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Liceo Classico-linguistico “L. A. Muratori-S. Carlo”
Modena
Progetto Tema Concorso “Il Forum della Filosofia”
Anno Scolastico 2016-2017
Referente prof.ssa Elisabetta Imperato
Progetto di ricerca a cura di Agnese Cassiani, Alice Nicolini, Giulia Stagnoli (classe 5°A),
Alessia Cadelo , Alberto Pettenella (5°E)
Sintesi del percorso
“Agisci in modo che la tua condotta sia compatibile con l’esistenza di un’umanità futura” (H.
Jonas)
Per un’etica della sopravvivenza
1. Quali sono i requisiti minimi affinché una norma morale sia veramente tale?
Partiamo dalla definizione di norma come “una proposizione volta a stabilire un comportamento
condiviso secondo i valori presenti all'interno di un gruppo sociale e pertanto definito normale,
finalizzata a regolare il comportamento dei singoli appartenenti al gruppo, e perseguire i fini che
lo stesso ritiene preminenti.”
In base a tale definizione e in considerazione che:
a) Tanti sono i gruppi sociali che nello spazio e nel tempo declinano secondo forme
estremamente differenziate valori e norme (dai Sofisti a Nietzsche);
b) I concetti di bene e di male risultano dinamicamente variabili e molto spesso legati alla
storia e alle tradizioni religiose dei popoli;
risulta possibile individuare i requisiti minimi affinché una norma morale sia veramente tale
soltanto dopo aver individuato un “minimo comune multiplo” che possa valere sempre, per tutti e
universalmente, e che possa regolare globalmente e in maniera condivisa il comportamento dei
singoli.
Riteniamo che un fine condivisibile, che oggi si pone quale obiettivo prioritario per la stessa
sopravvivenza della specie, sia la difesa del pianeta e di conseguenza dello stesso genere umano.
La relatività della contrapposizione tra il bene e il male e la difficoltà di dare una definizione della
natura umana non ci permettono di individuare nei presunti diritti naturali e nella natura la fonte
della legittimazione di una norma morale. Pensiamo non solo all’insegnamento dei relativisti, ma
anche alle riflessioni di Hume sull’identità dell’io e di Kierkegaard e degli esistenzialisti sulla
priorità logico-metafisica dell’esistenza rispetto all’essenza umana, frutto di scelta, costruzione e
progetto. Norberto Bobbio ci ha inoltre insegnato che i diritti sono sempre storici : fondare dunque
la morale sul diritto naturale è assolutamente impossibile (Zagrebelsky).
Ora una norma morale con pretese universalistiche può definirsi tale quando risponde agli interessi
globali dell’umanità, riferendosi alla pluralità dei soggetti che compongono nello spazio e nel tempo
(nel presente e nel futuro) il genere umano.
Per noi la validità delle norme morali può e deve fondarsi su alcuni caratteri che avvicinano la
norma morale alla norma giuridica:
a) La generalità, come già detto in precedenza;
b) La novità, in quanto norma tesa a regolare un comportamento non regolato nel passato, allo
scopo di modificare i comportamenti attraverso l’educazione;
c) La coattività, ovvero il rispetto obbligatorio, in base al quale ogni
trasgressione/inosservanza deve essere punita applicando una sanzione al trasgressore.
Ci rendiamo conto che tale interpretazione richiede un riallineamento tra etica e politica, tra norme
morali e norme giuridiche e che prende molto sul serie il termine “norma”, riconducendolo al
significato prescrittivo del “tu devi” e all’imperativo categorico di Kantiana memoria.
2. Perché le norme morali sono valide (ammesso che lo siano)? E’ possibile garantire una
validità universale alla norma morale senza riferimenti a entità trascendenti?
Pensiamo che non solo sia possibile ma anche e soprattutto necessario, programmaticamente,
garantire una validità universale alla norma morale senza riferimenti ad entità trascendenti ma
ancorando tale validità alla più stretta immanenza, nell’orizzonte dell’umano. L’idea della
trascendenza, nelle forme che può assumere in tempi, spazi, civiltà e culture diverse, può
pericolosamente dividere, se diversamente declinata, e ha sempre diviso e continua a dividere il
genere umano (si pensi alla contrapposizione anticipata da Oriana Fallaci tra Occidente e Islam). La
“passione per la trascendenza”, reinterpretata alla luce dell’orizzonte temporale, ha condotto a
conflitti sanguinosi, dalle crociate alle guerre di religione, alle forme di integralismo
contemporaneo, e ha prodotto contrapposte idee di felicità: dalla felicità dell’asceta a quella del
terrorista/integralista islamico che non ha paura della morte anzi la cerca per sé e per gli altri.
L’orizzonte dell’immanenza unifica e integra, in un unico destino l’umanità. Oggi come ieri e come
domani, se un domani ci sarà. (“Il futuro, si dice, non è più quello di una volta”)
3. E’ possibile giustificare su basi razionali il comportamento altruistico o comunque non
riducibile all’immediato utile personale?
La filosofia ci insegna che spesso l’altruismo non è che l’altra faccia dell’egoismo e che spesso la
somma degli egoismi individuali contribuisce a costruire il bene pubblico. Nella difesa del pianeta e
nel progetto di assicurare la sopravvivenza alla natura e alle future generazioni, interessi individuali
e collettivi non possono che confluire.
Ipotizziamo, come praticabile, una forma di etica intersoggettiva (Habermas,1970), coniugata alla
nozione di giustizia, suggerita da Rawls, alternativa alla definizione “noumenica” di bene. Le nostre
azioni morali dovrebbero essere giuste, non buone. Pensiamo al rilancio dell’etica come scienza
(Aristotele) che ha un suo preciso oggetto (la giustizia nell’equilibrio distributivo delle risorse e la
salvaguardia della salute del pianeta), un’etica che coniughi, attraverso l’educazione, il sentimento
della vita (in senso lato) con la ragione, e che colleghi, coerentemente, la parte descrittiva (che
contempla l’analisi dei comportamenti umani in relazione allo stato di salute del pianeta e,
conseguentemente del genere umano ) alla parte normativa.
Seguendo l’impostazione di Rawls, siamo convinti che l’etica debba occuparsi delle istituzioni
politiche, sociali e soprattutto educative, alla base delle quali sono da collocare diritti che rientrano
nella sfera morale. Abbiamo in mente un’etica dell’equità capace di coniugare libertà e giustizia,
interesse del singolo, interesse della specie e salvaguardia del futuro.
Qui emerge, in tutta la sua pregnanza e forza, il ruolo improrogabile dell’educazione e delle
istituzioni scolastiche, deontologicamente deputate a garantire conoscenza ed equità sociale, anche
attraverso le regole declinate da Habermas e volte a realizzare una convergenza di “interessi”:
verità, veridicità, giustezza e comprensibilità. Alla base dell’agire comunicativo, dunque, il
concetto di responsabilità (di docenti, discenti, società civile) che rimanda alla capacità di
previsione e in particolare al dovere nei confronti delle giovani e prossime generazioni.
In sintesi, con Jonas (1903-1933) siamo convinti che il problema morale riguardi il futuro e che
spetti alla filosofia morale, centrale nella costruzione delle competenze di cittadinanza, tanto
sottolineate dalle Raccomandazioni dell’U.E., il compito di sentinella vigile, per costruire e
accrescere, in termini di autonomia e responsabilità, il razionale sentimento di interdipendenza e di
uguale destino.
VERSO LA CITTADINANZA TERRESTRE:
PER UN’ETICA DELLA SOPRAVVIVENZA
“L’uomo è divenuto un superuomo … ma il superuomo, con il suo sovrumano potere, non è
pervenuto al livello di una sovraumana razionalità. Più il suo potere cresce, e più egli diventa
anche un superuomo … le nostre coscienze non possono non essere scosse dalla constatazione che,
più che cresciamo e diventiamo superuomini, e più siamo disumani.” Così Albert Schweitzer, in
occasione della cerimonia di conferimento del premio Nobel per la pace ad Oslo nel 1952, denuncia
il fallimento di quella che Fromm chiama “la grande promessa”, ovvero l’illusione che il progresso
industriale avrebbe portato al soddisfacimento di tutte le esigenze umane.
Tale fraintendimento deriva dalla concezione secondo cui la problematicità con cui l’uomo ha avuto
a che fare nei secoli passati fosse risolvibile tramite una politica economica del benessere. Eppure,
la Welfare Economics, come riconosce Amartya Sen, si oppone per principio alla “pluralità di fini e
di obiettivi perseguibili” dagli uomini, da leggersi come percorsi sicuri verso l’ideale di
eudaimonia. Posto come logica propria degli agenti economici il conseguimento del massimo
profitto tramite il minor impegno, il criterio di utilità che ne consegue non implica automaticamente
un interesse comune, né tantomeno lascia emergere le proprie vittime. La mancanza di un equilibrio
tra lo sfruttamento delle risorse naturali e la geografia del denaro ricavato su queste, così come
l’incapacità di far fronte all’imminenza di catastrofi di origine climatica, hanno messo in secondo
piano la capacità rigenerativa del capitalismo, unica proprietà che ne permette la sopravvivenza,
smascherandone la natura caotica. Lo scetticismo nutrito nei confronti di una possibile adozione da
parte dell’economia di impostazioni spirituali, come quella di matrice buddhista (F. Schumacher), è
più che consolidato a causa della riprovevole mancanza di un impegno politico negli ultimi anni ed
osservata esplicitamente a partire dal Protocollo di Kyoto. La necessità di sviluppare una coscienza
ecologica si codifica allora come uno dei primi obiettivi della società moderna. Solo essa infatti
potrà accogliere un processo di inversione di tendenza, all’insegna della “decrescita”.
Tecnica, economia e politica, come capisaldi della modernità, hanno determinato da un lato
l’alienazione dell’uomo, dall’altro un “narcisismo titanico” (Galimberti) che si declina nel valorechiave dell’individualismo. Esso, inteso sia come ripiegamento su sé stessi sia come indipendenza
economica, assume la duplice valenza di diretta conseguenza e unica prospettiva di
“sopravvivenza” in un mondo dominato dal principio hobbesiano “homo homini lupus”.
Nell’ottica di Galimberti, infatti, la tecnica ha “sostituito la natura che ci circonda”, andando a
costituire il nostro nuovo habitat, un ambiente, cioè, costruito secondo le regole della razionalità: la
burocrazia, l’efficienza (identificazione tra vero ed efficiente) e l’organizzazione. Le esigenze
dell’uomo risultano quindi subordinate a quelle specifiche dell’apparato tecnico.
Alla tecnica, un “fare […], potenziamento afinalizzato”(Galimberti), si lega la politica, che ne ha
bisogno per realizzare i suoi scopi: essendo, però, stata riconosciuta la supremazia della tecnologia
sull’umanità, si parla di “errore umano”, l’uomo oggi si trova in uno “scenario senza orizzonti”.
Infine, il capitalismo, modello economico del Novecento, deve ricorrere alla tecnica per scongiurare
l’esaurimento delle risorse su cui si fonda. La tecnica, però, pone le sue leggi indipendentemente da
quelle del capitale: si è giunti, quindi, alla situazione paradossale per cui è ipotizzabile un “riscatto
dell’umanità proprio grazie alla tecnica”
Secondo Goldsmith (1904-1988), padre dell’ecologia moderna, la convinzione che emerge dalla
visione “modernista”, generata dal pensiero tecnico-economico odierno, è che la ricchezza e il
benessere dell’uomo siano un frutto esclusivo dell’azione umana. Ne consegue la progressiva
“invasione dell’ecosfera […] da parte della tecnosfera”, cioè il mondo surrogato si sovrappone e si
sostituisce a quello reale, fino al punto di consumarlo. A ciò si affianca la convinzione che le risorse
siano infinite e che la felicità sia proporzionale alla quantità di beni materiali di cui si dispone. Il
nostro sistema economico si basa, in sintesi, sul consumismo: nonostante la consapevolezza che
l’avere di più non comporti necessariamente un maggiore appagamento, il genere umano continua a
produrre cose, anche a discapito dell’ambiente in cui vive (Gaarder).
Tra questi diversi piani, che pure si compenetrano, la tecnica primeggia in quanto avulsa dalla sfera
umana: si delinea, infatti, con le parole di Galimberti, come "luogo della razionalità assoluta, in cui
non c'è spazio per le pulsioni", trionfo di funzionalità ed organizzazione alla guida dell'azione. Al
contrario l'economia, anch'essa forma razionale, è inevitabilmente corrotta e condizionata dalla
passione per il denaro.
Una delle principali conseguenze del progresso tecnico-scientifico è l'irreversibile decadenza
dell'umanesimo, inteso come possibilità e capacità dell'uomo di governare la terra, ormai non più
praticabile. - "una storia vecchia di almeno cent'anni", fa notare l'autore di "Psiche e Techne",
preannunciata da Heidegger già negli anni 30 del secolo scorso.- Ciò può essere attribuito ad una
generalizzata perdita di contatto con la realtà, che, citando Massimo Donà, si traduce
nell'impossibilità di manipolare le "immagini" che costituiscono il nostro mondo, rendendolo
sempre più inconsistente e meno appagante. Il sovvertimento di binomi gerarchici ormai
consolidati, primo fra tutti uomo/natura, risulta in una situazione di paralizzante alienazione: la
sopra citata incapacità di manipolare quanto ci circonda è sintomo di un superamento del produttore
da parte del prodotto, non più visto come un semplice strumento.
Si può quasi parlare di un decentramento dell'uomo: la mancata considerazione e previsione della
prospettiva umanistica viene individuata da Galimberti come "punto dolente" di capitalismo e
marxismo, quelle che lui definisce figure ideologiche “pretecnologiche”. Esso si fa predicato,
cedendo il ruolo di soggetto alla tecnica. Quest'ultima non è seconda alla ragione, psiche e techne dove per psiche si intende ciò che sostiene e muove la natura e per techne l'esser padrone e disporre
della propria mente già a partire dal Cratilo di Platone - sono poste in parallelo superando storici
dualismi in favore di un'originaria reciproca interazione - "la tecnica come prodotto della ragione e
la ragione come prodotto della tecnica" esplicita Galimberti."Il dominio della tecnica ha annullato e annulla l'uomo" è la nota su cui si conclude "Psiche e
Techne", dipingendo, anche in accordo con la linea di Severino, una prospettiva pessimistica per il
futuro, dove l'ultima chance per "l'individuo che rotola sul piano inclinato dello sviluppo
tecnologico" pare essere la chiusura in se stesso. Questa forma di "individualismo titanico" genera
immancabilmente quella che Donà definisce la "frammentazione individualistica" tipica del vivere
odierno, un diffuso "ognuno pensa per sé" che investe la sfera sociale tanto quanto quella
economica.
A questo proposito, Serge Latouche elabora un’analisi critica dell’economia occidentale, destinata
al collasso, e articola una prospettiva economica alternativa che, proponendo l’inversione di
tendenza, è nominata “decrescita”. Latouche dichiara di essere un “obiettore di crescita”: si oppone,
cioè, a quella che definisce “la religione imperante della crescita”, un tipologia di cultura che
costringe a ricercare uno sviluppo economico continuo e fine a se stesso. L’economia, così intesa,
riesce a funzionare solamente attraverso un aumento continuo del Pil, comportandosi “come un
gigante che non è in grado di stare in equilibrio se non continuando a correre, ma così facendo
schiaccia tutto ciò che incontra sul suo percorso.” Un sistema di questo tipo è del tutto
insostenibile sotto il profilo ecologico e sociale perché destinato a scontrarsi con una limitatezza di
risorse con la quale, ancora, rifiuta di mettersi a confronto. Oltre a ciò, questo sistema presenta
un’altra fondamentale contraddizione: offre all’uomo, in particolare a quello occidentale, ogni agio
e comfort, ma lo condanna ad uno stile di vita frenetico, di perenne insoddisfazione e tale da
produrre una società malata di ricchezza che può essere guarita solo con la collaborazione dei
singoli individui. È, perciò, necessario un cambiamento di prospettiva: da individualistica a
collettiva.
Il pianeta terra è la casa nella quale viviamo e nella quale avranno residenza le generazioni future.
Per custodirlo e preservarlo si deve ricorrere a un altruismo che può essere considerato come la
somma di tutti egoismi: il bene che facciamo per noi è anche un bene per l'altro e per il postero.
La proposta di Latouche per dare una svolta alla situazione che si è venuta a creare è la decrescita
che costituisce un’alternativa non solo economica, ma anche esistenziale, la quale permetterà di
uscire radicalmente da questo distruttivo sistema. Non casualmente l’espressione con cui essa è
tipicamente presentata è proprio “decrescita serena”. L’intuizione della decrescita, infatti, vuole un
arretramento del Pil in favore di un aumento di benessere: benessere inteso da Latouche come un
bien vivre che tiene conto di aspetti immateriali e normalmente “dimenticati”, quali la cultura, il
tempo libero, le relazioni umane. L’arretramento necessario che la strada della decrescita richiede,
però, non ha nulla di nostalgico: esso deve, al contrario, essere accompagnato da cambiamenti
qualitativi, resi possibili da tecniche e tecnologie innovative ma pur sempre caratterizzate da equità
ecologica e sociale.
Richiamandosi al pensiero di Ivan Illich, Latouche osserva che la necessaria limitazione dei nostri
livelli di consumo e di produzione non riporterà ad una vita di privazione e fatica, ma ad una
riscoperta di creatività e convivialità, così da offrire a tutti la possibilità di condurre una vita degna
e meno stressante di quella attuale. Per raggiungere questo obiettivo, Latouche propone otto punti
programmatici, noti come le “otto erre”, tra cui: rivalutare, riconcettualizzare,
ristrutturare. Rivalutare significa riscoprire valori nuovi e nuovi atteggiamenti andando incontro,
inevitabilmente, ad una diversa visione del mondo e della società. In modo affine, una
riconcettualizzazione richiede di significare diversamente alcuni concetti come “ricchezza” e
“povertà”, “rarità” e “abbondanza”. Cambiare i valori rende obbligatorio un conseguente
adeguamento dell’ intero apparato produttivo e della gestione dei rapporti sociali, quindi una
“ristrutturazione” completa della società. La ristrutturazione della società deve permettere
un’adeguata ridistribuzione delle ricchezze e delle possibilità di accesso alle risorse della natura.
Perché tutto questo abbia luogo, bisogna necessariamente passare attraverso una “decolonizzazione
dell’immaginario”, un cambiamento di mentalità che permetta, prima di tutto, di “far uscire il
martello economico dalla testa” per approcciarsi a nuovi valori, nuovi modi di intendere il
benessere e ad un nuovo atteggiamento verso la terra e la società.
Uno dei maggiori ostacoli alla costruzione di una nuova etica è l’imperversare dell’ignavia nei
confronti della questione ambientale, in quanto non si ha percezione di quanto sia preoccupante la
situazione attuale del pianeta. L’atteggiamento generale è, infatti, quello di sottovalutare l’entità del
problema, catalogandolo come un allarmismo inutile e, di conseguenza, non meritevole d’interventi
da parte di ciascuno; manca, cioè, la consapevolezza riguardo all’importanza d’agire il prima
possibile, perché si ritiene che la soluzione spetti alle generazioni future. In realtà, la gravità delle
condizioni climatiche della Terra non permette più di procrastinare, ma anzi richiede che ognuno si
impegni per la causa.
Il primo passo in questa direzione è, dunque, quello di formare cittadini ecologicamente
responsabili e il miglior mezzo per realizzare lo scopo è l’educazione, affinché i valori siano
interiorizzati fin dall’infanzia, maturati gradualmente, messi in pratica e condivisi. La filosofia
morale si presta ad assumere a un ruolo significativo in questo processo, come sottolinea
l’intellettuale e scrittore norvegese Gaarder, autore de “Il mondo di Anna”, in un’intervista a
proposito del romanzo: “Penso che oggi la filosofia morale - come stile di vita e di pensiero -possa
aiutare a capire che è necessario rispettare il pianeta fin da subito, perché altrimenti lasceremo in
mano alle generazioni future una Terra davvero disastrata.” Nel suo libro, fornisce un esempio
concreto di tale approccio attraverso il comportamento della protagonista, Anna, un’adolescente
norvegese preoccupata per la deriva del nostro pianeta. L’impegno e il senso di responsabilità da lei
dimostrati nei confronti del futuro della Terra diventano un modello da seguire perché si prenda
consapevolezza del fatto che “non si può pensare solo a noi, a quel che accade oggi, ma occorre
guardare a chi verrà dopo di noi”; non si tratta più di una mera responsabilità, ma di un onere che
ciascuno di noi deve sentire come proprio, totalizzante. Gaarder rivolge questo messaggio a tutti,
prestando però particolare attenzione ai giovani, veri destinatari del romanzo. Egli infatti utilizza un
linguaggio semplice, attingendo al mondo della fantasia per spiegare nozioni teoriche in modo
chiaro e comprensibile: ecco che la filosofia parla il linguaggio dei più piccoli.
L’insegnamento addotto da quest’autore è quindi un chiaro esempio di come l’educazione, veicolo
privilegiato della nuova etica, costituisca uno dei più validi strumenti messi a nostra disposizione
per preservare il pianeta.
Come riconosce, d’altronde, Galimberti, il mondo odierno non può più essere letto tramite le lenti di
un’etica tradizionale (etica dell’intenzione, etica laica, etica della responsabilità, come specifica in
un’intervista del 2002), né si può permettere di emarginare la scienza, intesa come sapere al servizio
dell’umanità, dalla tecnica, conoscenza finalizzata alla produzione. La proposta qui avanzata è
allora quella di un “umanismo ecologico”, un’etica che trovi il proprio perno nell’ambivalenza e
nella reciprocità di uomo e ambiente. In questo modo, a ogni sorta di imposizione dall’alto,
caratteristica delle morali di matrice religiosa, subentrerebbe uno sguardo lungimirante che
racchiuda l’interesse altrui nel bene del singolo.
A essa si affianca l’auspicio di una radicale inversione di rotta verso società neovernacolari
avanzate da Goldsmith, tentativo che, per altro, ha preso forma nell’approvazione delle nuove
costituzioni boliviana (2007) ed ecuadoreña (2008). Basate sul principio di integrazione delle
popolazioni indigene, esse incorporano perfettamente la filosofia del “buen vivir”, ovvero la presa
di coscienza della reciprocità che sussiste tra uomo e natura e il conseguente smantellamento
dell’infondato antropocentrismo capitalistico.
In generale, è innegabile come la sopravvivenza della specie e della nostra Terra-Patria sia
combattuta nella relazione dinamica tra individuo e società e si realizzi nella formulazione di limiti
che non compromettano la libertà di entrambe, ma conferiscano a questa l’attributo di
“responsabile”. In qualità di esempio concreto, rientrano nel paradigma ora delineato le “quote
inquinamento” imposte ai paesi che non si sarebbero attenuti agli obiettivi disegnati nel Protocollo
di Kyoto e recentemente riproposti alla Cop21. Secondo questo modello, a trarre giovamento dalle
sanzioni sarebbero principalmente i paesi in via di sviluppo, la cui marcia necessita di percorrere un
cammino pulito, a differenza di quanto avvenne per l’Europa del XIX secolo, in seguito allo
scoppio della Rivoluzione Industriale.
Se tale obiettivo appare tuttora inconcepibile, come l’unzione dello schematismo burocratico di
precetti spirituali, o l’applicazione della felicità come autodeterminazione, possiamo allora ricorrere
a una semplice immagine per giudicarci al tribunale dei posteri. Per quanto, infatti, il rigoglio di un
fiore possa attrarre la nostra mano a strapparlo violentemente per godere della sua bellezza
nell’immediato, solo tramite una cauta estrazione delle sue radici gli si consente una trapianto nel
nostro giardino, una vita futura, una nuova fioritura (Fromm).
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-Latouche S., La scommessa della decrescita, Milano, Feltrinelli, 2010
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Zagrebelsky G., Contro l’etica della verità, Bari, Laterza, 2008