in base alle dimensioni
dell’impresa o, quantomeno, alle esigenze organizzative della stessa; d) la delega deve riguardare
non solo le funzioni ma anche i correlativi poteri decisionali di spesa; e) l’esistenza della delega
deve essere giudizialmente provata in modo certo”. (Cass. pen. n. 8275 / 2010).
Tuttavia, si badi che la delega non esclude comunque in capo al datore di lavoro
l’obbligo di vigilanza in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni
trasferite.
In terzo luogo, particolarmente delicato è il tema legato alla confisca per i casi di
violazioni della normativa ambientale.
L’art. 19 del Decreto 231 dispone che, con la sentenza di condanna, l’ente sia sempre
sottoposto alla confisca del prezzo o del profitto del reato e, nel caso, anche a quella per
equivalente.
Ma non solo. Ai sensi del comma 5 dell’art. 6 del citato decreto, la confisca è sempre
disposta, limitatamente però al profitto del reato, anche per i casi in cui l’ente vada esente
da responsabilità per un reato commesso da un soggetto apicale con la possibilità, peraltro,
di eseguire il provvedimento anche nella forma della confisca per equivalente.
Si tratta evidentemente di disposizioni piuttosto severe e per questo comprensibilmente
temute.
La giurisprudenza ha chiarito che il prezzo del reato “rappresenta il compenso dato
o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato”
(cit. Cass. Pen., Sez. Un., n. 9146/1996); invece, il profitto del reato “si identifica con il
vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto”
(cit. Cass. Pen., Sez. Un., n. 26654/2008).
Con riferimento alle violazioni ambientali, il profitto può essere identificato nel risparmio
conseguito dall’impresa per la mancata adozione dei provvedimenti ambientali necessari.
Tuttavia, “la nozione di risparmio di spesa presuppone un ricavo introitato e non decurtato
dei costi che si sarebbero dovuti sostenere, vale a dire un risultato economico positivo,
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Diritto ambientale
concretamente determinato dalla contestata condotta delittuosa. […] Occorre, pertanto, un
profitto materialmente conseguito, ma di entità superiore a quello che sarebbe stato ottenuto
senza omettere l’erogazione delle spese dovute”. (cit. Cass. Pen., Sez. VI, n. 3635/2014)
Infine, relativamente ai profili sanzionatori previsti si sottolinea quanto segue.
L’articolo 25 undecies ha previsto, oltre alla sanzione pecuniaria (come di consueto
calcolata sulla doppia valutazione cornice sanzionatoria-quota), la comminazione di sanzioni
interdittive (tendenzialmente le più temute dalle aziende), quali l’interdizione dall’esercizio
dell’attività, la sospensione o la revoca delle autorizzazione, licenze o concessioni, il divieto
di contrattare con la pubblica amministrazione, l’esclusione da agevolazioni o finanziamenti
oppure il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
È stata prevista l’applicazione di detti provvedimenti, per una durata non superiore ai sei
mesi, per i casi di: scarico di acque reflue industriali contenenti sostanze pericolose ovvero
con superamento dei valori limiti ovvero con violazione del divieto di scarico sul suolo, nel
sottosuolo e nelle acque sotterranee; realizzazione o gestione di una discarica di rifiuti in assenza
di autorizzazione; attività organizzata finalizzata al traffico illecito di rifiuti o di rifiuti ad alta
radioattività; sversamento doloso; ovvero colposo in mare da navi di sostanze inquinanti.
È, invece, prevista l’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività per le ipotesi di
attività organizzata per il traffico di rifiuti e sversamento doloso in mare da navi di sostanze
inquinanti a patto che “l’ente o una sua unità organizzativa vengono stabilmente utilizzati
allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare” la commissione di detti illeciti.
3. Uno rapido sguardo alla “corporate environment liability” negli altri paesi europei
L’Italia è stato uno fra i primi paesi a livello europeo ad introdurre nel proprio ordinamento
una forma di responsabilità penale nei confronti delle persone giuridiche; il terzo dopo
Francia (1994) e Belgio (1999).
Prima ancora, il Regno Unito e i Paesi Bassi avevano già previsto forme di tale
responsabilità ma per casi assai limitati e principalmente legate alle responsabilità fiscale
delle imprese.
È quindi con i primi anni del duemila che in Europa è stato messo definitivamente in
discussione il vecchio assioma “societas delinquere non potest” per dar spazio a forme di
responsabilità scaturenti da illeciti penali anche per le persone giuridiche6.
Le scelte legislative dei diversi paesi europei si sono, tuttavia, relativamente differenziate
pur traendo origine per l’ambito ambientale dalle direttive sopra richiamate.
6Non è questa la sede nella quale approfondire il complesso dibattito dottrinale sulla natura della responsabilità degli
enti scaturente da reato. Non tutti i paesi europei hanno infatti previsto una vera e propria responsabilità penale per
le imprese, per le quali resta dunque effettivo il principio “societas delinquere non potest”.
Con riferimento all’Italia, si evidenzia che la dottrina maggioritaria, fra gli altri, Fiandaca e Musco (Diritto penale,
pt. gen., 6ª ediz., Zanichelli, Bologna, 2009, p. 165), Padovani (Diritto penale, 9ª ediz., Giuffrè, Milano, 2008, p. 93)
e Ferrua (Le insanabili contraddizioni nella responsabilità dell’impresa, in Dir. e giust., 2001, n. 29, p. 8), definendo
quella del legislatore una sorta di “frode delle etichette”, ritengono che, nella sostanza, detta responsabilità assuma un
volto penalistico; altri, invece, sostengono che si tratti di una responsabilità amministrativa, come riporta il medesimo
testo del decreto (si veda, Marinucci, “Societas puniri potest”: uno sguardo sui fenomeni e sulle discipline contemporanee, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 1201 ss e Romano, La responsabilità amministrativa degli enti, società o
associazioni: profili generali, in Riv. soc., 2002, p. 398, 400 e 403).
Altri ancora vedono nel D.Lgs. n 231/2001 la fonte di un tertium genus di responsabilità in grado di coniugare i tratti
essenziali del sistema penale e di quello amministrativo (si veda Pulitanò, La responsabilità “da reato” degli enti: i
criteri d’imputazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 417 e Amodio, Prevenzione del rischio penale di impresa e
modelli integrati di responsabilità degli enti, in Cass. pen., 2005, p. 322).
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
Per questo pare interessante dedicare un’assai concisa disamina della responsabilità
degli enti per violazioni alle norme a tutela dell’ambiente in Spagna, Francia e Germania.
Paesi che, nonostante siano tutti rientranti nel novero dei paesi c.d. di “civil law”, mostrano
scelte legislative in proposito piuttosto peculiari.
– In Spagna, la Ley Orgànica 5/20107 ha introdotto nel codice penale spagnolo, all’art.
31 bis, la previsione di comminare quali “conseguenze accessorie” alla commissione di un
determinato reato una sanzione di natura penale anche per le persone giuridiche.
Detta responsabilità scaturisce esclusivamente per i casi di commissione di fattispecie
precisamente individuate.
Con riferimento alle violazioni ambientali, ai sensi degli articoli 327 e 328, comma 6,
codice penale spagnolo, si dispone la punizione delle “personas jurídicas” per le fattispecie
previste dagli articoli 325, 326 e 328 del codice stesso, fattispecie tutte ricomprese fra i
c.d. “Delitos contra el medio ambiente” regolate dal “Tìtulo XVI Capìtulo III”.
Secondo tali disposizioni si puniscono:
– le condotte di produzione di emissioni, scarichi, radiazioni, estrazione o scavi,
interramento, vibrazioni, depositi nell’atmosfera, nel suolo, sottosuolo ovvero nelle acque
sotterranee o marittime, comprese quelle in alto mare, che potrebbero nuocere gravemente
l’equilibrio dei sistemi naturali (reato previsto dall’art. 325 codice penale spagnolo);
– l’aver commesso una di dette condotte senza aver ottenuto le necessarie autorizzazioni,
disobbedendo gli ordini impartiti dalle autorità, nascondendo informazioni sugli aspetti
ambientali dell’attività, ostacolando l’attività di controllo dell’Amministrazione in detto
settore ovvero determinando un rischio di deterioramento irreversibile o catastrofico
dell’ambiente (reato previsto dall’art. 326 codice penale spagnolo);
– ed, infine, tutte le attività irregolari di gestione, trasporto, recupero, raccolta, smaltimento
di rifiuti o sostanze pericolose (reato previsto dall’art. 328 codice penale spagnolo).
– In Francia, il codice penale sin dal 1994 ha previsto l’istituto della responsabilità
degli enti ma inizialmente per un numero ristretto di reati. Con la legge n. 204 del 9
marzo 2004 (con vigore dal 31 dicembre 2005), detta responsabilità è stata estesa a tutte le
ipotesi di reato previste dal sistema francese ad eccezione di quelle in materia di stampa e
telecomunicazioni; detta legge ha infatti novellato l’art. 121-2 del codice penale francese. Le
persone giuridiche in Francia, dunque, possono essere condannate per qualsiasi violazione
della normativa penale francese a tutela dell’ambiente.
È pacifico che si tratti di una vera e propria forma di responsabilità penale anche per
le persone giuridiche.
Una particolarità dell’ordinamento francese in materia riguarda il fatto che lo stesso art.
121-2 include tra i destinatari assoggettati a detta forma di responsabilità anche le persone
giuridiche di diritto pubblico, ad eccezione dello Stato e degli enti pubblici territoriali.
Quanto ai reati ambientali, in Francia, la regolamentazione degli stessi non sono state
concentrate nel codice penale ma trovano collocazione in un’ampia serie di provvedimenti,
come nel “Code rural et de la pêche maritime”, nel “Code de la santé publique” e anche
nel “Code de l’environnement”.
7Entrata in vigore il 23 dicembre 2010.
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Diritto ambientale
– In Germania, invece, la “legge sulle violazioni amministrative”, articolo 130,
(l’“Ordnungswidrigkeitengesetz” abbreviato OWiG) ha qualificato la responsabilità degli enti
unicamente come una responsabilità da illecito amministrativo per le violazioni commesse
dai dipendenti. Infatti vengono addebitate all’azienda carenze intenzionali o negligenti
nella supervisione e controllo dell’attività.
In parallelo, si osservi che all’articolo 14 del codice penale tedesco è regolata una sorta di
posizione di garanzia nei confronti dei soggetti apicali dell’azienda. In caso di violazione di una
qualsiasi normativa cui è tenuta la società, evidentemente anche ambientale, è possibile addebitare
ai componenti del “management” (a titolo personale), tale mancanza a titolo penale.
Sostanzialmente, dunque, sia nei confronti delle società sia della dirigenza aziendale, la
responsabilità ambientale in Germania è piuttosto estesa. Le normative tedesche in materia
sono infatti molto copiose, fra le quali, possiamo citare: la legge federale di controllo delle
emissioni (Bundes-Immisionsschutzgesetz, BImSchG), la legge federale sulla gestione dei
rifiuti (Kreislaufwirtschafts- und Abfallgesetz, KrW-/AbfG), la legge federale a tutela delle
acque (Wasserhaushaltsgesetz, WHG) oppure la legge a protezione degli animali (Tierschutzgesetz TSchG).
Secondo il codice penale tedesco è, invece, esclusa qualsiasi forma di addebito penale
nei confronti delle persone giuridiche.
Da quanto sopra, si osserva che tutti e tre i paesi in esame, nonostante la vicinanza
geografica e culturale, hanno previsto forme di responsabilità per gli enti molto diverse.
4. Il disegno di Legge n. 1345 del 2014
Come già in precedenza anticipato, è attualmente in discussione presso la Commissione Giustizia e quella Territori, Ambiente e Beni Ambientali del Senato un disegno di
legge di rinnovamento della legislazione penale ambientale.
Detta proposta, infatti, già approvata alla Camera, prevede l’introduzione di un nuovo titolo
(titolo VI bis – Delitti contro l’ambiente) al secondo libro del codice penale nonché importanti
interventi anche al T.U. Ambientale (D.Lgs. n. 152/2006) nonché al D.Lgs. n. 231/2001.
Quanto alle novità per il codice penale, innanzitutto, si prevede l’inserimento delle
seguenti quattro nuove fattispecie di reato:
– Art. 452 bis “Inquinamento ambientale”. Si punisce colui che cagiona una compromissione o un deterioramento rilevante dello stato del suolo, del sottosuolo, delle acque o dell’aria
ovvero dell’ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna selvatica.
Il fatto è aggravato allorquando l’inquinamento è prodotto in un’area naturale protetta
o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o
archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette.
Per questa fattispecie la pena della reclusione da due a sei anni è congiunta con la
multa da 10.000 a 100.000 euro.
– Art. 452 ter “Disastro ambientale”. È punito con la “sola” reclusione da cinque a
quindici anni, chiunque cagioni un disastro ambientale. Si definisce disastro ambientale,
secondo il comma 2, “l’alterazione irreversibile dell’equilibrio dell’ecosistema o l’alterazione
la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti
eccezionali, ovvero l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza oggettiva
del fatto per l’estensione della compromissione ovvero per il numero delle persone offese
o esposte a pericolo”.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
Anche in questo caso è prevista un’aggravante quando il disastro colpisce un’area naturale
protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o
archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette.
– Art. 452 quinquies “Traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività”. Questo
articolo persegue invece l’acquisto, la cessione, la ricezione, il trasporto, l’importazione e
l’esportazione, la detenzione ed il trasferimento di materiale ad alta radioattività. La pena
prevista è della reclusione da due a sei anni e con la multa da 10.000 a 50.000 euro.
Alla stessa pena soggiace il detentore che abbandona materiale ad alta radioattività o
che se ne disfa illegittimamente.
Il fatto è aggravato se deriva il pericolo di compromissione o deterioramento del suolo,
del sottosuolo, delle acque o dell’aria ovvero dell’ecosistema, della biodiversità, della flora
o della fauna selvatica.
È prevista un’aggravante ancora più severa (aumento della pena sino alla metà) se dal
fatto deriva pericolo per la vita o per l’incolumità delle persone.
– Art. 452 sexies. “Impedimento del controllo”. Salvo che il fatto costituisca più grave
reato, infine, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni “chiunque, negando l’accesso,
predisponendo ostacoli o mutando artificiosamente lo stato dei luoghi, impedisce, intralcia
o elude l’attività di vigilanza e controllo ambientali, ovvero ne compromette gli esiti”.
Si evidenzia, altresì, che nella proposta di legge inoltre si è previsto anche l’inserimento
nel codice penale dell’art. 452 quater (“Delitti colposi contro l’ambiente”) il quale dispone
la diminuzione da un terzo alla metà della pena per i casi di commissione colposa delle
violazioni degli artt. 452 bis e ter. Pertanto, queste ultime fattispecie divengono punibili
anche a titolo di colpa e non solo di dolo come invece previsto per le altre due.
Suscita, infine, particolare interesse anche la previsione del punto 7 del disegno di
legge 1345 ove, infatti, sono trattate le modifiche al D.Lgs. n. 231/2001.
Il disegno di legge si propone infatti di introdurre fra il novero dei reati presupposto
della responsabilità amministrativa degli enti anche le quattro fattispecie di cui sopra.
5. Conclusioni
Una riflessione a parte, meriterebbe il fatto che nessuna delle Costituzioni di paesi
“occidentali” contiene in realtà una norma specifica a tutela dell’ambiente; si pensi, ad
esempio, che nel nostro testo costituzionale il termine ambiente non compare mai.
Sul questo tema pare interessante evidenziare come solamente Ecuador e Bolivia,
paesi non certo all’avanguardia nella tutela dei diritti, abbiano tuttavia previsto un espresso
riconoscimento costituzionale alla tutela ambientale.
Come noto, invero, almeno per quanto riguarda il nostro Paese è stata la giurisprudenza a riconoscere la tutela dell’ambiente quale valore di rango costituzionale
attraverso l’interpretazione estensiva degli artt. 9 (tutela del paesaggio), 32 (tutela della
salute dell’individuo), 44 (tutela del razionale sfruttamento del suolo).
Ciò detto, negli ultimi anni si osserva da parte dei Paesi europei e delle Istituzioni
comunitarie una crescente attenzione nei confronti delle violazioni ambientali, difatti sono
sempre più numerose le proposte di riforma legislativa che ogni anno vengono discusse
nelle aule parlamentari.
Principale comune denominatore sembra essere costituito dal principio “chi inquina
paga”.
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Diritto ambientale
Su questo punto, però, diverse sono le critiche mosse al disegno di Legge 1345 che
viene letto soprattutto dai movimenti ambientalisti come un “regalo alle lobby” per la
difficile configurabilità nel concreto dei reati stessi.
Ad esempio, si guardi ai presupposti del reato di disastro ambientale. Il testo in esame
richiede l’alterazione “irreversibile” dell’equilibrio dell’ecosistema che raramente, per
fortuna, si realizza. La stessa norma richiede che il ripristino dall’evento dannoso debba
essere “particolarmente oneroso” e conseguibile solo con “provvedimenti eccezionali”. Si
ritiene infatti che il disastro ambientale potrebbe comunque verificarsi anche nel caso in
cui fossero sufficienti mezzi ordinari di ripristino.
Anche lo stesso reato di inquinamento ambientale pare fortemente limitato nella sua
applicazione. Si sottolinea come il presupposto della “violazione di disposizioni legislative,
regolamentari o amministrative, specificamente poste a tutela dell’ambiente e la cui inosservanza costituisce di per sé illecito amministrativo o penale” costituisca una condizione
eccessiva.
Infine, un rilievo merita il fatto che i nuovi reati si atteggiano a fattispecie d’evento
e non di pericolo concreto, come invece il delitto di cui all’art. 434 c.p., il c.d disastro
innominato.
Quest’ultima norma, cui ha fatto frequentemente ricorso l’Autorità giudiziaria per
punire i responsabili dei “disastri ambientali”, è applicabile per tutti in questi casi nei
quali fossero stati posti in essere condotte “dirette a cagionare” detti fatti anche senza la
loro realizzazione. Diversamente, invece, se la presente riforma dovesse essere approvata
così come la conosciamo oggi la sanzione penale sarebbe unicamente prevista per casi
nei quali il disastro si sia effettivamente e concretamente verificato. Le eventuali condotte
“preliminari” sarebbero eventualmente punibili unicamente a titolo di tentativo e, quindi,
con una cornice sanzionatoria notevolmente ridimensionata (pena ridotta da un terzo ai
due terzi art. 56 c.p.).
Si consideri inoltre il fatto che, limitatamente a quegli episodi colposi, non sarebbe
sanzionabile neppure il tentativo.
In conclusione, per le ragioni sopra esposte, il progetto di riforma attualmente in discussione pare destinato ad una limitata applicazione rispetto ai propositi degli organi legislativi
e alle aspettative della cittadinanza, quest’ultima sempre più insistente in considerazione
del crescente numero di disastri che ogni anno balzano agli onori della cronaca8.
Filippo Marcenaro
Conte & Giacomini
8Negli ultimi anni diversi sono i casi che tristemente sono balzati agli onori della cronaca recente come quello della
Eternit in Piemonte, Emilia e Campania, dell’Ilva di Taranto oppure della Tirreno Power di Vado Ligure.
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“End of waste” l’evoluzione della nozione
di materia prima secondaria
Sommario: 1. Premessa; 2. La “Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento
Europeo relativa alla Comunicazione interpretativa sui rifiuti e sui sottoprodotti” del 21 febbraio
2007 (COM/2007/59); 3. La “Direttiva 2008/98/Ce del Parlamento Europeo e del Consiglio del
19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive” – Art. 6 “Cessazione della
qualifica di rifiuto”; 4. L’art. 184 ter (“Cessazione della qualifica di rifiuto”) del D.Lgs. n. 152/2006
introdotto con il D.Lgs. n. 205/2010.
1. Premessa
Il concetto di materia prima secondaria nasce per rispondere all’esigenza del legislatore
di trovare un equilibrio tra la protezione dell’ambiente e il recupero dei materiali di scarto
in modo tale da rendere possibile il reinserimento degli stessi nel ciclo produttivo.
Così si esprime il legislatore comunitario definendo l’obiettivo della direttiva 2008/98/CE
che, come vedremo nel prosieguo, si occupa di rifiuti, sottoprodotti e materie prime secondarie:
“La presente direttiva dovrebbe aiutare l’Unione europea ad avvicinarsi a una “società del
riciclaggio”, cercando di evitare la produzione di rifiuti e di utilizzare i rifiuti come risorse”.
È in tale contesto che sia la normativa comunitaria, sia quella nazionale, hanno previsto
che, a determinate condizioni, una sostanza qualificata come rifiuto che venga sottoposta
ad una operazione di recupero potrà cessare di essere considerata tale (pertanto, sottratta
alla disciplina dei rifiuti) e potrà diventare materia prima secondaria (m.p.s.).
Si tratta della c.d. “end of waste”, definizione che è frutto di una evoluzione normativa
e giurisprudenziale avvenuta, innanzitutto, a livello europeo.
A tal proposito, è opportuno precisare che il punto di partenza di detta evoluzione è
stato stabilire la differenza tra ciò che era rifiuto da ciò che rifiuto non era.
Quindi, quanto meno all’inizio, non vi è stata né a livello normativo, né a livello
giurisprudenziale una linea di demarcazione netta tra rifiuto, sottoprodotto (ovvero quel
materiale che non è mai stato rifiuto) e materia prima secondaria (ovvero quel materiale
che non è più rifiuto anche se un tempo lo è stato).
Come vedremo, è stato necessario aspettare l’emanazione della direttiva 2008/98/CE
per avere finalmente un chiarimento in ordine a detti concetti.
2. La “Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo relativa
alla Comunicazione interpretativa sui rifiuti e sui sottoprodotti” del 21 febbraio 2007
(COM/2007/59).
La Comunicazione della Commissione del 21 febbraio 2007 “relativa alla Comunicazione
interpretativa sui rifiuti e sui sottoprodotti”, preso atto della mancanza di una definizione
giuridica dei concetti di “sottoprodotto” e “materia prima secondaria” e della conseguente
incertezza del diritto in ordine alla distinzione rifiuto/non rifiuto, ha dettato linee guida
volte a stabilire, caso per caso, se determinati materiali costituiscono rifiuti o meno.
Tali linee guida hanno come punto di partenza la definizione di rifiuto contenuta
nella direttiva 2006/12/CE (direttiva quadro in materia di rifiuti, abrogata e sostituita dalla
direttiva 2008/98/CE) della quale la Commissione ha fornito una interpretazione elaborata
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
sulla base delle pronunce più significative della Corte di Giustizia nel frattempo intervenute
in materia.
Va sottolineato che la Commissione si è occupata della differenza rifiuto/non-rifiuto e,
più in particolare, di quella rifiuto/sottoprodotto, senza specificare la nozione di materia
prima secondaria.
In ogni caso, si ritiene utile richiamare detto provvedimento in quanto in esso sono
contenute le basi per comprendere cosa si intende per rifiuto e, quindi, per capire poi
quando e perché un materiale cessa di essere considerato tale.
Preliminarmente all’analisi dei criteri che consentono di distinguere un rifiuto da ciò
che rifiuto non è (distinzione articolata sulla nozione di “disfarsi” contenuta nella direttiva
2006/12/CE), la Commissione ha fatto una importantissima premessa: “sono le circostanze
specifiche a fare di un materiale un rifiuto o meno e che pertanto le autorità competenti
devono decidere caso per caso” (p.3.1. della Comunicazione).
Dopo di che, ha specificato che, nel momento in cui occorre stabilire se un materiale
costituisce un rifiuto, è necessario domandarsi: il fabbricante ha deliberatamente scelto di
produrlo?
Se la risposta è affermativa, si avrà un “prodotto”.
In caso contrario, si avrà un “residuo di produzione” che, a sua volta, potrà essere un
“rifiuto” oppure un “sottoprodotto”.
Di tal che, la Comunicazione ha elencato i criteri utili per differenziare un rifiuto da
un non-rifiuto. I due principali sono i seguenti:
1) Innanzitutto il riutilizzo del materiale deve essere certo.
Quindi, un materiale che “non sia di fatto utilizzabile, che non possieda i requisiti
tecnici per il suo utilizzo o se non esiste mercato, si deve continuare a considerarlo rifiuto”
mentre cesserà di essere tale “non appena sarà pronto ad essere riutilizzato come prodotto
recuperato” (p. 3.3.1. della Comunicazione).
A tal proposito, l’esistenza di contratti tra il detentore del materiale e gli utilizzatori
successivi è indice del fatto che “il materiale oggetto del contratto sarà utilizzato e che
quindi vi è certezza del suo utilizzo” (p. 3.3.1. della Comunicazione).
Infatti, secondo la Corte di Giustizia richiamata dalla Comunicazione in questione 1, il
fatto che “un fabbricante possa vendere un determinato materiale ricavandone un profitto”
(p. 3.3.1.1. della Comunicazione), è indice del fatto che avvenga un riutilizzo.
2) Il materiale è riutilizzato senza che venga previamente trasformato oppure è riutilizzato
a seguito di una trasformazione che avviene nel corso del processo di produzione.
Poiché il materiale è spesso oggetto di operazioni che sono necessarie a renderlo
riutilizzabile (così ha scritto testualmente la Commissione al p. 3.3.2. della Comunicazione:
“dopo la produzione, esso può essere lavato, seccato, raffinato o omogeneizzato, lo si può
dotare di caratteristiche particolari o aggiungervi altre sostanze necessarie al riutilizzo, può
essere oggetto di controlli di qualità ecc. …”) e che tali operazioni possono avvenire presso
il fabbricante o l’utilizzatore o intermediari, la Commissione ha stabilito che, in ogni caso,
ciò che rileva per poterlo qualificare come sottoprodotto e non come rifiuto non è tanto
il luogo o il soggetto che effettua la trasformazione ma il fatto che la stessa avvenga nel
1Causa C-9/00 Palin Granit Oy e Cause riunite C-304/94, C-330/94, C-342/94 e C-224/95, Tombesi.
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diritto ambientale
corso del processo di produzione; ciò che verrà stabilito dalle autorità competenti caso
per caso.
Dopo di ché, la Commissione ha elencato gli “Altri elementi presi in considerazione
dalla Corte per distinguere tra rifiuti e sottoprodotti” (punto 3.4. della Comunicazione),
ricordando i criteri che la Corte di Giustizia2 ha utilizzato per distinguere un rifiuto da ciò
che rifiuto non è nei diversi casi pratici che gli sono stati sottoposti.
Si tratta dei seguenti elementi che, come specificato dalla Commissione, sono solamente
indizianti della qualifica di rifiuto e vanno interpretati alla luce del contesto a cui si
riferiscono ovvero il caso concreto sul quale la Corte di Giustizia ha deciso:
– “L’unico utilizzo possibile è lo smaltimento”.
– “L’utilizzo del materiale ha un forte impatto ambientale o richiede misure di protezione
particolari”.
– “Il metodo di trattamento del materiale è un metodo di trattamento standard dei
rifiuti”.
– “Il materiale è percepito dall’azienda come rifiuto”.
– “L’azienda cerca di ridurre la quantità di materiale prodotto”.
I criteri sopra menzionati, come si dirà meglio oltre, saranno utilizzati anche per la
qualificazione o meno di un materiale come m.p.s.
3. La “Direttiva 2008/98/Ce del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 novembre
2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive” – Art. 6 “Cessazione della
qualifica di rifiuto”.
Atto fondamentale in materia ambientale è stato la direttiva 2008/98/CE del 19 novembre
2008 il cui fine è perfettamente sintetizzato al “considerando” 28 della stessa: «“La presente
direttiva dovrebbe aiutare l’Unione europea ad avvicinarsi a una “società del riciclaggio”,
cercando di evitare la produzione di rifiuti e di utilizzare i rifiuti come risorse».
Detta direttiva si è preoccupata di differenziare i rifiuti dai sottoprodotti e di definire le
condizioni che consentono ad un rifiuto di perdere tale qualifica, evidenziando la differenza
che vi è tra “sottoprodotti che non sono rifiuti” (ovvero materiali che non sono mai stati
rifiuti) e “rifiuti che cessano di essere tali” (considerando 22 della direttiva).
Quanto ai rifiuti, si veda la definizione di cui all’art. 3, 1) in virtù della quale per rifiuto
si intende “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o
l’obbligo di disfarsi”.
Quanto ai sottoprodotti, si veda l’art. 5 che li definisce, richiamando i concetti
elaborati dalla Commissione nella Comunicazione 21 febbraio 2007 di cui al capitolo
che precede.
Quanto alle materie prime secondarie, si veda l’art. 6 come di seguito meglio
descritto.
Ai fini che ci interessano, disposizione fondamentale della direttiva in esame è per
l’appunto l’art. 6 sopra richiamato intitolato “Cessazione della qualifica di rifiuto” che descrive
i requisiti che permettono ad un rifiuto di perdere detta qualità e di essere configurato
come materia prima secondaria.
2Cause riunite C-418/97, C-419/97 Arco Chemie.
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Così stabilisce testualmente il comma 1 dell’art. 6:
“1. Taluni rifiuti specifici cessano di essere tali ai sensi dell’articolo 3, punto 1, quando
siano sottoposti a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio, e soddisfino criteri
specifici da elaborare conformemente alle seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzata/o per scopi specifici;
b) esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto;
c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la
normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti; e
d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi
sull’ambiente o sulla salute umana.
I criteri includono, se necessario, valori limite per le sostanze inquinanti e tengono conto
di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente della sostanza o dell’oggetto.”
La direttiva ha quindi “codificato” la nozione di materia prima secondaria rielaborando
i concetti già espressi dalla normativa e dalla giurisprudenza europea, al fine di creare una
definizione unitaria che venga applicata uniformemente in tutti gli Stati membri.
Gli organi nazionali, quindi, sulla base delle quattro condizioni sopra elencate e di “criteri
specifici” la cui elaborazione viene affidata dalla stessa direttiva alla Commissione (art. 6 co. 2),
dovranno decidere caso per caso se un rifiuto ha cessato di essere tale per divenire m.p.s.
Prima di esaminare le condizioni di cui alle lettere a), b), c) e d) sopra elencate, merita
un breve approfondimento la prima parte del comma 1 dell’art. 6 che stabilisce che alcuni
rifiuti cessano di essere tali “quando siano sottoposti a un’operazione di recupero, incluso
il riciclaggio …”.
La direttiva in esame ha voluto dare una interpretazione ampia di “recupero” che
comprende sia il riciclaggio, sia la “preparazione per il riutilizzo”.
– Quanto al “riciclaggio”, l’art. 6 prevede espressamente il suo inserimento fra le
operazioni di recupero e l’art. 3, paragrafo 17, ne fornisce una definizione: “qualsiasi
operazione di recupero attraverso cui i materiali di rifiuto sono ritrattati per ottenere prodotti,
materiali o sostanze da utilizzare per la loro funzione originaria o per altri fini. Include il
ritrattamento di materiale organico ma non il recupero di energia né il ritrattamento per
ottenere materiali da utilizzare quali combustibili o in operazioni di riempimento”.
In questo modo la nozione di riciclaggio viene ampliata così che lo stesso va a configurarsi
come una operazione che non è più costituita dalla sola e semplice reintroduzione del
materiale nel ciclo produttivo di provenienza (si pensi ai residui di vetri nelle vetrerie), ma
comprende altresì veri e propri trattamenti che incidono sull’identità del materiale (si veda
il riferimento al fatto che “i materiali di rifiuto sono ritrattati per ottenere prodotti”).
– Quanto alla “preparazione per il riutilizzo”, si tratta di una attività che comprende
“operazioni di controllo, pulizia e riparazione attraverso cui prodotti o componenti di
prodotti diventati rifiuti sono preparati in modo da poter essere reimpiegati senza altro
pretrattamento” (art. 3, paragrafo 16).
Quindi, anche la preparazione intesa come semplice controllo del rifiuto è sufficiente
a trasformare lo stesso in prodotto che, poi, verrà riutilizzato/reimpiegato.
Detta tesi è suffragata anche dal “considerando” n. 22 della direttiva in esame che
testualmente afferma: “Per la cessazione della qualifica di rifiuto, l’operazione di recupero
può consistere semplicemente nel controllare i rifiuti per verificare se soddisfino i criteri
volti a definire quando un rifiuto cessa di essere tale”.
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diritto ambientale
Passiamo ad analizzare le quattro condizioni elencate alle lettere a), b), c) e d).
Quanto alla condizione di cui alla lettera a), viene richiesto che la sostanza venga
impiegata e, quindi, che non sia oggetto di smaltimento o abbandono.
Quanto alla condizione di cui alla lettera b), la sua previsione implica che la sostanza
sia utilizzata non solo dal suo produttore ma che venga dallo stesso ceduta a terzi.
Quanto alle condizioni di cui alle lettere c) e d), le stesse richiamano la giurisprudenza
della Corte di Giustizia laddove richiede che le m.p.s. possiedano requisiti merceologici
tali da garantire una adeguata tutela della salute e dell’ambiente.
Si tratta delle condizioni che presentano maggiori problemi applicativi essendo demandato
agli organi tecnici il compito di stabilire, per ogni categoria di sostanza, gli standard tecnici
e merceologici che devono avere le sostanze ed essendo la nozione di “impatti complessivi
negativi sull’ambiente o sulla salute umana” tutt’altro che di facile interpretazione 3.
Quanto ai “criteri specifici” a cui fa riferimento il comma 1 dell’art. 6 della direttiva
in esame, la loro adozione, che è fondamentale per dare un senso concreto alle quattro
condizioni sopra menzionate, è affidata, in principalità, alla Commissione ma è altresì
previsto dal comma 4 dello stesso art. 6 che, qualora detti criteri non siano stabiliti a livello
comunitario, potranno essere gli Stati membri a decidere, caso per caso, se un rifiuto ha
cessato di essere tale per divenire m.p.s.
Va anche segnalato che la direttiva, all’art. 6 comma 2, ha individuato alcune categorie
di rifiuti per le quali viene suggerita l’adozione di criteri volti a stabilire il momento in cui
il materiale cessa di essere rifiuto.
Si tratta degli aggregati, dei rifiuti di carta e vetro, dei metalli, dei pneumatici e dei
rifiuti tessili.
Con riferimento a dette categorie di rifiuti, il legislatore comunitario ha fino ad oggi
emanato i seguenti regolamenti:
– Regolamento UE n. 333/2011 del Consiglio del 31.03.2011 “recante i criteri che
determinano quando alcuni tipi di rottami metallici cessano di essere considerati rifiuti ai
sensi della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio”;
– Regolamento UE n. 1179/2012 della Commissione del 10 dicembre 2012 “recante
i criteri che determinano quando i rottami di vetro cessano di essere considerati rifiuti ai
sensi della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio”;
– Regolamento UE n. 715/2013 della Commissione del 25 luglio 2013 “recante i criteri
che determinano quando i rottami di rame cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della
direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio”.
Si ricorda che, in sede comunitaria, sono attualmente in corso una serie di studi
tecnici riferiti ad ulteriori materiali quali, ad esempio, carta e plastica, oltre che studi
volti al monitoraggio del grado di assorbimento di m.p.s. in Unione Europea a seguito
dell’introduzione del primo regolamento sui metalli (Regolamento UE n. 333/2011).
3A tal proposito, si veda la sentenza della Corte di Giustizia nella causa C-358/11, Lapin, nella quale, tra le altre cose, si
afferma che “Il diritto dell’Unione Europea non esclude a priori che un rifiuto considerato pericoloso possa cessare di
essere un rifiuto ai sensi della Direttiva 2008/98/CE, relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive, se un’operazione
di recupero consente di renderlo utilizzabile senza mettere in pericolo la salute umana e senza nuocere all’ambiente
e se, peraltro, non viene accertato che il detentore dell’oggetto di cui trattasi se ne disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo
di disfarsene ai sensi dell’art. 3, punto 1, della medesima direttiva, il che spetta al giudice del rinvio verificare”.
Interessanti sono altresì le Conclusioni dell’Avvocato Generale J. Kokott presentate il 13 dicembre 2012 nell’ambito di
detta causa.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
4. L’art. 184 ter (“Cessazione della qualifica di rifiuto”) del D.Lgs. n. 152/2006
introdotto con il D.Lvo n. 205/2010.
La direttiva 2008/98/CE è stata recepita nell’ordinamento italiano dal D.Lgs. n. 205/2010
che, a sua volta, ha modificato il D.Lgs. n. 152/2006.
In particolare, il nuovo decreto ha abrogato il vecchio art. 181 bis (che già si occupava
di m.p.s.) e ha introdotto l’art. 184 ter intitolato “Cessazione della qualifica di rifiuto” (da
“End of waste”, che è definizione che richiama il fatto che si tratta di un materiale che, un
tempo, “è stato rifiuto”), che ricalca l’art. 6 della direttiva 2008/98/CE e che, analogamente
a detto articolo, contiene la definizione di materia prima secondaria.
Così ha disposto l’art. 184 ter:
“1. Un rifiuto cessa di essere tale, quando è sottoposto a un’operazione di recupero,
incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, e soddisfi criteri specifici, da adottare
nel rispetto delle seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzato per scopi specifici;
b) esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto;
c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la
normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti;
d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi
sull’ambiente o sulla salute umana.
2. L’operazione di recupero può consistere semplicemente nel controllare i rifiuti per
verificare se soddisfano i criteri elaborati conformemente alle predette condizioni. I criteri di
cui al comma 1 sono adottati in conformità a quanto stabilito dalla disciplina comunitaria
ovvero, in mancanza di criteri comunitari, caso per caso per specifiche tipologie di rifiuto
attraverso uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del
mare, ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400. I criteri includono,
se necessario, valori limite per le sostanze inquinanti e tengono conto di tutti i possibili
effetti negativi sull’ambiente della sostanza e dell’oggetto4.
3. Nelle more dell’adozione di uno o più decreti di cui al comma 2, continuano ad applicarsi
le disposizioni di cui ai decreti del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio in data
5 febbraio 1998, 12 giugno 2002, n. 161, e 17 novembre 2005, n. 269 e l’art. 9 bis, lett. a)
e b), del decreto-legge 6 novembre 2008, n. 172, convertito, con modificazioni, dalla legge
30 dicembre 2008, n. 210. La circolare del Ministero dell’ambiente 28 giugno 1999, prot. n.
3402/V/MIN si applica fino a sei mesi dall’entrata in vigore della presente disposizione.
4. Un rifiuto che cessa di essere tale ai sensi e per gli effetti del presente articolo è da
computarsi ai fini del calcolo del raggiungimento degli obiettivi di recupero e riciclaggio
stabiliti dal presente decreto, dal decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 209, dal decreto
legislativo 25 luglio 2005, n. 151, e dal decreto legislativo 20 novembre 2008, n. 188,
ovvero agli atti di recepimento di ulteriori normative comunitarie, qualora e a condizione
che siano soddisfatti i requisiti in materia di riciclaggio o recupero in essi stabiliti.
5. La disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica fino alla cessazione della
qualifica di rifiuto.”
4In parziale attuazione di detto comma è stato emanato il D.M. n. 22/2013 recante la disciplina della cessazione della
qualifica di rifiuto di determinate tipologie di combustibili solidi secondari (CSS).
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diritto ambientale
L’articolo 184 ter ha dunque ripreso in modo preciso i contenuti della direttiva 2008/98/
CE richiamando, da un lato, un concetto di recupero da intendersi in senso ampio e,
dall’altro, una nozione di “criteri specifici” che dovrà essere adottata alle stesse condizioni
previste dal legislatore europeo (le lettere a), b), c) e d) di cui al c. 1 dell’art. 184 ter sono
la trasposizione delle lettere a), b), c) e d) del c. 1 dell’art. 6 della direttiva).
Inoltre, anche il legislatore italiano, così come quello comunitario, ha rinviato ad una
successiva disciplina la definizione dei sopra detti criteri specifici sulla base dei quali si
potrà decidere se un determinato materiale ha cessato di essere rifiuto. Criteri che verranno
stabiliti, in principalità, in sede comunitaria (si pensi al Regolamento UE n. 333/2011 in
materia di metalli, al Regolamento UE n. 1179/2012 in materia di vetro e al regolamento
UE n. 715/2013 in materia di rame5) o, nel caso di inerzia degli organi comunitari, da
decreti ministeriali interni (si pensi al DM n. 22/2013 in materia di CSS). In ogni caso,
nelle more dell’adozione di detta regolamentazione, si applicheranno in via transitoria i
decreti di cui al comma 3 dell’art. 184 ter.
Vale la pena sottolineare come il legislatore italiano, riscrivendo il nuovo art. 184 ter,
abbia abbandonato la vecchia nozione di m.p.s. prevista dall’abrogato art. 181 bis.
A tal proposito, è utile richiamare il contenuto del vecchio articolo in modo tale da
comprendere quali siano state le modifiche sostanziali intervenute.
Così disponeva il primo comma dell’art. 181 bis del D.Lvo n. 152/2006:
“Non rientrano nella definizione di cui all’art. 183, comma 1, lettera a), le materie e
i prodotti secondari definiti con decreto ministeriale di cui al comma 2, nel rispetto dei
seguenti criteri, requisiti e condizioni:
a) siano prodotti da un’operazione di riutilizzo, di riciclo o di recupero di rifiuti;
b) siano individuate la provenienza, la tipologia e le caratteristiche dei rifiuti dai quali
si possono produrre;
c) siano individuate le operazioni di riutilizzo, di riciclo o di recupero che le producono,
con particolare riferimento alle modalità ed alle condizioni di esercizio delle stesse;
d) siano precisati i criteri di qualità ambientale, i requisiti merceologici e le altre condizioni
necessarie per l’immissione in commercio, quali norme e standard tecnici richiesti per
l’utilizzo, tenendo conto del possibile rischio di danni all’ambiente e alla salute derivanti
dall’utilizzo o dal trasporto del materiale, della sostanza o del prodotto secondario;
e) abbiano un effettivo valore economico di scambio sul mercato.”
Tra le modifiche, ha fatto discutere quella inerente il requisito di cui al comma e) del
vecchio art. 181 bis in base al quale un materiale, per essere qualificato m.p.s., doveva
avere un valore economico. Requisito che è scomparso con la nuova formulazione di cui
all’art. 184 ter.
Il legislatore nazionale del 2010, infatti, in conformità alle scelte operate a livello
comunitario, ha richiesto solo che il materiale abbia uno scopo specifico e che esista per
esso una domanda o un mercato; a nulla rilevando il suo valore economico.
5Si segnala che il coordinamento della disciplina nazionale con quella dettata dai regolamenti comunitari sopra citati si
è dimostrata tutt’altro che semplice. A tal proposito, si vedano le modifiche introdotte in sede di conversione del D.L.
n. 91/2014, dalla L. n. 116/2014 che ha aggiunto all’art. 216 del D.Lvo n. 152/2006 i commi 8 quater, 8 quinquies e 8
sexies.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
La lettera della norma è chiara e non parrebbe aver bisogno di alcuna ulteriore
interpretazione ma, di fatto, si è riscontrata qualche resistenza a far entrare il sopra
menzionato concetto nel nostro ordinamento giuridico.
Tanto è che sul punto è stata chiamata a pronunciarsi la Suprema Corte di Cassazione
che, con sentenza n. 24427 del 17 giugno 2011, ha ribadito che perché un rifiuto cessi di
essere tale non è necessario che lo stesso possegga un valore economico intrinseco6.
In particolare, l’intervento della Corte è stato richiesto in merito ad una ordinanza del
Tribunale di Taranto in funzione di giudice del riesame che aveva confermato il sequestro preventivo di sei container contenenti materiali tessili sul presupposto che gli stessi
costituissero rifiuti speciali non pericolosi e non m.p.s. come sostenuto dall’indagato (che,
quindi, avrebbe dovuto rispondere dei reati di cui agli artt. 259, co. 1, e 260, co. 1, D.Lgs.
152/2006 e 483 c.p.) in quanto, tra l’altro, “di valore nullo o irrisorio”.
I giudici del Supremo Collegio non hanno potuto che affermare che il “requisito del
valore economico era richiesto dall’abrogato art. 181 bis, comma 1, lett. e), mentre il vigente
art. 184 ter, comma 1, lett. b), richiede solo che vi sia “un mercato o una domanda per tale
sostanza o oggetto” e, pertanto, hanno stabilito che l’ordinanza dovesse “essere annullata
con rinvio per un nuovo esame che tenga conto delle innovazioni normative introdotte dal
citato decreto legislativo in materia ambientale”.
Come emerge da quanto sopra, l’attuale 184 ter è il risultato di una evoluzione normativa
e giurisprudenziale che, ancor oggi, non può considerarsi conclusa, essendo fondamentale
il ruolo delle autorità competenti chiamate a decidere caso per caso in applicazione dei
principi espressi sia a livello nazionale che comunitario. Senza poi dimenticare l’importanza
dei “criteri specifici” di competenza della Commissione o, in subordine, del Ministero
dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare che dovrà intervenire con appositi
decreti attuativi.
Laura Castagnola
Conte & Giacomini
6Si veda anche la sentenza della Corte di Cassazione, III Sez. Pen., n. 16423/2014 che affronta altresì il requisito dell’essere sottoposto il rifiuto ad una operazione di recupero consistente anche nel semplice controllo dello stesso.
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Crisi d’impresa
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Crisi d’impresa e reati tributari:
un anno di giurisprudenza apparentemente
contraddittoria della Cassazione
Sommario: 1. Premessa; 2. I reati di omesso versamento di ritenute certificate e di omesso
versamento dell’IVA e la (ir)rilevanza della crisi d’impresa nell’interpretazione delle Sezioni Unite;
3. La giurisprudenza della Corte di Cassazione nel 2014; 4. La giurisprudenza della Corte di
Cassazione su concordato ed accordo di ristrutturazione; 5. E quindi, la giurisprudenza esprime
una contraddizione vera o meno?; 6. Uno sguardo sul futuro: la delega fiscale e il dubbio sulla
validità del doppio binario.
1. Premessa
Dati i tempi che stiamo vivendo, parlare di rischio di responsabilità penale nell’ambito
della crisi economica, industriale o finanziaria di un’impresa potrebbe finanche sembrare
grottesco. In un momento di crisi generalizzata della società e dell’economia, specie
quella italiana, l’impresa non può fare eccezione e quindi è del tutto fisiologico che una
specifica realtà imprenditoriale si possa trovare di fronte ad uno stato di difficoltà e che,
potenzialmente, sia posta in condizione di superarlo. Associare alla crisi e agli strumenti
per il suo (sperabile) superamento una qualche sanzione penale potrebbe suonare eccessivamente punitivo, sia per l’impresa stessa, che per gli stakeholders che ruotino attorno
ad essa.
C’è un però. Al di là ed a prescindere dalle ragioni di crisi della singola impresa,
ragioni che potrebbero senz’altro essere di per sé fonte di una responsabilità anche penale,
l’ordinamento non può non prendere in considerazione ed apprestare una tutela anche
per tutti gli altri interessi che convivono, e spesso confliggono, con l’impresa. E, se questo
è vero in generale, lo è ancor di più per l’interesse collettivo rappresentato dal corretto
rapporto che l’impresa deve instaurare con il fisco.
Probabilmente proprio questa tensione tra esigenze contrapposte ha dato origine ad una
giurisprudenza ormai cospicua in tema di crisi d’impresa e reati tributari, segnatamente in
relazione alle fattispecie di omesso versamento di ritenute certificate e di omesso versamento
di IVA, di cui rispettivamente all’art. 10 bis e 10 ter del D.Lgs. n. 74/20001. Sennonché
questa giurisprudenza si connota per una, quantomeno apparente, contraddittorietà di
decisioni, con sentenze che sembrano escludere la punibilità per i reati in questione in
presenza di una crisi dell’impresa, soggetto passivo del rapporto tributario, ed altre invece
di segno contrario. Di nuovo, sintomo di un bilanciamento non certo facile tra opposti
interessi.
Con il presente studio ci proponiamo di analizzare la giurisprudenza della Cassazione
negli ultimi dodici mesi per verificare se vi sia un’effettiva divergenza di opinioni all’interno
1Dal momento che gli altri reati previsti dal D.Lgs. n. 74/2000 attengono sostanzialmente a frodi in campo dichiarativo,
non sorprende che il tema della crisi d’impresa abbia trovato poco o nessuno spazio con riferimento a queste diverse
fattispecie: anzi, si potrebbe ipotizzare che la commissione di uno di questi reati possa essere, se non la fonte della
crisi d’impresa, quantomeno un tentativo di mascherarla e quindi non possa venire in rilievo come elemento critico.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
della Suprema Corte, oppure se questa contraddittorietà di decisioni sia appunto solo
apparente.
2. I reati di omesso versamento di ritenute certificate e di omesso versamento dell’IVA
e la (ir)rilevanza della crisi d’impresa nell’interpretazione delle Sezioni Unite
Stante la premessa di partenza, non sorprenderà che le ben note sentenze “gemelle”
delle Sezioni Unite Penali – ovvero le sentenze n. 37424 e 37425 del 28 marzo 2013 –
che hanno stabilito alcuni approdi, oggi ormai consolidati, nell’interpretazione dei reati in
esame, sono state forse le prime ad aprire nella giurisprudenza di legittimità uno “spiraglio”
per la rilevanza scriminante della crisi d’impresa, per chiuderlo subito dopo.
Prima però di entrare in tema, è opportuno dare brevemente conto di questi approdi.
Com’è noto, il reato di cui all’art. 10 bis del D.Lgs. n. 74/2000 consiste nell’omesso
versamento, da parte del sostituto d’imposta, delle ritenute certificate entro il termine previsto
per la presentazione della dichiarazione annuale, ovvero il 30 settembre (o il 31 ottobre)
dell’anno successivo a quello in cui le ritenute sono state effettuate. Il fatto costituisce reato
solo se le ritenute non versate superino la soglia di punibilità pari a € 50.000.
A sua volta, il reato di cui all’art. 10 ter del D.Lgs. n. 74/2000 consiste nell’omesso
versamento, da parte del soggetto a ciò obbligato, dell’IVA dichiarata a debito per l’anno
precedente entro il termine previsto per il versamento dell’acconto relativo al periodo
d’imposta successivo, ovvero il 27 dicembre dell’anno successivo a quello in cui l’IVA a
debito si riferisce. Anche in questo caso, il fatto costituisce reato solo se le ritenute non
versate superino la soglia di punibilità pari a € 50.0002.
È di tutta evidenza che si tratta di due fattispecie penali del tutto omologhe, in relazione
alle quali, quindi, possono essere proposte identiche chiavi interpretative.
E quindi, proprio secondo l’interpretazione delle Sezioni Unite, si tratta di reati omissivi
istantanei, integrati dal puro e semplice mancato compimento di un’azione dovuta, prescritta dalla legge, nel termine previsto. Fermo restando che la soglia di punibilità stabilita
dalla norma è elemento costitutivo del reato, e quindi deve essere ricompresa nel dolo,
quest’ultimo – a differenza delle altre fattispecie previste dal D.Lgs. 74/2000 – è solo quello
generico, non essendo affatto richiesto il c.d. “dolo di evasione”.
Quanto alla non rilevanza della crisi d’impresa ai fini dell’ascrizione di responsabilità
penale, la sentenza n. 37424/2013 si esprime nei seguenti termini, con riferimento alla
fattispecie di omesso versamento dell’IVA3: «in relazione alle singole fattispecie concrete,
possono venire in rilievo elementi tali da condurre […] all’esclusione dell’elemento soggettivo
del reato. […] Il debito verso il fisco relativo ai versamenti IVA è collegato al compimento
delle operazioni imponibili. Ogni qualvolta il soggetto d’imposta effettua tali operazioni
2Con sentenza n. 80 dell’8 aprile 2014, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma
in esame, nella parte in cui, con riferimento a fatti commessi sino al 17 settembre 2011, punisce l’omesso versamento
dell’IVA, dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi non superiori, per ciascun periodo d’imposta,
a € 103.291,38. La sentenza in questione opera formalmente solo in relazione al reato di cui all’art. 10 ter del D.Lgs. n.
74/2000, ma è opinione assolutamente condivisa che la diversa soglia di punibilità, e sempre per fatti commessi sino
al 17 settembre 2011, deve essere considerata anche nei confronti dell’autonomo reato di cui all’art. 10 bis del D.Lgs.
n. 74/2000, per omogeneità di valutazione normativa (cfr. in proposito Ingrassia, “Parzialmente incostituzionale il
delitto di omesso versamento dell’Iva: un’incriminazione da ripensare?”, in Le Società, 12/2014, pag. 1395).
3La sentenza n. 37425, con riferimento alla fattispecie di omesso versamento delle ritenute, si esprime anche testualmente in modo identico.
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Crisi d’impresa
riscuote già (dall’acquirente del bene o del servizio) l’IVA dovuta e deve, quindi, tenerla
accantonata per l’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere
all’obbligazione tributaria. L’introduzione della norma penale, stabilendo nuove condizioni
e un nuovo termine per la propria applicazione, estende evidentemente la detta esigenza
di organizzazione su scala annuale. Non può, quindi, essere invocata, per escludere la
colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine
lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta […] di non far debitamente
fronte alla esigenza predetta».
In altre parole, secondo la Suprema Corte è sì possibile che in una determinata situazione
concreta di crisi di liquidità – ovvero di crisi tout court dell’impresa, soggetto passivo del
rapporto tributario – l’omesso versamento non sia qualificato dal dolo e non sia quindi
punibile; sennonché, tenuto conto del meccanismo “progressivo” attraverso il quale il reato
viene ad esistenza4, non può essere chiamata a scusante la crisi esistente nel momento in
cui scade il termine per il versamento, a meno che si dimostri che si sia fatto il possibile in
termini di “organizzazione delle risorse disponibili”, ovvero di oculata gestione finanziaria
delle risorse stesse, per mettersi in condizione di adempiere all’obbligo tributario.
L’esistenza stessa di un simile “obbligo di accantonamento” (delle somme necessarie a
versare l’IVA e le ritenute alla fonte) è stata fortemente criticata dalla Dottrina che, non a
torto, ha osservato come una tale interpretazione costruisce le fattispecie penali in esame
come una specie di appropriazione indebita5. D’altro canto, si è osservato che, quantomeno
con riferimento all’omesso versamento dell’IVA, «dubbi sulla punibilità affiorano, almeno,
nel caso in cui il soggetto obbligato al versamento non abbia, alla scadenza del termine
lungo, di fatto ancora riscossa l’IVA dai propri clienti»6.
Sono state quindi proposte, sempre dalla Dottrina, altre strade per fondare penalisticamente
la rilevanza scriminante della crisi d’impresa nel contesto in esame, escludendo peraltro la
praticabilità dell’esimente dello stato di necessità (art. 54 c.p.) e ritenendo invece possibile
l’applicazione della diversa esimente della forza maggiore (art. 45 c.p.)7.
Come ora vedremo, invece, la giurisprudenza successiva della Cassazione ha seguito
di fatto la strada tracciata dalle Sezioni Unite.
4A questo proposito, la Cassazione ricorda che l’ordinario obbligo di versamento dell’IVA (così come l’obbligo di versamento delle ritenute alla fonte) prevede una scadenza, mensile o trimestrale, il cui inadempimento è sanzionato in
via amministrativa. La scadenza in questione è di molto antecedente a quella a seguito del cui inadempimento si rende
applicabile la sanzione penale. Ciò, ad avviso del giudice di legittimità, crea un meccanismo sanzionatorio “progressivo” e, parallelamente, un obbligo di gestione delle risorse altrettanto “progressivo”.
5Cfr. Caraccioli, “Riflessioni sui reati di omissione propria e sulle cause di non punibilità suscitate dalle Sezioni
unite della Cassazione”, in Rivista di Diritto Tributario, 11/2013, pag. 253 e ss.
6Così Ciraulo, “La punibilità degli omessi versamenti dell’IVA e delle ritenute certificate nella lettura delle Sezioni
Unite”, in Cassazione Penale, 1/2014, pag. 66 e ss.
7Cfr. sempre Caraccioli, cit.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
3. La giurisprudenza della Corte di Cassazione nel 2014
Dal novembre 2013 al settembre 2014 la Cassazione ha emesso ben sedici sentenze
sul tema in esame8. Queste sentenze, le cui motivazioni sono state tutte depositate nel
corso del 2014, sono state emesse, con un’unica eccezione, dalla III Sezione Penale che
si occupa del tema ratione materiae9.
Nella maggioranza dei casi, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso, non ritenendo
rilevante la lamentata crisi d’impresa quale scriminante per il reato contestato, reato che
di volta in volta era l’omesso versamento di ritenute o l’omesso versamento dell’IVA o
entrambi. Tuttavia, in almeno sei casi la Suprema Corte ha invece accolto il ricorso. Di
qui il “sospetto” che vi sia una qualche discordanza di vedute tra i giudici. Ma vediamo
in dettaglio le motivazioni proposte, riservando ogni commento al prosieguo.
La sentenza n. 2614 riprende, testualmente, le argomentazioni proposte nella sentenza
n. 37424/2013 delle Sezioni Unite. Come nel caso deciso da quest’ultima sentenza,
inoltre, osserva che «la deduzione [proposta in ricorso e] riguardante la crisi economica
[sofferta dall’impresa dell’imputato] è generica e in fatto non reca, in particolare,
indicazioni specifiche né concrete atte a ravvisare una reale impossibilità incolpevole
all’adempimento».
La sentenza n. 5467, innanzitutto, precisa il meccanismo di “progressività” nell’illecito
già proposto dalle Sezioni Unite, osservando che «la situazione di colui che non versa
l’imposta si risolve, di regola, in una condotta, cosciente e volontaria, la quale, in modo
progressivo, si articola, in un primo momento, con il mancato accantonamento delle
somme trattenute; successivamente con l’omesso versamento mensile secondo le cadenze
previste dalla normativa tributaria; ed infine con la prosecuzione della condotta omissiva fino al termine ultimo fissato dalla norma penale»; di conseguenza, dal momento
che «il sostituto, quale debitore di una somma costituente reddito per il sostituito, deve,
allorché procede al versamento in favore di quest’ultimo, trattenere una percentuale di
questo emolumento (c.d. ritenuta alla fonte) per, poi, versarlo all’Erario entro il sedici del
mese successivo a quello nel quale ha operato la trattenuta, gli spazi per ritenere l’assenza dell’elemento soggettivo o per integrare la fattispecie della forza maggiore, quale
conseguenza di una improvvisa ed imprevista crisi di illiquidità, appaiono, all’evidenza,
oggettivamente ristretti». Ciò non significa che, «in astratto, [non] siano possibili casi, il
cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito e come tale insindacabile in sede di
legittimità se congruamente motivato, nei quali possa invocarsi l’assenza del dolo o l’assoluta
impossibilità di adempiere l’obbligazione tributaria. È tuttavia necessario che siano assolti
gli oneri di allegazione che, per quanto attiene alla crisi di liquidità, dovranno investire
non solo l’aspetto circa la non imputabilità al sostituto di imposta della crisi economica,
che improvvisamente avrebbe investito l’azienda, ma anche che detta crisi non possa
essere stata adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad
8Non possiamo escludere, anzi siamo portati a ritenere, che ve ne siano altre, vuoi perché malamente sfuggite al redattore, vuoi perché non ancora depositate nel momento in cui, novembre 2014, il presente studio è stato redatto.
9Si tratta in particolare delle sentenze 6.11.2013, n. 2614; 5.12.2013, n. 5467; 9.10.2013, n. 5905; 6.2.2014, n. 9264;
6.2.2014, n. 10813; 25.2.2014, n. 13019; 25.2.2014, n. 14953; 6.2.2014, n. 15176; 8.1.2014, n. 15416; 6.3.2014, 19426;
14.5.2014, 23532; 8.4.2014, n. 27676; 8.4.2014, n. 37301; 15.1.2014, n. 37730; 25.3.2014, n. 38279; 28.8.2014, n. 40394
che, a differenza delle precedenti, è stata emessa dalla Sezione Feriale. Nel prosieguo verranno citate solo con il numero di sentenza.
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Crisi d’impresa
idonee misure da valutarsi in concreto. Occorre cioè la prova che non sia stato altrimenti
possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e
puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le
possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli
di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie
ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua
volontà e ad egli non imputabili».
La sentenza n. 5905 è una delle poche che, accogliendo il ricorso, valorizza in concreto
a fini scriminanti la crisi d’impresa. Dopo aver premesso che l’esimente della forza maggiore
«può anche configurarsi, a seconda dei casi concreti, in una imprevista e imprevedibile
indisponibilità del necessario denaro non correlata in alcun modo alla condotta gestionale
dell’imprenditore», la decisione si sofferma sulla sussistenza del dolo, richiamando espressamente il decisum delle Sezioni Unite più volte citato. In particolare, secondo la decisione
in esame, è del tutto possibile che, nel caso concreto, all’elemento oggettivo del reato «non
corrisponda l’elemento soggettivo della coscienza e volontà di omissione dei versamenti,
non essendosi verificata alcuna scelta inidonea a “non far debitamente fronte” agli obblighi
di legge, cioè – a prescindere dalla sussistenza o meno, quindi, di una scriminante e
rimanendo sul piano strettamente soggettivo – non risultando dimostrata una consapevole
volontà criminosa in chi ha omesso i versamenti laddove, nel tempo prodromico al rilascio
suddetto, la sua condotta gestoria non ha rappresentato una scelta consapevole nel senso
dell’astensione da un adeguato piano di accantonamento organizzativo che consentisse
poi l’adempimento dell’obbligo divenuto penalmente rilevante. […] quel che le Sezioni
Unite prospettano – sottolineandone appunto la necessità di adeguatamente dimostrarlo
– è l’eventualità, rilevante ai fini di escludere la colpevolezza, che sia intervenuta una
crisi di liquidità al momento della scadenza del termine lungo, crisi non derivante dalla
scelta del datore di lavoro-sostituto d’imposta “di non far debitamente fronte” al suo
obbligo organizzativo». Nel caso concreto, poi, il ricorrente aveva assolto i propri oneri di
allegazione, avendo proposto in sede di merito gli elementi per escludere la colpevolezza,
ma il giudice di merito aveva pretermesso ogni valutazione in proposito.
La sentenza n. 9264 si esprime su una situazione del tutto peculiare: nel caso in esame
l’imputato era il liquidatore di una società che si era trovato a fronteggiare una situazione
di grave crisi finanziaria cagionata dai precedenti amministratori ed aveva posto in essere
azioni teoricamente idonee a reperire la liquidità necessaria, senza successo. Il giudice
di merito aveva congruamente motivato in relazione «all’assenza di nesso eziologico tra
la condotta del liquidatore e il reato, per l’interferenza decisiva e anzi assorbente della
condotta altrui», ovvero dai precedenti amministratori, e la Cassazione ha accettato questo
ragionamento.
Le sentenze n. 10813 e n. 13019 sono in pratica sovrapponibili. Entrambe richiamano
esplicitamente sia il percorso motivazionale delle Sezioni Unite, sia quello proposto con la
sentenza n. 5467, per respingere i ricorsi: in un caso, sancendo che «l’affermazione operata
dal ricorrente di aver preferito pagare dipendenti e fornitori […] non prova l’illiquidità e la
crisi»; nell’altro, rilevando che il ricorrente non aveva assolto il proprio onere di allegazione
nei termini indicati dalla sentenza n. 5467.
La sentenza n. 14953 sembra discostarsi da quelle precedentemente citate ed assumere
un atteggiamento più rigoristico. In primo luogo, anziché richiedere che l’imputato assolva
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un mero onere di allegazione circa la sussistenza di una crisi d’impresa quale esimente,
la sentenza si esprime nel senso che lo stato di crisi dovrebbe essere «provato in modo
univoco, specifico e certo». D’altro canto, le lamentate «precarie condizioni economiche,
comunque – almeno che le stesse non siano determinate da eventi eccezionali e di rilevante
dimensione – non costituiscono di per sé solo un caso fortuito o di forza maggiore (art.
45 c.p.), come tale idoneo ad escludere la punibilità o quantomeno il dolo del reato
[…]. Invero l’eventuale crisi di liquidità economica – nell’ambito dell’attività di impresa
– di norma non costituisce un evento imprevedibile e come tale insuperabile. La crisi
di liquidità, invece, rappresenta un evento possibile, concretizzando lo stesso un rischio
inerente all’attività di impresa, cui occorre far fronte tempestivamente con opportuni
interventi sul cosiddetto “flusso di cassa” dell’azienda, quali: a) tempestivi e frazionati
accantonamenti; b) il ricorso all’acquisizione di ulteriori somme erogate da istituti bancari
o finanziari ed altri».
La sentenza n. 15176 si pone invece nel filone della n. 9264, valorizzando in un diverso
contesto l’impossibilità dell’imputato ad adempiere alla propria obbligazione tributaria. Nel
caso in esame, il giudice di merito aveva accertato che la società di cui l’imputato era
amministratore si era trovata di fronte a clienti che pagavano con grave ritardo le proprie
prestazioni e che, per ovviare ad una simile situazione, l’imputato aveva tentato di ricorrere
al credito bancario (con esiti, sembra, non risolutivi ed anzi forse persino peggiorativi);
conseguentemente, il giudice di merito aveva escluso il dolo, osservando che quest’ultimo
presuppone la possibilità di assolvere il dovere di pagamento e ciò in linea con la struttura
tipica del reato omissivo proprio. Nell’accettare la motivazione del giudice di merito, la
sentenza richiama la precedente n. 5467 e osserva che da un lato l’imputato aveva assolto
ai propri oneri di allegazione come indicati in quel precedente e che la sentenza di merito
era congruamente motivata in proposito.
La sentenza n. 15416 ribadisce, anche testualmente, le motivazioni contenute nelle
sentenze n. 5467 e n. 5905, ma, a differenza di quest’ultima, non ritiene integrata la
scriminante nel caso concreto. Ciò in quanto, nel caso oggetto del giudizio, «il mancato
pagamento di quanto dovuto all’erario non è il frutto di una assoluta mancanza di liquidità
– circostanza che, alle condizioni sopra precisate […], avrebbe potuto costituire una base
per l’applicazione della scriminante della forza maggiore – ma è invece il frutto di una
consapevole scelta imprenditoriale diretta a privilegiare il pagamento di altri creditori
rispetto all’erario» e, d’altro canto, «la semplice necessità di scongiurare il fallimento non
è sufficiente ad integrare l’ipotesi di forza maggiore sopra delineata».
Le sentenze n. 19426 e n. 23532 si pongono esplicitamente anch’esse nel solco dei
precedenti indicati più sopra e concludono entrambe nel senso che gli imputati non avevano
assolto ai loro obblighi di allegazione come definiti dalla sentenza n. 5467. La sentenza
n. 23532, poi, esclude comunque la configurabilità giuridica dell’esimente dello stato di
necessità nel contesto in esame.
Le sentenze n. 27676 e n. 37301, invece, accolgono i ricorsi proposti. Curiosamente,
anch’esse accolgono i precedenti giurisprudenziali indicati più sopra, ma osservano che
erano state le corti di merito a non applicarli, imponendo quindi un nuovo giudizio di
merito.
La sentenza n. 37730 prende posizione sul tema della lamentata insolvenza dell’imputato,
stabilendo che «lo stato d’insolvenza non libera il sostituto d’imposta, dovendo questi
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Crisi d’impresa
adempiere al proprio obbligo di corrispondere le ritenute così come adempie a quello di
pagare le retribuzioni di cui le ritenute stesse sono parte. Invero anche il sopravvenuto
fallimento dell’agente non è sufficiente a scriminare il precedente omesso versamento
delle ritenute, essendo preciso obbligo del sostituto d’imposta quello di ripartire le risorse
esistenti all’atto della corresponsione delle retribuzioni in modo da poter adempiere al
proprio obbligo tributario, anche se ciò comporta l’impossibilità di pagare i compensi nel
loro intero ammontare».
Un orientamento altrettanto rigoristico è poi espresso nella sentenza n. 38279, secondo
la quale il reato di omesso versamento dell’IVA è integrato «a prescindere dal fatto che le
somme […] indicate [nella dichiarazione annuale] come dovute a titolo di IVA siano poi
state o meno riscosse dal […] contribuente».
Al contrario, la sentenza n. 40394 – l’unica non emessa dalla III Sezione, ma dalla
Sezione Feriale – sembra assumere un atteggiamento più conciliante. La premessa da cui
muove la motivazione è che la crisi d’impresa come causa esimente per la condotta di
inottemperanza agli obblighi di versamento costituirebbe una «questione delicata che non
può che essere affrontata caso per caso, risultando impossibile la enunciazione di principi
generali sia in un senso che nell’altro». La sentenza, poi, rileva che la scriminante della
forza maggiore trova, nel contesto in esame, un’applicazione limitata, ma è comunque
teoricamente applicabile; avendo la corte di merito invece escluso la sua applicabilità, la
sentenza impone una nuova valutazione del merito.
4. La giurisprudenza della Corte di Cassazione su concordato ed accordo di
ristrutturazione
Meritano una menzione a parte le poche sentenze che si sono pronunciate sulla sussistenza dei reati tributari in connessione agli strumenti alternativi di composizione della crisi
d’impresa, come il concordato preventivo (art. 160 L. Fall.) o l’accordo di ristrutturazione
del debito (art. 182 bis L. Fall.).
Già nel 2013 la Suprema Corte si era pronunciata nel senso dell’irrilevanza dell’ammissione alla procedura di concordato preventivo, pur se avvenuta prima ancora della scadenza
del termine stabilito, in relazione all’integrazione del reato di omesso versamento dell’IVA.
Con sentenza del 14 maggio 2013, n. 44283, infatti, la III Sezione Penale, nell’affermare tale
principio di diritto, aveva osservato che «la legislazione vigente impone che nel concordato
preventivo il debito IVA debba essere sempre pagato per intero, a prescindere dalla presenza o
meno di una transazione fiscale, poiché la norma che lo stabilisce va considerata inderogabile
e di ordine pubblico economico internazionale»; conseguentemente, «né dall’art. 160, né
dalla L. Fall., art. 182 ter, può essere desunta una volontà legislativa che ponga in dubbio il
principio di indisponibilità della pretesa tributaria in riferimento al debito IVA, consentendone
il pagamento dilazionato al di fuori degli accordi di transazione fiscale».
Peraltro, la reale portata di questo decisum dovrebbe essere contestualizzata al caso
concreto e quindi ridimensionata. Pur se il punto non risulta del tutto chiaro nello scorrere
della motivazione, la Cassazione si era trovata di fronte ad un caso nel quale l’imputato
(ed amministratore della società proponente il concordato) non aveva concluso alcuna
transazione fiscale ai sensi dell’art. 182 ter L.Fall., mentre, proprio in tema di IVA, quest’ultima
norma dispone espressamente che con riferimento a tale imposta la transazione fiscale
«può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento». Pertanto il principio di diritto
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deve essere collegato ad una situazione concreta che prestava il fianco a censure anche
sotto il profilo civilistico.
Più di recente, poi, la Suprema Corte si è pronunciata nel medesimo senso anche in
relazione all’accordo di ristrutturazione del debito. Con sentenza del 1 aprile 2014, n.
24875, sempre la III Sezione Penale ha applicato il medesimo principio di diritto di cui
alla sentenza precedentemente citata anche al diverso istituto previsto dall’art. 182 bis
L.Fall.
Anche in questo caso, peraltro, non è chiaro quale fosse effettivamente l’istituto civilistico
concretamente concluso, ovvero se l’accordo avesse o meno contemplato anche una
transazione fiscale ex art. 182 ter L. Fall., nei limiti ivi previsti.
Sta di fatto che il riferimento al divieto per i debitori di iniziare o proseguire azioni
esecutive o cautelari, previsto dall’art. 182 bis, terzo comma, L. Fall., è stato ricondotto
dalla Suprema Corte all’esclusivo ambito civilistico, senza alcun rilievo sotto il diverso
profilo penalistico. Una simile statuizione è stata soggetta a critiche10, dal momento
che porterebbe ad una sostanziale vanificazione dell’obiettivo sotteso all’accordo di
ristrutturazione del debito, compreso quello tributario. Non c’è dubbio tuttavia che, a
legislazione vigente, non si vede come una tale disposizione civilistica possa incidere
sul piano penale sino a elidere la punibilità di un reato omissivo proprio come l’omesso
versamento dell’IVA.
5. E quindi, la giurisprudenza esprime una contraddizione vera o meno?
L’interrogativo di partenza è ovviamente un mero artificio retorico. Ad avviso di chi
scrive, infatti, il riepilogo della giurisprudenza precedentemente svolto consente di affermare
che, al di là degli esiti del singolo processo, la Cassazione è abbastanza univoca nel proprio
indirizzo e, salvo qualche discrasia qua e là, è tendenzialmente omogenea nell’affermare
alcuni principi di fondo. Probabilmente la necessità di trovare un corretto bilanciamento
tra opposti interessi, come indicato in premessa, ha portato la Suprema Corte ad un sofferto
traguardo che però non esclude affatto – nemmeno quando l’esito del singolo caso è stato
infausto per l’imputato – la rilevanza della crisi d’impresa a fini esimenti.
In ultima analisi, ha ragione la Sezione Feriale quando, nell’ultima sentenza citata,
afferma che la rilevanza o meno della crisi d’impresa nel contesto in esame costituisce
una «questione delicata che non può che essere affrontata caso per caso», mentre ha
torto laddove ritiene «impossibile la enunciazione di principi generali sia in un senso che
nell’altro»: perché alcuni principi generali sono assolutamente identificabili nell’ambito
delle pronunce esaminate.
A nostro avviso, questi principi generali sono i seguenti:
(A) In termini strettamente penalistici, la crisi d’impresa può rilevare come causa di
esclusione della responsabilità per i reati di omesso versamento delle ritenute e dell’IVA,
vuoi come assenza di dolo, vuoi come assoluta impossibilità di adempiere (rilevante come
forza maggiore o come inesigibilità della condotta), ma non come stato di necessità.
10Cfr. Fontana, “Non il concordato preventivo, e neppure l’accordo per la ristrutturazione del debito, bloccano il se‑
questro per equivalente”, in Diritto & Giustizia, 1/2014, pag. 106.
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Crisi d’impresa
(B) La struttura dei reati vede, quantomeno in via di fatto, una sorta di consumazione
progressiva, che parte dal mancato accantonamento di una somma di denaro (l’ammontare
della ritenuta o dell’IVA) al momento del compimento dell’operazione soggetta a
quell’obbligo tributario, prosegue con l’omesso versamento mensile e si conclude con
l’omesso versamento nel termine ultimo stabilito dalla norma penale. In questo contesto,
che vede sostanzialmente la necessità (o la possibilità) che l’agente organizzi le proprie
risorse finanziarie per un periodo che potrebbe finanche superare l’anno, può essere
rilevante la crisi di liquidità dell’agente al momento della scadenza del termine ultimo,
purché questa crisi di liquidità non sia frutto di scelte dell’agente nell’organizzazione
appunto delle proprie risorse finanziarie.
(C) A questo proposito, sarà necessario valutare innanzitutto se la crisi di liquidità
sia o meno imputabile a scelte, sostanzialmente di cattiva gestione finanziaria, del
soggetto agente; in secondo luogo, sarà necessario valutare se, in presenza della crisi,
l’agente abbia comunque posto in essere le necessarie contromisure per mettersi in
condizioni di adempiere al proprio obbligo tributario, senza riuscirvi. In ultima analisi,
l’accertamento dovrebbe portare a ritenere che, da un lato, la crisi sia stata improvvisa
ed imprevista e che, da un altro lato, l’insuccesso del tentativo dell’agente di porsi in
condizioni di adempiere sia frutto di cause indipendenti dalla sua volontà e quindi non
a lui imputabili.
(D) Ai fini di questo accertamento, l’imputato ha quantomeno un onere di precisa
allegazione relativamente alle cause della crisi, all’irriconducibilità di tali cause al suo
agere ed alle contromisure poste in essere. Parallelamente, il giudice di merito – a cui solo
compete la valutazione appunto del merito, insindacabile in sede di legittimità – ha un
obbligo di analisi delle circostanze scusanti proposte e di motivazione del loro accoglimento
o del loro rifiuto.
Di fatto, questi principi generali sono stati in linea di massima omogeneamente
applicati in quasi tutte le sentenze analizzate. A parte il frequente richiamo sia all’onere
di allegazione dell’imputato, sia all’onere di motivazione dei giudici di merito, ci sembra
ad esempio che il principio sub (C) sia comune alle sentenze n. 9264 e n. 15176, che
hanno escluso la responsabilità dell’imputato, ma anche alle sentenze n. 13019 e n.
15416, che l’hanno invece affermata: la differenza sta nel caso concreto di volta in volta
esaminato, che ha portato in alcuni casi a ritenere che l’accertamento sull’assenza di dolo
(o sull’inesigibilità che dir si voglia) abbia avuto esito positivo, mentre in altri casi ha
portato all’esito opposto. Sotto questo profilo, ci sembra che persino la sentenza n. 37730,
che stabilisce l’irrilevanza dello stato d’insolvenza dell’imputato, non faccia eccezione:
la mera sussistenza di uno stato d’insolvenza, infatti, nulla dice sulle sue cause, né su
quanto l’imputato in quel processo abbia o meno fatto per porvi rimedio; la mera presa
d’atto di un’insolvenza, quindi, non consente semplicemente alcuna verifica nei termini
di cui al principio sub (C).
Piuttosto, sembra discostarsi dall’orientamento sopra riassunto la sentenza n. 14953.
Ciò, non tanto in relazione al fatto che la crisi di liquidità costituirebbe “rischio d’impresa”,
come tale niente affatto imprevedibile: ammesso pure che la crisi è elemento potenzialmente
connaturato all’esercizio di un’attività imprenditoriale, non è aprioristicamente escludibile
che in concreto la crisi stessa sia incolpevole. Invece la differenza sembra esserci nello
standard richiesto a fini della prova dello stato di crisi, dal momento che questa sentenza
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
sembra richiedere una prova “univoca, specifica e certa”, laddove il resto della giurisprudenza sembra richiedere uno standard meno rigoroso.
Anche la sentenza n. 38279 sembra discostarsi dall’orientamento quando ritiene integrato
il reato di omesso versamento dell’IVA persino quando questa non sia stata materialmente
incassata dall’agente: a tacer d’altro, una simile impostazione rende del tutto irrilevante
il principio sub (B).
In sostanza, comunque, singole “sbavature” non consentono di affermare che vi sia un
reale contrasto giurisprudenziale sul tema e quindi una contraddittorietà nelle pronunce
rese dalla Cassazione; anzi, riteniamo che la “linea” sia stata tracciata con sufficiente
chiarezza.
Il problema è che, come si è già notato in Dottrina 11, questa linea è piuttosto “sottile”,
ovvero che le situazioni concrete di esclusione della responsabilità per carenza di liquidità
dell’impresa sembrano confinate a casi estremamente rari. In altre parole, gli spazi di
manovra per far rilevare in senso positivo la sussistenza di una crisi d’impresa sulla
base della giurisprudenza della Cassazione sono estremamente ridotti. Quindi, lungi dal
rappresentare un’apertura al tema, la giurisprudenza esaminata sembra esserne piuttosto
contraria.
Ma c’è di più. In realtà la stessa impostazione di partenza della Cassazione –
compendiata nel principio sub (B) – è del tutto discutibile sotto un profilo sistematico di
carattere squisitamente penalistico. L’argomentazione secondo la quale verrebbe in rilievo
«[l’]”organizzazione previdente” e [la] capacità dell’imprenditore di “far debitamente fronte
ai propri obblighi organizzativi”, la cui violazione non consentirebbe in alcun modo di
sfuggire ad un giudizio di responsabilità, sembra evocare concetti più consoni ad un illecito
a struttura colposa che ad una fattispecie dolosa quale quella in esame. Come rilevato
da una parte della dottrina la natura dolosa del delitto non consente l’affermazione di
responsabilità in capo a chi non abbia provveduto al versamento al fisco per mancanza di
risorse, indirizzate altrove (si pensi ad es. al pagamento delle retribuzioni dei dipendenti
o dei fornitori), neppure in caso di mala gestio, pena, in caso contrario, il punire in forza
di una fattispecie incriminatrice omissiva dolosa una serie di atti di natura colposa e a
carattere commissivo posti in essere in un momento antecedente alla scadenza del termine
per il versamento dell’imposta. Altri ancora hanno messo in evidenza che la imprudente
e inappropriata gestione delle risorse ritenute parrebbe senz’altro sufficiente a fondare
un rimprovero per colpa, ma comunque non tale da dimostrare l’esistenza del dolo di
non adempiere in chi è costretto a tale soluzione dalla mancanza di mezzi, dolo che
pacificamente va riscontrato nell’ultimo momento utile in cui è possibile validamente
adempiere»12. In questo senso è l’intera costruzione della giurisprudenza esaminata che
sarebbe fallace, basandosi su un presupposto fallace.
Non solo. Laddove la Cassazione, come nella sentenza n. 5467, richiede addirittura
che il contribuente abbia «posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli
11Cfr. Caracuzzo, “Omessi versamenti dell’IVA e delle ritenute certificate e crisi d’impresa”, in Cassazione penale,
9/2014, pag. 3071; Nassi, “La crisi di liquidità dell’impresa: tra forza maggiore, causa di esclusione della colpevolez‑
za e inesigibilità della condotta doverosa”, in Questione Giustizia, http://www.questionegiustizia.it/articolo/la-crisidi-liquidita-dell-impresa_tra-forza-maggi_05-03-2014.php
12Nassi, cit.
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Crisi d’impresa
per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare [le] somme necessarie ad assolvere il debito erariale» e si sia in presenza di un contribuente società di
capitali, verrebbe meno il concetto stesso di autonomia patrimoniale del soggetto giuridico,
richiedendosi in via surrettizia, grazie al precetto penale, una responsabilità patrimoniale
pressoché illimitata della persona fisica che abbia la sventura di rappresentare legalmente
quel soggetto giuridico.
Insomma, allo stato, la tensione tra esigenze contrapposte di cui si diceva in premessa
deve ancora “farne di strada” – se mai lo farà – prima di accettare pienamente il rilievo
della crisi d’impresa nel contesto in esame.
6. Uno sguardo sul futuro: la delega fiscale e il dubbio sulla validità del doppio
binario
A questo punto, probabilmente, la soluzione del tema non sta tanto nell’interpretazione
della norma oggi vigente, quanto in una vera e propria modifica normativa. E i rumors in
materia non mancano.
Com’è noto, a seguito della Legge 11.3.2014 n. 23, il Governo ha ricevuto la delega per
un riordino della materia fiscale, comprensiva anche dei reati tributari. A questo proposito,
l’art. 8 della legge-delega stabilisce che i reati tributari dovrebbero essere confinati alle ipotesi
di comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzazione di
documentazione falsa. Dal momento che nessuno dei due reati in esame rientra in questo
contesto, il sentiment generale è per la loro futura abrogazione.
Ora, ad oggi la delega non è ancora stata esercitata e quindi possiamo allo stato
solo tentare “uno sguardo sul futuro” grazie alle indiscrezioni che sono trapelate. Ma
queste indiscrezioni non sono esaltanti. Sembrerebbe, infatti, che il Governo si sarebbe
orientato per l’abolizione del reato di omesso versamento dell’IVA, ma non di quello di
omesso versamento delle ritenute. Stando sempre ai “si dice”, la scelta sarebbe dovuta al
fatto che la norma di cui all’art. 10 bis del D.Lgs. n. 74/2000 parla di ritenute “risultanti
dalla certificazione rilasciata ai sostituti” e che quindi il rilascio di questa certificazione
rientrerebbe nell’ambito della “creazione di documentazione falsa”. Ma, se fosse così, ciò
costringerebbe ad un integrale ripensamento della norma in sé, con qualche conseguenza
proprio sulla rilevanza della crisi d’impresa, oltre a confliggere con la struttura di reato
omissivo proprio, come affermato dalla giurisprudenza.
Ma un colpo mortale ad entrambe le norme penali sull’omesso versamento di ritenute
e IVA potrebbe arrivare da una fonte apparentemente insospettabile.
È noto che l’omesso versamento nel termine “ordinario” è punito con sanzioni amministrative. Partendo da questa constatazione, le già citate sentenze “gemelle” delle Sezioni
Unite Penali costruiscono il rapporto tra illecito amministrativo ed illecito penale appunto
come “progressione” e non come rapporto di specialità. In altre parole, secondo le Sezioni
Unite si applica sia la sanzione amministrativa che la sanzione penale, dal momento che
la prima sarebbe collegata al mero inadempimento del versamento nel termine ordinario,
mentre la seconda sarebbe collegata ad una progressione appunto nell’inadempimento che
permane sino allo spirare del termine “lungo” stabilito dalla norma penale. Una simile
interpretazione non sarebbe «in contrasto né con l’art. 4 del Protocollo 7 della CEDU,
né con l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che sanciscono
il principio del ne bis in idem in materia penale. Anzitutto, invero, nella specie, come si
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è visto, non si può parlare di identità del fatto; in ogni caso, poi, il principio suddetto si
riferisce solo ai procedimenti penali e non può, quindi, riguardare l’ipotesi dell’applicazione
congiunta di sanzione penale e sanzione amministrativa tributaria».
Sennonché, le cose non stanno proprio così.
Come recentemente ribadito nella ormai celeberrima sentenza “Grande Stevens” 13, la
giurisprudenza della CEDU ha da tempo identificato tre criteri per qualificare una sanzione
come “sostanzialmente penale” ai fini del rispetto della Convenzione: il primo è certamente
il nomen iuris dato alla sanzione dalla legge nazionale, ma il secondo ed il terzo, tra
loro alternativi, consistono in criteri sostanziali, ovvero la natura della violazione (desunta
dall’ambito applicativo di carattere generale e dallo scopo punitivo e deterrente) e la natura
e gravità della sanzione. Inoltre, ai fini dell’applicazione del principio del ne bis in idem,
la medesima giurisprudenza considera non tanto gli elementi costitutivi delle fattispecie
astratte potenzialmente in conflitto, bensì semplicemente se il fatto storico che ha dato
luogo a due procedimenti sia o meno lo stesso.
Sotto questo profilo, quindi, non è affatto scontato che il rapporto di supposta “progressione” tra illecito amministrativo ed illecito penale per l’omesso versamento delle ritenute
e dell’IVA possa reggere il vaglio della CEDU.
La circostanza non ha mancato di suscitare l’attenzione di autorevolissima Dottrina 14
che ha già preconizzato una possibile futura pronuncia della CEDU, o finanche dei giudici
nazionali, proprio sui reati in commento.
Il futuro ci dirà.
Luca Basilio
Simmons & Simmons
13Sentenza CEDU del 4 marzo 2014 – ricorso n. 18640/10; la sentenza è stata confermata dalla Grand Chamber in data
7 luglio 2014 ed è quindi divenuta definitiva.
14Cfr. Flick e Napoleoni, “Cumulo tra sanzioni penali e amministrative: doppio binario o binario morto? (“Materia
penale”, giusto processo e ne bis in idem nella sentenza della Corte EDU, 4 marzo 2014, sul market abuse)”, in Rivista
delle Società, 5/2014, pag. 30; cfr. anche Viganò, “Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta
applicazione dell’art. 50 della Carta?”, in Diritto Penale Contemporaneo.
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Diritto bancario
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Le nuove disposizioni per il contrasto
all’autoriciclaggio: una prima lettura critica
della L. 15 dicembre 2014, n. 186
Sommario: 1. Considerazioni preliminari; 2. La formula incriminatrice dell’autoriciclaggio; 3. Luci e
ombre nella prospettiva di applicazione pratica dell’art. 648 ter.1 del codice penale; 4. Osservazioni
conclusive.
1. Considerazioni preliminari
Il 4 dicembre 2014 il Senato ha dato il via libera definitivo al testo di legge che
ha introdotto nel nostro codice penale il delitto di autoriciclaggio con l’inedito, anche
per numerazione, art. 648 ter.1, così rimediando al vuoto normativo determinato dalla
mancanza di sanzione per chi riciclava in prima persona denaro, beni o altre utilità
provenienti da delitto non colposo da lui commesso o che ha concorso a commettere.
Prima della novella, infatti, l’autoriciclaggio, in sé, costituiva un post factum non
punibile.
La Legge 15 dicembre 2014 n. 186, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 292 del 17
dicembre 2014, recante “Disposizioni in materia di emersione e rientro di capitali detenuti
all’estero nonché per il potenziamento della lotta all’evasione fiscale. Disposizioni in materia
di autoriciclaggio”, prevede all’art. 3, 3° comma, l’inserimento dell’art. 648 ter.1 dopo
l’art. 648 ter del codice penale.
L’obiettivo del legislatore è stato quello di porre un contrasto efficace a tutte quelle
condotte che implichino in qualche modo un reimpiego e un collocamento dei proventi
derivanti da attività illecite sottostanti alla commissione di delitti non colposi.
Del resto, la Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo del 27 gennaio 1999,
entrata in vigore l’1 luglio 2002 e ratificata dall’Italia con la Legge 28 giugno 2012 n.
110, all’art. 13 prescrive l’adozione delle misure legislative necessarie a prevedere come
reato l’autoriciclaggio.
Così pure dispone la Convenzione ONU contro il crimine organizzato transnazionale
del 15 novembre 2000 e del 31 maggio 2001, ratificata dall’Italia con la Legge 16 marzo
2006 n. 146.
Infine, la Risoluzione sulla criminalità organizzata dell’Unione europea, approvata dal
Parlamento europeo il 25 ottobre 2011, prevede alla raccomandazione n. 41 che, oltre
alla eventuale punibilità del riciclaggio a titolo colposo, gli Stati membri introducano nei
loro ordinamenti la “obbligatoria penalizzazione del cosiddetto autoriciclaggio, ovvero il
riciclaggio di denaro di provenienza illecita compiuto dallo stesso soggetto che ha ottenuto
tale denaro in maniera illecita”.
Il reato di autoriciclaggio, peraltro, non è certo una novità nel panorama sanzionatorio
internazionale.
Per esempio, in Gran Bretagna vengono punite le condotte, anche se poste in essere
dall’autore del reato presupposto, volte ad occultare, trasformare, convertire o trasferire
proventi illeciti per consentirne la circolazione in canali legali; vengono altresì puniti gli
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
accordi finalizzati alla realizzazione di tali condotte, nonché l’acquisizione e il possesso
di beni di provenienza illecita1.
In Spagna, l’art. 301 del codice penale prevede la punibilità anche di chi abbia
commesso l’attività delittuosa presupposto del reato di riciclaggio. Di tenore analogo le
norme incriminatrici dei codici penali del Belgio e del Portogallo.
Invece, in Svizzera e in Francia la normativa sul riciclaggio non prevede una specifica
clausola di non punibilità per chi abbia posto in essere il reato presupposto come pure, ex
adverso, non prevede la incriminazione di quest’ultimo. A tal riguardo, è stata l’opera di
esegesi giurisprudenziale a far ritenere punibile la condotta riciclatrice di chi abbia posto
in essere il reato presupposto.
Solo la Germania e l’Austria escludono espressamente, come avveniva in Italia prima
della novella portata dalla Legge n. 186/2014, l’incriminazione di colui che abbia commesso
le condotte costituenti il reato presupposto.
Con riguardo alle ragioni giustificative della introduzione nel nostro ordinamento
giuridico di tale nuova figura incriminatrice, si può fare riferimento alla necessità, sentita
dal legislatore, di combattere più efficacemente la criminalità c.d. “economica” che tende
ad ottenere notevoli profitti da attività di impresa utilizzando proprio quei denari o utilità
rampollanti da attività che lecite non sono.
Si vuole quindi evitare, attraverso la sanzione penale, che il soggetto che ha commesso
il reato presupposto possa utilizzarne i proventi così portando la sua condotta ad ulteriori
conseguenze pericolose per l’ordine economico stesso. Si tratta infatti di condotte, quelle
sanzionate, che comportano la immissione di risorse nel circuito tipico dell’economia in
genere, dell’imprenditoria o della finanza o a fini di speculazione, attività quindi caratterizzate
da un profilo di azione lecito.
Ecco che allora tali ulteriori condotte di impiego, sostituzione, trasferimento acquistano una
autonoma valenza rispetto al sottostante reato presupposto e si caratterizzano per la lesione dei
beni tutelati dell’amministrazione della giustizia e dell’ordine economico e del risparmio.
Per questo, per la figura giuridica dell’autoriciclaggio, così come costruita dal nuovo art.
648 ter.1 del codice penale, appare ormai superato discettare della violazione del principio
del ne bis in idem o della ravvisabilità di un’ipotesi di post factum non punibile.
Come si avrà modo di approfondire più oltre, la norma non trova applicazione nelle
fattispecie di personale godimento o di mera utilizzazione dei proventi del reato presupposto
(cfr. art. 648 ter. 1, 4° comma, c.p.), fattispecie che chiaramente non implicano una reimmissione di tali proventi nel circuito economico lecito. Questa ipotesi di esclusione della
punibilità è stata quindi prevista proprio per evitare il paventato rischio del ne bis in idem
sostanziale.
2. La formula incriminatrice dell’autoriciclaggio
Procedendo nell’esegesi della nuova norma, si può da subito osservare che il soggetto
attivo è colui che ha “commesso o concorso a commettere un delitto non colposo”. È
quindi un reato proprio punibile a titolo di dolo generico.
1Per approfondire, si vedano le Sezioni 337-340 del Proceed of Crime Act promulgato dal Parlamento inglese con Royal
Assent il 24 luglio 2002.
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Diritto bancario
La condotta tipica, descritta al 1° comma, consiste nell’impiegare, sostituire, trasferire
“in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le
altre utilità provenienti dalla commissione” del delitto presupposto “in modo da ostacolare
concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”.
Il 2° comma, a sua volta, prevede una fattispecie autonoma con pena più mite (reclusione
da uno a quattro anni e multa da Euro 2.500 a Euro 12.500) “se il denaro, i beni o le altre
utilità provengono dalla commissione di un delitto non colposo punito con la reclusione
inferiore nel massimo a cinque anni”.
Peraltro, se il delitto presupposto sia stato commesso con modalità mafiose o al fine di
agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso, si applica comunque la pena prevista
dal 1° comma (reclusione da due a otto anni e multa da Euro 5.000 a Euro 25.000), anche
se si tratti di delitto presupposto con pena inferiore nel massimo a cinque anni.
Il 4° comma, come sopra accennato, prevede una specifica ipotesi di non punibilità
collegata al c.d. “autoconsumo”, vale a dire al mero utilizzo o godimento personale del
denaro, dei beni o altre utilità, condotta che non presenta un autonomo disvalore ai fini
sanzionatori.
Il 5° comma introduce una circostanza aggravante speciale “quando i fatti sono commessi
nell’esercizio di un’attività bancaria o finanziaria o di altra attività professionale”. A differenza
delle analoghe previsioni contenute negli artt. 648 bis e 648 ter del codice penale, ove è
contemplata solo l’attività professionale, nella nuova norma è stata appunto aggiunta quella
bancaria e finanziaria, proprio perché, nella pratica, si assiste spesso al coinvolgimento
nell’attività criminosa degli intermediari con riguardo ai reati societari, tributari e agli abusi
del mercato.
Specularmente, il 6° comma prevede che la pena sia diminuita fino alla metà “per chi
si sia efficacemente adoperato per evitare che le condotte siano portate a conseguenze
ulteriori o per assicurare le prove del reato e l’individuazione dei beni, del denaro e delle
altre utilità provenienti dal delitto”.
In chiusura, l’ultimo comma richiama l’art. 648 c.p. secondo cui la disposizione si
applica anche quando l’autore del delitto da cui il denaro o le cose provengono non è
imputabile o non è punibile ovvero quando manchi una condizione di procedibilità riferita
a tale delitto.
Per ragioni di coordinamento, ai commi 1° e 3° dell’art. 648 quater del codice penale è
stato introdotto il richiamo all’art. 648 ter.1 con riguardo alla confisca, in caso di condanna,
dei beni che costituiscono il prodotto o il profitto del reato, salvo che appartengano a
persone estranee al reato medesimo e, quando ciò non sia possibile, di denaro, beni o
altre utilità delle quali il reo abbia la disponibilità, anche per interposta persona, per un
valore equivalente al prodotto, al profitto o al prezzo del reato.
Di notevole interesse è anche quanto dispone l’art. 1 della Legge n. 186/2014 che introduce
la procedura di collaborazione volontaria nell’ambito della normativa sulla emersione e sul
rientro di capitali detenuti all’estero di cui al D.L. 28 giugno 1990 n. 167 convertito, con
modificazioni, dalla Legge 04.08.1990 n. 227. Infatti, il nuovo art. 5 quinquies al 3° comma
esclude la punibilità, “limitatamente alle attività oggetto di collaborazione volontaria”, per le
condotte previste dall’art. 648 ter.1 del codice penale commesse fino al 30 settembre 2015,
data entro cui può essere attivata la procedura di collaborazione volontaria ed in relazione
ai delitti presupposto di cui agli articoli 2, 3, 4, 5, 10 bis e 10 ter del D.Lgs. n. 74/2000.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
3. Luci e ombre nella prospettiva di applicazione pratica dell’art. 648 ter.1 del codice
penale
Non pochi problemi sorgono dall’esame approfondito della norma una volta che si
proietti il testo di legge in funzione di pratica applicazione alle singole fattispecie concrete
che si pongano all’attenzione dell’interprete.
Il verbo “impiegare”, in primo luogo, fa sorgere alcuni dubbi sul significato che il
legislatore abbia inteso attribuirgli: se cioè abbia voluto fare riferimento a qualsiasi tipologia
di reimmissione nel circuito economico lecito dei beni di provenienza delittuosa.
Invece, i verbi “sostituire” e “trasferire” comportano la ravvisabilità della condotta in ogni
caso, latamente inteso, in cui l’agente persegua quel particolare risultato della sostituzione
o trasformazione dei beni predetti. Si tratterebbe, dunque, di un reato a forma libera con
tutte le conseguenze che ciò comporta in termini di punibilità poiché in siffatta maniera
viene lasciato uno spazio eccessivo “di manovra” al giudicante.
Si può ulteriormente osservare al riguardo, che il trasferimento e la sostituzione, a termini
dell’art. 648 ter.1 del codice penale, comportano ed implicano sempre una modificazione
della titolarità del bene o delle relative disponibilità economiche dando quindi luogo a una
utilizzazione o a un godimento non più personale, che appunto ricadrebbe nella ipotesi
di non punibilità del 4° comma.
Le attività rilevanti per l’autoriciclaggio, delineate dal legislatore quale “meta” finale
della condotta, sono state oggetto di una elencazione tassativa. Esse debbono essere
economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative di per sé lecite. Si tratta di definizioni
che parzialmente si sovrappongono in quanto l’attività economica in sé ricomprende tutte
le altre.
Ancora, la condotta tipica si caratterizza per una modalità di esecuzione particolare: è cioè
necessario che venga ostacolata concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa
del denaro, dei beni o delle altre utilità. L’idoneità concreta dell’ostacolo frapposto pretende
che siano punibili solo quei comportamenti che si estrinsechino in azioni effettivamente
idonee a rendere difficile o ardua la identificazione della provenienza delittuosa del bene.
Certo se si considerano gli orientamenti giurisprudenziali già espressi in tema di riciclaggio
ex art. 648 bis del codice penale e di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza
illecita ex art. 648 ter del codice penale ci si devono attendere interpretazioni assai estensive
sul punto, dato che la condotta di ostacolo viene ravvisata in ogni caso in cui si verifichi
anche solo un mero ritardo nella identificazione della provenienza del bene2.
L’aggiunta dell’avverbio “concretamente” differenzia però l’art. 648 ter.1 dal citato
art. 648 bis del codice penale. Pertanto, l’approccio applicativo dovrà essere più rigoroso
poiché va preteso un accertamento della efficacia ostacolatrice della condotta in termini
sicuramente oggettivi ed anche connessi al caso concreto in valutazione.
2Per esempio, Cass.Pen. Sez. II, 22 settembre – 6 ottobre 2010, n. 35763, Ric. C.M. e D.S.A. ha statuito che “integra il
delitto di riciclaggio la condotta di chi deposita in banca danaro di provenienza illecita, atteso che, stante la natura
fungibile del bene, pel solo fatto dell’avvenuto deposito, il denaro stesso viene automaticamente sostituito, essendo
l’istituto di credito obbligato a restituire al depositante il mero tantundem” oppure Cass. Pen. Sez. II, 5 novembre 2013
– 25 febbraio 2014, n. 9026, Ric. Palumbo e altro secondo cui “per la configurazione del delitto di reimpiego non
occorre che la condotta sia caratterizzata da un effetto dissimulatorio, al contrario richiesto dal solo art. 648 bis c.p.
ai fini della configurabilità del delitto di riciclaggio; il reimpiego costituisce, infatti, fattispecie residuale, che mira
unicamente a tutelare la genuinità del libero mercato da qualunque forma di inquinamento proveniente dall’immis‑
sione di somme di provenienza illecita nei normali circuiti economici”.
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Diritto bancario
Quanto all’oggetto delle condotte di autoriciclaggio, la norma indica la formula, come d’uso
nei reati contro il patrimonio ed in particolare nei reati di riciclaggio e di reimpiego, “denaro,
beni o altre utilità” con ciò riferendosi, evidentemente, ad ogni “asset” mobile o immobile di
consistenza economicamente e patrimonialmente apprezzabile. Tali beni debbono provenire
dalla commissione, in prima persona o in concorso, di un delitto non colposo che il legislatore
non ha ritenuto di meglio specificare. Certo, una previa selezione e poi un’elencazione dei
reati presupposto non è un’operazione facile che lascia spazio a lacune e critiche.
Il reato è tipicamente proprio e comprende ogni forma di contributo, causalmente rilevante,
apportato dall’autore della condotta quale descritta dall’art. 648 ter.1 del codice penale.
4. Osservazioni conclusive
La norma sull’autoriciclaggio, in definitiva, non appare soddisfacente e lascia intravvedere
una serie di problemi applicativi di non poco momento.
L’ipotesi di non punibilità della destinazione dei beni promananti dal reato presupposto
alla mera utilizzazione o al godimento personale potrà portare a disparità di trattamento.
Ad esempio non sarà punibile l’acquisto di stupefacente per uso personale effettuato
con denaro proveniente da un reato di spaccio commesso precedentemente; oppure per
andare in vacanza, naturalmente da soli o comunque senza “offrire” in tutto o in parte
il viaggio a un amico o al coniuge o fidanzato; oppure per acquistare un immobile dove
si abiti mentre se invece lo si dà in affitto si rientrerebbe nell’ipotesi di riciclaggio dato
che darebbe vita ad un’attività economica. Invece, qualche dubbio residua se il denaro
venisse speso per una cena con gli amici, per l’acquisto di un’automobile utilizzata anche
dal coniuge e non solo dall’autore dell’autoriciclaggio. L’aggettivo “mera” associato alla
utilizzazione e la dizione “godimento personale” inducono a ritenere che il legislatore abbia
inteso fare riferimento alla esclusività unipersonale della utilizzazione e del godimento.
Si potrà poi disquisire se l’esclusività unipersonale debba essere prevalente o anche solo
promiscua, sempre che vi partecipi l’autore del reato. I casi ipotizzabili sono numerosi e
vedremo quale sarà l’approccio della giurisprudenza sul punto anche se la natura di causa
di non punibilità porta a prevedere una interpretazione restrittiva nella sua applicazione.
Altra problematica complessa è quella relativa alla competenza per territorio: il
locus commissi delicti va individuato in quello ove viene posta in essere la condotta di
autoriciclaggio.
Però, le regole processuali sulla connessione ai sensi degli articoli 4 e 16 c.p.p.
stabiliscono che la competenza per territorio, in caso di connessione tra reati, ed è questo
il rapporto tra il reato presupposto e quello di riciclaggio, spetta al giudice del luogo ove è
stato commesso il reato più grave. Ci si deve dunque aspettare una “migrazione” dei reati
presupposti verso la Procura della Repubblica competente per l’autoriciclaggio che, nella
maggior parte dei casi (si pensi ai reati presupposti tributari), sarà il reato più grave sia
nella ipotesi del 1° comma (pena da 2 a 8 anni di reclusione), sia, con buona percentuale,
nell’ipotesi attenuata del 2° comma (pena da 1 a 4 anni di reclusione) quando, ad esempio,
il reato presupposto sia una truffa, una appropriazione indebita o un reato societario.
Un ulteriore problema è quello che può sorgere dalla “spirale” dell’autoriciclaggio nel
senso che l’un reato di autoriciclaggio, che diventerebbe a sua volta reato presupposto,
ne può generare un altro identico. Si pensi al caso in cui vengano impiegati i proventi del
reato presupposto in una attività finanziaria che generi un flusso di denaro che poi viene
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impiegato in una nuova attività economica, finanziaria, imprenditoriale o speculativa e così
via fino a quando l’utilità economica non si esaurisca o l’autore non decida di destinare il
denaro, i beni o le altre utilità alla utilizzazione o al godimento personale. Le conseguenze
così sommariamente descritte appaiono alquanto preoccupanti, pur se il meccanismo della
continuazione può, in ipotesi, mitigarne gli effetti perversi.
Ci si deve attendere pertanto un acceso dibattito in sede applicativa del reato di
riciclaggio non escludendo il ricorso alle Sezioni Unite e alla Corte costituzionale.
Paola Rubini
Studio Ghedini – Longo
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La tutela contro il market abuse:
aspetti sanzionatori amministrativi e penali.
Interventi legislativi e recenti applicazioni
giurisprudenziali
Sommario: 1. Riflessioni introduttive; 2. Quadro normativo vigente: 2.1. Aspetti penali; 2.1.1.
Abuso di informazioni privilegiate; 2.1.2. Manipolazione del mercato; 2.1.3. Ostacolo alle funzioni
di vigilanza della Consob; 2.1.4. Falso in prospetto; 2.2. Gli illeciti amministrativi; 3. Aspetti
sanzionatori amministrativi: il nuovo procedimento amministrativo; 3.1. L’avvio del procedimento
e il momento dell’accertamento; 3.2. Il termine di conclusione e diritto di difesa dei soggetti
interessati; 3.3. La fase istruttoria del procedimento sanzionatorio e le cause di sospensione
dello stesso; 3.4. La fase decisoria del procedimento sanzionatorio; 4. Recenti applicazioni giurisprudenziali: 4.1. La “bocciatura” della Corte Europea dei diritto dell’uomo del sistema del doppio
binario: chi semina vento raccoglie tempesta; 4.2. I futuri scenari possibili: tutte le strade portano
a Strasburgo … a Roma; 4.3. … e se Salomone si fosse sbagliato? Il decreto dell’11 settembre
2014 della Procura generale della Corte di Cassazione (caso Fonsai); 5. Recenti interventi del
legislatore europeo: 5.1. Tolleranza zero; 5.2. Ampliamento dell’ambito di applicazione: l’art. 2
del Regolamento UE; 5.3. Gli illeciti amministrativi: le principali novità del Regolamento UE; 5.4.
Sanzioni amministrative, ancora sul doppio binario; 5.5. Segnalazione di operazione sospette;
5.6. Sondaggi di mercato; 5.7. La Direttiva 2014/57/UE sulle sanzioni penali in materia di abusi
di mercato: compiti a casa per tutti ma non per l’Italia.
1. Riflessioni introduttive
Il tratto che più di ogni altro caratterizza il sistema di tutela dei mercati finanziari è
rappresentato dalla coesistenza – neppure troppo pacifica come si vedrà nel prosieguo della
trattazione – di un binario sanzionatorio di matrice amministrativa che ruota tutto intorno
alla Consob, la quale svolge le indagini, accerta l’illecito ed irroga la sanzione, accanto
ad un altro sostanzialmente penale ed incentrato sulla configurazione dei reati di cui agli
artt. 184 e 185 del D.Lgs. n. 58 del 1998 (di seguito “TUF”).
A ciò si somma – ed è proprio il caso di sottolineare il senso algebrico dell’espressione
– un’ulteriore e doppia complicazione se ad essere coinvolto nel duplice procedimento
amministrativo e penale è anche un ente. In termini più semplici, al già menzionato doppio
binario amministrativo-penale, tarato sulla persona fisica, si aggiunge il binario sanzionatorio,
anch’esso doppio, in capo all’ente. Da un lato, opera il disposto dell’art. 25 sexies del
D.Lgs. n. 231/2001 che concerne la responsabilità dell’ente per i reati di market abuse
previsti dalla Parte V, Titolo I bis, Capo II del TUF e dall’altro, può trovare applicazione
la recente figura di responsabilità ex art. 187 quinquies TUF per cui l’ente è responsabile
del pagamento di una somma pari all’ importo della sanzione amministrativa irrogata nei
confronti dei suoi esponenti per gli illeciti di cui al Capo II. Trattasi della “versione amministrativa” degli illeciti di abuso di mercato, commessi nel suo interesse o a suo vantaggio,
da parte dei suoi apicali o subordinati1.
1La nuova figura di responsabilità dell’ente, derivante dalla commissione di un illecito amministrativo ed introdotta
con la L. n. 62/2005, pur prevendendo un criterio di imputazione ispirato al modello di incriminazione del Decreto
n. 231/2001, non corrisponde in toto alla struttura della responsabilità da illecito amministrativo dipendente da reato;
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
Il quadro è quindi, come emerge da tale breve disamina, espressivo di un sistema
caotico, affastellato e che pone seri problemi strutturali a fronte di un cumulo sanzionatorio
di “draconiana memoria” cui fa da sponda una sostanziale “identità del fatto” con buona
pace delle istanze garantiste della dottrina più attenta ai rapporti tra i diversi giudicati e
al principio di double jeopardy.
Ed invero, occorre porsi un quesito di principio. Quali le ragioni di un intervento
repressivo di duplice natura e di considerevole peso afflittivo nel settore dei market abuse?
In altri termini, perché la criminalità finanziaria, ed in particolare la manipolazione del
mercato, in un certo senso, suscita tanto timore?
Storicamente, il reato di aggiotaggio2 ha vissuto una fase applicativa di grande rilievo
fino agli anni ’50. Si tratta del periodo che Pedrazzi definiva come “l’età d’oro”3 di tale
fattispecie e che è tramontata al volgere di quel decennio quando le epidemie speculative
a danno dei risparmiatori si sono pian piano esaurite. E tuttavia, a ben vedere, la deriva
che hanno preso i mercati soprattutto a partire dagli anni ‘2000 ha condotto ad una
recrudescenza del fenomeno manipolativo cosicché può dirsi che la tendenza ad alterare
il corso dei prezzi delle merci, dei titoli e più generalmente dei valori, è ben lungi dall’essere estirpata4. Agli occhi di un osservatore attento non sfugge come le recenti manovre
speculative sui titoli di stato europei, troppo spesso sganciate da un sostrato materiale
tangibile, abbiano riportato in auge l’operatività della fattispecie di aggiotaggio cui si è
affiancato un arsenale repressivo dal peso specifico notevole.
Anche in questo settore – come in molti altri ormai, a fronte di una “comunitarizzazione”
sempre più spinta, – si rinvengono influssi di tutela di matrice sovranazionale legati ad una
esigenza di protezione che non stridesse troppo con le libertà economiche vessillo della
Comunità Europea e le scelte di incriminazione quasi di tipo emergenziale adottate dal
nostro legislatore nazionale5. Ci si riferisce, inter alia, alla migrazione dalla L. n. 157/1991 al
né perfettamente sovrapponibile ad altre ipotesi di responsabilità solidale e sussidiaria di soggetti collettivi. In questo
senso si vedano, a titolo esemplificativo, gli artt. 195 e 196 TUF, l’art. 6, L. n. 689/1981. In dottrina si vedano tra gli
altri Fondaroli D., La responsabilità dell’ente, in Sgubbi-Fondaroli-Tripodi, Diritto penale del mercato finanziario,
Padova, p. 193 che precisa che «l’art. 187 quinquies (…) non stabilisce un’autentica sanzione, ma ascrive all’ente l’obbligo, nei casi indicati, di corrispondere una somma pari all’importo della sanzione amministrativa irrogata per i corrispondenti illeciti» osservandosi che tale somma non è ancorata ai parametri del Decreto n. 231/2001 e che equivale
a quella irrogata, nel senso di già inflitta alla persona fisica responsabile dell’illecito amministrativo e Santi F., La
responsabilità delle “persone giuridiche” per illeciti penali ed amministrativi di abuso di informazioni privilegiate e
di manipolazione del mercato, in Banca e Borsa, 2006, p. 101.
2In seguito al recepimento e all’attuazione della disciplina comunitaria (Direttiva 2003/06/CE) la configurazione della
fattispecie di aggiotaggio ha subito progressivi aggiustamenti nella collocazione sistematica. Se la versione originaria dell’art. 2637 c.c. pur avendo un’”anima” multiforme e prevedendo che «chiunque [avesse] diff[uso] notizie false,
ovvero [avesse] po[sto] in essere operazioni simulate o altri artifici concretamente idonei a provocare una sensibile
alterazione del prezzo di strumenti finanziari, quotati o non quotati, ovvero ad incidere in modo significativo sull’affidamento che il pubblico ripone nella stabilità patrimoniale di banche o di gruppi bancari, [sarebbe stato] punito con
la pena della reclusione da uno a cinque anni» e quindi facendosi convivere all’interno della medesima disposizione
varie fattispecie riconducibili a tale figura di reato, il legislatore della riforma del diritto penale societario (con la L. n.
61/2002) ha prodotto una parcellizzazione delle ipotesi a secondo dell’oggetto materiale del reato medesimo.
3Pedrazzi C., Problemi del delitto di aggiotaggio, 1958, oggi in Pedrazzi, Diritto penale IV, Scritti di diritto penale
dell’economia, Milano, 2003, p. 3., ripreso in Vizzardi M., Manipolazione del mercato: un “doppio binario” da ri‑
pensare?, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2006, p. 704.
4Conti L., Rialzo e Ribasso fraudolento di prezzi o valori (voce), in Nov. dig. it., 1968, p. 843.
5Per una lucida analisi delle recenti evoluzioni del diritto penale economico si veda Flick G., Dall’andante con moto
all’adagio ma non troppo e viceversa a variazioni sul tema del diritto penale dell’economia, in Banca borsa tit. cred.,
2011, p. 424.
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TUF del delitto di abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 1846 quasi a sottolinearne
la funzione di tutela rivolta al mercato e al suo corretto funzionamento, così come alla
manipolazione di mercato, originariamente contemplata nell’articolo 2637 c.c. quale
aggiotaggio alla predisposizione del sistema del c.d. “doppio binario” sanzionatorio penaleamministrativo, come detto, per le due ipotesi di market abuse, fino all’”artiglieria pesante”
in ottica sanzionatoria.
Causa scatenate di tutto questo rinnovato interesse penalistico al mercato finanziario
è stata un fenomeno “tutto economico” di portata così dirompente da mutare i
tradizionali schemi di accantonamento e di trasmissione della ricchezza, ovvero la sua
finanziarizzazione7. Per alcuni Autori che la volatilizzazione della nozione di ricchezza
portasse con sé in luce anche i germi dell’aggiotaggio, ovvero della “manipolazione”, era
probabilmente prevedibile8. «Negli Stati Uniti, Paese nel quale il mercato finanziario ha
conosciuto un precoce sviluppo, fin dal 1934 (con l’emanazione del Securities Exchange
Act) l’ordinamento fa seriamente i conti con il fenomeno. Quel che è certo, comunque, è
che anche il mercato europeo, negli ultimi tempi, è stato afflitto da imponenti “epidemie
speculative” e da “frodi incredibili macchinate ai danni dei risparmiatori”, che ne hanno
segnato profondamente il volto: l’entusiasmo per una ricchezza costruita sulla speculazione
di borsa, su “nuovi mercati” e “nuove economie”, nonché su titoli di credito con facili e
straordinari rendimenti, si è disastrosamente infranto contro una realtà di “diffuso costume
di rapacità senza scrupoli ai massimi livelli”»9.
Il conto di questa sempre maggiore dispersione e rarefazione del concetto di risparmio,
ora più che mai impiegato direttamente come investimento nei mercati finanziari, è stato
“salato” e troppo spesso a carico di una comunità di azionisti che “affronta il rischio con
6Il reato di insider trading è stato introdotto nel nostro ordinamento dalla L. 17 maggio 1991, n. 157 (“Norme relative
all’uso di informazioni riservate nelle operazioni in valori mobiliari e alla Commissione nazionale per le società e
la borsa”), in attuazione della Direttiva 89/592/CEE. La sua “storia giuridica” è alquanto emblematica, come spiega
Sgubbi F., L’abuso di informazioni privilegiate, in Sgubbi F., Fondaroli D.,Tripodi A.F., Diritto penale del mer‑
cato finanziario, Padova, 2013, p. 32. L’Autore mostra che «all’indifferenza dell’ordinamento giuridico per le pratiche
di insider trading ha fatto seguito l’opposta scelta politico-criminale, accompagnata nel corso degli anni da una crescente attenzione del legislatore, e negli ultimi tempi, della stessa giurisprudenza. Storicamente l’opzione punitiva
delle condotte in esame non è stata suffragata in modo unanime dalle dottrine economiche, dal momento che secondo
taluni orientamenti [tali] pratiche addirittura gioverebbero all’efficienza del mercato. Oggi si è concordi nel rilevare la
dannosità del fenomeno, restando comunque aperto il dibattito sulla tipologia di sanzione da adottare per arginarlo».
Per una più dettagliata disamina dell’esperienza americana sul tema dell’insider trading e più in generale dei cc.dd.
white collar crimes si ricorda Green, I crimini dei colletti bianchi. Mentire e rubare tra diritto e morale, ed. italiana
a cura di Basile, Milano, 2008.
7Sgubbi F., Il risparmio come oggetto di tutela penale, in Giur. Comm., 2005, 340 per cui «tratti qualificanti l’odierna
forma di risparmio, che si caratterizza per la confluenza diretta delle risorse del mercato finanziario per mezzo di
strumenti contrattuali aventi ad oggetto prodotti finanziari, sono l’elevata rischiosità dell’operazione negoziale quanto
alla futura restituzione delle risorse e l’estrema complessità dei requisiti dello scambio tra bene presente (il denaro) e
la promessa di un bene futuro (la restituzione) per la cui comprensione è richiesto un ingente patrimonio conoscitivo
e una costante acquisizione di informazioni». Si veda anche Musco E., Masullo M.N., I nuovi reati societari, Padova,
2007.
8Vizzardi, op. cit., p. 705.
9Vizzardi, op. cit., p. 705.
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eccitazione”10, quasi in modo “giocoso”, utilizzandosi una espressione sia pur impropria
ma mutuata dalla dottrina economica più recente11.
Le tinte fosche di questo scenario hanno giustificato su più fronti – sia “dal basso”
che “dall’alto” – la deriva interventista al fine di restituire al mercato, o sarebbe meglio
dire, con la speranza di restituire al mercato, al più presto, un’immagine di efficienza ed
integrità. E la levata di scudi, il “moto di protesta” dell’opinione pubblica ferita nelle tasche
e nell’affidamento generale nei confronti dell’entità-mercato ha spinto per un cambiamento
di indirizzo. Ed il legislatore, mai come stavolta attento alle istanze emozionali provenienti
dal basso, si è sentito letteralmente in dovere di dare una risposta decisa al problema,
configurando un sistema che apparisse sufficientemente dinamico da adeguarsi alla rapida
evoluzione dell’economia finanziaria e realmente in grado di sanzionare qualsiasi condotta
percepita dal mercato come “abusiva”. Tali intenti sicuramente positivi hanno davvero
ricevuto un plauso concreto?
Ed infatti a livello comunitario, l’esigenza di lanciare un segnale forte al pubblico
dei risparmiatori si è tradotta dapprima nella direttiva 2003/6/CE – alla quale si sono poi
affiancate le direttive di attuazione 2003/72/CE, 2003/124/CE e il regolamento 2273/2003/
CE – destinata ad orientare gli Stati membri nella definizione di una nuova disciplina
di contrasto all’“abuso di informazioni privilegiate” e alla “manipolazione del mercato”.
Lo sfondo di intenti sul quale si innesta la direttiva, del resto, appare fra le righe dei
“considerando” che precedono le disposizioni vere e proprie. Il legislatore comunitario
ricorda che un «mercato finanziario integrato ed efficiente non può esistere senza che se
ne tuteli l’integrità» (considerando n. 2); che «gli abusi di mercato ledono l’integrità dei
mercati e compromettono la fiducia del pubblico nei valori mobiliari e negli strumenti
derivati» (considerando n. 2); che «l’abuso di informazioni privilegiate e la manipolazione
del mercato sono di ostacolo alla reale e piena trasparenza del mercato» (considerando n.
15); che vi è «la necessità di garantire l’integrità del mercato attraverso un monitoraggio
attento e reattivo dell’innovazione finanziaria» e «la necessità di creare condizioni di parità
per tutti i partecipanti del mercato» (considerando n. 43).
L’opzione di fondo è stata dunque, a livello comunitario, quella di rafforzare la difesa
del mercato finanziario. Ma come? Attraverso quali strumenti? Attraverso quali gangli
normativi? La risposta è tutta contenuta all’art. 14 della direttiva 2003/6/CE, che – utilizzando
la formula tipica che faceva salvo il diritto degli Stati membri di imporre sanzioni penali
– ha imposto agli stessi di predisporre, a carico di coloro che avrebbero violato le norme
di attuazione, misure amministrative “efficaci, proporzionate e dissuasive” nell’ottica di
una maggiore immediatezza ed efficacia che contraddistingue il sistema sanzionatorio
amministrativo.
10Ferrarese M.R., Il diritto al presente: globalizzazione e tempo delle istituzioni, Bologna, 2002, p.41 come anche
Sgubbi, L’abuso di informazioni privilegiate, Padova, p. 33. In particolare Vizzardi, op. cit., p.705 evidenzia che
«la vera sconfitta è stata del mercato finanziario nel suo complesso, dimostratosi privo di una regolamentazione forte,
povero di misure di prevenzione, presidiato da agenzie e autorità di vigilanza senza reali poteri di controllo e di repressione. Il mercato finanziario, in altre parole, ha mostrato la propria fragilità di fronte ai possibili abusi, e ciò ha
comportato la perdita di buona parte della sua credibilità agli occhi dei risparmiatori».
11Sgubbi F., ult. op. cit., Padova, 2013, p.33 che recupera la tesi dello studioso Hiuzinga sull’homo ludens e il suo
atteggiamento “giocoso” nei confronti del rischio.
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Ed invero accanto all’imposizione agli Stati membri di configurare un apparato
sanzionatorio di natura schiettamente amministrativa, eventualmente complementare a
quello penale, si è altresì cercato di irrobustire il ruolo e i poteri delle autorità nazionali
di vigilanza perché verosimilmente considerate in sede comunitaria come le uniche davvero
in grado di effettuare un controllo ed un monitoraggio costante e a lungo termine del
mercato, di intervenire fornendo indicazioni tecniche rispetto a singoli comportamenti
operativi da parte degli addetti ai lavori, di infliggere tempestivamente sanzioni efficaci e
di fornire un contributo essenziale all’autorità giudiziaria, laddove si debbano accertare
responsabilità anche penali 12.
Il legislatore italiano, chiamato a dare attuazione alle indicazioni – molto dettagliate –
del legislatore comunitario, ha deciso così di costruire un sistema di tutela effettivamente
a “doppio binario”: l’art. 9 della legge comunitaria del 2004, entrata in vigore nel maggio
del 2005, ha provveduto ad inserire nella parte V del TUF un titolo I bis rubricato “Abuso
di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato”, che è andato a sostituire,
abrogandola, la vecchia disciplina in materia di insider trading e di aggiotaggio su strumenti
finanziari quotati già contemplata, rispettivamente, negli artt. 180 TUF per la fattispecie
amministrativa e 2637 c.c. per la fattispecie penale. La medesima legge ha introdotto il
“doppio binario”, come già detto, anche per gli enti13.
Ora, una riflessione ulteriore. Quali i rapporti tra le due tipologie di fattispecie penale
per un verso ed amministrativa per l’altro, dato un presidio di tutela tutto costruito ed
incentrato intorno alla presenza di disposizioni sanzionatorie sì di natura diversa ma che
strutturalmente non divergono in maniera così netta? Il “gioco di specchi” prosegue dato
che ad esplicitare i rapporti tra la fattispecie interviene una clausola di apertura riprodotta
in modo identico tanto all’art. 187 bis che all’art. 187 ter TUF e che punta a segnare il
confine con il “penalmente rilevante” attraverso la formula sufficientemente ambigua “salve
le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato”.
12Rondinelli M., Il ruolo della Consob nella disciplina degli abusi di mercato: funzioni e poteri. Art. 187 octies. Poteri
della Consob, in Le Nuove Leggi Civili, 2007, p. 1079 e Rordorf R., Ruolo e poteri della Consob nella nuova disci‑
plina del market abuse, in Soc., 2005, p. 817. Invero la Direttiva 2003/06/CE ha precisato la necessità per ciascuno
Stato di designare “una sola autorità di vigilanza” “avente carattere di organo amministravo” (considerando n. 36); ha
evidenziato l’importanza di “un insieme minimo di strumenti e poteri forti” per garantire l’efficacia della sua opera
di vigilanza (considerando n. 37); ha dettato un elenco minino di poteri da attribuirle, fra i quali compaiono il potere
di richiedere “registrazioni telefoniche”, “il congelamento ovvero il sequestro dei beni”, “la temporanea interdizione
dall’esercizio dell’attività professionale”, nonché il potere di “eseguire ispezioni in loco” (art. 12).
13Vizzardi, op. cit., p. 706 il quale spiega bene come «l’aspetto più problematico di un simile impianto normativo è
che l’accertamento della responsabilità dell’ente, proprio come avviene in relazione alla persona fisica, è affidato alla
giurisdizione penale quando deriva dalla commissione del reato di cui all’art. 185 TUF, mentre un analogo accertamento è affidato alla Consob, allorché scaturisce dalla commissione dell’illecito amministrativo di cui all’art. 187 ter
TUF. Se infatti il “doppio binario” – al di là dei problemi di coordinamento che pone – risulta comprensibile in relazione alle persone fisiche, posta la diversità strutturale fra le sanzioni amministrative e quelle penali (queste ultime
possono includere anche misure restrittive della libertà personale, aliene invece all’ordinamento amministrativo), più
difficilmente si comprendono le ragioni che fondano la creazione di due piani distinti di responsabilità in relazione
all’ente, data la natura (almeno formalmente) amministrativa della sua responsabilità, sia che essa derivi dalla commissione di un reato, sia che essa scaturisca da un illecito amministrativo. Peraltro il “doppio binario” introdotto per
gli enti – che di fatto costituisce, come ha rilevato attenta dottrina, un “sottosistema” del “sottosistema” congegnato
dal D.Lgs. n. 231/2001 – non si giustifica nemmeno in relazione alla specie delle sanzioni comminate all’ente per la
“manipolazione del mercato”: se il legislatore avesse infatti previsto la possibilità di infliggere sanzioni interdittive in
caso di responsabilità da reato e, viceversa, avesse comminato solo sanzioni pecuniarie per la responsabilità derivante
dall’illecito amministrativo, la scelta di due differenti procedimenti (innanzi al giudice penale e innanzi alla Consob)
sarebbe stata in qualche misura giustificabile, poiché la minore invasività delle sanzioni amministrative pecuniarie
avrebbe forse reso accettabile una rinuncia alle garanzie proprie del processo penale; ma il legislatore ha previsto a
carico dell’ente, in entrambe le ipotesi, sanzioni esclusivamente pecuniarie, seppure di diversa entità.
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Sciogliere il nodo gordiano dell’oscurità di questa espressione non è un compito semplice.
Chi si è cimentato nella sua decodificazione scomodando i prolegomeni dell’interpretazione
delle norme giuridiche ha fornito letture diverse. Alcuni Autori hanno ritenuto operativo
il principio di consunzione, nel senso che in caso di concorso formale fra le due figure
(quella penale e quella amministrativa), il delitto escluderebbe (“consumandolo”) l’illecito
amministrativo14. Altra dottrina conviene che la clausola costituisca una deroga al principio
di specialità sancito dall’art. 9 L. n. 689/1981, nel senso che la sanzione amministrativa
non pregiudicherebbe il procedimento penale qualora i fatti fossero sussumibili anche nella
fattispecie di reato15. A sostegno di questa seconda tesi sembrerebbe deporre il disposto
dell’art. 187 terdecies TUF, il quale stabilisce che «quando per lo stesso fatto è stata
applicata a carico del reo o dell’ente una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell’art.
195, la esazione della pena pecuniaria e della sanzione pecuniaria dipendente da reato
è limitata alla parte eccedente quella riscossa dall’Autorità amministrativa». Tale seconda
interpretazione punta quindi sul fatto che la stessa legge contempla espressamente la possibilità che entrambi i procedimenti (quello innanzi al giudice penale e quello innanzi alla
Consob) giungano a conclusione per i medesimi fatti.
È pur vero, però, che far convivere in modo “pacifico” tali illeciti ontologicamente diversi,
ma strutturalmente troppo simili, è impresa difficile perché diverse sono le procedure e le
interazioni tra le stesse rischiano di vanificare le istanze di garanzia di matrice costituzionale
proprie del diritto penale.
Sul piano strettamente processuale, innanzitutto, preoccupa il ruolo ambiguo della
Consob, che da un lato è “sovrana” del procedimento amministrativo – gestendo sia la
funzione istruttoria che quella decisoria, sia pure con le mitigazioni ad opera della delibera
Consob n. 18750 del 19 dicembre 2013 (v. infra) che ha tentato di aggiustare il tiro in termini
di garanzie e tutele – e dall’altro interagisce nel procedimento penale, in più momenti
dello stesso. In tale ultimo riguardo, infatti, l’autorità di vigilanza del settore può, in primo
luogo, dare l’impulso al procedimento penale per cui il Presidente della Consob, laddove
emergano “elementi che facciano presumere l’esistenza di un reato”, raccolti mediante
sequestri, ispezioni, intercettazioni, perquisizioni ed avvalendosi a tal fine della Guardia di
finanza (art. 187 octies TUF), deve trasmettere al Pubblico Ministero una relazione scritta
con la documentazione allegata (art. 187 decies, comma 2, TUF). La Consob assume, poi,
un ruolo attivo nel processo penale. Non solo, come accadeva nella previgente disciplina,
esercitando “i diritti e le facoltà attribuite dal codice di procedura penale agli enti e alle
associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato” (art. 187 decies comma 1, TUF) ma
anche costituendosi parte civile, per ottenere la riparazione “dei danni cagionati dal reato
all’integrità del mercato” (art. 187 decies, comma 2, TUF).
Sul piano sostanziale, «incombe invece il rischio che la Consob, con le sue doti di
“ubiquità”, finisca per esportare la “comoda elasticità”16 della fattispecie amministrativa
– giustificata, nell’impianto sanzionatorio amministrativo, da esigenze di “effettività” –
14Paliero C.E., “Market abuse” e legislazione penale: un connubio tormentato, in Il Corriere del merito, 7, 2005, p.
811.
15Lunghini G., La manipolazione del mercato, in Dir. pen. e proc., 2005, p. 1479.
16L’efficace espressione, utilizzata in un contesto diverso, è di Pedrazzi C., Il concorso di persone nel reato, 1952, oggi
in Pedrazzi, Scritti di parte generale, Milano, 2003, p. 93 e ripresa da Vizzardi, op. cit., p. 706.
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nella fattispecie penale»17. Gli effluvi amministrativi nella fattispecie penale potrebbero
condurre a conseguenze molto pericolose vuoi perché la fattispecie penale, per come è
stata formulata, non brilla certo per precisione, vuoi perché la Consob, intervenendo nel
processo penale come parte civile, è l’interlocutore del giudice più accreditato in materia di
mercato finanziario, e dunque il suo contributo avrà un peso determinante sulla formazione
del convincimento del giudice circa la natura manipolativa delle condotte incriminate.
Il presente contributo non ha da prendere posizione sulle scelte compiute dal legislatore,
ma vuole illustrare, senza pretese di esaustività, alcuni recenti sviluppi normativi e
applicazioni giurisprudenziali.
In particolare, al termine di una breve illustrazione del quadro normativo attuale (§ 2),
si forniranno alcune delucidazioni sul nuovo procedimento sanzionatorio amministrativo
mutato di recente (§ 3), su alcune applicazioni giurisprudenziali (§ 4) per finire con una
breve sintesi delle novità introdotte dalle recenti disposizioni di matrice comunitaria in
tema di market abuse (§ 5).
2. Quadro normativo vigente
2.1. Aspetti penali
Il legislatore italiano si è preoccupato di assicurare il corretto funzionamento del mercato,
allo scopo di tutelare la fiducia risposta dai cittadini nell’attività degli operatori economicifinanziari che gestiscono il loro risparmio.
A tal fine, sono state individuate una serie di condotte che, in alcuni casi, oltre a poter
configurare gli illeciti amministrativi, potrebbero altresì integrare fattispecie penalmente
sanzionate.
Si procederà pertanto, qui di seguito, ad alcuni sommari cenni sulle fattispecie
incriminatrici che possono rilevare in caso di violazione delle norme predisposte a tutela del
mercato. In ordine: (a) abuso di informazioni privilegiate (art. 184 TUF); (b) manipolazione
del mercato (art. 185 TUF); (c) ostacolo alle funzioni di vigilanza della Consob (art. 170
bis TUF) e (d) falso in prospetto (art. 173 bis TUF).
2.1.1. Abuso di informazioni privilegiate
La prima fattispecie di reato che rileva in tema di abuso di mercato è l’art. 184 TUF, che
sanziona l’“abuso di informazioni privilegiate”. Si tratta del c.d. reato di insider trading.
L’art. 184 TUF punisce, con la reclusione da due a dodici anni e con la multa da euro
ventimila a euro tre milioni, chiunque, essendo in possesso di informazioni privilegiate,
in ragione della sua qualità, acquista, vende o compie altre operazioni su strumenti
finanziari utilizzando le informazioni medesime ovvero comunica tali informazioni o ancora
raccomanda o induce altri, sulla base di esse, al compimento di taluna delle operazioni
anzidette.
17Vizzardi, op. cit., p. 707 Secondo l’Autore il reale pericolo sarebbe quello di una giurisprudenza che si affidi con
un eccesso di leggerezza, nella selezione delle condotte di manipolazione penalmente rilevanti, a quanto stabilito di
volta in volta dalla Consob nel procedimento parallelo per l’accertamento dell’illecito amministrativo, trasformando
così la norma penale in uno strumento di repressione adeguabile al caso concreto: con buona pace, ovviamente, del
principio di legalità.
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Il legislatore punisce diverse condotte, compiute da un soggetto qualificato, che la
norma stessa individua in colui che si trova in possesso di informazioni privilegiate in
ragione della sua qualità di membro di organi di amministrazione, direzione o controllo
dell’emittente, della partecipazione al capitale emittente, ovvero dell’esercizio di un’attività
lavorativa, di una professione o di una funzione, anche pubblica, o di un ufficio; oppure in
colui che, trovandosi in possesso di informazioni privilegiate, per via della preparazione o
esecuzione di attività delittuose compie taluna delle azioni di cui sopra (art. 184 comma
II TUF). Si tratta del c.d. criminal insider.
La norma descrive un reato proprio. Giurisprudenza e dottrina hanno specificato che
può essere soggetto attivo non solo il corporate insider ma anche il temporary insider 18. Si
noti, poi, che nelle precedenti normative (quella del 1991, con parziale mutamento con
l’art. 180 comma II TUF) erano sanzionate penalmente non solo le condotte dell’insider
primario ma altresì quelle dell’insider secondario, ossia colui che apprende la notizia in
via mediata dai primi19. Attualmente, invece, la condotta del c.d. autore mediato non è
punita penalmente se non a titolo di concorso ai sensi dell’art. 110 c.p.
Nel descrivere la fattispecie, assume centrale importanza il concetto di “informazione
privilegiata”.
Dalla definizione fornita dal legislatore nell’art. 181, commi 1 e 4, TUF vengono in
risalto i seguenti elementi. L’informazione è privilegiata se precisa e concernente uno o
più emittenti strumenti finanziari o uno o più strumenti finanziari, se non è stata resa
pubblica e se, resa pubblica, potrebbe influire in modo sensibile sui prezzi di tali strumenti
finanziari. Il comma 4 specifica che corrisponde a questa descrizione quella informazione
che presumibilmente un investitore ragionevole utilizzerebbe come uno degli elementi su
cui fondare le proprie decisioni di investimento20.
L’insider trading punisce le seguenti condotte: (i) la condotta attiva del soggetto qualificato
che acquista, vende o compie altre operazioni, per conto proprio o di terzi, su strumenti
finanziari, utilizzando le informazioni privilegiate (lett.a art. 184 TUF) e (ii) le c.d. condotte
di tipping e tuyautage, ossia la comunicazione dell’informazione privilegiata ad altri, al
di fuori del normale esercizio del lavoro, della professione, della funzione o dell’ufficio
e la raccomandazione o l’induzione al compimento di una operazione di cui alla lett. a)
(lett. b) e c) art. 184).
Perché sia configurabile il reato occorrerà che il soggetto attivo abbia agito con dolo,
ossia che abbia utilizzato, consapevolmente, l’informazione privilegiata, ottenuta in ragione
della sua professione/ufficio ovvero che abbia la coscienza e la volontà di trasmettere a
terzi l’informazione o di raccomandare o indurre al compimento dell’operazione sulla base
della notizia detenuta.
18Si veda Cass. 26943/2006 che ha precisato sul punto: “il soggetto attivo … può essere non soltanto colui che ha un
ruolo all’interno della società emittente i titoli cui le informazioni si riferiscono, ma anche chi sia in possesso di tali
informazioni in ragione dell’esercizio di un’attività lavorativa, di una professione, di una funzione o di un ufficio”.
19In Sgubbi F., Diritto Penale del Mercato Finanziario, Padova, 2013, p. 39, ove si chiarisce il punto con l’esempio del
tassista che assiste al colloquio tra due passeggeri dirigenti di una società ovvero della donna delle pulizie che trovi
nella spazzatura una notizia sensibile non ancora pubblicata. Il disvalore tra la condotta del tassista o della donna
delle pulizie rispetto alla condotta dell’insider primario sta nell’“approfittamento di una situazione di vantaggio informativo fisiologico”. Detto ciò, si ipotizza una incoerenza del sistema descritto rispetto al bene tutelato dalla norma: il
corretto funzionamento del mercato, difatti, è alterato dalla condotta di entrambi i tipi di insider.
20Sulla nozione di “informazione privilegiata” si veda Cass. Pen. 8588/2010 in Leggi d’Italia Online.
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Non sarà invece necessario, ai fini dell’integrazione della fattispecie, il conseguimento
di un profitto da parte dell’insider, perché il bene giuridico tutelato dalla norma è la tutela
del corretto funzionamento del mercato che si realizza evitando la formazione di posizioni
di privilegio informativo.
Secondo un profilo intertemporale, la Suprema Corte ha affermato che tra la precedente
disposizione (art. 180 D.Lgs. n. 58/1998 pre-riforma L. n. 62/2005) e l’attuale formulazione
del reato (art. 184 TUF) sussiste “continuità normativa, atteso che il nucleo di disvalore del
fatto, l’abuso di informazioni privilegiate, è rimasto immutato” (Cass. Pen. 26943/2006,
conf. 48005/2008).
Nel caso della fattispecie in esame sarà competente a giudicare del fatto il giudice del
luogo in cui si è conclusa la negoziazione su strumenti finanziari, utilizzando l’informazione
privilegiata, ovvero il giudice del luogo in cui si riceve l’informazione o la raccomandazione.
Nel caso, invece, in cui alla comunicazione segua il compimento dell’operazione sarà
competente il giudice del luogo in cui avviene la comunicazione, quale “antecedente
logico” ai sensi dell’art. 16 c.p.p. (GIP Siracusa, 10 aprile 1997).
Per l’insider trading (come per la manipolazione del mercato, v. par. successivo) il
legislatore ha previsto, oltre alla gravosa pena principale della reclusione da due a dodici anni
e della multa da euro ventimila a euro tre milioni (art. 184, comma 1, TUF), una serie di pene
accessorie indicate dall’art. 186 TUF (interdizione dai pubblici uffici, interdizione da una
professione o da un’arte, interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche
e delle imprese, incapacità di contrarre con la P.A. e pubblicazione della sentenza).
Inoltre, in caso di condanna per il reato di cui all’art. 184 TUF (come per l’art. 185
TUF) è disposta la confisca del prodotto o del profitto conseguito dal reato e dei beni
utilizzati per commetterlo e, in caso di impossibilità a eseguirla, è disposta la confisca c.d.
per equivalente di una somma di denaro o beni di valore appunto equivalente a quello
del prodotto o del profitto.
In relazione alla confisca, si è disquisito sulla sua applicazione retroattiva, ossia ci si
è domandati se a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 62/2005, che ha introdotto
nella parte V del TUF (sanzioni) l’intero titolo I bis (abuso di informazioni privilegiate e
manipolazione del mercato), si dovesse applicare la confisca anche alle violazioni commesse
anteriormente alla data di entrata in vigore della suddetta legge.
In un primo tempo, partendo dalla tradizionale qualificazione della confisca quale
misura di sicurezza e dall’art. 9, comma 6, della L. n. 62/2005, che stabilisce l’applicabilità
della stessa anche ai procedimenti in corso, si concludeva per la retroattività della confisca,
in quanto ai sensi dell’art. 200 c.p. il divieto di retroattività non opera per le misure di
sicurezza.
Successivamente, assumendo invece che la confisca ha natura sanzionatoria e che
perciò risulta più assimilabile a una sanzione penale, si è diversamente concluso per
l’irretroattività della confisca21.
L’art. 184 TUF (come la manipolazione del mercato) è altresì reato presupposto ai sensi
del D.Lgs. 231/2001 (art. 25 sexies).
21Si veda sul punto, T. Milano, III sez., 26 ottobre 2007 per la retroattività della confisca e da ultimo C. App. Milano, sez.
II, 30 gennaio 2009, in foro ambrosiano, 2009, p. 88. 207
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Da ultimo si sottolinea che l’abuso di informazioni privilegiate, oltre a essere punito
quale delitto, a titolo di dolo generico è punito altresì quale contravvenzione (art. 184, co.
3 bis, TUF), sia a titolo di dolo sia a titolo di colpa, con l’ammenda fino a euro centotremila
e duecentonovantuno e dell’arresto fino a tre anni “nel caso di operazioni relative agli
strumenti finanziari di cui all’art. 180, comma 1, lett. a), numero 2”.
2.1.2. Manipolazione del mercato
Un’altra fattispecie di reato prevista dal TUF, a seguito della riforma della L. 62/2005, è
l’art. 185 che sanziona le condotte di manipolazione del mercato22, punendo con la reclusione
da due a dodici anni e con la multa da euro ventimila a euro cinque milioni, chiunque
diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate o altri artifizi concretamente
idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari.
La lettera della norma sembrerebbe descrivere la medesima condotta sanzionata
dall’art. 2637 c.c. (aggiotaggio)23. In realtà la norma del codice civile, salva la parte relativa
all’aggiotaggio bancario, ha un’applicazione residuale rispetto all’art. 185 TUF.
La differenza sta nell’oggetto materiale della condotta. L’art. 2637 c.c. si applica – come
si esprime la norma – agli strumenti finanziari non quotati o per i quali non è stata presentata
una richiesta di ammissione alle negoziazioni in un mercato regolamentato. Diversamente,
l’art. 185 TUF si applica agli strumenti finanziari quotati o per i quali è stata presentata
una domanda di ammissione alle negoziazioni in un mercato regolamentato UE.
Le disposizioni non potranno, perciò, concorrere: l’art. 185 TUF, fattispecie più grave
rispetto all’art. 2637 c.c., assorbirà la fattispecie civilistica.
Analizzando più nel dettaglio la manipolazione del mercato risulta quanto segue.
Il bene giuridico tutelato dalla norma è sempre il corretto funzionamento del mercato,
con particolare riguardo alla corretta formazione del prezzo degli strumenti finanziari. La
finalità perseguita dal legislatore è quindi parzialmente diversa da quella che caratterizza
l’insider trading, che, come anzidetto, tende a prevenire condotte che possano portare alla
formazione di posizioni di vantaggio informativo.
Continuando il raffronto con l’insider trading, la manipolazione del mercato è un
reato comune che punisce la condotta di chiunque diffonde notizie false o pone in essere
operazioni simulate o ancora altri artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile
alterazione del prezzo del mercato: manca quel nesso di strumentalità tra il possesso
dell’informazione privilegiata e la particolare condizione del soggetto attivo, presente invece
nell’art. 184 TUF (reato proprio).
Un tentativo di definire cosa debba intendersi con “manipolazione del mercato” è
compiuto dal legislatore europeo, nell’art. 1, n. 2 direttiva 2003/6/CE24 e nella direttiva
2014/57/UE (v. infra).
22Una definizione dettagliata di cosa debba intendersi con manipolazione del mercato è fornita dal legislatore europeo
nell’art. 1 n. 2 della Direttiva 2003/6/CE.
23L’art. 2637 c.c. punisce “chiunque diffonde notizie false, ovvero pone in essere operazioni simulate o altri artifici concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari non quotati o per i quali
non è stata presentata una richiesta di ammissione alle negoziazioni in un mercato regolamentato, ovvero ad incidere
in modo significativo sull’affidamento che il pubblico ripone nella stabilità patrimoniale di banche o di gruppi bancari
[=aggiotaggio bancario].”.
24La Direttiva 2003/6/CE, all’art. 1, n. 2) definisce con “manipolazione del mercato” le seguenti operazioni: a) operazioni
o ordini di compravendita: – che forniscano, o siano suscettibili di fornire, indicazioni false ovvero fuorvianti in me-
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Un aspetto, dibattuto in ambito giurisprudenziale, che caratterizza la manipolazione
del mercato ed è foriero di importanti riscontri pratici è l’individuazione del tempus e del
locus commissi delicti.
Suddetta problematica deve essere analizzata in rapporto alla natura del reato di cui
all’art. 185 TUF: la manipolazione del mercato è, infatti, un reato di condotta e non
d’evento ed è, in particolare, un reato di pericolo e non di danno. Proprio in considerazione
della sua natura è più complesso per l’interprete identificare il tempo e il luogo in cui la
manipolazione del mercato si consuma.
Scopo dei reati di pericolo è anticipare la tutela del bene protetto dalla fattispecie
criminosa, reprimendo tutte le condotte che lo minacciano anche senza danneggiarlo (nel
nostro caso, quindi, tutte le condotte che pongono in pericolo il corretto funzionamento
del mercato, senza che sia necessario che lo stesso sia effettivamente stato alterato).
È chiaro che nei reati di evento e nei reati di danno, invece, grazie alla presenza di un
dato esteriore (“evento naturalistico”), causativo di un danno all’integrità del bene giuridico
tutelato dalla norma, risulta in via generale più semplice individuare il momento e il luogo
di consumazione del reato rispetto al caso sopra indicato.
In breve, la giurisprudenza si è divisa tra quella che attribuiva maggior rilevanza alla
condotta (es. comunicazione della notizia falsa e compimento dell’operazione) e quella
che si è concentrata sull’evento giuridico richiesto dalla fattispecie, ossia il concretizzarsi
del pericolo di alterazione del mercato.
Sono emblematici sul tema i casi Parmalat25 e Antonveneta26, nonché in ultimo il caso
Fonsai27 (v. infra).
Nel primo caso la Suprema Corte, riponendo maggior attenzione all’aspetto della
condotta e, quindi, argomentando dal fatto che la manipolazione del mercato è reato
rito all’offerta, alla domanda o al prezzo degli strumenti finanziari, ovvero – che consentano, tramite l’azione di una
o di più persone che agiscono in collaborazione, di fissare il prezzo di mercato di uno o più strumenti finanziari ad
un livello anormale o artificiale, a meno che la persona che ha compiuto le operazioni o che ha conferito gli ordini
di compravendita dimostri che le sue motivazioni per compiere tali operazioni o ordini sono legittime e che dette
operazioni o ordini sono conformi alle prassi di mercato ammesse sul mercato regolamentato in questione; b) operazioni o ordini di compravendita che utilizzino artifici o ogni altro tipo di inganno o espediente; c) la diffusione di
informazioni tramite i mezzi di informazione, compreso Internet, o tramite ogni altro mezzo, che forniscano, o siano
suscettibili di fornire, indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti finanziari, compresa la diffusione di
notizie incontrollate o di informazioni false ovvero fuorvianti, se la persona che le ha diffuse sapeva o avrebbe dovuto
sapere che le informazioni erano false o fuorvianti. Con riferimento ai giornalisti che operano nello svolgimento della
loro attività professionale, tale diffusione di informazioni va valutata, fatto salvo l’articolo 11, tenendo conto delle
norme deontologiche proprie di detta professione, a meno che dette persone traggano, direttamente o indirettamente,
vantaggi o benefici dalla diffusione delle informazioni in questione. In particolare dalle definizioni centrali riportate
alle lettere a), b) e c) di cui sopra, derivano i seguenti esempi: – il comportamento di una persona o di più persone
che agiscono in collaborazione per acquisire una posizione dominante sulla offerta o sulla domanda di uno strumento
finanziario che abbia l’effetto di fissare, direttamente o indirettamente, i prezzi di acquisto o di vendita o altre condizioni commerciali non corrette, – l’acquisto o la vendita di strumenti finanziari alla chiusura del mercato con l’effetto
di ingannare gli investitori che agiscono sulla base dei prezzi di chiusura, – l’avvantaggiarsi di un accesso occasionale
o regolare ai mezzi di informazione tradizionali o elettronici diffondendo una valutazione su uno strumento finanziario (o indirettamente sul suo emittente) dopo aver precedentemente preso posizione su quello strumento finanziario,
beneficiando di conseguenza dell’impatto della valutazione diffusa sul prezzo di detto strumento, senza aver allo stesso tempo comunicato al pubblico, in modo corretto ed efficace, l’esistenza di tale conflitto di interessi. Le definizioni
di manipolazione di mercato sono adattate in modo da garantire la possibilità di includere nuovi tipi di attività che in
base alla prassi costituiscono manipolazioni di mercato.
25Cass. Pen. 28932/2011.
26Cass. Pen. 12989/2013.
27Ordinanza T. Torino, sez. IV, 30 gennaio 2014 e Decreto Procura Generale presso la Corte di Cassazione del 11 settembre 2014, n. 284.
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di mera condotta, unisussistente e senza evento naturalistico, ha affermato che la c.d.
manipolazione informativa “si consuma nel momento stesso in cui la notizia, foriera di
scompenso valutativo del titolo, viene comunicata e diffusa e, cioè, esce dalla sfera del
soggetto attivo”.
Diversamente nel caso Antonveneta, la Corte di Cassazione dà risalto all’aspetto per
cui l’art. 185 TUF configura un reato di pericolo concreto, eventualmente permanente, e
perciò conclude affermando che lo stesso si configura: “nel tempo e nel luogo in cui si
concretizza, quale conseguenza della condotta, la rilevante possibilità di verificazione della
sensibile alterazione del prezzo dello strumento finanziario”. In questo caso, il giudice di
legittimità ha ritenuto che, ai fini della consumazione, non fosse sufficiente l’invio della
notizia falsa, occorrendo invece la ricezione della stessa da parte della società di gestione
che la comunicherà al pubblico.
In ultimo, con il caso Fonsai vi è stata una rinnovata attenzione da parte del Tribunale
di Torino alla condotta per individuare il luogo e il tempo di consumazione della c.d.
manipolazione informativa. Il giudice del merito ha ritenuto che, più che la effettiva presa
di conoscenza della notizia, rilevasse una “idonea messa a disposizione [della notizia
falsa] di una pluralità di destinatari” e con ciò ha stabilito che l’invio, avvenuto a Torino,
del comunicato incriminato alla mailing list dell’ufficio relazioni con gli investitori della
società emittente abbia costituito “la prima condotta davvero idonea alla diffusione al
pubblico delle notizie decettive”.
La Procura Generale, con qualche perplessità in dottrina, sembra adottare un nuovo
approccio che farebbe venire in rilievo non già la condotta, bensì il momento in cui è
presa la decisione di compiere la condotta penalmente sanzionata. La Procura Generale
si è espressa sul problema, affermando infatti che il momento consumativo del reato va
collocato nel momento in cui il soggetto attivo decide di palesare all’esterno la condotta
decettiva con qualsiasi mezzo non essendo previsto un mezzo particolare di commissione
del fatto.
Per la manipolazione del mercato, il legislatore ha affiancato alla pena principale una
serie di pene accessorie indicate dall’art. 186 TUF e, in caso di condanna, anche qui, come
per l’insider trading, ha previsto la confisca del prodotto o del profitto conseguito dal reato
e dei beni utilizzati per commetterlo, nonché la confisca c.d. per equivalente.
L’art. 185 TUF (come l’insider trading) è reato presupposto ai sensi del D. Lgs. 231/2001
(art. 25 sexies).
Da ultimo si sottolinea che anche la manipolazione del mercato è punita altresì come
fattispecie contravvenzionale (art. 185, comma 2 bis, TUF) con l’ammenda fino a euro
centotremila e duecentonovantuno e l’arresto fino a tre anni “nel caso di operazioni relative
agli strumenti finanziari di cui all’art. 180, comma 1, lett. a), numero 2”.
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2.1.3. Ostacolo alle funzioni di vigilanza della Consob
Un’altra fattispecie delittuosa prevista a tutela del mercato, che intende garantire l’effettiva
vigilanza da parte della Consob, è l’art. 170 bis TUF che punisce con la reclusione da
un mese a quattro anni e con la multa da euro diecimila a euro duecentomila “chiunque
ostacola le funzioni di vigilanza attribuite alla Banca d’Italia e alla Consob”.
La norma si applica “fuori dai casi previsti dall’art. 2638 c.c.”, che in termini più ampi
punisce l’ostacolo alle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza28.
Vediamo in breve le differenze.
L’art. 170 bis TUF è reato comune che punisce chiunque ostacola le funzioni di
vigilanza attribuite alla Consob, non richiede che la condotta sia compiuta da un soggetto
qualificato e non è reato presupposto nella responsabilità dell’ente disciplinata dal D.Lgs.
n. 231/2001.
L’art. 2638 c.c. invece punisce il soggetto qualificato (amministratori, direttori generali
etc.), che, nelle comunicazioni alle autorità indipendenti, espone fatti non rispondenti al vero
ovvero occulta al fine di ostacolare l’esercizio delle funzioni di vigilanza fatti che avrebbero
dovuto comunicare o, ancora, che in qualsiasi forma, anche omettendo le comunicazioni
dovute alle predette autorità, consapevolmente ne ostacola le funzioni.
L’art. 2638 c.c. è reato presupposto ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001 (art. 25 ter).
2.1.4. Falso in prospetto
Per concludere la panoramica dei reati principali in tema di abuso di mercato, si
indica l’art. 173 bis TUF, che punisce con la reclusione da uno a cinque anni chiunque,
allo scopo di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei prospetti richiesti per
la offerta al pubblico di prodotti finanziari o l’ammissione alla quotazione nei mercati
regolamentati, ovvero nei documenti da pubblicare in occasione delle offerte pubbliche
di acquisto o di scambio, con l’intenzione di ingannare i destinatari del prospetto, espone
false informazioni o occulta dati o notizie in modo idoneo a indurre in errore i suddetti
destinatari.
Tale fattispecie è stata originariamente inserita nel TUF nel 1974 come contravvenzione.
Con la Riforma delle società del 2002 è stata spostata all’interno del codice civile (art.
2623 c.c.). Infine, oggi, a seguito della Riforma sul Risparmio (L. n. 262/2005) il falso in
prospetto è stato nuovamente inserito nel TUF, ma è stato trasformato in una fattispecie
28Art. 2638 c.c. “1. Gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili
societari, i sindaci e i liquidatori di società o enti e gli altri soggetti sottoposti per legge alle autorità pubbliche di vigilanza, o tenuti ad obblighi nei loro confronti, i quali nelle comunicazioni alle predette autorità previste in base alla
legge, al fine di ostacolare l’esercizio delle funzioni di vigilanza, espongono fatti materiali non rispondenti al vero,
ancorché oggetto di valutazioni, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria dei sottoposti alla vigilanza
ovvero, allo stesso fine, occultano con altri mezzi fraudolenti, in tutto o in parte fatti che avrebbero dovuto comunicare, concernenti la situazione medesima, sono puniti con la reclusione da uno a quattro anni. La punibilità è estesa
anche al caso in cui le informazioni riguardino beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi.
2. Sono puniti con la stessa pena gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società, o enti e gli altri soggetti sottoposti per legge alle autorità
pubbliche di vigilanza o tenuti ad obblighi nei loro confronti, i quali, in qualsiasi forma, anche omettendo le comunicazioni dovute alle predette autorità, consapevolmente ne ostacolano le funzioni.
3. La pena è raddoppiata se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell’articolo 116 del testo unico di cui al decreto
legislativo 24 febbraio 1998, n. 58”.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
delittuosa. Ovviamente, lo spostamento dal codice civile al TUF e la trasformazione da
contravvenzione a delitto hanno avuto una serie di risvolti:
(i) non è più applicata la confisca perché non è più applicabile l’art. 2641 c.c. e perché
il TUF dispone la misura della confisca solo per i reati di cui agli artt. 184 e 185 TUF (si
veda l’art. 187 TUF);
(ii) non configura più un reato presupposto della responsabilità amministrativa dell’ente
dipendente da reato;
(iii) infine, il trasferimento dal codice civile al TUF ha comportato un mutamento
nell’attribuzione del reato alla giurisdizione del Tribunale Monocratico anziché a quello
collegiale.
La ratio della norma è la tutela della correttezza e della trasparenza dell’informazione.
Il falso in prospetto punisce quindi la condotta di colui che espone o occulta nei
prospetti dati o notizie idonei a indurre in errore, sempre che la sua condotta sia stata
guidata dallo scopo di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto (dolo specifico) con
l’intenzione di ingannare i destinatari del prospetto (dolo intenzionale).
La fattispecie si consuma nel tempo e nel luogo in cui il prospetto viene diffuso (Cass.
Pen. 8034/2011).
2.2. Gli illeciti amministrativi
Gli abusi di mercato (i.e. l’abuso di informazioni privilegiate e la manipolazione di
mercato), sul piano amministrativo, si sovrappongono alle fattispecie penali e comprendono,
al contempo, comportamenti non punibili penalmente.
Quanto all’abuso di informazioni privilegiate, la fattispecie amministrativa si sovrappone
a quella penale in relazione ai comportamenti sanzionati, ma risulta più ampia in quanto
punisce anche l’insider “secondario” ovverosia l’abuso commesso da chiunque, in possesso di informazioni privilegiate, conoscendo o potendo conoscere in base ad ordinaria
diligenza il carattere privilegiato delle stesse, compie taluni dei fatti vietati.
L’ambito operativo delle fattispecie si differenzia rispetto alla figura criminosa anche in
relazione all’elemento soggettivo, in considerazione della punibilità dell’illecito anche a
titolo di colpa ai sensi dell’art. 3 della L. n. 689/1981. Pertanto non vi è concorso tra i due
illeciti nel caso di insider trading colposo e insider trading secondario i quali sono punibili
solo ai sensi dell’articolo 187 bis TUF29. Non solo: la disciplina dell’illecito amministrativo
si caratterizza anche per l’equiparazione del tentativo alla consumazione.
Complessivamente, quindi, il legislatore delinea delle fattispecie sanzionatorie tanto per
insider primari (ossia coloro che apprendono la notizia privilegiata in ragione della qualità
rivestita o dell’attività svolta in quanto la loro posizione consente un apprendimento diretto
della notizia), quanto per i secondari (ovverosia coloro che apprendono l’informazione
29L’articolo 187 bis TUF punisce con la sanzione amministrativa pecuniaria da € 100.000 a € 15 mln chiunque, in possesso di informazioni privilegiate in ragione della sua qualità di membro di organi di amministrazione, direzione o
controllo dell’emittente, della partecipazione al capitale dell’emittente, ovvero dell’ esercizio di un’attività lavorativa,
di una professione o di una funzione, anche pubblica, o di un ufficio: a) acquista, vende o compie altre operazioni,
direttamente o indirettamente, per conto proprio o per conto di terzi, su strumenti finanziari utilizzando le informazioni medesime; b) comunica informazioni ad altri, al di fuori del normale esercizio del lavoro, della professione,
della funzione o dell’ufficio; c) raccomanda o induce altri, sulla base di esse, al compimento di taluna delle operazioni
indicate nella lettera a).
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in modo mediato, occasionale o passivo) per gli stessi comportamenti puniti a titolo di
reato.
Il discorso cambia per la manipolazione di mercato, la quale, dal punto di vista amministrativo, ha uno spettro applicativo più esteso rispetto alla omonima figura di matrice penale
e all’aggiotaggio ex art. 2637 c.c.30 e ben più frastagliato in quanto l’identificazione delle
pratiche manipolative segue un processo che è stato definito di “specificazione progressiva”31 nel quale intervengono varie fonti normative (la legge, le disposizioni regolamentari
della Consob e le raccomandazioni CESR).
In secondo luogo si osserva che le condotte penalmente rilevanti devono essere
“concretamente” idonee a provocare una sensibile alterazione del prezzo degli strumenti
finanziari, tale elemento non si riscontra nelle fattispecie amministrativa dell’illecito.
Da un punto di vista sostanziale, la manipolazione di mercato mira a sanzionare
quei comportamenti (variamente configurati) idonei a determinare una perturbazione al
fisiologico funzionamento del mercato mobiliare attraverso la distorsione dei meccanismi
sui cui poggia il funzionamento dello stesso.
L’art. 187 ter TUF punisce sia la manipolazione informativa (comma 1, ovverosia quella
che si realizza senza il materiale compimento di operazioni sul mercato, ma con diffusione
di informazioni), sia quella operativa (comma 3, ossia quella che si realizza attraverso il
compimento di una serie di operazione configurate dal legislatore), dettando una disciplina
specifica per l’attività svolta dai giornalisti.
Ai sensi dell’articolo 187 ter TUF, cinque sono le principali figure di manipolazione
di mercato:
– la diffusione, tramite mezzi di informazione, compreso internet o ogni altro mezzo, di
informazioni, voci o notizie false o fuorvianti che forniscano o siano suscettibili di fornire
indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti finanziari (comma 1);
– il compimento di operazioni od ordini di compravendita che forniscano o siano idonei
a fornire indicazioni false o fuorvianti in merito all’offerta, alla domanda o al prezzo di
strumenti finanziari (comma 3, lett. a);
– il compimento di operazioni od ordini di compravendita che consentono, tramite
l’azione di una o di più persone che agiscono di concerto, di fissare il prezzo di mercato
di uno o più strumenti finanziari ad un livello anomalo o artificiale (comma 3, lett. b);
– il compimento di operazioni od ordini di compravendita che utilizzano artifizi od
ogni altro tipo di inganno o di espediente (comma 3, lett. c);
– il compimento di altri artifizi idonei a fornire indicazioni false o fuorvianti in merito
all’offerta, alla domanda o al prezzo di strumenti finanziari (comma 3, lett. d).
La Consob ha fornito ulteriori specificazioni ed elementi al fine di identificare le condotte
manipolative32 il cui tratto distintivo potrebbe essere identificato nel carattere “anomalo”
dell’operazione per dimensione, momento esecutivo, impatto sul mercato, etc. Tali indici
non sono tuttavia esaustivi, il “catalogo” è aperto: il MEF ha facoltà di integrare le fattispecie
30Si veda D’Alessandro F., L’aggiotaggio e la manipolazione del mercato, in Diritto penale delle società, Padova 2010,
897; Sgubbi F., Fondaroli D., Tripodi A. F., op. cit., p. 135 ss.; Annunziata F., La disciplina del mercato mobi‑
liare, cit., p. 411 ss.
31Annunziata F., cit., p. 414.
32Cfr. art. 43 del Regolamento Consob n. 16191/2007.
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e il CESR ha individuato una nutrita serie di pratiche manipolative tratti dall’esperienza e
dalla letteratura internazionale.
Senza entrare nel dedalo delle condotte manipolative come specificate prima da
Consob e poi a livello comunitario, preme in questa sede evidenziare che ai fini del
compimento dell’illecito amministrativo l’elemento psicologico scolorisce e si indebolisce
fino a perdere rilevanza ai fini dell’integrazione dell’illecito amministrativo 33, la mancanza
dell’intento manipolativo o del dolo specifico non fa venir meno la punibilità del
comportamento.
Infine, nonostante lo sforzo poderoso compiuto nel tipizzare i vari comportamenti
di market manipulation, la dottrina ha da più parti sottolineato il permanere di ampi
margini di incertezza e spazi valutativi inevitabilmente rimessi alle autorità di controllo o
al giudice34.
3. Aspetti sanzionatori amministrativi: il nuovo procedimento amministrativo
L’articolo 187 septies del TUF delinea i termini e le modalità della procedura sanzionatoria
relativa agli illeciti amministrativi di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione
di mercato, lasciando alla norme di rango regolamentare emanate dalla stessa Consob la
regolazione puntuale del procedimento. Lo stesso articolo precisa che il procedimento
sanzionatorio Consob è retto dai princìpi del contraddittorio, della conoscenza degli atti
istruttori, della verbalizzazione nonché della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni
decisorie35.
L’art. 187 septies del TUF prevede che la Consob applichi le sanzioni con provvedimento
motivato e previa contestazione degli addebiti agli interessati. Il termine per effettuare la
contestazione è centottanta giorni dall’accertamento (trecentosessanta giorni se l’interessato risiede all’estero), valutate le deduzioni presentate dagli interessati nei successivi
trenta giorni. Nello stesso termine gli interessati possono altresì chiedere di essere sentiti
personalmente.
Il provvedimento di applicazione delle sanzioni è pubblicato per estratto nel Bollettino
Consob. Avuto riguardo alla natura delle violazioni e degli interessi coinvolti, possono essere
stabilite dalla Consob modalità ulteriori per dare pubblicità al provvedimento, ponendo
le relative spese a carico dell’autore della violazione. La Consob, anche dietro richiesta
degli interessati, può differire ovvero escludere, in tutto o in parte, la pubblicazione del
provvedimento, quando da questa possa derivare grave pregiudizio alla integrità del mercato
ovvero questa possa arrecare un danno sproporzionato alle parti coinvolte36.
33Cfr. Com. Consob 29 novembre 2005.
34Annunziata F., op. ult.cit., p. 422.
35V. Sgubbi F., Fondaroli D., Tripodi A. F., Diritto penale del mercato finanziario, cit., p. 226 ss. ove si sottolinea
che i principi del contraddittorio e della distinzione delle funzioni non sembrano aver trovato adeguata attuazione
nella precedente normativa secondaria di attuazione, richiamando la pronuncia della Corte d’Appello di Genova, 24
gennaio 2008, la quale ha dichiarato la nullità della delibera che ingiungeva il pagamento di una sanzione pecuniaria
per violazione del principio del contradditorio (cfr. nota 57, p. 226).
36Il Regolamento (UE) n. 596/2014 del 16 aprile 2014 prevede anche la possibilità che il provvedimento sanzionatorio
sia pubblicato in forma anonima o la pubblicazione sia ritardata o esclusa quando l’Autorità ritiene che la pubblicazione sia sproporzionata a seguito di una valutazione della condotta o nel caso in cui comprometta indagini in corso
o la stabilità dei mercati finanziari, cfr. art. 34 del regolamento citato. Vedi infra, nota 108.
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diritto bancario
La normazione secondaria è stata di recente oggetto di modifica sulla spinta delle
esigenze di accelerazione e semplificazione dei procedimenti amministrativi con delibera
n. 18750 del 19 dicembre 2013 37 con la quale Consob ha adottato il “Regolamento
generale sui procedimenti sanzionatori della Consob, ai sensi dell’articolo 24 della legge 28
dicembre 2005, n. 262 e successive modificazioni” (d’ora in avanti anche “Regolamento”)
ed introdotto per questa via un nuovo modello di procedimento sanzionatorio in relazione
agli illeciti amministrativi di abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del
mercato.
Due sono i profili di maggior rilievo che emergono dal nuovo Regolamento:
– lo snellimento della procedura con l’eliminazione della configurazione “bifasica”
dell’istruttoria del procedimento sanzionatorio, che in precedenza si svolgeva dinanzi alla
Divisione competente per materia e successivamente innanzi all’Ufficio Sanzioni Amministrative all’uopo istituito, e da una fase decisoria di competenza della Commissione38. Ora
l’intera fase istruttoria è svolta dall’Ufficio Sanzioni Amministrative secondo un modello “a
fase unica”, mentre la Divisione competente svolge l’attività pre-istruttoria e dispone l’avvio
del procedimento sanzionatorio, trasmettendo all’interessato la lettera di contestazione degli
addebiti. A partire da questo momento la trattazione del caso si incardina presso l’Ufficio
Sanzioni Amministrative, nell’ambito del quale il Regolamento individua il responsabile del
procedimento insieme ad un altro dipendente della stessa unità organizzativa;
– il secondo profilo attiene alla riduzione dei termini di conclusione del procedimento,
dai precedenti 360 giorni (540 nel caso in cui il soggetto interessato dal procedimento
abbia sede all’estero) agli attuali 180 giorni con una conseguente riorganizzazione della
tempistica infra-procedimentale.
37L’annesso regolamento è stato modificato dalla delibera n. 18774 del 29 gennaio 2014 e dalla delibera n. 19016 del 3
settembre 2014.
38Sul procedimento sanzionatorio in vigore in precedenza si veda diffusamente Brunetti L., La procedura sanzio‑
natoria dinanzi alla Consob ai sensi dei nuovi artt. 187 bis e 195 TUF e l’opposizione alle sanzioni avanti il giudice
ordinario ex art. 195 e 196 TUF, in Banca Borsa e Tit. Cred., 2006, pp. 195 ss.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
3.1. L’avvio del procedimento e il momento dell’accertamento
Il Regolamento rimette l’avvio del procedimento alla Divisione operativa competente
per materia, la quale vi provvede notificando formale lettera di contestazione degli addebiti
ai soggetti interessati entro 180 giorni dall’accertamento della violazione (ovvero di 360
giorni se gli interessati risiedono o hanno la sede all’estero) “compiuto sulla base degli
elementi comunque acquisiti e dei fatti emersi a seguito dell’attività di vigilanza svolta dalla
Consob e delle successive valutazioni” (cfr. art. 4 del Regolamento).
L’articolo 4 del Regolamento lascia, per così dire, il nervo scoperto su un tema cruciale
nell’economia del procedimento sanzionatorio: il momento dell’accertamento, ovverosia
il dies a quo da cui far partire la decorrenza del termine di 180 giorni39. Tale termine è
stato, peraltro, oggetto di contrasti giurisprudenziali40 e di un intervento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite che non ha fornito una soluzione al problema, ma solo principi
utili ai fini dell’individuazione di tale momento da applicarsi caso per caso41.
In risposta alle numerose richieste di precisazioni sul momento dell’accertamento
avanzate dai rispondenti alle consultazioni aperte da Consob sul Regolamento 42, l’Autorità
ha risposto:
«[…] le proposte dei rispondenti non possono essere accolte in quanto trattasi di
tematiche che esulano dall’ambito oggettivo del Regolamento posto in consultazione, il quale
ha riguardo esclusivo alle modalità di svolgimento del procedimento volto all’adozione di
un provvedimento sanzionatorio e non tratta quindi delle attività di vigilanza prodromiche
all’accertamento dell’illecito amministrativo.» ed ancora: «[…] le attività precedenti alla
39Cfr. Mangoni W.T., Osservazioni al documento di consultazione relativo al regolamento sul Procedimento sanzio‑
natorio della Consob (5 agosto 2013), disponibile al seguente link:
http://www.consob.it/main/documenti/Regolamentazione/osservazioni_consultazione/procedimento_sanzionatorio/
osservazioni.htm.
40Sul punto si veda Enrico Q., La decadenza dal potere sanzionatorio della Consob, (Nota a App. Milano sez. I 4 aprile
2013; App. Milano sez. I 23 agosto 2013, n. 2603) in Le Società, 2014, pp. 725 e ss.; Mangoni W.T., Osservazioni al
documento di consultazione relativo al regolamento sul Procedimento sanzionatorio della Consob (5 agosto 2013),
cit. p. 3 ss.
41Ai fini dell’individuazione del momento dell’accertamento, le Sezioni Unite hanno affermato l’irrilevanza della ripartizione strutturale fra gli organi interni della Consob, individuando il momento dell’accertamento nel giorno in cui la
Commissione in composizione collegiale, esaurita l’attività ispettiva, sia in grado di formulare addebiti. Da un punto di
vista pratico le Sezioni Unite rimettono la valutazione a Consob (ed eventualmente al Giudice) da compiersi caso per
caso. Le Sezioni Unite sul punto affermano che “il momento dell’accertamento degli illeciti amministrativi in materia
di intermediazione finanziaria, pertanto, non deve essere fatto coincidere, necessariamente e automaticamente, né
con il giorno in cui l’attività ispettiva è terminata […], né con quello in cui è stata depositata la relazione dell’indagine
[…], né con quello in cui la Commissione si è riunita per prenderla in esame […]: non con il primo, perché la pura
“constatazione” dei fatti non comporta di per sé il loro “accertamento”, se occorre una successiva attività istruttoria
e valutativa [omissis]; non con il secondo o con il terzo, perché sia la redazione della relazione, sia il suo esame da
parte della Commissione, debbono essere compiuti nel tempo strettamente indispensabile, senza ingiustificati ritardi.
Anche per le violazioni delle norme in materia di intermediazione finanziaria, come per quelle commesse in altri
campi, occorre invece individuare, secondo le particolarità dei singoli casi e indipendentemente dalle date di deposito
della relazione ispettiva e di riunione della Commissione, il momento in cui ragionevolmente la constatazione avrebbe
potuto essere tradotta in accertamento: momento dal quale deve farsi decorrere il termine per la contestazione” (Cass.
SS.UU., n. 5395 9 marzo 2007; nello stesso senso anche Cass. n. 25836 2 dicembre 2011).
42Cfr. Mangoni W.T., Osservazioni al documento di consultazione relativo al regolamento sul Procedimento sanzio‑
natorio della Consob (5 agosto 2013), cit.. p. 3; Studio Legale Cleary Gottlieb Steen & Hamilton, Osservazioni
al documento di consultazione sul “Regolamento sul procedimento sanzionatorio della Consob” (5 agosto 2013) cit.
p. 3 ss. disponibile su
http://www.consob.it/main/documenti/Regolamentazione/osservazioni_consultazione/procedimento_sanzionatorio/
osservazioni.htm., p. 3 ss.; Assirevi, Osservazioni Assirevi al documento di consultazione “Regolamento sul procedi‑
mento sanzionatorio della CONSOB”, disponibile su
http://www.consob.it/main/documenti/Regolamentazione/osservazioni_consultazione/procedimento_sanzionatorio/
osservazioni.htm.
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contestazione degli addebiti non sono standardizzabili e dunque non possono che essere
regolate per principi. […] D’altronde la giurisprudenza ha in più occasioni puntualizzato
che, soprattutto quando si tratti di accertamenti complessi, deve tenersi conto di un congruo
spatium deliberandi tra l’acquisizione da parte dell’autorità procedente delle evidenze delle
indagini e del materiale probatorio raccolto in tale sede e l’“accertamento” delle violazioni,
poiché solo da quest’ultimo momento appare ragionevole che decorra il termine perentorio
per la contestazione delle violazioni. Tale spatium deliberandi non appare dunque utilmente
standardizzabile in maniera fissa con riferimento alle numerose ed eterogenee fattispecie
per le quali la Consob può irrogare sanzioni amministrative.
Alla luce di quanto sopra non si può ritenere, come affermato da alcuni dei rispondenti
alla consultazione, né che il procedimento de quo sia poco trasparente, né che la Consob
abbia eccessivi margini di azione, poiché le attività dell’Autorità dovranno informarsi ai
sopra descritti principi.»43.
L’Autorità, pertanto, sposa quanto affermato dalle Sezioni Unite, ovvero un criterio
di determinazione ex post del momento dell’accertamento. Il presente contributo non ha
da prendere posizione sul tema, tuttavia sembra che l’Autorità abbia perso l’occasione
per far luce sul momento dell’accertamento, potendo regolamentare la fase precedente
l’accertamento44.
3.2. Il termine di conclusione e diritto di difesa dei soggetti interessati
In ossequio agli obiettivi di celerità del procedimento sanzionatorio e di “certezza”
dei rapporti giuridici, il termine di durata del procedimento sanzionatorio, come detto,
è stato ridotto a 180 giorni che decorrono dal trentesimo giorno successivo alla data di
perfezionamento per i destinatari della notificazione della lettera di contestazione degli
addebiti.
Il Regolamento ha cura di delineare con precisione il contenuto della lettera di
contestazione “segnando un arricchimento del set informativo da comunicarsi ai destinatari,
che si assume maggiormente funzionale a garantire a quest’ultimi l’esercizio del proprio
diritto di difesa”45. In particolare, è previsto che la lettera contenga:
a) il riferimento all’attività di vigilanza, alle eventuali verifiche ispettive o alla
documentazione acquisita;
b) la descrizione della violazione;
c) l’indicazione delle disposizioni violate e delle relative norme sanzionatorie;
d) l’indicazione dell’unità organizzativa responsabile del procedimento;
e) l’indicazione dell’unità organizzativa presso la quale può essere presa visione ed estratta
copia dei documenti istruttori e le modalità di presentazione della relativa istanza;
43Cfr. Consob, Regolamento sul procedimento sanzionatorio della Consob – esiti della consultazione, 20 dicembre 2013,
p. 5-6 disponibile su
http://www.consob.it/main/regolamentazione/consultazioni/consultazioni_chiuse/intro_consultazioni_chiuse.
html?queryid=consultazioni&stato=chiusa&tipo=esiti&resultmethod=consultazioni&search=1&symblink=/main/
regolamentazione/consultazioni/ricerca/lnk_chiuse.html.
44A favore dell’individuazione di un criterio di individuazione del momento dell’accertamento ex post si veda Quaranta E., La decadenza dal potere sanzionatorio della Consob, cit., p. 729.
45Cfr. Consob, Regolamento sul procedimento sanzionatorio della Consob – esiti della consultazione, 20 dicembre 2013,
cit.
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f) l’indicazione della facoltà per i soggetti destinatari delle contestazioni di presentare
eventuali deduzioni e documenti, nonché di chiedere l’audizione personale nel termine
di trenta giorni;
g) l’indicazione della casella di posta elettronica certificata (PEC) presso la quale
effettuare le comunicazioni relative al procedimento sanzionatorio; e
h) l’invito a comunicare con il primo atto utile l’eventuale casella di posta elettronica
certificata (PEC) presso la quale il soggetto interessato intende ricevere le comunicazioni
e le notificazioni relative al procedimento sanzionatorio46.
Gli interessati possono esercitare il diritto di difesa tramite deduzioni scritte e documenti,
l’accesso agli atti o anche mediante audizione personale entro il termine previsto dall’art. 187
septies di trenta giorni dal perfezionamento per il destinatario della notifica della lettera di
contestazione degli addebiti. Per la presentazione di deduzioni e documenti il Regolamento
ha introdotto la possibilità di chiedere, con istanza motivata, una proroga del termine che
potrà essere concessa per una sola volta e per un periodo massimo di trenta giorni.
Quanto all’accesso agli atti, l’articolo 5 del Regolamento al comma 3 prevede che i
destinatari della lettera di contestazione degli addebiti possono chiedere, con istanze separate,
alla Divisione che ha formulato le contestazioni di avere accesso agli atti del procedimento
sanzionatorio e all’Ufficio Sanzioni Amministrative di avere accesso esclusivamente agli
ulteriori atti del procedimento sanzionatorio confluiti nel fascicolo istruttorio successivamente
all’avvio del procedimento medesimo. Ove l’istanza di accesso sia presentata alla Divisione
che ha formulato le contestazioni entro il termine sopra menzionato di trenta giorni, il
termine per la presentazione di deduzioni scritte e documenti è sospeso, per una sola volta,
dalla data di presentazione dell’istanza fino alla data in cui è consentito l’accesso.
L’audizione personale degli interessati è richiesta con istanza separata, con la
specificazione che, l’Ufficio Sanzioni Amministrative comunica agli istanti la data
dell’audizione che può essere differita, su richiesta motivata, per un periodo comunque
non superiore a trenta giorni. In caso di accoglimento della richiesta di differimento, il
termine di conclusione del procedimento è sospeso per il periodo intercorrente tra la data
inizialmente stabilita per l’audizione e la data di effettivo svolgimento della stessa ovvero,
in caso di mancata audizione, per il termine massimo di trenta giorni.
All’audizione possono partecipare, su richiesta dell’Ufficio Sanzioni Amministrative,
funzionari della Divisione che ha formulato le contestazioni. Dell’audizione è formato
apposito processo verbale che viene sottoscritto dai soggetti partecipanti.
46Nell’ipotesi in cui alle violazioni si applichi l’articolo 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689 e successive modifiche,
la lettera di contestazione degli addebiti contiene anche l’indicazione delle modalità con le quali l’interessato potrà
effettuare il pagamento in misura ridotta.
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diritto bancario
3.3. La fase istruttoria del procedimento sanzionatorio e le cause di sospensione
dello stesso
La fase istruttoria ricalca, con i dovuti adattamenti, il procedimento previsto dalla delibera
n. 15086 del 21 giugno 2005 che regolava il previgente procedimento sanzionatorio, e
disciplina le attività dell’Ufficio Sanzioni Amministrative, il quale procede all’esame degli
atti del procedimento e delle deduzioni pervenute, predisponendo una relazione per la
Commissione nella quale verranno formulate le proposte motivate in merito alla sussistenza
della violazione contestata e alla quantificazione della relativa sanzione ovvero in merito
all’archiviazione entro 15 giorni precedenti la scadenza del termine di conclusione del
procedimento.
È inoltre disciplinata l’ipotesi in cui l’Ufficio Sanzioni Amministrative si avvalga del
supporto di altre unità organizzative mediante una relazione tecnica sulle difese svolte
dai soggetti interessati e su ogni altro aspetto ritenuto meritevole di approfondimento.
Il Regolamento si preoccupa di garantire, anche in tale contesto, il contraddittorio con
i soggetti interessati mediante la trasmissione della relazione agli stessi e la possibilità
di presentare osservazioni in replica entro il termine di 30 giorni dalla ricezione della
relazione tecnica.
Al fine di non incidere sull’attività istruttoria dell’Ufficio Sanzioni Amministrative e per
garantire un adeguato termine per procedere alle valutazioni, è prevista la sospensione del
termine del procedimento sanzionatorio per trenta giorni dalla data di protocollazione della
nota di trasmissione della relazione tecnica.
L’istruttoria si chiude con la trasmissione alla Commissione – entro quindici
giorni precedenti alla scadenza del termine di conclusione del procedimento – di una
relazione nella quale sono formulate le proposte motivate in merito alla sussistenza della
violazione contestata e alla quantificazione della relativa sanzione ovvero in merito
all’archiviazione.
In occasione delle consultazioni aperte sul Regolamento in parola, la Consob ha avuto
modo di precisare ai rispondenti le consultazioni che manifestavano la necessità da parte
dei soggetti interessati di ricevere notifica della relazione dell’Ufficio Sanzioni Amministrative quanto segue:
«Con riferimento ai procedimenti sanzionatori della Consob, la sussistenza di un
contraddittorio pieno è confermato da autorevole giurisprudenza, la quale ha ritenuto
perfettamente legittimo il procedimento di irrogazione di sanzioni amministrative, previsto
dall’art. 187 septies del TUF (affermazione estensibile anche ai procedimenti di cui all’art.
195 TUF), il quale postula solo che, prima dell’adozione della sanzione, sia effettuata la
contestazione dell’addebito e siano valutate le eventuali controdeduzioni dell’interessato:
“pertanto, non violano il principio del contraddittorio l’omessa trasmissione all’interessato delle conclusioni dell’ufficio sanzioni amministrative della Consob e la sua mancata
personale audizione innanzi alla Commissione, non trovando d’altronde applicazione, in
tale fase, i principi del diritto di difesa e del giusto processo, riferibili solo di procedimento
giurisdizionale” (Cass. SS.UU. civ., sent. n. 20935 del 30 settembre 2009; Cass. civ., Sez.
I, sent. n. 6307 del 18 aprile 2003).
In definitiva, l’omessa previsione nello schema di regolamento in esame di quanto
indicato dai rispondenti trova pieno conforto nell’orientamento giurisprudenziale sopra
succintamente descritto – i cui principi si attagliano anche alla nuova morfologia del
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
procedimento sanzionatorio delineata dalla bozza di regolamento in commento – e dunque
l’eventuale introduzione nel testo regolamentare delle modifiche proposte non sarebbe
giuridicamente imposta»47.
3.4. La fase decisoria del procedimento sanzionatorio
La fase decisoria del procedimento fa capo alla Commissione la quale potrà adottare un
provvedimento sanzionatorio ovvero un atto di archiviazione o una proposta di applicazione
di misura sanzionatoria di competenza di altra Amministrazione o Autorità.
4. Recenti applicazioni giurisprudenziali
4.1. La “bocciatura” della Corte Europea dei diritto dell’uomo del sistema del doppio
binario: chi semina vento raccoglie tempesta
Nel mondo del diritto, se il legislatore resta insensibile ai segnali d’allarme lanciati
della dottrina più accorta e garantista, spesso è il Giudice delle leggi a dover intervenire o,
come nel caso di specie, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (“Corte EDU”) che ormai
si erge a paladina dei diritti al fair trial e al due process of law.
Ed invero, il 4 marzo 2014, nella Causa Grande Stevens e altri contro Italia, la Sezione
II della Corte di Strasburgo, condannando il nostro Paese, ha assestato l’ennesimo colpo
non solo al sistema sanzionatorio “ipermuscolare” ed “efficientista”48 varato con la L.
18 aprile 2005, n. 62, ma all’intero sistema penale del nostro Paese 49. Se la “ragnatela
sanzionatoria” creata dal nostro legislatore rispondeva ad una esigenza specifica, ad una
ratio ben definita, ovvero quella di essere funzionalizzata all’ottenimento di un risultato
repressivo certo e rapido, la vicenda Fiat-Ifil – che è quella cui da cui ha preso le mosse
la causa proposta dinanzi alla Corte EDU – è sotto tale profilo emblematica: il passare del
tempo con il compiersi della prescrizione ha provveduto a “spuntare” la sanzione penale,
mentre l’operatività immediata della procedura Consob ha centrato il bersaglio50.
47Cfr. Consob, Regolamento sul procedimento sanzionatorio della Consob – esiti della consultazione, 20 dicembre 2013,
pp. 10-11.
48Flick G.-Napoleoni V., Cumulo tra le sanzioni penali ed amministrative: doppio binario o binario morto? “Materia
penale”, giusto processo e ne bis in idem nella sentenza della Corte EDU, 4 marzo 2014, sul market abuse, in Riv. AIC.,
2014, p.3. I due Autori evidenziano come si tratti di un congegno extra ordinem che vede le due figure criminose del
settore, l’insider trading e la market manipulation “bissate” da altrettanti illeciti amministrativi di egual nomen e dai
contenuti largamente sovrapponibili. La deroga all’art. 9 della L. n. 689/1981 che quindi ammette il cumulo delle due
sanzioni e dei relativi procedimenti di accertamento è ispirata ad un “afflato efficientistico” puntandosi a garantire il
raggiungimento di un risultato, ovvero colpire in modo chirurgico e tendenzialmente immediato i responsabili degli
illeciti con una gamma di sanzioni applicabili con un procedimento di accertamento più snello davanti alla Consob
e dotate di un maggiore grado di indefettibilità (non opera la sospensione condizionale della pena, ad esempio), per
poi lasciare “il colpo di grazia” al procedimento penale.
49Viganò F., Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta applicazione dell’art. 50 della Carta?,
in www.penalecontemporaneo.it.
50In questi termini anche Flick G.-Napoleoni V., Cumulo tra le sanzioni penali, cit., p.1.
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Prismi attraverso cui i giudici europei hanno vagliato l’opzione italiana del “doppio
binario” sono stati il diritto ad un equo processo (art. 6 § 1 della CEDU)51 e il diritto a non
essere giudicati e/o puniti due volte (art. 4 del Protocollo n. 7)52.
Ma si cominci dal principio. L’operazione finanziaria oggetto dell’indagine della Consob
che ha originato poi il procedimento penale dinanzi al Tribunale di Torino, alla Corte di
Cassazione per saltum e alla Corte d’Appello di Torino, era complessa ma fondamentalmente
una soltanto. Essa riguardava le vicende di un contratto di finanziamento con cui FIAT S.p.A.
contraeva un debito di 3 miliardi di euro con un gruppo di banche. In particolare l’accordo
negoziale prevedeva che la restituzione sarebbe dovuta avvenire entro il 20 settembre 2005
e che, in caso di mancato rimborso, il debito sarebbe stato automaticamente convertito in
azioni (c.d. prestito “convertendo”). Tuttavia, se FIAT non avesse provveduto a rimborsare
il prestito contratto, la conversione del relativo importo in capitale azionario sottoscritto
dalle banche creditrici avrebbe determinato un nuovo assetto proprietario53.
A fronte del rischio concreto di perdere il controllo di FIAT S.p.A. a causa
dell’annacquamento del capitale e della relativa partecipazione, il gruppo Agnelli aveva
la necessità di impedire che la partecipazione azionaria di IFIL scendesse al di sotto del
30% del capitale. Ragion per cui, il 26 aprile 2005 EXOR, società controllata dalla Giovanni
Agnelli & C., stipula con la banca d’affari Merill Lynch International un contratto di equity
swap54 che ha permesso a IFIL, attraverso la vendita a favore di quest’ultima da parte di
EXOR delle azioni FIAT ricevute da Merill Lynch, di mantenere in FIAT una partecipazione
del 30,6% garantendosi il mantenimento del controllo della società torinese.
51L’art. 6 della CEDU è così formulato: «(1) Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale
sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni
accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala
d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale,
dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori
o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale,
quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia. (2) Ogni persona
accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata. (3) In
particolare, ogni accusato ha diritto di: (a) essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico; (b) disporre del tempo
e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa; (c) difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato
d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia; (d) esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere
la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico; (e) farsi assistere
gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza».
52Tale disposizione recita: «(1) Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso
Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente
alla legge e alla procedura penale di tale Stato. (2) Le disposizioni del paragrafo precedente non impediscono la riapertura del processo, conformemente alla legge e alla procedura penale dello Stato interessato, se fatti sopravvenuti
o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura antecedente sono in grado di inficiare la sentenza intervenuta. (3) Non è autorizzata alcuna deroga al presente articolo ai sensi dell’articolo 15 della Convenzione».
53Nel 2005, al vertice del gruppo Agnelli si trovava la Giovanni Agnelli & C. che era azionista di controllo di FIAT,
avendo il contemporaneo controllo azionario delle società EXOR, IFI e IFIL. In particolare, IFIL Investments – società
controllata al 63,6% da IFI, che era interamente posseduta da Giovanni Agnelli & C. – deteneva in FIAT una partecipazione pari al 30,6%. Per una dettagliata ricostruzione della vicenda si veda Trinchera T., Sassaroli G., Modugno F.,
Manipolazione del mercato e giudizio di accertamento del pericolo concreto, in www.penalecontemporaneo.it
54Tale swap prevedeva che la banca acquistasse azioni FIAT per (i) MLI acquista 90 milioni di azioni FIAT, e cioè un
valore di azioni esattamente corrispondente a quello che sarebbe necessario al gruppo Agnelli per mantenere la
quota di partecipazione azionaria del 30,6% dopo il convertendo, ad un prezzo non superiore a 6 euro per azione;
(ii) alla scadenza del contratto, che viene individuata alla data del 23 dicembre 2006, se il valore del titolo FIAT sarà
superiore a 6 euro, EXOR incasserà la plusvalenza, se sarà inferiore, la incasserà invece MLI. L’operazione non viene
comunicata al pubblico. Cfr. Trinchera T., Sassaroli G., Modugno F., Manipolazione del mercato e giudizio di
accertamento del pericolo concreto, cit.
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Ed invero, lo stesso 26 aprile 2005 FIAT annunciava che il 20 settembre avrebbe
provveduto all’aumento di capitale funzionale alla conversione del debito in azioni, dal
momento non era possibile rimborsare il prestito.
Ad agosto 2005 la Consob invia ad IFIL e Giovanni Agnelli & C. una “Richiesta di
comunicazione al pubblico di notizie ai sensi dell’art. 114, comma 5, del D.Lgs. 58/1998”
in cui chiede di «[...] diffondere un comunicato stampa contenente informazioni in merito
ad eventuali iniziative intraprese e/o allo studio in relazione alla prossima scadenza del ...
prestito convertendo, nonché ad eventuali nuovi fatti rilevanti riguardanti la sfera societaria
e comunque ogni notizia utile a spiegare l’andamento delle quotazioni dei titoli emessi dalla
medesima società». Così che il 24 agosto 2005 le società richieste diffondevano comunicati
del seguente tenore: «[...] IFIL precisa di non aver intrapreso né studiato alcuna iniziativa in
relazione alla scadenza del prestito convertendo e ribadisce di non disporre di alcun elemento
utile a spiegare tale andamento, né di informazioni relative a nuovi fatti rilevanti che possano
aver influito sull’andamento stesso. Peraltro, IFIL conferma, ribadendo quanto già espresso in
sede di assemblea degli azionisti del 27 giugno 2005, l’intenzione di rimanere azionista di
riferimento di FIAT. Al riguardo IFIL valuterà eventuali iniziative al momento opportuno».
Al centro della vicenda, vi è quindi, la comunicazione al mercato dell’agosto 2005
ritenuta “falsa” e secondo cui nessuna iniziativa circa la scadenza del prestito “convertendo”
era al momento allo studio o già intrapresa, pur confermandosi, da parte di IFIL, l’intenzione
di rimanere azionista di riferimento della FIAT.
La falsità del comunicato, sui cui insisteva la contestazione di manipolazione del
mercato nella sua condotta di “diffusione al pubblico di notizie false”, riguardava la mancata
menzione del progetto di ristrutturazione e rinegoziazione del contratto di swap già concluso
al momento della comunicazione, ma celato per evitare gli effetti negativi che avrebbe
avuto sul prezzo delle azioni FIAT.
Per questi fatti la Procura della Repubblica di Torino ha instaurato un procedimento
penale nei confronti di Gianluigi Gabetti, Franzo Grande Stevens e Virgilio Marrone, e cioè
nei confronti dei soggetti che, secondo la pubblica accusa, contribuirono alla materiale
diffusione dei comunicati al pubblico: il primo nella sua qualità di rappresentante legale di
IFIL e Giovanni Agnelli & C., nonché amministratore delegato di IFIL, il secondo in qualità
di consulente legale del Gruppo FIAT, nonché consigliere d’amministrazione di IFIL, il
terzo in quanto procuratore di Giovanni Agnelli & C. E tuttavia, accanto al procedimento
istaurato davanti all’Autorità giudiziaria, ha preso le mosse anche quello sanzionatorioamministrativo dinanzi alla Consob per violazione dell’art. 187 ter TUF.
Quali gli esiti dei due giudizi? Il procedimento amministrativo passa in giudicato
stabilizzandosi la una delibera dell’Autorità di vigilanza che infliggeva la sanzione per le
violazioni dell’art. 187 ter TUF cui si accompagnavano le sanzioni accessorie ed interdittive
di cui all’art. 187 quater TUF emessa in data 9 febbraio 200755. Dinanzi al giudice penale,
invero, le questioni problematiche riscontrate sono state molte e tali56 da determinare un
55Ulteriori momenti impugnatori sono stati quello davanti alla Corte d’Appello di Torino che nel 2008 riduceva la misura
delle sanzioni applicate e quello davanti alla Corte di Cassazione che rigettava il ricorso dei vertici FIAT l’anno successivo. Da qui il passaggio in giudicato della decisione di “primo grado”.
56Cfr., inter alia, Falcinelli D., Il giudice, l’antifrasi e una “fata morgana”: se il tipo del pericolo concreto esprime
un’offesa di danno (di un bene astratto), www.penalecontemporaneo.it, e Preziosi S., Il pericolo come evento e l’ab‑
bandono dello schema di accertamento prognostico nei reati di pericolo concreto, in Giur. Comm., 2012, p. 1.
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epilogo per certi versi inaspettato e surreale. Se nel 2010 in primo grado il Tribunale di
Torino ha assolto gli imputati dall’accusa di market manipulation con la formula liberatoria
più ampia, ovvero “perchè il fatto non sussite”, davanti alla Corte di Cassazione due anni più
tardi, accogliendosi il ricorso per salutm proposto dalla Procura, si è annullata la sentenza
impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Torino che nel 2013 – dando applicazione
al principio di diritto messo a punto dalla Corte di Cassazione – ha ritenuto gli imputati
responsabili del reato di cui all’art. 185 TUF.
Di fronte a quest’ultimo arresto della giurisprudenza interna57, iniziano ad oliarsi i
meccanismi di tutela operativi al cospetto della Corte EDU, per cui – come detto molto
acutamente da qualche commentatore – “uno più uno a Strasburgo fa due” 58. E così, i
soggetti sanzionati presentano apposito ricorso denunciando che il procedimento svoltosi
dinanzi alla Consob presentasse vizi in termini di mancato rispetto delle garanzie dell’equo
processo e che l’intervenuto passaggio in giudicato della sanzione amministrativa avrebbe
dovuto impedire la prosecuzione del procedimento penale per il corrispondente reato
eccependosi sia vizi di merito che relativi al procedimento sanzionatorio.
Le doglianze dei ricorrenti sono state in parte accolte, ravvisandosi, da parte della
Seconda Sezione, la non conformità del procedimento per l’illecito amministrativo alle
esigenze di equità ed imparzialità sancite all’art. 6 § 1 CEDU. A tale conclusione di principio
si giunge attraverso l’analisi della natura delle sanzioni solo nominalmente amministrative
per prime inflitte ai ricorrenti argomentandosi che nonostante tale dichiarata qualificazione
esse sono da considerarsi, a tutti gli effetti ed in tutti i riguardi, sanzioni “penali” – o più
correttamente en matièrie pénale – per due ordini di ragioni, ovvero in primis il loro rigore
edittale a fronte del confronto tra l’importo della sanzione in concreto inflitta rispetto a
quella astrattamente comminabile e, in secondo luogo, il regime delle sanzioni accessorie
collegate che si riflettono in modo negativo sugli interessi del condannato59.
57Arresto, si ribadisce, in spregio di quanti in dottrina evidenziavano che «quanto più le anomalie del sistema sono
marcate, tanto più sono foriere di guasti. Nella specie, la (contemporanea) messa in moto di due macchine sanzionatorie, di diverso “livello”, per reprimere la stessa condotta è stata coralmente denunciata dalla nostra dottrina come
“deviante” rispetto alle basilari coordinate politico-criminali, quali quelle della sanzione penale come extrema ratio e
del primato della giurisdizione». Cfr. Flick G.-Napoleoni V., Cumulo tra le sanzioni penali, op.cit., p. 2.
58Il riferimento è al titolo del contributo apparso su www.penalecontemporaneo.it, nei giorni immediatamente successivi alla sentenza in commento, scritto da Tripodi, Uno più uno (a Strasburgo) fa due. L’Italia condannata per violazione del ne bis in idem in tema di manipolazione del mercato. Le questioni sono state poi riprese ed approfondite
dallo stesso Autore in un successivo contributo. Cfr. Tripodi A. F., Abusi di mercato (ma non solo) e ne bis in idem:
scelte sanzionatorie da ripensare?, in Proc. pen e giust., 5, 2014, p. 102.
59Rispetto a questo ultimo profilo si vedano i punti 97, 98 e 99 della sentenza. Cosicché al punto 97 si legge: «Per quanto
riguarda la natura e la severità della sanzione «che può essere inflitta» ai ricorrenti (Ezeh e Connors c. Regno Unito
[GC], nn. 39665/98 e 40086/98, § 120, CEDU 2003-X), la Corte conviene con il Governo (…) che le sanzioni pecuniarie in questione non potessero essere sostituite da una pena privativa della libertà in caso di mancato pagamento (si
veda, a contrario, Anghel c. Romania, n. 28183/03, § 52, 4 ottobre 2007). Tuttavia, la Consob poteva infliggere una
sanzione pecuniaria fino a 5.000.000 euro (…), e questo massimo ordinario poteva, in alcune circostanze, essere triplicato o elevato fino a dieci volte il prodotto o il profitto ottenuto grazie al comportamento illecito (…). L’inflizione
delle sanzioni amministrative pecuniarie sopra menzionate comporta per i rappresentanti delle società coinvolte la
perdita temporanea della loro onorabilità, e se queste ultime sono quotate in borsa, ai loro rappresentanti si applica
l’incapacità temporanea ad assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo nell’ambito delle società quotate per una durata variabile da due mesi a tre anni. La Consob può anche vietare alle società quotate, alle società di
gestione e alle società di revisione di avvalersi della collaborazione dell’autore dell’illecito, per una durata massima di
tre anni, e chiedere agli ordini professionali la sospensione temporanea dell’interessato dall’esercizio della sua attività
professionale (…). Infine, l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie importa la confisca del prodotto o
del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo (…)».
Prosegue il paragrafo 98: «È vero che nel caso di specie le sanzioni non sono state applicate nel loro ammontare massimo, in quanto la corte d’appello di Torino ha ridotto alcune ammende inflitte dalla Consob (…), e non è stata disposta alcuna confisca. Tuttavia, il carattere penale di un procedimento è subordinato al grado di gravità della sanzione
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Difatti, la Corte nella sentenza in commento, rammenta e ripropone – rafforzandola – la
propria giurisprudenza sui criteri in base ai quali si stabilisce la sussistenza di una “accusa
sostanzialmente penale”. Si tratta dei tre criteri noti come “criteri di Engel” 60, ovvero (i) la
qualificazione giuridica della misura, (ii) la sua natura e (iii) la natura a l’intensità della
sanzione.
Tali criteri sono, peraltro, definiti come alternativi cosicché, perché si possa parlare
di «accusa in materia penale» ai sensi dell’articolo 6 § 1, è sufficiente che l’illecito in
causa sia di natura «penale» rispetto alla Convenzione, o abbia esposto l’interessato a una
sanzione che, “per natura e livello di gravità”, rientri in linea generale nell’ambito della
«materia penale».
La ragione sostanzialistica, alla base anche degli orientamenti dominanti rinvenibili
nella oramai ampia produzione giurisprudenziale europea, è individuata fondamentalmente,
nel “grado di severità” dell’impianto sanzionatorio (potrebbe parlarsi di “tono di afflittività
della sanzione”)61. Tra l’altro è bene ricordare come la difesa del Governo italiano nella
procedura si sia, peraltro, affidata anche a tale argomento formale, in ragione della eccezione
sollevata in via preliminare dinanzi alla Corte europea e relativa alla riserva posta dall’Italia
al momento della ratifica del Protocollo n. 7 della Convenzione europea (avvenuta con
L. n. 98 del 1980) con la quale lo Stato aveva precisato che l’art. 4 del Protocollo si
applica unicamente alle infrazioni, alle procedure e alle decisioni che siano qualificate
come penali dalla legge italiana.
La Corte non ha ritenuto valida la riserva perché eccessivamente generica quanto
alle categorie giuridiche invocate rispetto al richiamo alle norme interne coinvolte con
conseguente applicazione dell’art. 4 del Protocollo n. 7 all’Italia. La Corte EDU è tornata
a ribadire su tale profilo come la qualificazione formale non sia da ritenersi decisivo
ai fini dell’applicabilità del profilo penale dell’articolo 6 della Convenzione, in quanto
le indicazioni che fornisce il diritto interno hanno un valore relativo e, al più, di mero
orientamento. Quindi, in ragione dell’importo elevato delle sanzioni pecuniarie inflitte e di
di cui è a priori passibile la persona interessata (…), e non alla gravità della sanzione alla fine inflitta (…). Per di più,
nel caso di specie i ricorrenti sono stati sanzionati con ammende variabili tra 500.000 e 3.000.000 euro, e a Gabetti,
Grande Stevens e Marrone è stata inflitta l’interdizione dall’amministrare, dirigere o controllare delle società quotate
in borsa per un tempo compreso tra due e quattro mesi (…). Quest’ultima sanzione era tale da ledere il credito delle
persone interessate (…), e le ammende erano, visto il loro ammontare, di una innegabile severità che comportava per
gli interessati conseguenze patrimoniali importanti».
Ed infine al paragrafo 99 si afferma che «alla luce di quanto è stato esposto e tenuto conto dell’importo elevato delle
sanzioni pecuniarie inflitte e di quelle di cui erano passibili i ricorrenti, la Corte ritiene che le sanzioni in causa rientrino, per la loro severità, nell’ambito della materia penale (…)». Per una sintesi delle diverse doglianze si veda anche
Desana E., Procedimento Consob e ne bis in idem: respinta l’istanza di rinvio, in Giur. It., 7, 2014, 1642. Per un approfondimento delle singole argomentazioni della Corte EDU si vedano la Relazione n.35/2014 dell’Ufficio del Massimario della Suprema Corte di Cassazione (a cura di Brancaccio) e Zagrebelsky V., Le sanzioni Consob, l’equo
processo e il ne bis in idem nella CEDU, in Giur. It., 5, 2014, 1196.
60I riferimenti sono alla sentenza della Corte EDU, Grande Sezione, 5 giugno 2012, C-489/10 Bonda e alla sentenza
“Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976.
61Relazione n.35/2014 dell’Ufficio del Massimario della Suprema Corte di Cassazione (a cura di Brancaccio) che
precisa che «inoltre, si ricorda in astratto che l’alternatività dei criteri ermeneutici enucleati non impedisce di adottare
un approccio unitario se l’analisi separata di ciascuno di essi non permette di arrivare ad una conclusione chiara in
merito alla sussistenza di una «accusa in materia penale» (si cita sul punto “Jussila c. Finlandia [GC]”, n. 73053/01, §§
30 e 31, CEDU 2006-XIII, e “Zaicevs c. Lettonia”, n. 65022/01, § 31, CEDU 2007-IX). Nel caso trattato nella sentenza
Grande Stevens c. Italia, la Corte EDU constata innanzitutto che, secondo il criterio della qualificazione giuridica
formale dell’illecito, le manipolazioni del mercato ascritte ai ricorrenti nel procedimento dinanzi alla Consob non costituiscono un illecito di natura penale nel diritto italiano. Esse, infatti, sono punite con una sanzione qualificata come
«amministrativa» dall’articolo 187 ter punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998».
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quelle comminabili ai ricorrenti, la Corte ritiene che quelle inflitte dalla Consob rientrino
a pieno titolo, per la loro severità, nell’ambito della materia penale, specificando come il
“carattere penale” di un procedimento sia subordinato al grado di gravità della sanzione di
cui è a priori ed in astratto passibile la persona interessata e non alla gravità della sanzione
alla fine in concreto inflitta. Per di più, nel caso di specie, la Corte ritiene le sanzioni
inflitte ai ricorrenti di “innegabile severità” comportando per gli interessati conseguenze
patrimoniali importanti (e sanzioni accessorie molto serie).
Passando ad altro profilo di censura, nell’ultimo momento impugnatorio della delibera
della Consob che irrogava le sanzioni, la Corte di Cassazione62 rigettava i ricorsi proposti
affermando che, in tema di intermediazione finanziaria, il procedimento di irrogazione
di sanzioni amministrative, previsto dall’art. 187 septies TUF postulava solo che, prima
dell’adozione della sanzione, fosse effettuata la contestazione dell’addebito e fossero
valutate le eventuali controdeduzioni dell’interessato. Da tale premessa derivava che non
vi era stata la violazione del principio del contraddittorio a fronte dell’omessa trasmissione
all’interessato delle conclusioni dell’Ufficio sanzioni amministrative della Consob e della
sua mancata personale audizione innanzi alla Commissione, non trovando applicazione, in
tale fase, i principi del diritto di difesa e del giusto processo, riferibili solo al procedimento
giurisdizionale.
La Corte EDU, ribaltando la prospettiva e facendo da eco alla dottrina interna più
garantista, ha rilevato, invece, come tale procedimento, svoltosi davanti all’Autorità di
vigilanza e avente natura formalmente amministrativa (ma da ritenersi invece sostanzialmente
di natura penale), non sia stato conforme alle esigenze di equità e imparzialità oggettiva
sancite dall’art. 6 § 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte, ritenendo,
dunque, che la procedura, pur avendo ad oggetto un illecito formalmente di tipo amministrativo, si sostanziasse in un’accusa di natura penale, ha conseguentemente affermato
che avrebbero dovuto essere osservate le garanzie che l’art. 6 della Convenzione riserva
ai processi penali.
Svolte tali osservazioni di principio, la motivazione si sofferma sui vizi del procedimento
davanti alla Consob, per concludere per la lesione della parità delle armi tra accusa e
difesa ed del mancato svolgimento di una udienza pubblica che permettesse un confronto
orale.
Quali, quindi, le ragioni di dissonanza tra la procedura amministrativa posta in essere
sulla base dell’art. 187 ter TUF e i principi sanciti dall’art. 6 § 1 CEDU? In primo luogo
l’assenza di contraddittorio, in quanto le sanzioni erano state inflitte sulla base di un
rapporto non comunicato ai ricorrenti che non avevano avuto la possibilità di difendersi
rispetto al documento alla fine sottoposto dagli organi investigativi della Consob all’organo
incaricato di decidere sulla fondatezza delle accuse. Inoltre, gli interessati non avevano avuto
possibilità di interrogare o di far interrogare le persone eventualmente sentite dall’ufficio
investigativo dell’Autorità di vigilanza. Ed altresì, l’assenza di un’udienza pubblica, in ragione
della natura solo cartolare del procedimento e del fatto che dinanzi alla Corte d’Appello
di Torino le udienze sono state tenute secondo la modalità della camera di consiglio, non
assimilabile alla pubblica udienza, nonché del fatto che l’udienza pubblica svoltasi dinanzi
62Sentenza Sez. Un. civ. n. 20935 del 30 settembre 2009.
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alla Corte di Cassazione non è da considerarsi sufficiente a sanare il vizio rilevato stante
l’incompetenza del giudice di legittimità ad esaminare il merito della causa, accertare i fatti
e valutare gli elementi di prova. In termini più semplici la Suprema Corte italiana, secondo
i giudici di Strasburgo, non può, dunque, essere considerata come un organo dotato di
piena giurisdizione ai sensi della giurisprudenza europea63.
«Pertanto, (…), ad acquisire efficacia decisiva nella valutazione della Corte non è la pur
censurata struttura del procedimento dinanzi all’Autorità amministrativa, bensì lo svolgimento
del giudizio di secondo grado dinanzi ad un tribunale di piena giurisdizione, circostanza
che appunto è in grado di sanare tutte quelle criticità caratterizzanti il procedimento
sanzionatorio amministrativo»64. Ed invero, è lecito porsi un dubbio, ovvero se la richiesta
omologazione/assimilazione sul piano delle garanzie del procedimento di applicazione
delle sanzioni amministrative gestite dall’Autority di turno non vanifichi la preferenza per
tale opzione ad opera del legislatore in ottica della maggiore efficienza complessiva del
presidio amministrativo rispetto a quello “veramente” penale.
Ulteriore motivo di ricorso accolto dai giudici di Strasburgo ha riguardato la valutazione
circa la coerenza e la compatibilità con il principio del ne bis in idem, sancito all’art. 4
del Protocollo n. 7 della CEDU, del doppio sistema sanzionatorio una volta ricompresa la
norma configurante l’illecito sia pur formalmente amministrativo nella “materia penale”,
ai sensi dell’interpretazione accolta dai giudici di Strasburgo. In tal guisa si è, dunque,
constatata la pendenza di altro procedimento “penale-criminale” vero e proprio, successivo alla definizione con sanzioni di quello, amministrativo e chiuso già con il passaggio
in giudicato, avente alla base l’accusa dell’omologo – rispetto alla previsione di cui all’art.
187 ter TUF – delitto di manipolazione del mercato di cui all’art. 185 TUF.
La Corte, contravvenendo alle argomentazioni sostenute dal Governo italiano65, richiama
i propri precedenti arresti in materia66, al fine di chiarire che la verifica di compatibilità
della disciplina di diritto interno sottoposta al suo vaglio attraverso il prisma dell’art. 4 del
Protocollo n. 7, passa per l’accertamento volto a determinare se il nuovo procedimento
sia basato su fatti sostanzialmente identici rispetto a quelli che sono stati oggetto della
condanna definitiva.
63La Corte EDU tuttavia, precisa (cfr. § 122) che l’udienza pubblica, il cui obbligo non è da ritenersi assoluto (cfr. § 119
della sentenza e la giurisprudenza in esso richiamata), è stata ritenuta necessaria nel caso di specie in ragione dell’esistenza di una controversia circa la ricostruzione del fatto (ossia lo “stato di avanzamento” della negoziazione con
Merrill Linch) e del rischio di vedersi applicate sanzioni particolarmente severe sia dal punto di vista economico, sia
per il loro carattere infamante, potendo arrecare pregiudizio all’onorabilità professionale e al credito delle persone
interessate.
64Tripodi A.F., Abusi di mercato, cit., 2014, p.104. L’Autore precisa che, ragionando a contrariis, l’Italia poteva evitare
la condanna in sede europea solo se si fosse celebrata una udienza pubblica in grado di appello. In questo senso
anche D’Alessandro F., Tutela dei mercati e rispetto dei diritti umani fondamentali, in Dir. pen. proc., 2014, 623 il
quale evidenzia come la recente riforma del procedimento sanzionatorio davanti alla Consob sia stata un’occasione
mancata per eliminare tale criticità.
65Il nostro Governo aveva tentato, nelle proprie deduzioni, di evidenziare i profili differenziali che sul piano strutturale
caratterizzano i due tipi di illecito di manipolazione del mercato, quello amministrativo da un lato e quello criminale
dall’altro, specificando che la presenza del dolo e della price sensitivity erano “tipici” solo della fattispecie “veramente”
penale. Questa difesa aveva lo scopo – come dice anche Tripodi A.F., Abusi di mercato, cit., 2014, p. 105 – di ricondurre il fenomeno della medesimezza del fatto all’idem legale piuttosto che allo “stesso fatto”. Il Governo riteneva
pertanto si trattasse di un caso esemplare di concorso formale di illeciti.
66In particolare il riferimento è ai criteri ermeneutici enunciati nella pronuncia della Grande Camera nella causa Sergueï
Zolotoukhine c. Russia, n. 14939/03, 10 febbraio 2009.
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Ebbene, con un’affermazione certamente importante, la sentenza del 4 marzo67 mette
in risalto come la questione da definire non sia quella di stabilire se gli elementi costitutivi
degli illeciti previsti dagli articoli 187 ter e 185 TUF siano o meno identici, ma se i fatti
ascritti ai ricorrenti dinanzi alla Consob e dinanzi ai giudici penali siano riconducibili alla
stessa condotta. In termini più semplici ciò può essere letto nel senso che, al di là della
qualificazione giuridica utilizzata nei procedimenti dei quali uno chiuso con il passaggio in
giudicato e l’altro pendente, ciò che conta è confrontare le condotte specificamente poste
in essere dai medesimi soggetti per verificarne la sovrapponibilità. E la verifica positiva
porterebbe alla dichiarazione della sussistenza del ne bis in idem68.
Tale conclusione potrebbe essere riconducibile agli orientamenti della giurisprudenza
di legittimità in relazione all’art. 649 c.p.p.69. Applicandosi questo modalità di verifica
al caso FIAT, ne deriva che idem factum è in entrambi i procedimenti l’aver dichiarato
nella comunicazione al mercato che EXOR non aveva né studiato né intrapreso iniziative
concernenti la scadenza del prestito convertendo nonostante l’accordo di modifica dello
swap fosse già concluso70.
L’Italia è condannata a versare entro tre mesi a decorrere dalla data in cui la sentenza è
divenuta definitiva la somma di 10.000 euro, più l’importo eventualmente dovuto a titolo di
imposta, a ciascun ricorrente per il danno morale, la somma di 40.000 euro, più l’importo
eventualmente dovuto a titolo di imposta dai ricorrenti, a questi ultimi congiuntamente
per le spese.
67La Corte, riferendosi alla propria richiamata interpretazione consolidata, ha specificato che l’articolo 4 del Protocollo
n. 7 deve essere inteso nel senso che esso vieta di perseguire o giudicare una persona per un secondo «illecito» nella
misura in cui alla base di quest’ultimo vi sono fatti che sono sostanzialmente gli stessi e che la garanzia sancita all’articolo 4 del Protocollo n. 7 entra in gioco quando viene avviato un nuovo procedimento e la precedente decisione di
assoluzione o di condanna è già passata in giudicato. Inoltre, ricorda che l’articolo 4 del Protocollo n. 7 enuncia una
garanzia contro nuove azioni penali o contro il rischio di tali azioni, e non il divieto di una seconda condanna o di
una seconda assoluzione, sicché, poiché i ricorrenti dovevano considerarsi come «già condannati per un reato a seguito di una sentenza definitiva» ai sensi dell’articolo 4 del Protocollo n. 7, in ragione del passaggio in giudicato delle
sanzioni Consob una volta chiusa la fase dinanzi alla Corte di cassazione, la nuova azione penale, che nel frattempo
era stata avviata nei loro confronti, doveva essere interrotta ed invece non lo era stata. La Corte osserva anche che,
dopo la conferma da parte della Corte di cassazione della condanna pronunciata dalla Consob nel procedimento ex
art. 187 ter TUF, i ricorrenti hanno invocato, nel procedimento penale, il principio del ne bis in idem ed hanno eccepito, invano, l’incostituzionalità delle disposizioni pertinenti del TUF e dell’articolo 649 del c.p.p., a causa della loro
incompatibilità con l’articolo 4 del Protocollo n.7, con ciò esaurendo i rimedi previsti dall’ordinamento interno.
68La ricostruzione “europea” della nozione di “medesimo fatto” in termini di identità fattuale e concreta potrebbe determinare risvolti applicativi “dirompenti” su tutto il diritto penale nazionale a fronte di una lettura dell’art. 15 c.p.
– che indica quale criteri di soluzione delle antinomie normative in materia penale la specialità – che non ne potrà
prescindere. In altri termini, ragionare con alla mano la specialità in concreto determinerebbe una nuova allocazione
di rapporti tra istituti sostanziali quali il concorso di reati e il concorso apparente di norme.
69Per una sintesi recente degli orientamenti della Suprema Corte in tema di perimetrazione del concetto di “stesso
fatto giudicato”, da intendersi come “idem factum” e non come “idem legale”, si veda Sez. II, n. 18376 del 2013, P.G.
in proc. Cuffaro, Rv. 255837, che richiama, tra le altre, Sez. Un., n. 34655 del 28 giugno 2005, P.G. in proc. Donati e
altro, Rv. 231799.
70Tripodi A.F., Abusi di mercato, cit., 2014, p. 105. In particolare alla nota 9 l’Autore specifica come a diverse conclusioni si potrebbe giungere qualora si concepisse il pericolo di alterazione dei prezzi in cui si sostanzia la nota di
price sensitivity quale evento naturalistico della fattispecie e al contempo si aderisse alla posizione ormai consolidata
della giurisprudenza in tema di idem factum.
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4.2. I futuri scenari possibili: tutte le strade portano a Strasburgo … a Roma
E ora cosa accadrà? La Corte EDU ha davvero segnato il punto di non ritorno rispetto
alle eccentricità del sistema sanzionatorio in materia di illeciti amministrativi e criminali di
natura finanziaria? La Corte EDU ha enunciato principi esportabili anche ad altre aree del
diritto sanzionatorio nazionale? A questi ed ad altri interrogativi, la dottrina più sensibile
sta iniziando a dare risposta.
Ed intanto, la Corte di Cassazione ha deciso di smettere i panni dello “spettatore non
pagante” e, con due significative ordinanze di rimessione al Giudice delle Leggi da parte
della V Sezione penale71 e della Sezione Tributaria72, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale delle norme che prevedono la duplicazione punitiva, penale e amministrativa,
in materia di abusi di mercato.
La stabilizzazione della sentenza Grande Stevens73 ha costituito il viatico per l’opzione
“incidente di costituzionalità” nella prospettiva del necessario adeguamento ordinamentale
ai vincoli convenzionali74. Ad essere finito sotto la lente d’ingrandimento della Corte
Costituzionale è, quindi, l’intero sistema di tutela contro gli abusi di mercato giacché le
questioni sollevate riguardano, da un lato gli artt. 187 bis TUF e 649 c.p.p. e dall’altro
l’art. 187 ter TUF
In particolare, il giudizio giunto dinanzi alla Sezione V penale della Suprema Corte ha
ad oggetto fatti che, pur configurando una fattispecie diversa rispetto a quelli che hanno
generato la pronuncia della Corte EDU trattandosi di abuso di informazioni privilegiate
ex art. 184 TUF nella forma di tipping75, pongono i medesimi problemi di raddoppio
sanzionatorio senza che ciò abbia ricadute diverse quanto al pacifico riconoscimento della
violazione del principio di ne bis in idem. Detto altrimenti per la Corte, ritenuto comunque
71Cass. Pen., Sez. V, ord. 10 novembre 2014 (dep. 15 gennaio 2015), Pres. Vessichelli, Rel. Caputo, Imp. Chiaron.
72Cass., sez. trib. civ., ord. 6 novembre 2014 (dep. 21 gennaio 2015), Pres. Merrone, Rel. Chindemi.
73Cfr. Viganò F., Ne bis in idem: la sentenza è ora definitiva, in www.penalecontemporaneo.it , 8 luglio 2014 che dà
conto del rigetto dell’istanza di rinvio alla Grande Camera formulata dal Governo italiano sancendosi la definitività
della pronuncia ai sensi dell’art. 43 CEDU. L’Autore, evidenziando che «il rigetto dell’istanza (…) dimostra, evidentemente, che nell’ottica della Corte la sentenza non presenta particolari profili problematici, meritevoli di riconsiderazione da parte del massimo consesso europeo», preludeva già l’estate scorsa ad un intervento dell’ordinamento
nazionale teso a dare attuazione ai principi espressi in sentenza. E ciò mettendo in luce acutamente come «il quesito
non concerne[sse] tanto l’an dell’adeguamento, quanto più semplicemente il quomodo: attraverso un intervento del
legislatore volto a correggere il sistema di doppio binario censurato a Strasburgo nella materia degli abusi di mercato,
ovvero – ancor prima – mediante l’intervento del potere giudiziario, anch’esso vincolato – in quanto potere dello Stato
– a rispettare gli obblighi imposti dalla sentenza della Corte».
74Come messo in luce da Viganò F., Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta applicazione del‑
l’art. 50 della Carta? in www.penalecontemporaneo.it, 30 giugno 2014 tale “transito giuridico” dinanzi alla Consulta
sarebbe stato evitabile solo per effetto di un tempestivo intervento legislativo ricettivo delle statuizioni della Corte di
Strasburgo, oppure qualora si fosse aderito alla tesi della diretta applicazione da parte del giudice ordinario dell’art.
50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: prospettiva, quest’ultima, che avrebbe reso superflua – ed
anzi inammissibile – la chiamata in causa della Corte costituzionale.
75Con la sentenza deliberata in data 20 dicembre 2011, il Tribunale di Milano aveva dichiarato l’imputato colpevole
del reato di cui all’art. 184, comma I, lett. b) TUF perché, ritenuto in possesso di informazioni privilegiate in ragione
della sua attività lavorativa e professionale di analista finanziario presso una nota banca internazionale, aveva comunicato ad altri tali informazioni al di fuori del normale esercizio della sua professione. Segnatamente, l’imputato – poi
condannato – era a conoscenza dell’imminente pubblicazione da parte della banca di una ricerca cui lo stesso aveva
partecipato contenente una raccomandazione “buy” e un “target price” delle azioni dell’istituto di credito. Questi li
comunicava al di fuori del normale esercizio del lavoro violando le regole di riservatezza della banca di appartenenza
a sette operatori del mercato. Ragion per cui, ravvisandosi gli estremi della condotta di tipping, veniva condannato,
con la sospensione condizionale della pena, a un anno di reclusione e a 50 mila euro di multa e alle pene accessorie,
nonché al risarcimento danni, liquidati in 100 mila euro, alla Consob. La Corte d’Appello, pur concedendo il beneficio
della non menzione della condanna, confermava la sentenza impugnata.
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pregiudiziale l’esame dell’eccepita violazione del ne bis in idem76, sono rilevanti e non
manifestamente infondate:
a) in via principale, la questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art.
117, comma I, Cost. in relazione all’art. 4 Protocollo 7 CEDU, dell’art. 187 bis, comma
I, del TUF nella parte in cui prevede “Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce
reato» anziché «Salvo che il fatto costituisca reato”;
b) in via subordinata, per violazione dell’art. 117, comma I, Cost. in relazione all’art. 4
Protocollo 7 CEDU, dell’art. 649 c.p.p. nella parte in cui non prevede l’applicabilità della
disciplina del divieto di secondo giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con
provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai
sensi della CEDU e dei relativi Protocolli.
La Cassazione, in sostanza, con riferimento al punto sub a) chiede una pronuncia
manipolativa c.d. “sostitutiva”, che si concretizzerebbe in un intervento in parte demolitorio
di una porzione della disposizione oggetto di sindacato e in parte additivo di un nuovo
frammento normativo. L’obiettivo perseguito, chiaramente, è quello di riportare a coerenza
il sistema sanzionatorio in materia di insider trading, in modo che l’illecito penale ceda
il passo a quello amministrativo tutte le volte in cui il fatto concreto sia sussumibile nella
fattispecie delittuosa di cui all’art. 184 TUF77.
Ove la questione venisse accolta in questi termini, peraltro, il risultato sarebbe quello
della completa e generalizzata inapplicabilità della fattispecie sanzionatoria amministrativa
ai fatti di insider trading commessi dall’insider primario, data la perfetta sovrapponibilità
– che esclude alla radice un rapporto di sussidiarietà – tra le fattispecie amministrative
dell’art. 187 bis TUF e le condotte penalmente tipiche ai sensi dell’art. 184 TUF L’area
tipica dell’illecito amministrativo finirebbe così per risultare circoscritta alle condotte di
insider trading secondario, penalmente non sanzionate. E ciò, precisa la Suprema Corte,
perché l’applicabilità della norma manipolata dal Giudice delle leggi farebbe venir meno
il presupposto del ne bis in idem78.
76Con riferimento a questo specifico profilo il Collegio, aderendo ad un suo consolidato orientamento ritiene sia deducibile nel giudizio di cassazione la preclusione derivante dal giudicato formatosi sul medesimo fatto, fermo restando
l’onere di allegazione in capo al ricorrente della sentenza irrevocabile che la determina atteso che la violazione del ne
bis in idem è error in procedendo. Qualora, proseguono i giudici di legittimità, la fattispecie non ponga nessun ulteriore accertamento di merito e sia definitivamente definibile attraverso la documentazione prodotta non vi è motivo
per escludere che essi siano investiti della questione.
77Si segnala una precisazione interessante della Suprema Corte quando afferma che «non è di ostacolo al riconoscimento della rilevanza della questione l’irrevocabilità della pronuncia che ha oggetto l’opposizione dell’imputato avverso
l’applicazione della sanziona amministrativa da parte della Consob. Per un verso, infatti, la declaratoria di illegittimità
costituzionale della base legale della sanzione amministrativa pecuniaria irrogata all’imputato ex art. 187 bis TUF
determinerebbe l’applicazione dell’art. 30, IV comma, L. n. 87/1953 (il quale specifica che, quando in applicazione di
una norma incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano gli effetti penali).
78Ciò nonostante la dottrina aveva già rilevato, a partire dalla comunicazione dell’ordinanza di rimessione, criticità rispetto al parametro della rilevanza della questione di costituzionalità. Invero Scoletta, Il doppio binario sanzio‑
natorio del market abuse al cospetto della Corte Costituzionale per violazione del diritto fondamentale al ne bis in
idem, in www.penalecontemporaneo.it afferma che «in ogni caso, la questione di legittimità in esame sembra porre
– quanto meno prima facie – seri problemi di ammissibilità sotto il profilo della rilevanza. Invero, si deve logicamente
supporre che il giudizio a quo abbia ad oggetto un fatto di insider trading già sanzionato in sede amministrativa e
rispetto al quale sia ancora pendente il processo per l’accertamento della responsabilità penale ai sensi dell’art. 184
TUF; sicché non si comprende come possa incidere su tale giudizio penale l’eventuale rimodulazione della norma,
l’art. 187 bis TUF, che configura l’illecito amministrativo. L’art. 187 bis TUF, infatti, è stato già applicato una volta per
tutte nel procedimento amministrativo, e resta pertanto estraneo al giudizio penale, nel quale invece l’imputato rischia di dover rispondere – in violazione del ne bis in idem convenzionale – soltanto ai sensi dell’art. 184 TUF, che
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La questione sollevata in via subordinata – che riguarda la censura dell’art. 649 c.p.p.,
«nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo
giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per
il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una
sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della CEDU e dei relativi
Protocolli» – condurrebbe, se accolta, ad una situazione normativa pienamente conforme
alla garanzia del ne bis in idem di matrice convenzionale, i cui effetti avrebbero ricadute
immediate anche nel giudizio a quo. Ai sensi del comma 2 dell’art. 649 c.p.p., infatti, se
a seguito del passaggio in giudicato di una sentenza (di condanna o di proscioglimento) è
ancora pendente un procedimento per il medesimo fatto illecito, «il giudice in ogni stato
e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere,
enunciandone la causa nel dispositivo»79.
Sulla fondatezza della questione rispetto al parametro interposto sembra difficile avanzare
dubbi.
Piuttosto, la Corte costituzionale dovrà verosimilmente porsi una serie di problemi di
coordinamento sistematico del “nuovo” art. 649 c.p.p. rispetto alle norme del TUF (artt. 187
decies ss.) relative, parimenti, ai rapporti tra procedimento penale e procedimento amministrativo, che muovono proprio dal presupposto del doppio binario processuale e punitivo (si
pensi, in particolare, all’art. 187 duodecies, secondo cui “il procedimento amministrativo
di accertamento e il procedimento di opposizione di cui all’articolo 187 septies non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi
fatti o fatti dal cui accertamento dipende la relativa definizione”).
Anche per evitare, in futuro, possibili confusioni applicative o antinomie tra norme di
legge è allora opportuno – come suggerito da accorta dottrina – che la Corte, nel valutare
l’accoglimento della questione di legittimità dell’art. 649 c.p.p., prenda in considerazione
anche tali norme di coordinamento e valuti l’opportunità di eventuali dichiarazioni di
illegittimità consequenziale.
resterebbe però immodificato dall’intervento sollecitato ora alla Corte costituzionale. Occorrerà allora verificare se e
come la motivazione della Corte di Cassazione riuscirà a superare questa impasse, visto che nella notizia di decisione
si fa specifico riferimento anche alla ritenuta rilevanza di entrambe le eccezioni di legittimità costituzionale».
79Prosegue Scoletta, Il doppio binario sanzionatorio, op. cit. che «un’eventuale pronuncia di accoglimento della Corte costituzionale attribuirebbe evidentemente rilevanza anche alla pronuncia irrevocabile che conclude un procedimento sanzionatorio amministrativo; con la conseguenza, nel giudizio a quo, che la decisione che (presumibilmente)
ha concluso in via definitiva il procedimento sanzionatorio amministrativo per abuso di informazioni privilegiate ex
art. 187 bis TUF determinerebbe un obbligo di proscioglimento nel processo penale ex art. 649 comma 2 c.p.p.». Si
rileva tuttavia, nonostante il giudice remittente smorzi i toni del contrasto, gli effetti pratici di questa soluzione sarebbero esattamente opposti a quelli derivanti dall’accoglimento della questione sollevata in via principale: nel primo
caso la fattispecie penale assorbirebbe completamente – in relazione ai fatti di insider trading primario – la fattispecie
amministrativa (ed è comprensibile che questa rappresenti le “prima scelta” della giurisprudenza penale, altrimenti
sostanzialmente esautorata dalla funzione repressiva degli abusi di mercato); nel secondo caso, viceversa, sarebbero
le sanzioni penali ad essere messe all’angolo, in ragione della tendenziale maggiore rapidità di svolgimento dei procedimenti sanzionatori amministrativi, la cui conclusione produrrebbe inevitabilmente l’effetto di neutralizzare i giudizi
penali in corso per i medesimi fatti.
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4.3. … e se Salomone si fosse sbagliato? Il decreto dell’11 settembre 2014 della
Procura generale della Corte di Cassazione (caso Fonsai)
A ricomporre la contesa circa l’indagine sulla fusione Unipol-Sai tra, da un lato la
Procura di Torino, e dall’altro quella di Milano, è dovuta intervenire “di forza” la Procura
Generale della Corte di Cassazione. La soluzione del conflitto positivo di competenza, ai
sensi dell’art. 54 bis del c.p.p.80 ha condotto la vicenda verso il capoluogo piemontese
“strappandola” alle cure investigative della Procura di Milano sulla base di un ragionamento
contraddistinto da premesse discutibili, se non addirittura errate81.
I due momenti di criticità più evidenti dell’intero provvedimento sono riscontrabili
nella “strana” valutazione della cornice edittale dei due illeciti su cui indagavano – fin a
quel momento – le due Procure coinvolte e la ricostruzione, a dir poco suggestiva, che si
fa della nozione di “pericolo” quale elemento della fattispecie di market manipulation.
Il primo profilo si “smonta” con disarmante facilità. In modo alquanto sorprendente,
pare che alla Procura Generale presso la Suprema Corte sia sfuggita una modifica normativa
di non poco momento, ovvero l’inasprimento sanzionatorio – il raddoppio delle pene per
la precisione – ad opera della L. 28 dicembre 2005, n. 262, che all’art. 39 era intervenuto
anche per i reati previsti dal TUF. La cornice edittale della manipolazione su cui ha ragionato
la Procura generale, applicando l’art. 16 c.p.p. al fine di determinare la competenza per
territorio in procedimenti connessi, era quella antecedente alla riforma del 2005 nonostante
si trattasse di condotte temporalmente collocabili tra il 2012 ed il 201382.
In termini meno sibillini, la pena edittale stabilita dall’art. 185 TUF è compresa fra un
minimo di due anni e un massimo di dodici, di gran lunga superiore, quindi, a quella di
cui all’art. 2622 c.c. che ha come pena base quella della reclusione da 6 mesi a 3 anni
che si eleva alla forbice sanzionatoria a 2 anni nel minimo e 6 anni nel massimo qualora
si ravvisi, come nel caso di specie, l’aggravante del “grave nocumento ai risparmiatori”.
Tutto questo a prescindere dalla valutazione della pena pecuniaria prevista per la fattispecie
di cui all’art. 185 TUF.
A tale considerazione fa da eco anche, la non richiesta – è bene precisarlo – dissertazione
in cui si è cimentata la Procura generale in tema di competenza territoriale per il delitto
80L’art. 54 bis è rubricato “Contrasti positivi tra uffici del pubblico ministero” e prevede: (1) Quando il pubblico ministero riceve notizia che presso un altro ufficio sono in corso indagini preliminari a carico della stessa persona e per
il medesimo fatto in relazione al quale egli procede, informa senza ritardo il pubblico ministero di questo ufficio richiedendogli la trasmissione degli atti a norma dell’articolo 54 comma 1. (2) Il pubblico ministero che ha ricevuto
la richiesta, ove non ritenga di aderire, informa il procuratore generale presso la corte di appello ovvero, qualora
appartenga a un diverso distretto, il procuratore generale presso la Corte di cassazione. Il procuratore generale, assunte le necessarie informazioni, determina con decreto motivato, secondo le regole sulla competenza del giudice,
quale ufficio del pubblico ministero deve procedere e ne dà comunicazione agli uffici interessati. All’ufficio del pubblico ministero designato sono immediatamente trasmessi gli atti da parte del diverso ufficio. (3) Il contrasto si intende risolto quando, prima della designazione prevista dal comma 2, uno degli uffici del pubblico ministero provvede
alla trasmissione degli atti a norma dell’articolo 54 comma 1. (4) Gli atti di indagine preliminare compiuti dai diversi
uffici del pubblico ministero sono comunque utilizzabili nei casi e nei modi previsti dalla legge. (5) Le disposizioni
dei commi 1, 2 e 3 si applicano in ogni altro caso di contrasto positivo tra pubblici ministeri.
81In questo senso Mucciarelli F., Il locus commissi delicti nella manipolazione del mercato. Aporie normative e si‑
stematiche della decisione ex art. 54 bis c.p.p. nel caso Fonsai, in www.penalecontemporaneo.it.
82Applicando il medesimo criterio di cui al codice di rito, il Tribunale di Torino, con l’ordinanza del 30 gennaio 2014
emessa a seguito delle eccezioni di incompetenza territoriale sollevate dalle difese degli imputati nell’ambito del
procedimento penale originato dalla diffusione di notizie relative al bilancio consolidato di Fondiaria-Sai S.p.A. per
l’esercizio 2010, che l’accusa asseriva esser falso, le respingeva affermando la propria competenza. Per un commento
all’ordinanza si veda Nisco A., Manipolazione informativa del mercato e luogo di consumazione del reato, in www.
penalecontemporaneo.it.
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di aggiotaggio finanziario. E proprio qui si individua il secondo punto di debolezza della
decisione della Procura Generale nonostante i buoni propositi di far chiarezza sul punto.
Invero la giurisprudenza ha conosciuto moti dissonanti rispetto a tale questione, tante
“variazioni sul tema”83.
Un primo filone ha selezionato come dirimente l’evento di pericolo come giuridicamente
e logicamente distinguibile dalla condotta posta in essere dal soggetto attivo del reato.
Esito di tale impostazione è che il tempo e soprattutto il luogo in cui il bene giuridico
viene messo in pericolo può non coincidere con le coordinate spazio-temporali proprie
della condotta84, per cui – quando si ha a che fare con titoli quotati in borsa – la possibile
alterazione quale “evento di pericolo” non potrà che verificarsi a Milano con conseguente
accentramento della competenza territoriale nella relativa circoscrizione85.
Voce fuori dal coro, invece, quella della Procura Generale che partendo dal presupposto
che l’aggiotaggio è un reato formale (di mera condotta), e come tale privo di evento,
l’alterazione del prezzo degli strumenti finanziari non può essere elemento costitutivo del
reato talché non è necessario che si verifichi la fattispecie. Una lettura siffatta esclude
completamente dall’orizzonte di rilevanza il carattere di concretezza del pericolo rispetto
al luogo di consumazione del reato. «La differenza tra reati di pericolo concreto e reati di
pericolo astratto incide solo sull’attività di accertamento del giudice, che nel primo caso
ha l’onere di verificare se l’interesse penalmente tutelato ha subito un effettivo pericolo,
mentre nel secondo caso è presunto dalla legge. Ma non incide sul luogo di consumazione,
che è sempre e solo quello in cui la condotta è stata posta in essere, non quello nel quale,
se il bene fosse stato leso, la lesione si sarebbe verificata»86.
A “sparigliare ancora le carte in tavola” o a praticare una ortopedica reconductio ad unum
le visioni e gli elementi della fattispecie che dir si voglia, è intervenuta la Corte di Cassazione
nell’ambito del filone milanese del caso Parmalat87. Il giudice di legittimità, confermando
la competenza in capo al Tribunale di Milano, ha precisato che la manipolazione del
mercato è reato di mera condotta a pericolo concreto e che perfezionandosi uno actu, si
consuma nel momento in cui la notizia – capace di avere impatto sul mercato in termini
83Ancora Nisco A., Manipolazione informativa del mercato e luogo di consumazione del reato, in www.penalecontemporaneo.it e Sgubbi F., La manipolazione del mercato, cit., Padova, 2013, p. 102.
84G.U.P. presso il Tribunale di Monza, 24 aprile 2006 che sul punto istaura un paragone tra il reato di aggiotaggio e
la diffamazione a mezzo stampa, che tuttavia unanime giurisprudenza ritiene reato d’evento. In questo senso anche
l’ordinanza del Tribunale di Milano, 26 febbraio 2007, in Foro ambrosiano, 2007, p. 96.
85La nozione di “evento di pericolo”, con consequenziale scomposizione della condotta dal pericolo è stata confermata –
senza però investire direttamente la questione della competenza – dalla sentenza del Tribunale di Torino sulla vicenda
nota come “caso IFIL-FIAT”, relativa ad una manipolazione informativa attribuita ad alcuni amministratori e consulenti
operanti nell’ambito del gruppo FIAT trattata in questo contributo ai fini della ricostruzione della tematica del “ne bis
in idem” nel sistema sanzionatorio del doppio binario. Nella pronuncia si specifica che, sulla base della distinzione generale tra pericolo astratto e concreto, alla luce della quale la sola idoneità non sarebbe sufficiente a connotare i reati
di pericolo concreto, e della differenza tra illecito penale ed amministrativo di manipolazione, il pericolo di alterazione dei prezzi si configura come «autonomo elemento essenziale del reato, indispensabile per la sua consumazione
che, dunque, si aggiunge alla condotta». La situazione ingenerata dalla condotta sarebbe, con ciò, «un vero e proprio
evento naturalistico», suscettibile di verifica processuale sulla base di un accertamento ex post, guidato dalla concreta
reazione dei mercati. Cfr. anche in dottrina Molinaro E., Il pericolo concreto della fattispecie di manipolazione del
mercato al banco di prova del processo penale, in Cass. Pen., 2011 p. 3584, Falcinelli D., Il giudice, l’antifrasi e una
“Fata morgana”, cit., Preziosi S., Il pericolo come evento , cit. p. 379/II ss.
86Decreto del 7 giugno 2006.
87Cass, Sez. V, ud. 20 giugno 2012, n. 40393, in Cass. pen., 2013, p. 4623 ss.
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diritto bancario
di valore del titolo – viene comunicata o diffusa uscendo dalla sfera di disponibilità del
soggetto attivo.
Il luogo di consumazione delle condotte incriminate, consistenti nella periodica
diffusione di notizie false, tramite comunicati stampa e conferenze al mercato, era stato
fissato, dai giudici del merito, in Milano, poiché, posta la natura di reato di mera condotta,
la divulgazione al pubblico, che consuma il reato di aggiotaggio, si ravvisa solo mediante
il contributo ultimo della stessa società di gestione del mercato, dal cui server (Network
Information System – NIS) il comunicato viene posto a disposizione della generalità indistinta
degli investitori.
E la Corte di Cassazione, nel confermare la competenza della sede milanese perché è
proprio qui che ha sede tale sistema informativo88, specifica che l’illecito si consuma nel
momento stesso in cui la notizia, foriera di scompenso valutativo del titolo, viene comunicata
e diffusa e, cioè, valicando i confini di dominabilità dell’agente. La distinzione tra il momento
dell’invio della notizia e quello della possibilità della rilevante alterazione del corso dei valori
sarebbe, a tali fini, destituita di fondamento trattandosi, per struttura, di un reato senza evento
naturalistico (ovvero senza la produzione necessaria di un “inganno”/”danno” nei confronti
dei destinatari), bensì fondato su di un “evento giuridico” rappresentato dalla distorsione del
gioco della domanda e dell’offerta sul mercato mobiliare da accertarsi attraverso i meccanismi
della prognosi postuma.
Ulteriore tappa di questa ricostruzione diacronica è senza dubbio la decisione resa in
occasione del caso “Antonveneta”. Un fatto tipico, quello della scalata italiana, su cui si
sono innestate vuoi una condotta di manipolazione operativa vuoi una di manipolazione
informativa89 che hanno fatto si che le stesse – agli occhi del giudicante – non si configurassero come reato continuato, bensì come “reato eventualmente permanente”.
Per dirla tutta, la ricostruzione giunge al medesimo esito cui sono giunti i giudici del
caso “Parmalat”, trattato qualche riga addietro, nonostante l’impostazione del problema
si muova attraverso categorie giuridiche parzialmente differenti. Ed invero, immaginare la
manipolazione come un unico illecito nel quale l’offesa al bene giuridico è fatta durare, in
concreto, nel tempo, dall’agente significa da un lato tentare di far salva la qualificazione
della manipolazione come reato di pericolo e, ad un tempo, giustificare, un certo distacco
tra condotta e situazione di pericolo. Tale schema ermeneutico colloca la consumazione
del reato nel tempo e nel luogo in cui si concretizza, quale conseguenza della condotta, la
rilevante possibilità di verificazione della sensibile alterazione del prezzo dello strumento
finanziario, facendosi, pertanto, coincidere il luogo con il mercato e con la sede della
società che lo gestisce.
Cosicché è ancora Milano il fulcro esclusivo della competenza dato che la manipolazione
mediante altri artifici si consuma nel luogo in cui avviene l’abbinamento automatico delle
88Precisa Sgubbi F., La manipolazione del mercato, cit. p. 104 che, a seguito della modifica del Regolamento Emittenti
ad opera della delibera della Consob del 1 aprile 2009, le comunicazioni al mercato ex art. 144 TUF possono anche
avvenire in proprio oppure ricorrendo ad un sistema di diffusione di informazioni regolamentate (SDIR: sistema di
comunicazione elettronica che collega società quotate amministrato da terzi), non essendo più richiesto che le comunicazioni avvengano attraverso il sistema informatico di Borsa italiana S.p.A. con sede a Milano. Da qui ne deriva
chiaramente che, considerando il reato in oggetto come di mera condotta e data l’operatività della nuova disposizione
regolamentare, Milano non potrà più essere considerato sic et simpliciter foro competente.
89Per una ricostruzione del caso, partendo dalla decisione di secondo grado, si rinvia a Amati E., Aggiotaggio operativo
e scalate bancarie “occulte”. Il caso Antonveneta, in Le Società, 2012, p. 1341 ss.
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
proposte di negoziazione in acquisto e vendita degli strumenti finanziari, coincidente –
difatti – col sistema informatico di Borsa Italiana S.p.A.90
Ed oggi, con uno strano “volo pindarico” che prende le mosse dalla concezione del
reato come di mera condotta, sostenendo che la stessa debba assumere modalità concrete
tali da esprimere l’effettiva offensività (sub specie messa in pericolo) del bene protetto –
condividendosi la teoria per cui l’illecito amministrativo dà vita a un fattispecie di pericolo
presunto, mentre quella delittuosa integra un reato di pericolo concreto – la Procura Generale
si spinge troppo oltre.
Ovvero, delle due l’una. O si accetta la tesi del reato “formale”, ma ciò conduce a
sposare la conclusione già raggiunta qualche anno addietro dalla stessa Procura Generale
– e tra l’altro provvedimento citato nel decreto in esame –, ossia che a nulla rileva il
pericolo nell’individuazione del locus commissi delicti. Oppure si valorizza il pericolo al
punto da qualificarlo come evento distinguendolo nettamente dalla condotta cosicché il
reato si consuma nel momento in cui la notizia – capace di avere impatto sul mercato in
termini di valore del titolo – viene comunicata o diffusa uscendo dalla sfera di disponibilità
del soggetto attivo.
Quest’ultima strada ermeneutica – che evidentemente rispecchia la scelta del giudicante
nel caso “Parmalat” – è stata “palesemente fraintesa”91 quando nel testo del provvedimento
si legge infatti che il momento consumativo del reato va collocato nel momento in cui il
soggetto attivo “decide” di palesare all’esterno la condotta decettivo e ancora che è rilevante
il luogo e il momento in cui sia stata decisa la diffusione e non quello in cui un impiegato
abbia provveduto alla digitazione.
Ma questo è solo l’osservazione più immediata. Perché oltre al danno per la Procura
di Milano che ha sollevato il conflitto positivo di competenza, anche la beffa.
Ed invero, nella prospettiva della Procura Generale presso la Corte di cassazione vi è
un equivoco di fondo. Un misunderstanding “culturale” per cui a venire in rilievo è dunque
non già la condotta, bensì la componente volitiva, la decisione rispetto al comportamento
attraverso il quale la decisione stessa si realizza. E tale lettura conduce al sostanziale
disinteresse verso le emergenze probatorie allegate dal Pubblico Ministero di Milano in
relazione alle prassi aziendali di gestione dei comunicati (in particolare sull’immissione
nel sistema NIS prima dell’invio agli investitori tramite mailing list).
A voler ragionare in termini rigorosi una simile ricostruzione tende a rendere punibile la
stessa intenzione, non già la condotta in spregio di tutta quella dogmatica sulla colpevolezza
che ravvisa il fondamento ontologico della volizione quale componente del dolo nella
volontà consapevole di realizzare un fatto tipico ed antigiuridico non essendo sufficienti
in tal senso desideri, speranze, proponimenti, tendenze, inclinazioni e tutto quello che
attiene al foro interiore dell’individuo92.
90La dottrina, stante l’identità dei meccanismi di registrazione utilizzati dagli intermediari, si è proposto di estendere
alla manipolazione il criterio fissato per l’abuso di informazioni privilegiate. La Corte d’Appello di Milano, nella sentenza all’esito della vicenda della scalata a BNL, rifiuta tale impostazione dubitando la valenza del meccanismo della
“specificazione da genere a specie” di quanto acquistato dai clienti. La tesi dell’annotazione sul dossier titoli non ha
trovato quindi seguito rispetto alla giurisprudenza in tema di aggiotaggio.
91Per queste ed altre osservazioni critiche al decreto si veda Mucciarelli F., Il locus commissi delicti nella manipola‑
zione del mercato, cit.
92Ancora Mucciarelli F., Il locus commissi delicti nella manipolazione del mercato., cit., il quale ritiene che tale “nefasto” esito (esplicitamente non riconosciuto, ma inesorabilmente raggiunto), il decreto in discorso possa evitare con
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Tutta la ricostruzione sin qui condotta – evidenziandosi conclusivamente come la
sottrazione della competenza territoriale ad opera della Procura di Torino col bene placet
della Procura Generale della Cassazione, sia frutto di errori e aporie estremamente maldestre – passa per una considerazione di principio, ovverosia il monito in capo al legislatore
di meglio determinare in maniera precisa le differenze tra il delitto dell’art. 185 TUF e
l’illecito amministrativo dell’art. 187 ter TUF.
Non si tratta di una osservazione vuota e fine a se stessa, ma risponde alla necessità di
una delimitazione dei confini tra le due fattispecie di illecito tale da definire in modo ancor
più preciso, tassativo e determinato gli elementi costitutivi della condotta del reato. Ciò
perché l’individuazione del luogo di commissione del reato medesimo è solo uno dei profili
di rilevanza che attengono alla nozione di consumazione, ossia la compiuta realizzazione
di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie criminosa. Ad essa si aggiungono – inter alia
– infatti, i profili attinenti all’individuazione della norma applicabile in caso di successione
di leggi penali nel tempo, alla determinazione della prescrizione.
5. Recenti interventi del legislatore europeo
5.1. Tolleranza zero
L’attuale quadro legislativo e regolamentare in materia di abusi di mercato sarà oggetto
di rivisitazione alla luce delle disposizioni recentemente introdotte da una direttiva e da un
regolamento comunitari che hanno l’intento di allineare le norme comunitarie all’evoluzione
dei mercati e degli strumenti finanziari, promuovendo l’integrità dei mercati finanziari
all’interno dell’Unione all’unisono con la protezione degli investitori.
L’approccio del legislatore comunitario può essere – senza mezzi termini – definito
come “tolleranza zero”93 nei confronti di coloro che attuano comportamenti manipolativi
del mercato o di abuso di informazioni privilegiate ed è questa la chiave di lettura del
sostanzioso pacchetto normativo che è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale dell’Unione
Europea il 12 giugno 2014, il quale comprende:
– il Regolamento (UE) n. 596/2014 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 aprile
2014 relativo agli abusi di mercato (Regolamento sugli abusi di mercato) e che abroga
la direttiva 2003/6/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio e le direttive 2003/124/
CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE della Commissione (di seguito “Regolamento UE”). Ad
eccezione di alcune disposizioni riguardanti l’implementazione da parte dell’ESMA delle
norme tecniche di regolazione, le disposizioni entreranno in vigore il 3 luglio 2016;
– e la direttiva 2014/57/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014
relativa alle sanzioni penali in caso di abusi di mercato (Direttiva abusi di mercato, d’ora
l’argomento secondo cui «non vi è alcun spazio né volitivo né temporale tra la decisione della diffusione e la diffusione stessa, è atto unitario la cui decisione viene assunta e palesata in Torino in quanto ad esser rilevante è «il luogo
e il momento in cui sia stata decisa la diffusione e non quello in cui un impiegato abbia provveduto alla digitazione,
trattandosi di mera esecuzione di una decisione già assunta e operativa senza alcuna possibilità da parte del materiale
operatore di agire diversamente».
93Come gli stessi Viviane Reding, Vicepresidente della Commissione e Commissaria per la Giustizia, e Michel Barnier,
Commissario per il Mercato interno e i servizi, hanno dichiarato in occasione dell’adozione da parte del Consiglio dell’Unione europea della proposta di regolamento e di direttiva in materia di abusi di mercato: “L’adozione odierna del
regolamento e della direttiva rappresenta un messaggio forte di “tolleranza zero” nei confronti di coloro che abusano
delle informazioni privilegiate in loro possesso cercando di manipolare il mercato”.
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in avanti, “Direttiva”) la quale dovrà essere recepita dagli Stati Membri entro il 3 luglio
2016.
Il Regolamento UE ha il pregio di istituire a livello comunitario un quadro normativo
comune in materia di abusi di mercato, nonché misure per prevenire gli abusi di mercato,
mentre la direttiva stabilisce le norme minime per le sanzioni penali applicabili all’abuso
di informazioni privilegiate, alla comunicazione illecita di informazioni privilegiate e alla
manipolazione del mercato.
Fra le più rilevanti novità emergono la previsione di ulteriori figure di illecito che
espressamente vengono a far parte della categoria degli abusi di mercato (la manipolazione
degli indici, manipolazione compiuta con ordini di negoziazione effettuati attraverso
mezzi elettronici, come le strategie di negoziazione algoritmiche e ad alta frequenza,
cfr. art. 12, comma 2, lett. c), la repressione del tentativo di market manipulation, la
nozione di informazione privilegiata a formazione progressiva, la previsione di una serie di
condotte legittime (“safe harbour” di cui all’art. 9 del Regolamento UE 94). Il Regolamento
UE segna, inoltre, un ampliamento dell’ambito di applicazione della disciplina attraverso
l’inclusione di ulteriori tipologie di strumenti finanziari (fra i quali i derivati OTC) e di sedi
di negoziazione fra quelle potenzialmente oggetto di comportamenti illeciti. Si segnala,
fra l’altro, l’introduzione della disciplina dei sondaggi di mercato per collocamento e la
regolamentazione del whistlerblowing, l’armonizzazione sulla quantificazione delle sanzioni
amministrative (e penali attraverso le disposizioni della Direttiva) al fine di incrementare
l’effetto deterrente del sistema sanzionatorio europeo, la riduzione degli oneri gravanti
sulle piccole e medie imprese95.
5.2. Ampliamento dell’ambito di applicazione: l’art. 2 del Regolamento UE
In via generale, l’approccio dell’intervento di normazione diretta operato in sede
comunitaria è sia strettamente repressivo (data la presenza della Direttiva che integra il
sistema di tutela riguardando direttamente le sanzioni penali in caso di abusi di mercato),
sia di tipo preventivo secondo una logica di controllo e contenimento dei fenomeni distorsivi
del mercato, per così dire, “a tutto tondo” in un contesto nazionale, sovranazionale e
internazionale di crisi strutturale.
La Direttiva 2003/6/CE si concentrava sugli strumenti finanziari ammessi alla negoziazione
su un mercato regolamentato o per i quali era stata richiesta l’ammissione alla negoziazione
su un mercato regolamentato. Tuttavia, negli ultimi anni gli strumenti finanziari sono stati
negoziati con sempre maggior frequenza sui sistemi multilaterali di negoziazione (MTF).
94In particolare non costituisce di per sé abuso di informazioni privilegiate: i) l’uso di informazioni privilegiate acquisite
nel quadro di operazioni di fusione o acquisizione e utilizzate a tali fini; ii) l’uso della decisione di acquisire o disporre
di certi strumenti finanziari nell’acquisizione o disposizione di tali strumenti.
95La semplificazione per gli emittenti quotati su uno “SME growth market” (come definiti dall’art. 33 della nuova MiFID): i) obblighi semplificati di divulgazione delle informazioni (art. 17, comma 9); ii) esenzione dalla creazione di
un registro delle persone che hanno accesso a informazioni privilegiate a condizione che l’emittente assicuri che: a)
le persone che hanno accesso alle informazioni privilegiate siano correttamente informate degli obblighi giuridici e
regolamentari che ciò comporta; b) l’emittente sia in grado di fornire, su richiesta, all’autorità competente un elenco
delle persone che hanno accesso alle informazioni privilegiate.
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Esistono anche strumenti finanziari che vengono negoziati solo su altri tipi di sistemi
organizzati di negoziazione (OTF96) o che vengono negoziati soltanto fuori borsa (OTC).
In quest’ottica, l’ambito di applicazione del nuovo Regolamento UE include tutti gli
strumenti finanziari negoziati su un mercato regolamentato, un MTF o un OTF, e tutte le
altre condotte o iniziative che possono avere un effetto sui suddetti strumenti finanziari, a
prescindere dal fatto che abbiano o meno luogo in una sede di negoziazione. Nel caso di
alcuni tipi di MTF i quali, come i mercati regolamentati, aiutano le società a raccogliere
finanziamenti di capitale di rischio, il divieto di abuso di mercato si applica anche quando
è stata presentata una richiesta di ammissione alla negoziazione su tale mercato. Ciò
dovrebbe migliorare la tutela degli investitori, tutelare l’integrità dei mercati e assicurare
un chiaro divieto dell’abuso di mercato di tali strumenti97.
Si noti come l’Italia sul punto abbia già fatto da apri-pista rispetto alla sanzionabilità
di comportamenti di abuso riguardanti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione su
un mercato regolamentato o per i quali è stata presentata una richiesta di ammissione alla
negoziazione su un mercato regolamentato e strumenti finanziari negoziati su un sistema
multilaterale di negoziazione nazionale, ammessi alla negoziazione o per i quali è stata
presentata una richiesta di ammissione alla negoziazione.
Occorre, tuttavia, subito osservare che il legislatore italiano – rendendo ancor più
complessa e strutturata la tutela approntata agli abusi di mercato attraverso il Titolo I bis
del TUF introdotto dall’art. 9 della L. n. 62 del 18.4.2005 e cercando di aggiornare i reati
di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato alle indicazioni della
direttiva MiFID – ha introdotto con il D.Lgs. n. 101 del 17 luglio 2009 una specifica ipotesi
contravvenzionale agli artt. 184 e 185 TUF.
Tale illecito è punito con l’ammenda fino a € 103.291 e l’arresto fino a tre anni per
l’ipotesi in cui una delle condotte illecite venga commessa con riferimento ad uno strumento
finanziario ammesso esclusivamente98 su un sistema multilaterale di negoziazione. Tuttavia,
tale fattispecie si configura in capo ai soggetti attivi solo a titolo di dolo.
La distonia dell’impianto riguarda la scelta di politica criminale di fondo: non è
chiaro come mai il legislatore abbia ritenuto meno grave – e quindi punibile con una
contravvenzione – una condotta di abuso dell’informazione privilegiata o di manipolazione,
identica dal punto di vista strutturale, se posta in essere su un MTF piuttosto che su mercati
regolamentati.
Tornando all’art. 2 del Regolamento UE rubricato “Ambito di applicazione”, il prisma
dell’armonizzazione tra le discipline previste dai vari Paesi membri domina l’intera
disposizione, per cui il nuovo Regolamento UE si applica (i) agli strumenti finanziari ammessi
alla negoziazione su un mercato regolamentato o per i quali è stata presentata una richiesta
di ammissione alla negoziazione su un mercato regolamentato; (ii) agli strumenti finanziari
96Ai sensi della Direttiva 2014/65/CE per OTF si intende “un sistema multilaterale diverso da un mercato regolamentato
o sistema multilaterale di negoziazione che consente l’interazione tra interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi
relativi a obbligazioni, strumenti finanziari strutturati, quote di emissione e strumenti derivati, in modo da dare luogo
a contratti conformemente al titolo II della presente direttiva”.
97Cfr. Considerando n. 8 del Regolamento UE.
98Quanto agli strumenti finanziari che, pur essendo scambiati su un mercato regolamentato, vengono ammessi anche
alle negoziazioni su un MTF, l’art. 182, comma II-bis, TUF (anch’esso introdotto con il D.Lgs. n. 101 del 17 luglio 2009)
prevede già la possibile applicazione di tutte le sanzioni penali ed amministrative previste per gli abusi di mercato.
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negoziati su un MTF, ammessi alla negoziazione su un MTF o per i quali è stata presentata
una richiesta di ammissione alla negoziazione su un MTF; (iii) agli strumenti finanziari
negoziati su un OTF; (iv) agli strumenti finanziari diversi dai precedenti, il cui prezzo o
valore dipende da uno strumento finanziario di cui alle suddette lettere, ovvero ha un
effetto su tale prezzo o valore, compresi, ma non in via esclusiva, i credit default swap e
i contratti finanziari differenziali.
Il Regolamento UE si applica altresì alle condotte o alle operazioni, comprese le offerte
relative alle aste su una piattaforma d’asta autorizzata come un mercato regolamentato
di quote di emissioni o di altri prodotti oggetto d’asta correlati, inclusa l’ipotesi in cui i
prodotti oggetto d’asta non siano strumenti finanziari, ai sensi del Regolamento (UE) n.
1031/201099.
A completare il quadro gli artt. 12 e 15 – i quali descrivono compiutamente la fattispecie
di manipolazione del mercato – si applicano anche:
– ai contratti a pronti su merci che non sono prodotti energetici all’ingrosso, se
un’operazione, ordine di compravendita o condotta ha, o è probabile che abbia o è finalizzato
ad avere, un effetto sul prezzo o sul valore di uno strumento finanziario;
– ai tipi di strumenti finanziari, compresi i contratti derivati o gli strumenti derivati per
il trasferimento del rischio di credito se un’operazione, ordine di compravendita, offerta
o condotta ha o è probabile che abbia un effetto sul prezzo o sul valore di un contratto
a pronti su merci, qualora il prezzo o il valore dipendano dal prezzo o dal valore di tali
strumenti finanziari;
– alla condotta in relazione agli indici di riferimento (v. infra), e
– a qualsiasi operazione, ordine di compravendita o condotta relativi agli strumenti
finanziari di cui ai punti precedenti, indipendentemente dal fatto che tale operazione,
ordine di compravendita o condotta avvenga in una sede di negoziazione.
5.3. Gli illeciti amministrativi: le principali novità del Regolamento UE
Al concetto di informazione privilegiata sia il legislatore interno, sia quello comunitario
dedicano un articolo intero. La nozione di informazione privilegiata è sostanzialmente la
medesima: un’informazione di carattere preciso, che non è stata resa pubblica, concernente,
direttamente o indirettamente, uno o più emittenti strumenti finanziari o uno o più strumenti
finanziari, che, se resa pubblica, potrebbe influire in modo sensibile sui prezzi di tali
strumenti finanziari.
Il legislatore comunitario, tuttavia, rispetto all’impostazione interna, aggiunge un tassello
normativo che attiene alle circostanze o agli eventi che si possa ragionevolmente prevedere
che verranno ad esistenza o si verificheranno, ossia in relazione al tema dell’informazione
privilegiata che attiene a fatti o circostanze futuri.
99Il Regolamento (UE) n. 1031/2010 della Commissione ha determinato due regimi paralleli di abuso di mercato applicabili alle aste delle quote di emissioni. Come osservato nello stesso Regolamento UE, a seguito della classificazione
delle quote di emissioni come strumento finanziario, l’applicabilità del Regolamento abbraccia la totalità dei mercati
primari e secondari delle quote di emissioni incluso quando i prodotti oggetto d’asta non sono strumenti finanziari,
cfr. Considerando 37.
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È stato sottolineato l’“alto rischio di indeterminatezza” di queste notizie, seppur temperato
dal parametro della ragionevole prevedibilità dei fatti futuri100, il quale lascerebbe ampi
margini di discrezionalità all’interprete. Su questi margini è intervenuto il Regolamento UE
che ha statuito che in un “processo prolungato” inteso a concretizzare, o che determina,
una particolare circostanza o un particolare evento, la futura circostanza o il futuro evento,
nonché le tappe intermedie di detto processo che sono collegate alla concretizzazione o
alla determinazione della circostanza o dell’evento futuri, possono essere considerate come
informazioni aventi carattere preciso. Il Regolamento UE stabilisce, in particolare, che una
tappa intermedia in un processo prolungato è considerata un’informazione privilegiata se
risponde ai criteri fissati per definire l’informazione privilegiata. In altri termini, una tappa
intermedia nelle negoziazioni contrattuali o le condizioni contrattuali provvisoriamente
convenute, o anche la possibilità di collocare strumenti finanziari, le condizioni alle quali
tali strumenti sono venduti, le condizioni provvisorie per la collocazione di strumenti
finanziari, o la possibilità che uno strumento finanziario sia incluso in un indice principale
o la cancellazione di uno strumento finanziario da un tale indice101, sono tutte tappe
intermedie che ora hanno esplicitamente rilevanza ai fini dell’integrazione dell’illecito di
insider trading a patto che soddisfino i requisiti tipici dell’informazione privilegiata (i.e.
carattere non pubblico dell’informazione, carattere “preciso” e idoneità dell’informazione
a influire in modo significativo sul prezzo).
Si segnala, inoltre, l’ingresso esplicito nella fattispecie dell’illecito di abuso di
informazione privilegiata dell’annullamento o della modifica di un ordine concernente
uno strumento finanziario al quale le informazioni si riferiscono quando tale ordine è stato
inoltrato prima che la persona interessata entrasse in possesso delle informazioni privilegiate
e, per le aste di quote di emissioni o di altri prodotti oggetto d’asta, l’uso di informazioni
privilegiate si configura anche quando una persona presenta, modifica o ritira un’offerta
per conto proprio o per conto di terzi102.
Quanto alla manipolazione di mercato, la novità principale del Regolamento è data
dalla previsione esplicita dell’illecito manipolativo legato a un indice di riferimento. Il
prezzo di numerosi strumenti finanziari è fissato con riferimento a indici di riferimento.
La manipolazione o tentata manipolazione degli indici di riferimento, compresi i tassi dei
prestiti interbancari, può avere conseguenze gravi e ledere la fiducia degli investitori nei
mercati, generando perdite consistenti per gli investitori o distorsioni nell’economia reale.
Il Regolamento UE vieta, pertanto, esplicitamente, la trasmissione di informazioni false o
fuorvianti o la comunicazione di dati falsi o fuorvianti in relazione a indici di riferimento
quando la persona che ha proceduto alla trasmissione o fornito i dati sapeva, o avrebbe
dovuto sapere, che erano falsi o fuorvianti, ovvero qualsiasi altra condotta che manipola
il calcolo di un indice di riferimento.
Le disposizioni coprono tutti gli indici di riferimento pubblicati, compresi quelli accessibili via Internet, gratuiti o meno, quali gli indici di riferimento CDS e gli indici di indici
vietando la manipolazione degli indici stessi, così come la trasmissione di informazioni
100Cfr. Sgubbi F., Fondaroli D., Tripodi A. F., op. cit., p. 10.; Tripodi A. F., Informazioni privilegiate e statuto penale
del mercato finanziario, Padova, 2012, p. 342 ss.
101Cfr. Considerando 17 del Regolamento UE.
102Cfr. art. 8, comma 1, del Regolamento UE.
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false o fuorvianti, la comunicazione di dati falsi o fuorvianti ovvero altra attività finalizzata
a manipolare il calcolo di un indice di riferimento, laddove si considera che tale calcolo,
in senso lato, comprenda la ricezione e la valutazione di tutti i dati connessi alla
determinazione dell’indice di riferimento e, in particolare, i dati sfrondati e la metodologia
di determinazione dell’indice di riferimento, basata integralmente o parzialmente su algoritmi
o sull’apprezzamento.
Queste norme vengono ad aggiungersi a quelle del Regolamento (UE) n. 1227/2011,
che vietano la comunicazione deliberata di false informazioni a imprese che forniscono
valutazioni di prezzo o rapporti di mercato relativamente ai prodotti energetici
all’ingrosso, con l’effetto di fuorviare i soggetti che se ne servono per le loro operazioni
sul mercato.
Significativa la punibilità del tentativo di manipolazione, la quale non compare
nell’attuale sistema sanzionatorio amministrativo103. Un esempio delle condotte che sono
ora catturate è dato dai casi delle azioni che non vengono portate a compimento a causa
di errori tecnologici o di istruzioni di negoziazione cui non è stato dato seguito 104. Quindi,
il semplice inoltro di ordini che non sono eseguiti, può integrare ai sensi del Regolamento
UE, il reato o l’illecito di manipolazione del mercato105, mentre nel corrente quadro
regolamentare interno le operazioni e gli ordini non eseguiti comportano un obbligo di
segnalazione106.
Assumono rilievo come canali informativi anche i siti web, blog e social media ai fini
della diffusione di informazioni false o fuorvianti. Il Regolamento equipara tali strumenti ai
canali di comunicazione più tradizionali107, così come già avviene nelle disposizioni interne
afferenti la manipolazione di mercato informativa (cfr. art. 187 ter, comma 1 TUF).
5.4. Sanzioni amministrative, ancora sul doppio binario
Il Regolamento UE ha cura di dettare un quadro sanzionatorio che comprende sia le
sanzioni amministrative pecuniarie (individuate nella misura minima del massimo previsto
per la pena pecuniaria), sia una serie di misure che le Autorità competenti devono avere
il potere di emanare. Anche in relazione al quadro sanzionatorio complessivo, si segnala
un ampliamento delle misure adottabili dalla Consob.
Il Regolamento prevede che le Autorità competenti abbiano il potere di imporre almeno
le seguenti misure amministrative:
a) un’ingiunzione diretta al soggetto responsabile della violazione di porre termine
alla condotta in questione e di non reiterarla. Si tratta in via generale di una misura che
103Per quanto riguarda la configurabilità del tentativo di manipolazione del mercato sul versante penale occorre evidenziare che il reato in questione è qualificabile come di pericolo concreto. Stante tale premessa, in dottrina si discute
dell’ammissibilità del tentativo genericamente nei reati di pericolo. Una parte degli Autori, tra cui Antolisei, ritiene
strutturalmente prospettabile la realizzazione di almeno alcuni reati di pericolo. Altri, come Fiandaca e Musco,
ritengono che – su presupposto che punire il tentativo di un pericolo equivalga e reprimere un “pericolo di un pericolo” anticipandosi eccessivamente la soglia di punibilità del delitto stesso, ne negano la configurabilità. A latere di
tale dibattito generale, rispetto al reato di cui all’art. 185 TUF, si è da taluno ammesso il tentativo data la complessità
dell’iter criminis (Cfr. Sgubbi F., La manipolazione del mercato, cit., p. 105 e Seminara S., L’aggiotaggio (art. 2637
c.c.), in AA.VV., I nuovi reati societari: diritto e processo, a cura Giarda A. e Seminara S., Padova, 2002, p. 569.
104Cfr. Considerando 41 del Regolamento.
105Cfr. Considerando 46 del Regolamento.
106Cfr. Regolamento Consob n.16191/2007, art. 44, comma 1.
107Cfr. Considerando 48 del Regolamento.
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Consob ha il potere di emanare ai sensi dell’articolo 51 TUF in presenza di violazioni di
disposizioni del TUF nei confronti di Sim, imprese di investimento, banche extracomunitarie,
SGR, Sicav, Sicaf, GEFIA non UE autorizzati in Italia e di banche autorizzate alla prestazione
di servizi e attività di investimento aventi sede in Italia. Nel sistema sanzionatorio che
caratterizza gli illeciti di abuso di mercato in vigore, la Consob, ai sensi dell’articolo
187 octies TUF, può ordinare in via cautelare di porre termine alla condotta anche in
assenza di una violazione accertata, ma in presenza di “elementi che facciano presumere
l’esistenza di violazioni”;
b) la restituzione dei guadagni realizzati o delle perdite evitate grazie alla violazione,
per quanto possano essere determinati. Si tratta di una misura che sostanzialmente il vigente
sistema sanzionatorio attua attraverso la confisca ai sensi dell’articolo 187 sexies TUF e il
sequestro ex art. 187 octies, lettera d), TUF per gli illeciti amministrativi;
c) un avvertimento pubblico che indica il responsabile della violazione e la natura
della stessa. Tale avvertimento sembra essere una misura distinta ed antecedente alla
pubblicazione dei provvedimenti che irrogano le sanzioni la cui disciplina è contemplata
all’articolo 34 del Regolamento UE. Questo genere di “avvertimento” è nuovo rispetto al
sistema sanzionatorio amministrativo Consob, dal momento che l’attuale sistema prevede la
pubblicazione del provvedimento di applicazione delle sanzioni amministrative per estratto
nel Bollettino della Consob in base all’articolo 187 septies TUF, ma non contempla alcun
“avvertimento pubblico”;108
d) la revoca o sospensione dell’autorizzazione di una società di investimento. Un prima
precisazione riguarda la dizione usata nel testo italiano del Regolamento UE, dovrebbe
farsi riferimento alle “imprese di investimento” così come definite all’articolo 1 dello stesso
Regolamento, ossia qualsiasi persona giuridica la cui occupazione o attività abituale consiste
nel prestare uno o più servizi di investimento a terzi e/o nell’effettuare una o più attività
di investimento a titolo professionale.
Le norme in vigore contemplano meccanismi di revoca o sospensione dell’autorizzazione
solo per le imprese sanzionate ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001, ossia nel caso di commissione di reato da parte del dipendente della società, mentre nell’attuale sistema sanzionatorio
amministrativo mancano – coerentemente – analoghi meccanismi che portino alla revoca o
alla sospensione dell’autorizzazione di una società di investimento a seguito della commissione di un illecito amministrativo da parte del dipendente se l’illecito non è stato compiuto
nell’interesse o a vantaggio della società. Difatti, l’articolo 187 quinquies se da un lato
introduce un autonomo titolo di responsabilità dell’ente derivante dalla commissione degli
illeciti amministrativi da parte dei dipendenti, dall’altro non contempla esplicitamente il
potere di revocare o sospendere l’autorizzazione di una società di investimento. Si tratta
pertanto di una misura che dovrebbe ragionevolmente essere recepita nell’ordinamento
interno;
e) l’interdizione temporanea, nei confronti di chiunque eserciti responsabilità di direzione
in una società di investimento o di qualsiasi altra persona fisica ritenuta responsabile
108Peraltro, anche regime della pubblicazione dei provvedimenti che applicano le sanzioni prevede ora anche la pubblicazione posticipata o in forma anonima sul sito dell’autorità di vigilanza quando la pubblicazione sia sproporzionata
a seguito della valutazione della condotta o qualora la pubblicazione comprometta le indagini in corso o la stabilità
dei mercati.
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della violazione, dall’esercizio di funzioni dirigenziali in società di investimento. Pur
costituendo una misura già presente nel nostro ordinamento, non sembra sussistere,
una perfetta sovrapponibilità fra la norma interna e quella comunitaria, in quanto nella
norma comunitaria l’interdizione preclude l’esercizio di funzioni dirigenziali in società di
investimento [rectius: imprese di investimento], mentre l’attuale misura accessoria interna
comporta per i revisori e i promotori finanziari e, per gli esponenti aziendali di società
quotate, l’incapacità temporanea ad assumere incarichi di amministrazione, direzione e
controllo nell’ambito di società quotate e di società appartenenti al medesimo gruppo di
società quotate;
f) nel caso di violazioni ripetute, l’interdizione permanente, nei confronti di chiunque
eserciti responsabilità di direzione in una società di investimento o di qualsiasi altra persona
fisica ritenuta responsabile della violazione, dall’esercizio di funzioni dirigenziali in società
di investimento. La disposizione rappresenta un inasprimento sanzionatorio rispetto all’attuale
regime che non comporta in nessun caso l’interdizione permanente nel caso di commissione dell’illecito amministrativo;
g) l’interdizione temporanea, nei confronti di chiunque eserciti responsabilità di direzione
in una società di investimento o di qualsiasi altra persona fisica ritenuta responsabile della
violazione, da attività di negoziazione per conto proprio. Tale misura rappresenta una novità
per l’ordinamento interno;
h) sanzioni amministrative pecuniarie massime di valore pari ad almeno tre volte l’importo
dei guadagni ottenuti o delle perdite evitate grazie alla violazione, quando possono essere
determinati. L’inasprimento della pena commisurato all’importo dei guadagni è un meccanismo
noto all’attuale sistema sanzionatorio interno, il quale prevede un aumento della pena fino a
dieci volte il prodotto o il profitto del reato109, tuttavia nell’attuale sistema l’inasprimento è
giustificato in presenza di una inadeguatezza della pena anche se applicata in misura massima,
mentre nel Regolamento UE il massimo della sanzione pecuniaria applicabile è individuato
in misura non inferiore al triplo dell’importo dei guadagni o delle perdite evitate.
Quanto alle sanzioni amministrative pecuniarie, queste paiono già in linea con le
previsioni del Regolamento UE, anzi si mostrano particolarmente aspre rispetto alle previsioni
regolamentari in quanto i valori massimi delle pene pecuniarie risultano molto più elevati
rispetto alle previsioni comunitarie110.
Infine, si nota come il Regolamento UE non compia una scelta definitiva sul tema
del doppio binario sanzionatorio. La scelta sul mantenimento o meno del doppio binario
sanzionatorio, difatti, è rimessa allo Stato membro e deve essere compiuta entro il 3 luglio
2016. Ai sensi dell’articolo 30 del Regolamento, se l’illecito è punito come reato, lo Stato
membro può decidere “di non stabilire norme relative alle sanzioni amministrative”. Tuttavia
lo stesso Regolamento, pur non escludendo il doppio binario sanzionatorio quando questo
è ammissibile in base al diritto nazionale, sembra “scoraggiare” la sovrapposizione della
sanzione amministrativa a quella penale dal momento che non la reputa doverosa111.
109Cfr. art. 187 bis TUF, comma 5 e art. 187 ter TUF, comma 5.
110Cfr. art. 30 del Regolamento, paragrafo 2, lett. i) il quale prevede la sanzione amministrativa pecuniaria massima sia
di almeno € 5 mln, a fronte dei vigenti limiti massimi di sanzione pecuniaria di € 15 mln nel caso di insider trading ai
sensi dell’articolo 187 bis TUF ed € 25 mln nel caso di manipolazione del mercato ai sensi dell’articolo 187 ter TUF.
111Nel Considerando 72, in particolare, si legge: “Anche se nulla osta a che gli Stati membri stabiliscano regole per sanzioni amministrative oltre che sanzioni penali per le stesse infrazioni, gli Stati membri non dovrebbero essere tenuti
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5.5. Segnalazione di operazione sospette
Di recente la SEC ha attribuito una ricompensa da 30 milioni di dollari all’informatore
che ha contribuito ad individuare una frode che non sarebbe altrimenti emersa. Si tratta
della ricompensa più alta mai attribuita dalla SEC. In base alle disposizioni statunitensi, la
SEC riconosce dal 10% al 30% dell’ammontare ricavato dalla segnalazione delle operazioni
sospette112. In questo senso sembra muoversi anche il Regolamento UE quando prevede
all’articolo 32, comma 4, che “Gli Stati membri possono provvedere affinché siano concessi
incentivi finanziari, conformemente al diritto nazionale, a quanti offrono informazioni
pertinenti in merito a potenziali violazioni del presente regolamento se tali persone non
sono tenute da altri doveri preesistenti di natura legale o contrattuale a comunicare tali
informazioni e purché si tratti di informazioni prima ignorate e che portano all’imposizione
di sanzioni amministrative o penali o all’adozione di altre misure amministrative, per una
violazione del presente regolamento.” Si osserva che la disposizione segna un sostanziale
approccio favorevole del legislatore comunitario verso quei meccanismi di “privatizzazione”
della giustizia ai quali i sistemi di civil law europei sono tradizionalmente refrattari.
Si nota, ad ogni modo, che le disposizioni comunitarie registrano un rafforzamento
della protezione dell’identità della persona che effettua le segnalazioni (se del presunto
responsabile) “durante tutte le fasi della procedura”, imponendo ai datori di lavoro che
svolgono attività regolamentate di implementare procedure interne affinché i dipendenti
possano segnalare le operazioni sospette attraverso canali di comunicazione sicuri, al riparo
da ritorsioni, discriminazioni o altri tipi di trattamenti iniqui113.
C’è da dire che né le disposizioni interne, né quelle comunitarie (sia pregresse, sia
quelle contenute nel Regolamento UE) risolvono il problema relativo alla segnalazione in
relazione all’obbligo di esecuzione degli ordini114. Nel caso di segnalazione, l’intermediario
deve comunque eseguire l’operazione in ottemperanza dei propri obblighi con il rischio
di esporsi al concorso alla commissione dell’illecito, o piuttosto può anche astenersi dal
compiere l’operazione che viene segnalata? Un eventuale rifiuto di eseguire l’ordine oggetto
di segnalazione, di difatti, potrebbe essere illegittimo se non motivato (in ossequio ai
principi di trasparenza e buona fede) e, d’altro canto, se motivato, potrebbe essere in
conflitto con gli obblighi di riservatezza contenuti tanto nelle norme interne, quanto in
quelle comunitarie.
a stabilire regole in materia di sanzioni amministrative riguardanti violazioni del presente regolamento che sono già
soggette al diritto penale nazionale, entro il 3 luglio 2016. Conformemente al diritto nazionale, gli Stati membri non
sono tenuti a imporre sanzioni sia amministrative che penali per lo stesso reato, ma possono farlo se il loro diritto
nazionale lo consente. Tuttavia, il mantenimento delle sanzioni penali in luogo delle sanzioni amministrative per le
violazioni del presente regolamento o della direttiva 2014/57/UE non dovrebbe ridurre o incidere altrimenti sulla
capacità delle autorità competenti di cooperare, di avere accesso a informazioni o di scambiare informazioni tempestivamente con le autorità competenti di altri Stati membri ai fini del presente regolamento, anche dopo che le autorità
giudiziarie competenti per l’azione penale siano state adite per le violazioni in causa.”.
112L’ordine della SEC che ha disposto la ricompensa è disponibile al seguente link: http://www.sec.gov/rules/
other/2014/34-73174.pdf e il comunicato stampa al links:
http://www.sec.gov/News/PressRelease/Detail/PressRelease/1370543011290#.VHilnmBd6TN
113Cfr. art. 31, comma 2, del Regolamento UE.
114Cfr. Annunziata F., op.cit., p. 437.
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5.6. Sondaggi di mercato
Il Regolamento UE disciplina i cd. sondaggi di mercato i quali sono definiti come
le comunicazioni di informazioni, anteriormente all’annuncio di un’operazione, al fine
di valutare l’interesse dei potenziali investitori per una possibile operazione e le relative
condizioni, come le dimensioni potenziali o il prezzo, a uno o più potenziali investitori da
parte di un emittente o un offerente sul mercato secondario di uno strumento finanziario (in
quantità o valore tali da distinguere l’operazione dalle normali negoziazioni e da implicare
un metodo di vendita basato sulla valutazione preliminare del potenziale interesse da parte
dei potenziali investitori), di un partecipante al mercato delle quote di emissioni, oppure
di un terzo che agisce in nome o per conto di una persona di cui sopra. La definizione
di sondaggi di mercato cattura anche i cd. block trades, ossia operazioni anticipatamente
concordate tra le controparti e successivamente concluse sul mercato, caratterizzate da
consistenti quantità di titoli venduti ad un prezzo inferiore rispetto al prezzo di mercato.
È stato notato che non si crea alcuna sovrapposizione con i requisiti previsti dalla MiFID
e quelli prescritti per i sondaggi di mercato. Se non è posto in essere un sondaggio di
mercato, ma l’operazione viene semplicemente effettuata, non trova applicazione l’articolo
11 del Regolamento UE115.
La comunicazione di informazioni privilegiate effettuata nel corso di un sondaggio di
mercato non integra l’illecito di comunicazione abusiva di informazioni privilegiate, ma si
considera fatta nel normale esercizio di un’occupazione, di una professione o di una funzione
qualora il partecipante al mercato comunichi le informazioni nel rispetto della disciplina
regolamentare. Quando le informazioni comunicate nel corso di un sondaggio di mercato
cessano di essere informazioni privilegiate (in base a una valutazione del partecipante
al mercato), quest’ultimo informa di conseguenza la persona che le ha ricevute. D’altro
canto, in deroga alle disposizioni, la persona che riceve il sondaggio di mercato valuta
autonomamente se è in possesso di informazioni privilegiate o quando cessa di essere in
possesso di informazioni privilegiate.
Anche la comunicazione di informazioni privilegiate da parte di una persona che
intenda realizzare un’offerta pubblica di acquisto rispetto a titoli di una società o una
fusione con una società di aventi diritto ai titoli, rappresenta un sondaggio di mercato a
condizione che le informazioni siano necessarie per consentire agli aventi diritto ai titoli di
formarsi un’opinione sulla propria disponibilità a offrire i loro titoli e che la volontà degli
aventi diritto ai titoli di offrire i loro titoli sia ragionevolmente necessaria per la decisione
di presentare l’offerta di acquisizione o fusione.
La disciplina regolamentare prevede che il partecipante al mercato, valuti anticipatamente
se il sondaggio di mercato comporterà la comunicazione di informazioni privilegiate, in
tal caso ha l’obbligo di registrare per iscritto la propria conclusione e i motivi della stessa.
Esso fornisce tali registrazioni scritte su richiesta dell’autorità di vigilanza competente.
È previsto, in particolare, che il partecipante al mercato, prima di effettuare la
comunicazione delle informazioni privilegiate, debba:
115Cfr. ESMA, Consultation Paper, Draft technical standards on the Market Abuse Regulation, disponibile sul sito internet
dell’Esma, § III.1.2, p. 22 e ss.
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a) ottenere il consenso della persona che riceve il sondaggio di mercato a ricevere
informazioni privilegiate;
b) informare la persona che riceve il sondaggio di mercato che le è vietato utilizzare
tali informazioni, o tentare di utilizzarle, con l’acquisizione o la cessione, per conto proprio
o per conto di terzi, direttamente o indirettamente, di strumenti finanziari cui si riferiscono
tali informazioni;
c) informare la persona che riceve il sondaggio di mercato che le è vietato utilizzare
tali informazioni, o tentare di utilizzarle, tramite cancellazione o modifica di un ordine già
inoltrato concernente uno strumento finanziario cui si riferiscono tali informazioni; e
d) informare la persona che riceve il sondaggio di mercato che, accettando di ricevere
le informazioni, ha l’obbligo di mantenere riservate tali informazioni.
Il partecipante al mercato effettua e conserva una registrazione di tutte le informazioni
fornite e l’identità dei potenziali investitori ai quali le informazioni sono state comunicate
comprese, le persone giuridiche e le persone fisiche che agiscono per conto del potenziale
investitore, nonché la data e l’ora di ogni comunicazione e trasmette la registrazione
all’autorità competente su richiesta.
Il partecipante al mercato ha l’obbligo, infine, di conservare le registrazioni per un
periodo di almeno cinque anni.116
116L’ESMA, in attuazione delle norme regolamentari e al fine di garantire una coerente applicazione delle disposizioni, ha
elaborato i cd. regulatory technical standards e implementing technical standards (oggetto di una consultazione che si
è chiusa il 15 ottobre 2014). All’ESMA è stato anche attribuito il compito di pubblicare orientamenti diretti alle persone
che ricevono sondaggi di mercato, riguardanti i fattori che tali persone devono prendere in considerazione quando
le informazioni sono comunicate nell’ambito di un sondaggio di mercato al fine di poter valutare se le informazioni
costituiscono informazioni privilegiate, le misure che tali persone devono adottare quando sono state comunicate
informazioni privilegiate e le registrazioni che tali persone avranno l’obbligo di custodire.
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5.7. La Direttiva 2014/57/UE sulle sanzioni penali in materia di abusi di mercato:
compiti a casa per tutti ma non per l’Italia
In principio fu la Direttiva 2003/06/CE. Il futuro prossimo è il Regolamento UE insieme
alla direttiva sulle sanzioni penali in materia di abusi di mercato.
Questi ultimi due nuovissimi strumenti di tutela sono inscindibilmente legati tra
loro come mostra la data di entrata in vigore prevista – a parte alcune eccezioni per il
Regolamento117 –: il 3 luglio 2016.
Ma v’è di più. Il fil rouge tra i due atti normativi dell’Unione è formalizzato nell’art. 13
della direttiva che dispone che gli Stati membri applichino disposizioni in essa contenute,
sì a decorrere dal 3 luglio 2016, ma con una specifica riserva, ovvero previa entrata in
vigore del Regolamento UE.
Quanto, in particolare, alla Direttiva, essa ha lo scopo preciso di chiudere il cerchio in
tema di lotta e contrasto ai fenomeni di market abuse rappresentando “il braccio armato”
del sistema di prevenzione-repressione.
Ed infatti, già a partire dal 2009, nell’ambito dei lavori del c.d. Gruppo de Larosière
e all’esito di uno dei primi monitoraggi circa i risultati ottenuti dal recepimento negli Stati
membri della direttiva 2003/06/CE, si evidenziava come il panorama europeo dei sistemi
legislativi in materia si presentasse in genere troppo eterogeneo e frastagliato, laddove
invece questi avrebbero dovuto essere uniformi, severi e dissuasivi per tutti i reati finanziari.
Non è un caso, quindi, che il considerando n. 4 della nuova Direttiva punti l’accento sulla
necessaria ed efficacie attuazione del quadro normativo in essa indicato, specificandosi
altresì come l’adozione di sanzioni amministrative da parte degli Stati membri – quale libera
scelta di fronte all’“amletico dilemma” tra sanzione penale e sanzione amministrativa come
indicato all’art. 14 della precedente direttiva – si sia rivelato insoddisfacente.
Ed allora il presidio penale diventa la strada obbligata per i legislatori nazionali che
devono costruire fattispecie incriminatrici almeno per le forme più gravi di abusi di mercato,
tentandosi, altresì, di stabilire confini chiari tra le diverse tipologie comportamentali nell’ottica
di evidenziarne il disvalore socio-economico.
Stante la preferenza accordata al diritto penale, il sistema del “doppio binario
sanzionatorio” è fatto salvo. Non sfugge come, nell’applicare la normativa nazionale di
recepimento della presente direttiva, gli Stati membri dovrebbero garantire l’irrogazione
di sanzioni penali per i reati ai sensi dalla direttiva e di sanzioni amministrative ai sensi
117Art. 39 “Entrata in vigore e applicazione” (Omissis) 2. Esso si applica dal 3 luglio 2016 con l’eccezione dell’articolo
4, paragrafi 4 e 5, dell’articolo 5, paragrafo 6, dell’articolo 6, paragrafi 5 e 6, dell’articolo 7, paragrafo 5, dell’articolo
11, paragrafi 9, 10 e 11, dell’articolo 12, paragrafo 5, dell’articolo 13, paragrafi 7 e 11, dell’articolo 16, paragrafo 5,
dell’articolo 17, paragrafo 2, terzo comma, dell’articolo 17, paragrafi 3, 10 e 11, dell’articolo 18, paragrafo 9, dell’articolo 19, paragrafi 13, 14, e 15, dell’articolo 20, paragrafo 3, dell’articolo 24, paragrafo 3, dell’articolo 25, paragrafo
9, dell’articolo 26, paragrafo 2, secondo, terzo e quarto comma, dell’articolo 32, paragrafo 5, e dell’articolo 33, paragrafo 5, che si applicano dal 2 luglio 2014. 3. Entro il 3 luglio 2016, gli Stati membri adottano le misure necessarie per
conformarsi agli articoli 22, 23, 30, all’articolo 31, paragrafo 1, e agli articoli 32 e 34. 4. I riferimenti nel presente regolamento alla direttiva 2014/65/UE e al regolamento (UE) n. 600/2014 anteriormente al 3 gennaio 2017 si intendono
fatti alla direttiva 2004/39/CE secondo la tavola di concordanza di cui all’allegato IV della direttiva 2014/65/UE nella
misura in cui la tavola di concordanza contiene disposizioni relative alla direttiva 2004/39/CE. 5. Ove le disposizioni
del presente regolamento facciano riferimento agli OTF, ai mercati di crescita per le PMI, alle quote di emissioni o
ai prodotti oggetto d’asta correlati, tali disposizioni non si applicano agli OTF, ai mercati di crescita per le PMI, alle
quote di emissioni o ai prodotti oggetto d’asta correlati fino al 3 gennaio 2017.
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del Regolamento UE purché ciò non comporti una violazione del principio del ne bis in
idem118.
Venendosi ad un esame, sia pur breve e per nulla esaustivo, del testo del provvedimento
licenziato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio, si noti come questi si componga
di 15 articoli e preveda un ambito di applicazione e delle definizioni sostanzialmente
sovrapponibili a quelle di cui al Regolamento (artt. 1 e 2). E questo, si vedrà nel prosieguo
della trattazione, ha delle implicazioni niente affatto scontate.
Il “cuore pulsante” del provvedimento è rappresentato invece dagli artt. 3, 4 e 5
che descrivono rispettivamente (i) l’abuso di informazioni privilegiate, raccomandazione o
induzione di altri alla commissione di abuso di informazioni privilegiate; (ii) la comunicazione
illecita di informazioni privilegiate; (iii) la manipolazione del mercato.
Con buona approssimazione e considerando che la Direttiva in quanto fonte di diritto
derivato che necessita di recepimento all’interno dei singoli Stati membri, si può dire che il
nostro Paese dispone di un arsenale sanzionatorio già coerente con le richieste provenienti
a livello comunitario.
Per quanto concerne l’abuso di informazioni privilegiate, tutte le condotte descritte
dalla direttiva sono già oggetto di incriminazione nel nostro ordinamento. Per una volta
sono gli altri Paesi a dover rincorrere l’Italia e l’Europa. Infatti, l’attuale versione dell’art.
184 TUF punisce chiunque – trovandosi nelle condizioni soggettive previste dalla norma –
acquista, vende o compie altre operazioni, direttamente o indirettamente, per conto proprio
o per conto di terzi, su strumenti finanziari utilizzando le informazioni medesime come
anche chi raccomanda o induce altri al compimento di taluna delle operazioni appena
descritte. Anche la “novità” rappresentata dal reato di comunicazione illecita di informazioni
privilegiate descritto all’art. 4 della direttiva risulta solo apparente. Ed invero, la lett. b)
dell’art. 184 TUF sanziona il soggetto che comunica tali informazioni privilegiate ad altri,
al di fuori del normale esercizio del lavoro, della professione, della funzione o dell’ufficio
(si tratta della c.d. condotta di tuyautage).
Tuttavia sono due le indicazioni della direttiva che destano qualche perplessità.
La prima riguarda l’ultimo capoverso dell’art. 3, comma 3, in cui si stabilisce l’applicabilità
del reato in esame anche a chiunque abbia ottenuto informazioni privilegiate anche in
ragione di circostanze diverse da quelle indicate e lo stesso sia a conoscenza del carattere
privilegiato di tali informazioni. L’attuale fisionomia del soggetto attivo punibile per il reato
di insider trading è molto precisa, ovvero il destinatario del precetto penale è solo colui
che ha la capacità diretta di entrare in contatto con l’informazione privilegiata in quanto
118Recentemente sul tema del ne bis in idem, è intervenuta anche la Corte di Giustizia dell’UE, Grande Sezione, con sentenza del 26 febbraio 2013, nel caso Aklagaren c. Hans Akerberg Franssonn, C- 617/108, esprimendosi sul tale divieto
e sul campo di applicabilità dell’art. 50 CDFUE (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), disposizione in
base alla quale «nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge». La Corte di Lussemburgo ha
affermato che il principio sancito all’art. 50 della CDFUE non osta a che uno Stato membro imponga, per le medesime
violazioni di obblighi dichiarativi in materia di imposta sul valore aggiunto (IVA), una combinazione di sanzioni sia
fiscali che penali, al fine di tutelare gli interessi finanziari dell’Unione mediante il sistema di riscossione di entrate
provenienti dall’IVA, sempre che tali sovrattasse non abbiano natura penale ai sensi dell’art. 50 della Carta: in tal caso,
infatti, tale norma sarebbe di ostacolo ad ulteriori procedimenti penali.
Per una lettura critica delle differenze ermeneutiche tra le posizioni della Corte EDU e della Corte di Giustizia dell’UE
sul tema si veda la Relazione n. 35/2014 dell’Ufficio del Ruolo del Massimario della Corte di Cassazione.
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la sua posizione consente un apprendimento immediato della notizia119. Questa prerogativa
genera un solco profondo tra coloro che si trovano in possesso dell’informazione in modo
“seriale” a causa del lavoro svolto o della posizione ricoperta e tutti gli “altri”, ossia
coloro che solo incidentalmente si trovano a maneggiare la notizia in quanto ricevuta dai
primi o per motivi del tutto casuali. In altri termini, allo stato attuale della legislazione
del nostro Paese, questa distinzione tra i c.d. insiders primari (che della notizia hanno
conoscenza “in ragione” dell’attività svolta) e i c.d. insiders secondari (che nell’informazione
privilegiata “si imbattono” per puro caso) risponde all’esigenza di enucleare una differenziata
risposta sanzionatoria dell’ordinamento a fronte dei diversi profili di disvalore dell’abuso
stesso. In particolare, la condotta realizzata dall’insider secondario non indica nel senso
dell’approfittamento di una situazione di vantaggio informativo fisiologico, ossia correlato
alla propria qualifica, rispondendo così “solo” a titolo di illecito amministrativo come
invece avviene per l’insider primario120 che invece verrà incriminato ai sensi della fattispecie
delittuosa.
L’ammettere che l’art. 3 della direttiva si applichi anche a chi abbia ottenuto l’informazione
privilegiata al di fuori dei casi in cui l’apprensione della notizia sia in ragione della qualità
rivestita o dell’attività svolta dall’agente – con l’unico contrappeso rappresentato dalla
conoscenza del carattere privilegiato dell’informazione medesima – significa azzerare tali
profili di differenza tra i soggetti attivi, significa «esasperare il fondamento etico che è
alla base della repressione del fenomeno»121 svalutando del tutto la maggiore nota di
disvalore insita nella condotta del depositario dell’informazione in forza del proprio ruolo
qualificato. Questa deriva di incriminazione totalizzante scelta dalla direttiva e abbracciata
anche da certa dottrina in nome di un bene giuridico – quale il “corretto funzionamento
del mercato” – che pecca di particolare evanescenza e di una intrinseca instabilità, si
scontra e confronta con un principio fondamentalissimo del nostro diritto penale, ovvero
quello di offensività/frammentarietà. In termini più limpidi «l’abuso realizzato da chi
utilizza (o cede a terzi) informazioni acquisite in forza della sua posizione all’interno
della società o della sua funzione o professione appariva come l’unico elemento in grado
di arricchire il precetto penale, evitando una sua eccessiva “eticizzazione” e consentendo
di cogliervi anche la violazione di un dovere di correttezza o riservatezza che rende
119Sgubbi F., L’abuso di informazioni privilegiate, cit., p. 39 e Tripodi A. F., Informazioni privilegiate, cit., p. 189.
120Ancora Sgubbi F., L’abuso di informazioni privilegiate, cit., p. 39 il quale però precisa che «si potrebbe dubitare della piena coerenza del[l’] (…) assetto normativo con la prospettiva del bene tutelato: se è vero che quest’ultimo va
identificato col “corretto funzionamento del mercato”, potrebbero non assumere rilievo in rapporto ad esso le diverse
qualifiche dei soggetti agenti, rilevando esclusivamente il possesso dell’informazione privilegiata sfruttato mediante
l’opportuna operazione».
121Seminara S., Insider trading e diritto penale, Milano, 1989, p. 140 il quale mostra ulteriori inconvenienti di un sistema che non distingue tra insiders primari e secondari possano essere gli ostacoli all’attività di raccolta di nuovi dati
necessari alla valutazione dei titoli, l’istaurazione di un alto numero di processi dinanzi ad ogni movimento di titoli
giudicato anomalo. Per una analisi nel sistema nord-americano dell’illiceità morale dell’insider trading si veda Green
S.P., I crimini dei colletti, cit., p. 281. L’Autore, dopo aver evidenziato le carenze delle tre teorie che tradizionalmente
si contendono il campo sul punto, ovvero la teoria dei doveri fiduciari verso gli azionisti, quella della violazione dei
doveri fiduciari verso la fonte dell’informazione e quella della frode o dell’inganno, spiega che la caratterizzazione più
corretta dell’illiceità morale di tale reato dovrebbe tenere in debita considerazione il concetto di cheating. Ciò perché
il trader viola, al fine di ottenere un vantaggio a discapito di altri con cui si trova in un rapporto cooperativo, le regole
dalla propria Autorità di vigilanza secondo la quale si deve rivelare l’informazione rilevante non di dominio pubblico
oppure astenersi dagli scambi.
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illecita l’utilizzazione del vantaggio conoscitivo e si riflette sull’oggettiva gravità del fatto,
legittimandone l’incriminazione»122.
A questa riflessione di principio se ne aggiunge una seconda di natura sistematica.
A voler incriminare, e quindi punire con la sanzione penale, tutti gli insiders si incorre
nel rischio di una implosione del sistema di tutela. Se per un verso si commette “un delitto
capitale” nei confronti delle già oberatissime Aule di giustizia che non sono preparate ad
una ondata di nuovi procedimenti/processi a fronte delle poche decine attuali, dall’altro
occorre chiedersi criticamente cosa resta davvero attratto nella sfera di punibilità dell’illecito
amministrativo che la Consob, con le sue istanze inquisitorie e le sue sanzioni amministrative di non poco momento, governa. In altri termini, lasciare all’Autorità di vigilanza
l’accertamento dei fatti meno gravi genera una serie di interrogativi la cui risposta risulta
particolarmente insidiosa. Ci si riferisce, in primis, alla necessità di inquadrare con una buona
dose di certezza chi viene punito ai sensi dell’illecito amministrativo. Solo dagli insiders
secondari o anche da quelli primari le cui condotte appunto meno gravi gravitano intorno al
perimetro di sanzionabilità del Regolamento UE? Ma davvero sussiste una reale distinzione
in termini di condotta tra la fattispecie amministrativa del regolamento e quella penale
della direttiva? E, ritenendo che elemento distintivo tra le due ipotesi possa essere quello
soggettivo, residua una qualche, e soprattutto concreta, applicabilità dell’insider colposo tra
le maglie dell’illecito amministrativo? Poi, il riferimento alla gravità della condotta, operato
in più punti da parte del legislatore comunitario, quale ulteriore elemento specializzante del
reato come deve essere interpretato stante l’assenza di parametri oggettivi formalistici quali
ad esempio il danno o il profitto cui ancorarla? Solo le tecniche e le opzioni strategiche
di recepimento della direttiva e le prime applicazioni del suo portato normativo potranno
abbozzare una qualche soluzione ai quesiti indicati.
Vi è poi una ulteriore perplessità destata dal paragrafo 4 dell’art. 3 in base al quale è
considerato abuso di informazioni privilegiate anche l’utilizzo di informazioni privilegiate
tramite annullamento o modifica di un ordine concernente uno strumento finanziario
al quale le informazioni si riferiscono quando tale ordine è stato inoltrato prima che la
persona interessata entrasse in possesso di dette informazioni privilegiate. Ora, se per
la modifica di un ordine il profilo attivo della condotta potrebbe comunque risultare
prevalente e quindi non determinare particolari moti di criticità a patto che l’operazione si
compia, la qualificazione dell’annullamento come azione è concettualmente più difficile.
E ciò perché l’attuale art. 184 TUF richiede evidentemente modalità attive di commissione del reato determinandosi così l’irrilevanza dello sfruttamento dell’informazione
privilegiata mediante condotta omissiva (c.d. insider non trading) per cui il soggetto,
proprio in ragione del suo privilegio informativo immeritato, decide di non compiere
l’operazione finanziaria.
Due le strade interpretative possibili. La prima – che tende a fornire una lettura legittimante
della disposizione – considera l’annullamento in sé, quale gesto materiale, frazionato ed
unitario rispetto alla complessiva operazione borsistica da compiersi cosicché, in tal senso,
si può sostenere che è un’azione almeno in termini strettamente naturalistici (movimento
corporeo del pigiare sul pulsante che annulla l’ordine già trasmesso). La seconda, invece, –
122Seminara S., Insider trading, cit., p. 142
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fondandosi su una nozione di azione di tipo “normativo”123 e che pare più coerente con i
principi generali – mira a ricostruire per intero l’operazione compiuta dal soggetto agente talché,
se questi, proprio in ragione dell’informazione privilegiata si persuade a non proseguire, pare
difficile ritenerlo passibile di incriminazione per un “reato” che manca di materialità124.
Tuttavia, questi profili di criticità – per come descritti – si confrontano necessariamente
con le istanze di interazione sempre più marcate tra diritto comunitario e diritto penale
nazionale filtrate attraverso i risvolti applicativi della c.d. “teoria dei controlimiti”. In base
ad essa, come noto, si mira a risolvere le antinomie tra i più fondamentali ed inalienabili
diritti dell’ordinamento interno e le fonti comunitarie, consentendone la sindacabilità dei
relativi strumenti di recepimento.
E la “frantumazione stellare” dei diversi piani di normazione che rende ancor più arduo
il lavoro dell’interprete125 si complica ulteriormente quando – come nel caso in esame –
l’ordinamento comunitario opera in chiave espansiva dell’area del penalmente rilevante a
fronte di una originaria e sostanziale “incompetenza penale” dell’Unione Europea 126 cui
si è sostituito nel tempo un atteggiamento ben più attivo tanto da ritenere – in alcuni casi
come quello in oggetto – l’applicazione di sanzioni penali effettive proporzionate e dissuasive da parte delle autorità degli Stati membri una misura indispensabile.
Esaurita la disamina dell’art. 3 si passa all’art. 5, il quale contiene l’intimazione agli
Stati membri affinché adottino, nell’ambito delle legislazioni penali nazionali, le misure
necessarie per reprimere le condotte di manipolazione del mercato, anche in tal caso,
se gravi e se commesse con dolo. Tuttavia l’incedere del legislatore comunitario si fa di
gran lunga più incerto ed incidentato rispetto all’individuazione delle condotte di insider
trading. La scelta non è ricaduta su una descrizione sia pur dettagliata ma comunque
astratta dei comportamenti penalmente rilevanti. La norma – sia pur da attuare – sconta
un difetto organico macroscopico, ovverosia preferisce fare una elencazione casistica di
dubbia esaustività che, tra l’altro, in Italia riflette come uno specchio le ipotesi sanzionate
dall’art. 187 ter TUF127. E da ciò discende che lo spazio esterno all’intersezione tra le due
123Cfr. Fiandaca G., Musco E., Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2010, p. 212 che, con riferimento alla dogmatica del reato commissivo, formulano la definizione di “azione” attraverso un duplice passaggio logico. Secondo una
definizione minima essa equivale al movimento corporeo ma – nel procedere ad una maggiore specificazione del
concetto – ritengano intervenga l’art. 42 c.p. il quale stabilisce che «nessuno può essere punito per un’azione (…)
preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà».
124Per un approfondimento si veda Tripodi A.F., Informazioni privilegiate, cit., p. 328 il quale specifica che «il requisito
dell’utilizzazione dell’informazione privilegiata, che rimanda ad una dinamica di natura puramente psicologica, venga
assunto come penalmente rilevante in quanto appunto si manifesti (esternamente) attraverso un atto negoziale (ossia
il compimento dell’operazione), di cui anzi rappresenta la nota qualificante». Lo stesso autore prosegue affermando
che «non è possibile incriminare l’uso a livello mentale di un’informazione in sé e per sé – inteso quale “progetto” o
“scelta” avente alla base una determinata notizia – ma è possibile incriminare un atto negoziale connotato (sul piano,
si direbbe, della causalità psichica) dall’utilizzazione di un dato informativo. È questa, del resto, la principale ragione
dell’irrilevanza penale dell’insider non trading, ossia dell’ipotesi in cui il soggetto, proprio perché a conoscenza di
un’informazione privilegiata, decide di non compiere l’operazione finanziaria. In merito, si è correttamente osservato
come non ci si trovi di fronte ad una lacuna normativa, ma ad un “limite ontologico alla disciplina penalistica del fenomeno”, dal momento che l’opposta soluzione, a parte la difficoltà della dimostrazione probatoria, determinerebbe
l’imposizione di un obbligo di contrattare, diversamente dal suggerimento derivante dall’informazione privilegiata,
ma soprattutto entrerebbe in tensione con il principio di materialità del reato, prefigurando una reazione punitiva ad
una risoluzione che può restare meramente interna alla sfera psichica del destinatario del precetto».
125Si veda Manes V., Il giudice nel labirinto, Roma, 2012.
126Per un discorso organico sul punto si veda, inter alia, Sotis C., Diritto comunitario e giudice penale, in Corr. merito.
Le rassegne 2, 2008, p. 1 ss.
127Si aggiunge, in vero, alla lett. d) dell’art. 5 la trasmissione di informazioni false o fuorvianti, o comunicazione di dati
falsi o fuorvianti ovvero ogni altra condotta che manipola il calcolo di un indice di riferimento (benchmark) in coeren-
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diritto bancario
tipologie di illecito amministrativo e penale, per dirla in gergo insiemistico, si azzera del
tutto diventando gli stessi completamente sovrapponibili.
Da qui una domanda necessitata. Come far convivere senza mistificare il doppio binario
sanzionatorio ed il divieto di bis in idem decantati con forse troppa leggerezza tra i Considerando
della Direttiva, avuto riguardo da una parte al sistema di tutela degli abusi di mercato e
dall’altro ai principi di rango costituzionale in materia penale? La logica in questo caso sembra
implacabile dato che – allo stato attuale dell’arte e secondo la ricostruzione normativa operata
prima – le due strade sembrano assolutamente parallele e senza punti di contatto.
Quale nota finale si segnala come l’art. 6 della Direttiva chieda agli Stati membri
di garantire la punibilità delle condotte di induzione, favoreggiamento e concorso nelle
fattispecie di abuso di informazioni privilegiate e di aggiotaggio su strumenti quotati. Invero
è che il codice penale italiano appronta strumenti generali rispetto a tali modalità di
manifestazione del reato.
Il riferimento è allo strumentario vario ed articolato previsto agli artt. 110 e seguenti del
codice cui si aggiunge la fattispecie dell’art. 378 c.p. in tema di favoreggiamento personale.
Anche il richiamo che la direttiva fa al tentativo è – in Italia – risolto in chiave pressoché
generale attraverso l’art. 56 c.p. che afferma che chiunque compie atti idonei, diretti in
modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non
si compie o l’evento non si verifica, salvo opinarsi, con riguardo alla manipolazione, la
sua configurabilità trattandosi di reato di pericolo sia pur concreto.
Anche per le ipotesi in cui una persona giuridica sia ritenuta responsabile in relazione a
un reato nella materia che qui interessa, sono previste sanzioni pecuniarie (di natura penale
o non penale, ed il parallelo con l’art. 25 sexies D.Lgs. 231/2001 appare immediato) ma
potranno comprendere anche altre sanzioni di natura sostanzialmente interdittiva.
Claudio Visco
Marialuigia Di Vincenzo
Macchi di Cellere Gangemi
Fabio Cagnola
Studio Bana
za con quanto previsto dal MAR. Per precisione il comma II dell’art. 5 indica che ai fini della direttiva, costituiscono
manipolazione del mercato, oltre al caso indicato alla lettera d) le seguenti condotte:
a) conclusione di un’operazione, immissione di un ordine di compravendita o qualsiasi altra condotta che:
i) fornisce segnali falsi o fuorvianti relativi all’offerta, alla domanda o al prezzo di uno strumento finanziario o
di un contratto a pronti su merci collegato [ipotesi di comportamento ricondotte da Consob all’art. 187 ter, III comma,
lett. a)]; o
ii) fissa il prezzo di uno o più strumenti finanziari, o di un contratto a pronti su merci collegato, a un livello
anomalo o artificiale [ipotesi di price positionig che Consob riconduce all’art. 187 ter III comma lett. b)];
(Omissis)
b) conclusione di un’operazione, immissione di un ordine di compravendita o il compimento di qualsiasi altra attività
o condotta che, attraverso l’uso di artifizi o di ogni altro tipo di inganno o espediente, incide sul prezzo di uno o più
strumenti finanziari o di un contratto a pronti su merci collegato [ipotesi di comportamento ricondotte da Consob
all’art. 187 ter, III comma, lett. c)];
c) divulgazione di informazioni, attraverso i media, incluso Internet, o con qualsiasi altro mezzo, che forniscono segnali falsi o fuorvianti riguardo all’offerta, alla domanda o al prezzo di uno strumento finanziario o di un contratto a
pronti su merci collegato, o che assicurano il prezzo di uno o più strumenti finanziari o di un contratto a pronti su
merci collegato a un livello anomalo o artificiale, quando ne consegue vantaggio o profitto per colui che ha divulgato
le informazioni ovvero per altri.
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La contraffazione delle registrazioni,
del disegno e del modello nei prodotti complessi
Il principio della clausola di riparazione e i profili penali di responsabilità
Sommario: 1. Premessa: la clausola di riparazione e i profili di tutela; 2 La giurisprudenza in
sede civile: un breve cenno; 3. La Giurisprudenza in sede penale: necessarie considerazioni sulla
tutela penale dei marchi; 4. Ambito di applicazione dell’art. 241 CPI; 5. I cerchi per auto non
sono componenti di un prodotto complesso.
1. Premessa: la clausola di riparazione e i profili di tutela
Il tema di carattere generale che viene qui affrontato attiene alla proteggibilità come
modelli delle parti staccate di prodotti complessi, con particolare riguardo alle parti di
carrozzeria delle automobili. Si tratta di un argomento su cui molto si è detto e scritto, sia
a livello di dottrina che di giurisprudenza e sul quale si sono per lungo tempo contrapposti
interessi economici divergenti.
Da un lato, l’interesse delle case automobilistiche a vedere protetto in regime di
monopolio legale il frutto dell’attività di progettazione e sviluppo svolta dai propri designer
ed uffici tecnici, dall’altro, l’interesse dei cd. “ricambisti indipendenti” ad operare nel
mercato del ricambio, realizzando componenti di forma identica che potessero sostituire
gli originali di primo impianto.
Si è dunque a lungo discusso della possibilità di depositare e registrare modelli e disegni
che tutelassero la forma del singolo componente della carrozzeria dell’autovettura (una
portiera, un paraurti, uno specchietto retro-visore, ecc.) e soprattutto si è discusso della
possibilità di azionare concretamente il diritto di esclusiva derivante dalla registrazione
del singolo componente contro il ricambista indipendente al fine di impedirgli di fornire
nel cd. aftermarket (vale a dire quel segmento di mercato che si rivolge al ricambio del
componente di primo impianto) il pezzo di forma identica.
Ad oggi nel nostro ordinamento vige il principio di derivazione comunitaria noto come
“clausola di riparazione”, sancito dall’art. 241 del Codice della Proprietà Industriale. In base
a tale principio, in presenza di talune condizioni specificamente individuate dalla norma,
viene di fatto “congelata” la protezione conferita alle componenti singole della carrozzeria
delle automobili (e più in generale, dei prodotti complessi) che sono state registrate dai
rispettivi titolari come disegni e modelli.
La norma stabilisce, infatti, che le privative conseguite dal titolare non possano essere
fatte valere per impedire la produzione e commercializzazione di componenti che servano
alla riparazione del prodotto complesso, al fine di ripristinarne l’aspetto originario, vale a
dire, per l’appunto i ricambi.
Dunque, nell’ambito delle facoltà conferitagli dal legislatore comunitario della Direttiva
n. 98/71/CE, il legislatore nazionale ha optato per questa soluzione: non escludere la
registrabilità in astratto del ricambio come disegno o modello, ma annullare di fatto le
potenzialità monopolistiche della privativa concessa sul ricambio.
Si tratta di una scelta evidentemente orientata verso la liberalizzazione del mercato
della componentistica di ricambio che è senz’altro apprezzabile perché volta ad epurare il
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diritto di esclusiva conferito con la registrazione da quelle facoltà connesse alla privativa
che non sono dirette a stimolare l’innovazione estetica a vantaggio della concorrenza e
dei consumatori, bensì unicamente a monopolizzare il mercato.
Proprio in ragione degli obiettivi che la sorreggono, tuttavia, tale scelta si giustifica
unicamente in funzione di questi. In altri termini, quando la registrazione del modello
non rischia di trasformarsi in monopolio de facto sulla parte e non si profilano posizioni
di mercato eccessivamente rigide e potenzialmente distorsive, la “clausola di riparazione”
viene a perdere necessariamente le proprie connotazioni spiccatamente pro-concorrenziali
e non deve, di conseguenza, essere applicata.
La più recente giurisprudenza chiamata a pronunciarsi su questo tema è ormai chiara
nell’individuare precisi limiti di operatività alla “clausola di riparazione”, in primis in
considerazione della sua natura di norma speciale, come tale di stretta interpretazione.
Risalgono al 2002 le prime decisioni di Giudici nazionali che, sia in sede cautelare
che di merito, hanno affermato i seguenti principi:
a) in base alle norme riformate della Legge Modelli (R.D. 25 agosto 1949, n. 1411,
come novellato dal D.Lgs. n. 95/2001 in attuazione della Direttiva n. 98/71 sulla protezione
giuridica dei disegni e modelli, successivamente confluite nel Decreto Legislativo n. 30/2005
– Codice della Proprietà Industriale) le parti staccate di prodotti complessi, incluse le parti
della carrozzeria delle automobili ed i cerchioni, hanno accesso alla tutela come disegni e
modelli, purché visibili nel corso della normale utilizzazione del prodotto complesso (art.
35, lett. a, CPI) e dotate dei requisiti di legge (novità e individualità ex art. 35, lett. b, CPI
o speciale ornamento per i modelli concessi anteriormente alla riforma legislativa);
b) l’art. 241 CPI configura un’eccezione ai diritti conferiti dalla privativa ed è pertanto
di stretta interpretazione, riguardando essa in particolare i pezzi di ricambio per automobili
necessari a ripristinare l’aspetto/funzionalità in caso di guasto o incidente;
c) la “clausola di riparazione” non si applica ai componenti dotati di autonomo mercato
in quanto idonei a modificare l’aspetto originario del prodotto per migliorarne l’estetica;
d) i suddetti componenti non sono “pezzi di ricambio” nell’accezione accolta dalla
norma, bensì “accessori” che, come tali, sfuggono alle maglie dell’art. 241 CPI essendo
componenti a forma sostanzialmente libera, che si inseriscono nell’estetica complessiva
dell’automobile, ma non ne dipendono, potendo essere sostituiti (in caso di necessità di
riparazione, ma anche per mera scelta estetica del proprietario) con componenti di forma
diversa, ma egualmente in grado di ripristinare la funzionalità del prodotto complesso;
e) alla categoria degli “accessori” appartengono i cerchioni per automobili, la cui
forma (di cui occorre comunque valutare la novità ed il carattere individuale) può formare
oggetto di valide registrazioni di disegno e modello che conferiscono al titolare un diritto
di esclusiva non soggetto alle restrizioni della clausola di riparazione;
f) detta interpretazione della norma è imposta i) dalla lettera dell’art. 241 che espressamente limita l’eccezione al diritto di esclusiva a componenti utili alla riparazione ed al
ripristino dell’aspetto originario del prodotto; ii) dalla finalità della norma che intende aprire
alla concorrenza il mercato dei pezzi di ricambio (per definizione “chiuso”); la norma,
pertanto, si applica solo laddove non sia concepibile un mercato di componenti aventi
forma differenziata (per definizione “aperto”).
Non è dunque un caso che si è parlato del tema generale della proteggibilità come
modelli delle parti staccate di prodotti complessi.
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Diritto industriale
Il tema, infatti, è generale, così come lo è la categoria delle parti staccate componenti
di prodotti complessi, la quale, nel mercato dell’automobile (ma anche in altri mercati),
si suddivide al proprio interno in due sottocategorie, nettamente distinte e caratterizzate,
sotto il profilo economico-concorrenziale, da problematiche diverse e non sovrapponibili:
i pezzi di ricambio, da un lato, e gli accessori, dall’altro.
È fondamentale operare tale distinzione al fine di evitare che, sulla base di una distorta
interpretazione dell’esimente di cui all’art. 241 CPI, trovino spazio nell’ordinamento insidiose
forme di parassitismo che nulla hanno a che vedere con la liberazione del mercato e con
le regole della concorrenza.
In questo senso acutissima è stata l’osservazione del Giudice della Sezione Specializzata
del Tribunale di Bologna, già chiamato in passato ad occuparsi del tema in esame, che
ha bene evidenziato l’esigenza di circoscrivere l’operatività della “clausola di riparazione”
alle sole finalità di contenimento del rischio di monopolizzazione assoluta del mercato
del ricambio. La riportiamo qui di seguito “(…) sennonché, ad avviso dello scrivente, una
deroga siffatta non può estendersi oltre l’ambito di un corretto interesse ad essere posto in
grado di competere lealmente con il titolare di tale registrazione – cioè soltanto fin quando
si tratta di sfuggire al “mercato chiuso” degli elementi la cui foggia risulti in concreto
“necessitata” – mentre non residua più alcuna giuridica apprezzabilità per la posizione del
“ricambista indipendente” ogniqualvolta gli sia invece possibile un’attività concorrenziale
fondata sull’offerta di componenti a forma “tendenzialmente libera”, e dunque suscettibili
di essere connotati a un design autonomo rispetto a quelli “originali” (….)” (Tribunale di
Bologna, Sezione Specializzata in Proprietà Industriale, ordinanza 10 novembre 2008).
Il cerchione in lega leggera che viene fornito all’acquirente dell’automobile di nota casa
produttrice di automobili (in kit da quattro) possiede proprio la caratteristica evidenziata
dal Giudice bolognese, ovvero quella di essere “a forma libera” e di non avere pertanto
alcun vincolo rispetto al design complessivo dell’automobile, a cui accede senza però
diventarne parte integrante dal punto di vista stilistico e ciò diversamente da componenti
della carrozzeria, come le portiere, i paraurti o gli specchietti retrovisori.
Ancora una volta utilizziamo le parole di questo Giudice, il quale, sulla scorta della
sentenza del Tribunale di Torino n. 4400 del 27 giugno 2006, ha evidenziato che è il
vincolo di complementarietà che traccia la linea di confine fra ciò che ricade nell’ambito
di applicazione della “clausola di riparazione” (ricambio) e ciò che ne è escluso (accessorio).
In tal senso, infatti, propende anche la specifica giurisprudenza torinese allegata dalla
difesa ricorrente – previa affermazione secondo cui va riconosciuto il confine «della
protezione della parte staccata di un prodotto complesso … in base all’assoluto vincolo
di complementarità fra i suoi vari componenti, che assemblati ne determinano la forma
estetica finale», e che la mancanza di “complementarità stretta” costituisce un presupposto
per la possibilità di accordare privativa alla forma estetica della relativa “parte”, risolvendosi
quindi nel «criterio dell’insostituibilità del singolo componente … con ogni altro avente
diversa forma o diverso disegno, a pena di violare l’idea stessa del modello» costituito del
prodotto complesso al quale tali elementi “accedono” (cfr. Trib. Torino sent. 4400 del 27
giugno 2006, pagg. 12/13) – avendo statuito che «la possibilità di abbinare più modelli di
cerchio ad un medesimo modello di autovettura esclude che si ponga il problema della
“clausola di riparazione”, in quanto il consumatore che debba per qualsiasi motivo sostituire
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il cerchione dei pneumatici può – per definizione – scegliere un qualsiasi modello presente
sul mercato, anche diverso da quelli proposti dalla casa/madre, senza che si ponga il
problema del ripristino dell’aspetto originario».
E ancora: “le considerazioni appena esposte – una volta chiarito che la “clausola di
riparazione” esige una sorta di “inderogabilità” fra il prodotto complesso ed il componente
da sostituire, presupponendo una tendenziale identità del “ricambio” rispetto all’elemento
originale, sicché (per restare alla fattispecie in esame) dovremmo pensare che l’intervento su
una certa vettura non sia qualificabile come “ripristinatorio” senza il ricordo a quell’unico
particolare modello di cerchio in lega – fanno emergere come le facoltà spettanti ad ogni
compratore, consentendo di esercitarne la scelta entro una gamma di prodotti ampia ed
esteticamente ben differenziata, dimostrino piuttosto l’autonomia fra vetture e “cerchioni”,
poiché escludono di per sé un “abbinamento necessitato” circa le loro reciproche forme
esteriori: ciò implica il pieno diritto da parte della casa automobilistica a far valere tutte le
privative da essa qui azionate, senza che la relativa tutela venga “paralizzata” nei confronti
dei terzi “ricambisti”, i quali abbiamo visto che nel nostro caso non possono beneficiare
dell’esenzione “speciale” di cui all’art. 241 CPI (ex art. 27 D.Lgs. n. 95/2001).
2. La giurisprudenza in sede civile: un breve cenno
Si ritiene utile passare rapidamente in rassegna le pronunce che hanno perciò contribuito
alla formazione di un nuovo, inequivoco trend giurisprudenziale che, sulla scorta del
vigente dettato normativo, riconosce ai cerchioni per automobili registrati come disegni e
modelli piena tutela in regime di esclusiva, escludendo inoltre l’operatività della clausola di
riparazione (art. 241 CPI) e fornendone una interpretazione chiara, che ne limita l’ambito
di applicazione ai soli pezzi di ricambio intesi come componenti aventi la finalità di
sostituire il componente originale, al fine di ripristinare l’aspetto d’insieme del prodotto
complesso (automobile).
Per esempio il Tribunale di Firenze, ord, 7-15 aprile 2003 (in Giur. Ann. Dir. Ind. 2003,
4566): ha statuito che nella menzionata procedura d’urgenza si è rilevato come il design
del cerchione non risulti necessitato dalla forma complessiva dell’automobile, potendo lo
stesso conformarsi alla diversa carrozzeria di un diverso veicolo (rispetto a quello sul quale
il cerchione è montato in sede di primo impianto).
Da ciò il giudice cautelare ha dedotto la sussistenza, nei modelli di cerchione azionati
da parte della casa automobilistica in quel giudizio, di un pregio estetico autonomamente
apprezzabile.
Il Giudice cautelare di Firenze ha inoltre interpretato la disposizione transitoria dell’art.
27 D.Lgs. n. 95/2001 (oggi art. 241 CPI) come non operante rispetto ai cerchioni, i quali
sono stati ritenuti costituire accessori scelti dal proprietario del veicolo sulla base delle
proprie esigenze estetiche: è stata così accolta la prospettazione qui sostenuta che identifica
una distinzione fra parti di un prodotto che contribuiscono a ricostruire l’unità organica
(pezzi di ricambio) e parti che apportano un valore estetico diverso da quello fornito dalla
parte che sostituiscono (accessori). Il cerchione appare incontrovertibilmente appartenere
a questa seconda categoria.
Anche il Tribunale di Bergamo (ord. 7 luglio 2003; ordinanza di reclamo 22 ottobre
2003), ha risolto positivamente il quesito afferente alla progettabilità delle parti staccate
della carrozzeria.
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Diritto industriale
In particolare, il Giudice ha disatteso la prospettazione del ricambista, secondo la quale
i cerchioni difetterebbero di una propria estetica poiché componenti di una automobile,
affermando che la forma dei cerchioni può essere oggetto di tutela quale modello ed
escludendo che tale prodotto possa essere qualificato come mero componente di un prodotto
complessivo privo di autonomo pregio estetico.
Il Tribunale di Bergamo ha inoltre valorizzato il carattere accessoriale del cerchione,
nonché, trattandosi di controversia relativa a prodotti rispetto ai quali vige la normativa anteriore
(come in parte avviene anche nel caso in esame), il grado di originalità richiesto ai fini della
tutela, il quale, alla luce del precedente requisito dello speciale ornamento, e tenuto conto
dell’affollamento del settore merceologico di riferimento, viene giudicato attraverso parametri
meno rigorosi, così da essere individuato “nella particolare combinazione e dimensione delle
razze e dei fori di ciascun cerchio che assume una propria specifica geometria”.
Quanto alla causa di riparazione, il Tribunale di Bergamo in commento ne ha
correttamente escluso l’operatività.
Anche tale decisione è stata confermata integralmente in sede di reclamo e si è poi
giunti alla definitiva conferma di tali statuizioni nel merito.
Ulteriore esempio per quanto attiene alla pronuncia del Tribunale di Torino (n. 4400/2006:
con la già citata sentenza in data 27 giugno 2006) ha riconosciuto la validità delle privative di
nota casa automobilistica sia sotto il profilo della astratta proteggibilità della forma dei cerchioni
mediante la registrazione come modelli, sia sotto il profilo della sussistenza dei requisiti di
novità e speciale ornamento/carattere individuale (il cerchio per pneumatico (…) non si inserisce
nella carrozzeria e non è quindi determinato nelle sue caratteristiche formali dal disegno del
modello di autovettura, mentre si inserisce all’interno della ruota (della quale funge da supporto),
elemento questo che è presente in ogni autovettura quale che ne sia il modello.
Esclusa la funzione svolta dalla parte interna e non visibile del cerchio (che è quella
di consentire l’inserimento della ruota e la sua connessione con l’automezzo) il cerchio,
nella sua parte esterna, svolge a seconda del suo disegno (precisamente del disegno iscritto
all’interno del cerchio a sua volta posizionato al centro del pneumatico) una autonoma
funzione estetica, in grado di personalizzare l’autovettura, quale che sia la sua forma o
modello, che non ne vengano alterati.
L’autonoma proteggibilità di questo componente dell’autovettura non realizza, in tal
caso, una artificiosa frammentazione dell’idea stilistica già premiata con la brevettazione
del relativo modello, in quanto quest’ultimo resta inalterato e perfettamente riconoscibile
anche se abbinato a modelli di cerchio diversi da quello proposti dalla casa madre
automobilistica.
Il riconoscimento, inoltre, della proteggibilità del modello di cerchio per pneumatico
non si pone in contrasto con la segnalata necessità di aprire il mercato della ricambista, in
quanto tali parti, proprio in considerazione della loro autonomia estetica, non si presentano
come necessarie per il ripristino dell’aspetto originario del veicolo”).
Sulla scorta di queste considerazioni, il Tribunale di Torino, respingendo sotto ogni
profilo la prospettazione del ricambista, anche con riguardo all’applicazione della clausola
di riparazione, ha condannato quest’ultimo per contraffazione, pronunciando a suo carico
l’ordine di inibitoria, oltre alla sanzione accessoria della pubblicazione della sentenza.
Ancor più di recente il Tribunale di Torino si è espresso in sede cautelare sulla questione
in esame, concedendo inaudita altera parte all’odierna ricorrente i provvedimenti d’urgenza
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DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA, DELL’UNIONE EUROPEA E TRANSNAZIONALE
richiesti contro l’ennesimo rivenditore di cerchioni replica (Tribunale di Torino, decreto 10
marzo 2008).
L’incompatibilità dimensionale fra i cerchioni replica e quelli originali, oltre alle consuete
considerazioni in ordine alla proteggibilità come modello della forma del cerchione e la non
applicabilità della clausola di riparazione riferibile unicamente alla categoria dei “pezzi di
ricambio”, ha indotto in passato la Sezione Specializzata del Tribunale di Napoli, adita in
sede cautelare dall’odierna ricorrente nei confronti dell’ennesimo rivenditore di cerchioni
per automobile in contraffazione dei propri modelli registrati, a concedere l’invocata tutela
cautelare (Tribunale di Napoli, ordinanza 1 dicembre 2004).
Da ultimo, anche il Tribunale di Milano, investito per la prima volta della materia,
si è pronunciato nel senso di ritenere i cerchi in lega che sono protetti da registrazioni
di disegno e modello accessori e non pezzi di ricambio, come tali estranei alle finalità
antimonopolistiche della clausola di riparazione, arrivando financo a concedere le invocate
misure cautelari inaudita altera parte (Trib. Milano, ord. 22 luglio 2010) e confermandole
poi all’esito del contraddittorio, anche con riferimento alla contraffazione del marchio registrato (Trib. Milano, ord. 29 ottobre 2010).
Ancor più recente l’illuminante ordinanza emessa dal Collegio di reclamo della Sezione
Specializzata del Tribunale di Milano nella procedura R.G. 1497/2011 che, nell’analizzare la
“clausola di riparazione” in un’ottica squisitamente antitrust, ne ha escluso l’applicazione al
mercato “ad offerta libera” dei cerchioni per automobile, sul presupposto che tale mercato
non è vincolato dalla rigidità della domanda tipica del mercato secondario della ricambista
dei componenti “must match”.
3. La Giurisprudenza in sede penale: necessarie considerazioni sulla tutela penale
dei marchi
Di qui la necessità che si faccia luogo, non solo alla contestazione del reato di cui
all’art. 474 c.p. (contraffazione del logo), ma altresì del reato di cui all’art. 517 ter c.p.
(fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale),
essendo pacifico che fra i titoli di proprietà industriale ex art. 1 e segg. del CPI rientrano
i modelli ornamentali.
Si richiama sul punto la sentenza della Cassazione Sez. II Penale del 19 maggio
2011, in una vicenda sempre relativa ad una società che aveva posto in essere l’attività
di contraffazione, avente ad oggetto “un sequestro probatorio di cerchi in lega in quanto
materiale del quale si sospetta la contraffazione di modelli originali e di marchi di case
automobilistiche produttrici del materiale stesso”, secondo cui in giurisprudenza, infatti,
sin da epoca risalente, si è affermato che “la tutela penale dei marchi o dei segni distintivi
delle opere dell’ingegno o di prodotti industriali è finalizzata alla garanzia dell’interesse
pubblico preminente della fede pubblica, oltre a quello privato del soggetto inventore e la
previsione secondo la quale le norme incriminatrici in tema di contraffazione o alterazione
dei marchi o dei segni distintivi si applicano sempre che siano state osservate le norme
delle leggi interne o delle convenzioni internazionali sulla tutela della proprietà intellettuale
o industriale” (Cass., Sez. II, 26 marzo 1998, n. 6418).
La Suprema Corte ha altresì ribadito che i cerchi in lega sono tutelati da privativa industriale e che: “… la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di puntualizzare, in
più occasioni, che anche la apposizione di diciture quali “copia d’autore” o “fac-simile”
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su prodotti industriali recanti marchi contraffatti, non faccia venire meno la integrazione
del reato di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi, trattandosi
di ipotesi delittuosa che tutela la fede pubblica, intesa come affidamento nei marchi o nei
segni distintivi, e che integra una figura di reato di pericolo, per il cui perfezionamento è
necessaria soltanto l’attitudine della falsificazione a ingenerare confusione, con riferimento
non solo al momento dell’acquisto, ma anche a quello della successiva utilizzazione” (Cass.,
Sez. V, 9 gennaio 2009, n. 14876; Cass., Sez. V, 25 settembre 2008, n. 40556; Cass., Sez.
V, 5 luglio 2006, n. 31451).
4. Ambito di applicazione dell’art. 241 CPI
L’articolo 241 CPI è norma eccezionale, di interpretazione stretta, l’esistenza dei cui
presupporti deve essere dimostrata dalla parte che intende avvalersene. Il primo presupposto
per l’applicazione dell’art. 241 CPI non è il fatto che il prodotto del contraffattore sia
(pretesamente) un pezzo di ricambio, ma è invece che i diritti esclusivi da disegno o
modello registrato, che ai termini della stessa norma non possono essere fatti valere contro
i terzi, incidano “sui componenti di un prodotto complesso”.
Infatti, se così non fosse (come nel nostro caso non è), se cioè il modello registrato
della cui violazione si discute non accedesse (come non accade nel nostro caso) ad un
componente di un prodotto complesso, del tutto irrilevante all’applicazione dell’art. 241
CPI sarebbe l’eventuale destinazione del prodotto contraffatto a sostituire altro originale
“rotto o rubato”, e dunque ogni discorso sull’art. 241 CPI sarebbe del tutto inutile ai fini
del decidere.
Invero, che l’art. 241 CPI non si applichi, nemmeno astrattamente, a cerchi per auto, che
sono prodotti del tutto indipendenti e autonomi, ai quali non può applicarsi la nozione di cui
all’art. 241 CPI di “componenti di un prodotto complesso” (nozione che, peraltro, trova la
sua prima applicazione nell’art. 35 CPI che definisce le condizioni alle quali è validamente
proteggibile “il disegno o modello applicato od incorporato nel componente di un prodotto
complesso”) è conclusione certa, e comprovata da costante e pacifica giurisprudenza.
Per comprendere meglio tale sicura conclusione basta considerare la stessa genesi
della norma in esame, sia per quanto attiene alla nozione di prodotto complesso e di suo
componente, sia per quanto attiene all’eccezione per il pezzo di ricambio (di componente
di prodotto complesso).
Come noto, negli ultimi decenni il tema della proteggibilità con un disegno o modello
registrato della forma di singoli componenti di un prodotto complesso, e l’estensione di tale
tutela anche nei confronti di pezzi di ricambio, ha visto un acceso dibattito, sviluppatosi
in particolare in tema di parti di carrozzeria per automobile (della questione ebbe ad
occuparsi più volte anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea).
La normativa che ne è scaturita è volta a contemperare le esigenze dei ricambisti
indipendenti con quelle delle case produttrici che investono ingenti quantità di denaro
nello studio di un’estetica peculiare per la carrozzeria dei propri veicoli.
In questo quadro viene emanata la Direttiva 98/71/CE del 13 ottobre 1998 sulla protezione
giuridica dei disegni e dei modelli, che vuole trovare una soluzione alla problematica legata
alla sempre crescente importanza del fattore estetico (piuttosto che solo quello tecnico)
nell’indirizzare la scelta dei consumatori, tenendo altresì conto della necessità di uniformare
le discipline nazionali in materia di tutela della forma.
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In questo contesto, mentre da un lato viene riconosciuta definitivamente la tutelabilità
con il modello (ornamentale) registrato anche di singole parti componenti di un prodotto
complesso, dall’altro lato nasce la c.d. clausola di riparazione che prevede che i diritti di
privativa rispetto a un modello registrato non possono essere fatti valere nei confronti di un
soggetto che attua il disegno in funzione della (offerta di parti destinate alla) riparazione del
suddetto componente al fine di ripristinare l’originario aspetto del prodotto complesso.
La direttiva in esame, vista la difficoltà di conciliare i rispettivi interessi, rinviava la
definizione di pezzo di ricambio (da qui la ragione dell’incipit dell’art. 241 CPI).
In Italia la Direttiva 98/71/CE trova attuazione (nella legislazione vigente) negli artt. 31
e 35 CPI (per quanto attiene alla definizione di prodotto complesso), e nell’art. 241 CPI
(per quanto attiene alla c.d. clausola di riparazione).
Appare evidente, dalla lettura combinata degli artt. 31.3 e 35 CPI da un lato e dello stesso
art. 241 CPI dall’altro lato, che il componente di un prodotto complesso è (particolarmente
ai fini della c.d. clausola di riparazione) solo quello che, potendo essere sostituito, consente
lo smontaggio e il nuovo montaggio del prodotto complesso, mantenendone l’aspetto
originario.
In questa definizione non rientra affatto il cerchio per auto ma, per restare al settore
automobilistico (che d’altra parte è quello per il quale, come detto, è stata principalmente ma
in realtà esclusivamente, elaborata la normativa in esame), solo le parti di carrozzeria.
Peraltro, è solo in relazione a tali parti che si è avuto il dibattito di cui si è detto,
risolto dall’attuale legislazione.
Invero, è solo per le parti della carrozzeria che si pone il problema del cosiddetto “must
match” (e cioè del doversi assolutamente adeguare), che solo giustificava sia il problema
del se la parte fosse proteggibile ex se o solo nel complesso (la carrozzeria), anche perché
è solo nel caso della carrozzeria che può essere ragionevole ritenere che il pezzo di offerta
alternativa sia essenzialmente destinato alla riparazione.
Per i cerchi, invece, per i quali è sufficiente il cosiddetto “must fit” (e cioè il doversi
poter essere montati), non vi è mai stato dubbio che essi godano di tutela a pieno titolo non
essendo componenti di prodotto complesso. Dunque nemmeno astrattamente l’art. 241 CPI
può trovare applicazione in materia di cerchi tanto in generale, quanto in particolare.
Infatti, a conferma dell’assoluta autonomia del disegno del cerchio rispetto all’estetica
della carrozzeria, è possibile – e di fatto avviene, come testimoniato dalla notoria presenza
sul mercato di numerosi operatori indipendenti che offrono cerchi di proprio originale
design – offrire una vasta gamma di disegni alternativi pur rispettando le misure e le altre
condizioni tecniche (larghezza della ruota, etc. …) che consentono al cerchio di essere
montato su un certo veicolo.
5. I cerchi per auto non sono componenti di un prodotto complesso
Come si è detto sopra, la prima questione che è stata affrontata per verificare se sussistano le condizioni per applicare la previsione dell’art. 241 CPI è quella di valutare se
il cerchio sia un componente di un prodotto complesso.
E che la risposta alla questione se il cerchio sia un componente di un prodotto complesso
debba essere necessariamente negativa appare evidente solo se si consideri che i cerchi
non sono una parte della carrozzeria dell’auto (prodotto complesso), ma sono prodotti
individuali (e pertanto “semplici”, nel senso che non sono destinati a comporsi con altri
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pezzi per formare un prodotto più complesso, e prima ancora non partecipano con essi
altri pezzi a determinare la forma di esso prodotto complesso); i cerchi hanno una propria
autonomia di design, così come a sua volta il design della carrozzeria è del tutto autonomo
e indipendente dal design dei cerchi; la sostituzione dei cerchi non influisce sulla forma
del prodotto complesso (la carrozzeria); per la riparazione di quest’ultimo (la carrozzeria) è
del tutto irrilevante la forma dei cerchi; prima ancora per la riparazione (recte: il ripristino
dell’aspetto originario) della stessa carrozzeria non occorre provvedere alla sostituzione dei
cerchi e quindi allo smontaggio della carrozzeria stessa (così come non occorre smontare e
nuovamente montare la carrozzeria per sostituire i cerchi): essi cerchi perciò esulano dalla
previsione dell’art. 31.3 CPI e si sottraggono alla finalità posta alla base dell’art. 241 CPI.
A riprova di ciò viene la considerazione che i cerchi hanno un autonomo mercato, di
gran lunga ulteriore a quello della pura sostituzione di esemplari danneggiati o rubati (anzi,
per quanto si dirà infra, questo mercato di fatto non esiste e, prima ancora, esso prescinde
totalmente una volta di più dal punto di vista economico e tecnico dalla eccezione dell’art.
241 CPI); e questo perché sussistono molteplici ragioni che spingono il consumatore finale
ad acquistare cerchi in lega, diverse dal furto o dalla rottura: dunque proprio ragioni di
logica avrebbero dovuto far concludere al Tribunale prima e al PM poi per la insussistenza
delle condizioni di applicabilità dell’eccezione dell’art. 241 CPI.
Questa conclusione è, come detto sopra, peraltro confermata (e confortata) da ampia
giurisprudenza.
Sul fatto che manchi una complementarietà stretta tra il cerchio in lega e il prodotto
complesso, di cui il cerchio non è parte, si vedano l’ordinanza del Tribunale di Milano
del 13 gennaio 2011, nonché l’ordinanza del Tribunale di Bologna del 18 ottobre 2008,
le quali precisano che perché ricorra l’ipotesi di componente di un prodotto complesso
occorre che sussista il requisito della “stretta complementarietà”, il che non avviene (per
quanto si è detto e ancora si dirà infra) nel caso del cerchio per auto.
Non si tratta ovviamente delle sole pronunce in tal senso, ma solo di due tra le più
recenti.
La giurisprudenza, sia italiana che straniera, è infatti costante nel ritenere che i cerchi in
lega configurino elementi accessori, relativamente ai quali il consumatore può liberamente
scegliere anche modelli diversi rispetto a quelli proposti dalla casa produttrice o comunque
già presenti sul veicolo di sua proprietà, e che quindi essi sono svincolati dalla carrozzeria
e non componenti della stessa. In questo senso tra le molte: ordinanza del Tribunale di
Venezia del 28 novembre 2008; ordinanza del Tribunale di Bologna del 10 novembre 2008;
sentenza pronunciata dal Tribunale di Torino in data 27 giugno 2006; ordinanza del Tribunale
di Firenze del 7 aprile 2003; ordinanza del Tribunale di Bologna del 3 maggio 2011.
In particolare segnaliamo che tale ordinanza ha riconosciuto come i cerchi di una nota
casa automobilistica siano “assistiti da un lato dalla presunzione di validità di cui all’art.
85 RDMC (o delle registrazioni internazionali) […], mentre quanto alla distinzione tra
pezzi di ricambio e parti registrabili si osserva da un lato come le norme siano di stretta
interpretazione […], in secondo luogo come i pezzi di ricambio di cui agli artt. 241 e 110
citati possano essere inclusi nella deroga di tutela solo qualora non abbiano un autonomo
valore estetico, non siano autonomamente acquistabili ed apponibili indipendentemente dal
ripristino dell’aspetto originario del prodotto bisognoso di riparazione, e quindi come gli
stessi devono inerire a forme necessitate e conformi a quelle del costruttore, non anche a
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forme tendenzialmente libere così solo l’esigenza di una identità assoluta tra componente
del prodotto complesso e la parte originaria può impedire l’operatività della privativa”.
La giurisprudenza, inoltre, ha specificato che i cerchi sono elementi che l’utente sceglie
essenzialmente “per modificare l’aspetto estetico del prodotto, in quanto selezionati sulla
base di una esigenza meramente estetica” (cfr. ordinanza del Tribunale di Firenze del 7
aprile 2003; Cassazione Penale, sentenza n. 21162 del 27 marzo 2003).
Con ciò, evidenziando che il consumatore è spinto dalle motivazioni più varie nel
cambiare i cerchi della propria autovettura, senz’altro ulteriori rispetto al furto e alla
rottura.
Ad ulteriore conferma del fatto che i cerchi non possono essere considerati come
componenti di un prodotto complesso, per cui l’art. 241 CPI non si applica nemmeno
astrattamente (d’altra parte, nel mercato dei cerchi in lega neppure sussiste il pericolo di
monopolio della casa produttrice a danno del consumatore finale, come visto, questo è
uno degli elementi che ha portato all’attuale disciplina), in quanto tali parti, proprio in
considerazione della loro autonomia estetica, non si presentano come necessarie per il
ripristino dell’aspetto originario e quindi possono essere acquistate dal consumatore finale
con grande libertà, anche di disegno diverso offerto da produttori differenti dal produttore
della propria vettura.
Va anzi ricordato che grandissimo è il numero di produttori indipendenti di cerchi che
offrono propri modelli con proprio design adatti per ogni tipo di vettura di ogni marca.
La stessa vastità dell’offerta commerciale delle case automobilistiche (che per ciascun
modello di autovettura offrono più cerchi) conferma che non esiste alcun legame tra il
modello originale di vettura creato dal progettista del veicolo ed il cerchio, montato su
un modello di auto (infatti, se tale vincolo esistesse, la casa automobilistica offrirebbe
un solo modello di cerchio). Diversamente, lo stesso cerchio è assai spesso usato su più
modelli d’auto.
Il cerchio non è un pezzo che sottostà a particolari vincoli di forma (oltre naturalmente
a dover essere circolare: ma detta circolarità non pone limiti alla fantasia del progettista
quanto alla forma complessiva del cerchio), ben potendo adottare forme del tutto libere,
senza con ciò alterare la funzionalità del prodotto complesso cui accede, pertanto è dal
punto di vista estetico solo un accessorio del veicolo. In questo caso si parla infatti non già
della funzionalità delle ruote, ma invece del fatto che esse ruote abbiano un certo design:
nessuno intende ovviamente monopolizzare la circolarità della ruota, ma solo proteggere
uno specifico design, tra le numerosissime ed anzi infinite varianti di forma possibili.
Antonio Bana
Studio Bana
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Finito di stampare nel mese di maggio 2015
“Rotolito Lombarda” S.p.A., Pioltello (MI)
Questo volume, sprovvisto dell’apposito talloncino,
è da considerarsi copia di saggio esente da I.V.A.
(D.P.R. 26.10.1972, n. 633, art. 2 sub d),
e come tale non può essere messo in commercio;
è inoltre esente da bolla di accompagnamento merci
ai sensi del D.P.R. n. 627 del 6.10.1978, art. 4 sub 6.
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