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IL DANNO ALL’IMMAGINE DELLA P.A.
Nota a Corte Cost., 15 dicembre 2010, n. 355
di Cristina Cilla
SOMMARIO: 1. Premessa: “le responsabilità” del pubblico dipendente. – 2. Il danno all’immagine
della p.a.: natura, giurisdizione, criteri di quantificazione. – 3.1 Le recenti modifiche
normative. – 4. La recente pronuncia della Consulta sul danno all’immagine della
p.a. – 5. Spunti critici.
1.- Il pubblico dipendente o funzionario può incorrere in responsabilità sia verso i terzi
(responsabilità civile e penale), sia verso la p.a. (responsabilità contabile e amministrativa), come
espressamente sancito dall’art. 28 Cost.
A tali tipologie di responsabilità deve aggiungersi altresì quella disciplinare che, benché non
espressamente contemplata nel testo dell’art. 28 Cost., è esplicitamente prevista dal Testo unico del
pubblico impiego (d. lgs. n. 165/2001), agli artt. 55 e ss.
In particolare, il pubblico dipendente o funzionario incorre in responsabilità amministrativa
allorquando, per inosservanza dolosa o colposa dei suoi obblighi di servizio, abbia arrecato un
pregiudizio alla p.a. (c.d. danno erariale).
La dottrina e la giurisprudenza più recenti individuano tre voci di pregiudizio cagionabile alla p.a.:
il danno patrimoniale in senso stretto, il danno c.d. da disservizio ed il danno all’immagine della
p.a.
2.- Con l’espressione “danno all’immagine della p.a.” si fa riferimento alla grave perdita di
prestigio ed al grave detrimento dell’immagine e della personalità della p.a.
Segnatamente, il diritto all’immagine di un ente pubblico è inteso come il diritto al conseguimento,
al mantenimento e al riconoscimento della propria identità come persona giuridica pubblica, nonché
l’interesse della persona giuridica pubblica alla sua identità, credibilità e reputazione, tutelato in
forza dei primi due commi dell’art. 97 Cost. Ne consegue, pertanto, che la lesione dell’immagine
della p.a. incide, in via immediata, sul rapporto di affectio societatis, ossia sulla fiducia che lega la
cittadinanza agli amministratori e, in via mediata, sulla capacità di realizzazione dei fini
istituzionali, minando la base del buon funzionamento dell’istituzione.
La figura in parola, di origine pretoria, è stata oggetto di un intenso dibattito dottrinale e
giurisprudenziale, intensificatosi all’indomani degli scandali di “tangentopoli”, che hanno inciso
negativamente sul decoro, prestigio e sull’immagine delle amministrazioni statali e degli enti
pubblici generali.
Innanzitutto dottrina e giurisprudenza si sono interrogate sulla sua natura giuridica.
In un primo momento, il danno all’immagine della p.a. è stato ricondotto alla figura del danno
morale, ravvisandosi una lesione di interessi di carattere non strettamente patrimoniale, risarcibile
soltanto nelle ipotesi integranti un illecito penale, secondo la tradizionale interpretazione dell’art.
2059 c.c. in combinato disposto con l’art. 185 c.p. In punto di giurisdizione, ne discendeva
l’attrazione del danno all’immagine della p.a. in capo al giudice ordinario, anziché alla Corte dei
Conti, deputata invece alla cognizione delle controversie in materia di danno erariale, inteso come
nocumento patrimoniale effettivo subito dalla p.a.
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Tale ricostruzione è stata però criticata sul rilievo per cui le persone giuridiche non sono
ontologicamente in grado di patire sofferenze morali. Muovendo da tale assunto, le Sezioni Unite
della Corte di Cassazione hanno preferito ricondurre il danno de quo “alla grave perdita di
prestigio ed al grave detrimento dell’immagine e della personalità pubblica, che, anche se non
comporta una diminuzione patrimoniale diretta è, tuttavia, suscettibile di una valutazione
patrimoniale, sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso” (sent. n.
5668/1997).
Donde, la qualificazione del danno all’immagine della p.a. come una species del danno erariale, in
quanto suscettibile di valutazione economica, giacché comprensivo dei costi per le attività
necessarie al recupero di credibilità dell’ente, alla riorganizzazione dei servizi, alla sostituzione del
vertice politico o amministrativo dell’ente stesso, ecc. Di qui le Sezioni Unite hanno fatto
discendere la devoluzione dello stesso alla cognizione della Corte dei Conti.
Successivamente, al fine di superare le c.d. “forche caudine” della riserva di legge di cui all’art.
2059 c.c. e sul solco della concezione del “danno-evento” elaborata dalla Consulta a partire dalla
nota sentenza n. 184/1986, la giurisprudenza ha riconosciuto tutela al danno all’immagine della p.a.
alla luce del combinato disposto degli artt. 2 Cost. e 2043 c.c. Ciò in quanto trattasi di un danno
ingiusto ad uno dei diritti fondamentali della persona giuridica pubblica ovvero ad una delle più
risalenti formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità dell’uomo, configurabile in termini di
danno-evento e risarcibile a prescindere dalla sussistenza di un illecito penale (Corte dei Conti, sent.
n. 628/1998).
Chiamate a pronunciarsi sul contrasto giurisprudenziale in parola, le Sezioni Riunite della Corte dei
Conti, con una pronuncia del 2003 (sent. 23.04.2003, n. 10), riconducono il diritto all’immagine
della p.a. alla figura del danno esistenziale, inteso, secondo la coeva elaborazione dottrinale e
giurisprudenziale, come danno-evento derivante dalla lesione di un diritto fondamentale della
persona, nonché come un tertium genus di danno, distinto sia dal danno patrimoniale, sia da quello
morale. In particolare, esso viene considerato come un danno-evento risarcibile ai sensi dell’art.
2043 c.c. (essendo, quindi, irrilevante ai fini dell’an della risarcibilità che il fatto integri un illecito
penale) ed avente fondamento costituzionale negli artt. 2 e 97 Cost.
Inoltre, esso viene considerato come un “danno patrimoniale in senso lato”, indi economicamente
valutabile (così anche Cass., SS. UU., n. 17087/2003), in quanto la lesione dell’immagine della p.a.
si risolve in un onere finanziario che si ripercuote sull’intera collettività, dando luogo a costi
aggiuntivi necessari per correggere gli effetti distorsivi che si riflettono sull’organizzazione della
p.a. in termini di minor credibilità e prestigio, nonché di diminuzione di potenzialità operativa.
In punto di giurisdizione, le Sezioni Riunite con la predetta pronuncia chiariscono che la
ricostruzione del danno all’immagine della p.a. in termini di “danno patrimoniale in senso ampio”
ne determina l’attrazione dello stesso alla giurisdizione del giudice contabile, azionabile a
prescindere ed anche in pendenza di un procedimento penale.
Da tale principio la giurisprudenza successiva trae il corollario della netta separazione tra il giudizio
amministrativo-contabile e quello patrimoniale, con il solo limite della improcedibilità dell’azione
amministrativa in presenza di un giudicato penale sui medesimi fatti oggetto di entrambi i giudizi
(cfr., ex multis, Corte dei Conti, sez. II, 9.11.2006, n. 364).
Sull’inquadramento dogmatico-sistematico del danno all’immagine della p.a. ha ingenerato ulteriori
dubbi la rivisitazione del danno non patrimoniale alla luce delle sentenze gemelle del 2003 della
Corte di Cassazione (Cass. civ., 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828, avallate da Corte Cost. n.
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233/2003). Difatti, a seguito di tali pronunce la giurisprudenza civile ha collocato sistematicamente
il danno esistenziale nell’alveo dell’art. 2059 c.c., configurandolo in termini di danno-conseguenza,
nonché disancorandolo dalla connessione esclusiva con il fatto di reato di cui all’art. 185 c.p.
Alla controversia sulla configurazione sistematica del danno all’immagine della p.a. ha fatto seguito
un connesso dibattito in ordine alla giurisdizione sul medesimo.
In linea con la nuova configurazione del danno non patrimoniale enucleata dalla giurisprudenza
civile, parte della dottrina e della giurisprudenza contabile (cfr. Corte Conti, 18.06.2004, n. 222;
Corte Conti, 17.11.2005, n. 378), ha osservato che la lesione dei beni della reputazione e della
pubblica estimazione, trattandosi di beni costituzionalmente garantiti, integra un danno non
patrimoniale sussumibile nell’alveo dell’art. 2059 c.c. Donde, la sussistenza della giurisdizione del
giudice ordinario in merito.
A dirimere i contrasti giurisprudenziali sul punto, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di
Cassazione (cfr., ex multis, Cass., sez. un., 27.09.2006, n. 20886; Cass., sez. un., 2.04.2007, n.
8098), le quali, in più occasioni, hanno precisato che il danno cagionato all'immagine dell'ente da
pubblici dipendenti o altri soggetti facenti parte dell'apparato organizzativo di una pubblica
amministrazione, benché non implichi una diretta diminuzione patrimoniale, è, ciononostante,
passibile di valutazione economica, sotto il profilo della spesa necessaria alla ricostituzione del bene
giuridico offeso. La relativa azione di responsabilità, pertanto, rientra nella giurisdizione della Corte
dei Conti.
La spettanza della giurisdizione sul danno all’immagine della p.a. al giudice contabile è stata da
ultimo ribadita dalle Sezioni Unite con una pronuncia del 2007 (sent. 20.06.2007, n. 14297). Tale
soluzione, del resto, è in linea con il dato normativo di cui all’art. 1, comma 4, della legge 14
gennaio 1994, n. 20 (come modificato dall’art. 3, d.l. 23.10.1996, n. 543, convertito in legge n. 639
del 1996), che ha ampliato la giurisdizione della Corte dei Conti sulla responsabilità amministrativa
degli amministratori e dipendenti pubblici anche alle ipotesi di danno cagionato ad amministrazioni
od ente diverso da quello di appartenenza.
Precisata la natura del danno de quo, la giurisprudenza si è successivamente occupata dei criteri di
individuazione del quantum debeatur.
Sul punto la giurisprudenza della Corte dei Conti ha fatto riferimento alle spese di ripristino del
prestigio leso, ivi ricomprendendovi non solo le spese già sostenute, purché coerenti con lo scopo
perseguito, ma anche quelle ancora da sostenere. In quest’ultimo caso occorre rifarsi alla
valutazione equitativa del giudice ai sensi dell’art. 1226 c.c., la quale dovrà comunque fondarsi, in
ossequio al principio dispositivo, sulle prove prodotte dall’attore, comprese pure quelle presuntive
ed indiziarie.
Oltre alle spese di ripristino del prestigio leso, assumono valore probatorio su base indiziaria anche
le somme illegittimamente percepite dal funzionario pubblico, come ad esempio le tangenti (criterio
oggettivo); la posizione da quest’ultimo ricoperta all’interno dell’apparato pubblico (criterio
soggettivo); il c.d. clamor fori, ossia l’eco giornalistica suscitata dal diffondersi dei fatti causativi
del pregiudizio per l’amministrazione (criterio sociale).
Merita, infine, di essere segnalato che la Consulta, con la sentenza n. 355 del 2010, ha precisato,
sebbene in via di obiter dictum, che il danno all’immagine dell’ente pubblico, in linea con quanto
affermato dalla Cassazione con la stessa sentenza n. 26792 del 2008, in ragione della natura della
situazione giuridica lesa, ha valenza non patrimoniale e trova la sua fonte di disciplina nell’art. 2059
cod. civ., sicché il riferimento, contenuto nella giurisprudenza della Corte dei conti, alla
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patrimonialità del danno – in ragione della spesa necessaria per il ripristino dell’immagine dell’ente
pubblico – deve essere inteso come attinente alla quantificazione monetaria del pregiudizio subito e
non alla individuazione della natura giuridica di esso.
3.1- Sul tema del danno all’immagine è intervenuto di recente anche il legislatore del 2009 con
l’evidente intento di limitare i margini di operatività della figura de qua.
In particolare, la legge n. 102/2009 (di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 1º luglio
2009, n. 78, recante provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini e della partecipazione
italiana a missioni internazionali) ha previsto, al comma 30-ter dell’art. 17 quanto segue: “Le
procure regionali della Corte dei conti esercitano l'azione per il risarcimento del danno
all'immagine subito dall'amministrazione nei soli casi previsti dall'articolo 7 della legge 27 marzo
2001, n. 97 [primo periodo]. Per danno erariale perseguibile innanzi alle sezioni giurisdizionali
della Corte dei conti si intende l'effettivo depauperamento finanziario o patrimoniale arrecato ad
uno degli organi previsti dall'articolo 114 della Costituzione o ad altro organismo di diritto
pubblico, illecitamente cagionato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile [secondo periodo].
L'azione è esercitabile dal pubblico ministero contabile, a fronte di una specifica e precisa notizia
di danno, qualora il danno stesso sia stato cagionato per dolo o colpa grave [terzo periodo].
Qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in violazione delle disposizioni di cui al
presente comma, salvo che sia stata già pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di
entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è nullo e la relativa nullità può
essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente
sezione giurisdizionale della Corte dei conti, che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal
deposito della richiesta [quarto periodo]”.
Tale normativa è stata tempestivamente modificata dalla coeva legge n. 141/2009, di conversione
del decreto legge n. 103/2009 (recante disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del
2009), che all’art. 1, comma 1, lettera c), numero 1, ha sostituito i primi tre periodi del comma 30ter con i seguenti: «Le procure della Corte dei conti possono iniziare l'attività istruttoria ai fini
dell'esercizio dell'azione di danno erariale a fronte di specifica e concreta notizia di danno, fatte
salve le fattispecie direttamente sanzionate dalla legge [primo periodo]. Le procure della Corte dei
conti esercitano l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti
dall'articolo 7 dalla legge 27 marzo 2001, n. 97 [secondo periodo]. A tale ultimo fine, il decorso del
termine di prescrizione di cui al comma 2 dell'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, e'
sospeso fino alla conclusione del procedimento penale [terzo periodo]».
Giova all’uopo precisare che il richiamato art. 7 della legge n. 97 del 2001 fa riferimento alle
sentenze irrevocabili di condanna pronunciate nei confronti dei dipendenti di amministrazioni o di
enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica per i delitti contro la pubblica
amministrazione previsti dall’art. 314 ss. c.p.
4. - La disciplina restrittiva sopramenzionata ha generato dubbi di legittimità costituzionale con
riguardo ai periodi secondo, terzo e quarto dell’art. 17 comma 30-ter l. n. 102/2009, i quali sono
stati vagliati dalla recente pronuncia della Corte Costituzionale del 15 dicembre 2010, n. 355.
Con detta pronuncia la Consulta è stata chiamata a pronunciarsi su due questioni: una, relativa alla
limitazione dell’azione risarcitoria per il danno all’immagine della p.a. soltanto in presenza di un
fatto di reato ascrivibile alla categoria dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
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amministrazione, per effetto del richiamo all’art. 7 della legge n. 97 del 2001; l’altra, concernente
l’introduzione di due diverse forme di tutela innanzi a sedi giurisdizionali differenti, cioè alla Corte
dei Conti per le fattispecie costituenti anche reato ed all’autorità giudiziaria ordinaria in tutti gli altri
casi.
Preliminarmente alla disamina delle singole censure alla norma de qua, la Consulta chiarisce
l’esatta portata della disposizione impugnata, precisando che con la stessa il legislatore ha voluto
circoscrivere oggettivamente i casi in cui è possibile, sul piano sostanziale e processuale, chiedere il
risarcimento del danno in presenza della lesione dell’immagine dell’amministrazione.
In altri termini, la formulazione della disposizione censurata non consente di ritenere che, in
presenza di fattispecie distinte da quelle espressamente contemplate dalla norma impugnata (id est:
delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione), la domanda di risarcimento del
danno per lesione dell’immagine dell’amministrazione possa essere proposta innanzi ad un organo
giurisdizionale diverso dalla Corte dei Conti. Pertanto, non è condivisibile un’interpretazione della
normativa censurata nel senso che il legislatore abbia voluto prevedere una responsabilità nei
confronti dell’amministrazione diversamente modulata a seconda dell’autorità competente a
pronunciarsi in ordine alla domanda risarcitoria. Ne consegue che, al di fuori delle ipotesi
tassativamente previste di responsabilità per danni all’immagine dell’ente pubblico di appartenenza,
non è configurabile siffatto tipo di tutela risarcitoria.
A sostegno di detta interpretazione la Corte adduce il dato, pacifico anche presso la giurisprudenza
costituzionale (cfr. Corte Cost., n. 371 del 1998), secondo cui la limitazione legislativa della
responsabilità amministrativa del pubblico dipendente al dolo o alla colpa grave non implica che lo
stesso, qualora la sua condotta si caratterizzi per la presenza di un minor grado di colpa (colpa
lieve), possa essere evocato in giudizio innanzi ad un’autorità giudiziaria diversa dal giudice
contabile.
Sul solco di tale preliminare precisazione, la Consulta esamina le innumerevoli doglianze
prospettate dai giudici a quibus con riguardo agli articoli 2, 3, 24, 25, 54, 77, 81, 97, 103, 111 e 113
della Costituzione.
Segnatamente, con riguardo all’art. 77 Cost. la questione controversa concerne la necessità o meno
che i presupposti di necessità ed urgenza posti a fondamento della decretazione d’urgenza debbano
sussistere anche in relazione alle norme introdotte soltanto in sede di conversione in legge del
decreto legge, come è avvenuto con riguardo al contestato art. 17 comma 30-ter cit.
Sul punto esiste un contrasto giurisprudenziale.
Difatti, mentre in passato la Consulta aveva asserito che la valutazione dei presupposti della
necessità e dell’urgenza investe solo la fase della decretazione d’urgenza esercitata dal Governo,
non potendo estendersi alle norme introdotte dalle Camere in sede di conversione del decreto-legge
(sent. n. 391/1995), di recente, la stessa Corte Costituzionale ha mutato orientamento, sostenendo
invece che le disposizioni della legge di conversione, in quanto tali, non possono essere valutate,
sotto il profilo della legittimità costituzionale, autonomamente da quelle del decreto stesso (sent. n.
171/2007).
La Consulta aderisce al più recente orientamento, precisando però che “la valutazione in termini di
necessità e di urgenza deve essere indirettamente effettuata per quelle norme, aggiunte dalla legge
di conversione del decreto-legge, che non siano del tutto estranee rispetto al contenuto della
decretazione d’urgenza; mentre tale valutazione non è richiesta quando la norma aggiunta sia
eterogenea rispetto a tale contenuto”.
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Relativamente al caso in esame, la Corte considera il comma 30-ter dell’art. 17 l. cit. come norma
non del tutto eterogenea rispetto al contenuto del decreto legge n. 78 del 2009, ritenendo, inoltre,
che con riguardo ad essa sussistevano, al momento della sua emanazione, i presupposti di necessità
ed urgenza richiesti. Pertanto, deve ritenersi inammissibile la violazione del parametro
costituzionale evocato.
A sostegno di tale soluzione militano l’ampiezza della rubrica del decreto legge in parola
(“provvedimenti anticrisi, nonché proroga dei termini”), nonché il complessivo quadro legislativo
derivante dalle originarie disposizioni della decretazione d’urgenza e da quelle aggiuntive, quali ad
esempio i commi 30-bis e 30-quater, contenute nella legge di conversione: elementi, tutti questi,
“aventi lo scopo di introdurre nell’ordinamento misure dirette al superamento dell’attuale crisi in
cui versa il Paese”.
Del resto, osserva la Corte, è palese l’intento del legislatore di limitare in senso oggettivo i casi di
responsabilità per danni all’immagine della p.a., al fine di evitare che una generalizzata previsione
di responsabilità a tale titolo determini un rallentamento nell’efficacia e tempestività dell’azione
amministrativa dei pubblici poteri, per effetto dello stato diffuso di preoccupazione che potrebbe
ingenerare in coloro ai quali è demandato l’esercizio dell’attività amministrativa.
Sotto altro profilo, la normativa censurata è considerata compatibile con gli artt. 3 e 97 Cost., non
riscontrandosi la prospettata irragionevolezza della norma nella misura in cui limita il risarcimento
del danno ai soli casi in cui sia stato commesso un delitto contro la pubblica amministrazione e non
anche in presenza di condotte non delittuose altrettanto gravi ovvero di reati diversi da quelli
espressamente indicati.
A sostegno di ciò, sotto il profilo oggettivo, la pronuncia in epigrafe richiama la consolidata
giurisprudenza costituzionale in materia secondo cui rientra “nella discrezionalità del legislatore,
con il solo limite della non manifesta irragionevolezza e arbitrarietà della scelta, conformare le
fattispecie di responsabilità amministrativa, valutando le esigenze cui si ritiene di dover fare
fronte”.
Pertanto, alla stregua di tale principio di diritto, la Corte ritiene non manifestamente irragionevole la
scelta del legislatore di delimitare il campo di applicazione dell’azione risarcitoria in parola,
giustificata in ragione della particolare funzione sanzionatoria della responsabilità amministrativa,
nonché della specifica natura del soggetto passivo e del bene giuridico protetto dalle norme penali
richiamate dalla disposizione impugnata. Sotto quest’ultimo profilo, in particolare, il legislatore ha
ritenuto, nell’esercizio della predetta discrezionalità, che soltanto in presenza di condotte illecite
aventi come soggetto passivo la p.a. ed integranti gli estremi di specifiche fattispecie delittuose
volte a tutelare proprio il buon andamento, l’imparzialità e lo stesso prestigio della pubblica
amministrazione, possa essere proposta l’azione di risarcimento del danno per la lesione
dell’immagine dell’ente pubblico.
Inoltre, viene sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 comma 30-ter l. n.
102/2009 con riguardo all’art. 2 Cost., anche in combinato disposto con l’art. 24 Cost., sul rilievo
che tale norma, alla luce dell’art. 2059 c.c., imporrebbe una tutela piena e non limitata dei diritti
della personalità, tra i quali rientra quello all’immagine della p.a.
La Consulta dichiara non fondata la questione de qua, in quanto la peculiarità del diritto
all’immagine della pubblica amministrazione, unitamente all’esigenza di costruire un sistema di
responsabilità amministrativa in grado di coniugare diverse finalità, può giustificare una altrettanto
particolare modulazione delle rispettive forme di tutela.
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Difatti, la responsabilità amministrativa presenta una struttura ed una funzione diverse da quelle che
connotano la comune responsabilità civile. Non si può, pertanto, evocare l’elaborazione
giurisprudenziale che ha avuto riguardo a tale forma di responsabilità per violazione di diritti
costituzionalmente protetti della persona umana. Identificato, infatti, il danno derivante dalla lesione
del diritto all’immagine della p.a. nel pregiudizio recato alla rappresentazione che essa ha di sé in
conformità al modello delineato dall’art. 97 Cost., è sostanzialmente questa norma costituzionale ad
offrire fondamento alla rilevanza di tale diritto.
Ciò comporta altresì la possibilità di riconoscere l’esistenza di diritti “propri” degli enti pubblici,
ma tale riconoscimento deve necessariamente tener conto della peculiarità del soggetto tutelato e
della conseguente diversità dell’oggetto di tutela, rappresentato dall’esigenza di assicurare il
prestigio, la credibilità e il corretto funzionamento degli uffici della pubblica amministrazione. Di
qui, la non manifesta irragionevolezza della differenziazione di tutela circa forme di protezione
dell’immagine dell’amministrazione pubblica a fronte di condotte dei dipendenti, specificamente
tipizzate, meno pregnanti rispetto a quelle assicurate alla persona fisica.
Nondimeno, non sussiste, a detta della Consulta, la violazione degli artt. 24 e 113 Cost., poiché per
giurisprudenza costituzionale costante la garanzia apprestata dall’art. 24 Cost. opera attribuendo
tutela processuale alle situazioni giuridiche soggettive nei termini in cui queste risultano
riconosciute dal legislatore, sicché, una volta ritenuto esente dai prospettati vizi di costituzionalità la
configurazione ricevuta dalla specifica configurazione del danno all’immagine, non è ravvisabile
alcun vulnus alle conseguenti modalità di tutela processuale.
Viene altresì prospettata la lesione del quarto comma dell’art. 81 Cost., ove si prevede che “la
legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”, in quanto non
sarebbe stata prevista alcuna copertura finanziaria della minore entrata imposta agli enti pubblici a
causa del mancato recupero dei danni provocati alle loro finanze.
Anche tale censura viene ritenuta infondata, sul rilievo per cui l’art. 81 Cost. «attiene ai limiti al cui
rispetto è vincolato il legislatore ordinario nella sua politica finanziaria, ma non concerne le scelte
che il medesimo compie nel ben diverso ambito della disciplina della responsabilità
amministrativa» (cfr. Corte Cost., sentenze nn. 371 e 327 del 1998).
Del resto, non può ritenersi che una astratta limitazione del risarcimento del danno spettante alla
pubblica amministrazione, determinando una possibile minore entrata, comporti «nuove o maggiori
spese», né è possibile procedere alla quantificazione delle minori entrate, essendo tale diminuzione
eventuale e comunque connessa a variabili concrete non determinabili a priori, donde non sarebbe
neanche possibile prevedere la necessaria copertura finanziaria.
Non è ravvisabile nemmeno la violazione dell’art. 97 Cost., in quanto il legislatore, nell’esercizio
non manifestamente irragionevole della sua discrezionalità, ha ritenuto che la tutela dell’immagine
della pubblica amministrazione sia adeguatamente assicurata mediante il riconoscimento del
risarcimento del danno soltanto in presenza di condotte integranti gli estremi di fatti di reato che
tendono proprio a tutelare, tra l’altro, il buon andamento e l’imparzialità dell’azione amministrativa.
In altri termini, il legislatore ha inteso riconoscere la tutela risarcitoria nei casi in cui il dipendente
pubblico ponga in essere condotte che, incidendo negativamente sulle stesse regole, di rilevanza
costituzionale, di funzionamento dell’attività amministrativa enunciate all’art. 97 Cost., sono
suscettibili di recare un vulnus all’immagine dell’amministrazione, intesa come percezione esterna
che i consociati hanno del modello di azione pubblica
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Allo stesso modo non è censurabile l’art. 17 comma 30-ter l. n. 102/2009 con riguardo all’art. 103
comma 2 Cost., secondo cui “la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità
pubblica e nelle altre specificate dalla legge”. Difatti, per costante giurisprudenza costituzionale, è
rimessa alla discrezionalità del legislatore ordinario la puntuale attribuzione della giurisdizione in
relazione alle diverse fattispecie di responsabilità amministrativa, non operando alcun criterio
automatico fondato sul disposto costituzionale.
Nel caso in esame, peraltro, il legislatore non ha neanche inteso attribuire la cognizione di talune
fattispecie di responsabilità amministrativa ad una diversa autorità giudiziaria, essendosi limitato a
conformare, su un piano sostanziale, la disciplina di un particolare profilo della responsabilità
amministrativa dei pubblici dipendenti (sentenza n. 371 del 1998).
Per quanto attiene, infine, all’asserita violazione dell’art. 25 Cost., la Consulta osserva come non
sia la Corte dei conti «il giudice naturale della tutela degli interessi pubblici e della tutela da danni
pubblici» (cfr. Corte Cost., n. 641/1987). A ciò si aggiunga che, nel caso in esame, il legislatore ha
ridefinito i contorni, sul piano sostanziale ed oggettivo, della responsabilità amministrativa,
escludendo la possibilità di proporre l’azione risarcitoria in mancanza degli elementi indicati dalla
norma censurata, senza incidere in alcun modo sulle modalità di individuazione del giudice
competente.
Sulla base delle argomentazioni sopra enunciate, la Corte Costituzionale, con la sentenza in
epigrafe, dichiara in parte inammissibili, in parte infondate le numerose questioni di legittimità
costituzionale sollevate da varie sezioni regionali della Corte dei conti nei confronti dell'articolo 17,
comma 30-ter, periodi secondo, terzo e quarto, del decreto legge 1° luglio 2009 n. 78
(Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3
agosto 2009 n. 102, come modificato dall'articolo 1, comma 1, lettera c), n. 1, del decreto legge 3
agosto 2009 n. 103 (Disposizioni correttive del decreto legge anticrisi n. 78 del 2009), convertito
con modificazioni dalla legge 3 ottobre 2009 n. 141, per violazione, nel complesso, degli articoli 2,
3, 24, 25, 54, 77, 81, 97, 103, 111 e 113 della Costituzione, non essendo ravvisabile alcuna
violazione delle richiamate norme.
Ne consegue l’impossibilità di perseguire il danno all'immagine della pubblica amministrazione
all'infuori delle ipotesi di intervenuto definitivo accertamento della consumazione di un reato contro
la pubblica amministrazione.
5.- In tema di danno all’immagine è interessante dare contezza di una recentissima pronuncia della
Corte dei Conti (Sezione giurisdizionale della Lombardia, sentenza n. 109 del 17.02. 2011), la quale
non ha applicato i principi di diritto enucleati dalla Corte Costituzionale nella sentenza in
commento.
Più in dettaglio, la Corte dei Conti ha ritenuto di dover confermare il proprio orientamento (ex
multis v. sent. n. 641/2009 e n. 132/2010; ord. n. 77/2010), secondo cui la sussistenza di una
sentenza irrevocabile di condanna per uno dei reati contemplati nel capo I del titolo II del libro II
del codice penale “non è condizione necessaria per l’azione erariale, come si ricava dalla distinta
previsione di esercizio autonomo dell’azione contabile, di cui all’art. 129 delle disposizioni di
attuazione del codice di rito, per un reato che abbia cagionato un danno per l’erario, norma
espressamente fatta salva dall’art. 7 della legge n. 97/2001”, richiamato nelle citate disposizioni
sottoposte a verifica di costituzionalità.
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In tale sentenza si è altresì precisato che “l’interpretazione della Corte costituzionale non è
vincolante per il giudice, atteso che la sentenza de qua ha concluso per l’inammissibilità o
l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate (in senso conforme, Corte di
cassazione, n. 5747 del 12/03/2007), sicché rimane possibile discostarsene, dando alla normativa
altra interpretazione che, seppur diversa da quella della Corte costituzionale, sia da ritenere
conforme a Costituzione (Corte di cassazione, n. 166 del 9/01/2004)”.
Di qui l’opportunità di approfondire la problematica relativa ai vincoli per i giudici delle diverse
giurisdizioni derivanti dall’interpretazione data dalla Corte costituzionale nelle sentenze che non
statuiscano l’illegittimità costituzionale delle norme esaminate.
Sul punto le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 22601/2004, dopo aver
premesso che “nella giurisprudenza del giudice delle leggi e di questa Corte, si è di frequente
verificato un reciproco adeguamento di ciascun ordine di giudici alle soluzioni adottate dall'altro
ordine”, hanno fatto riferimento alla “recente sentenza delle Sezioni unite penali di questa Corte
(31 marzo 2004, n. 23106: recte 23016), la quale nega l'esistenza di un vincolo erga omnes
derivante da pronunce costituzionali interpretative di rigetto o d'inammissibilità, fatto salvo il loro
valore di precedente autorevole”.
In linea con tale interpretazione, con la sentenza n. 23016/2004 le Sezioni Unite hanno enunciato il
seguente principio di diritto: "Le decisioni interpretative di rigetto della Corte costituzionale non
hanno efficacia erga omnes, a differenza di quelle dichiarative dell'illegittimità costituzionale di
norme, e pertanto determinano solo un vincolo negativo per il giudice del procedimento in cui è
stata sollevata la relativa questione. In tutti gli altri casi il giudice conserva il potere-dovere di
interpretare in piena autonomia le disposizioni di legge a norma dell'art. 101, comma 2^, Cost,
purché ne dia una lettura costituzionalmente orientata, ancorché differente da quella indicata nella
decisione interpretativa di rigetto".
Con la successiva sentenza n. 574/2007, la Cassazione ha confermato che “l'interpretazione che, di
una norma sottoposta a scrutinio di costituzionalità, offre la Corte costituzionale in una sentenza di
non fondatezza non costituisce un vincolo per il giudice successivamente chiamato ad applicare
quella norma”, pur riconoscendo che “quella interpretazione, se non altro per l'autorevolezza della
fonte da cui proviene, rappresenta un fondamentale contributo ermeneutico che non può essere
disconosciuto senza l'esistenza di una valida ragione”.
Alla luce di quello che sembra ormai un consolidato orientamento giurisprudenziale in ordine alla
efficacia delle sentenze interpretative di rigetto della Corte Costituzionale, occorrerà verificare caso
per caso se la giurisprudenza contabile contemporanea si confermerà ai principi di diritto enunciati
dalla Corte Costituzionale con la sentenza in epigrafe con riguardo al danno all’immagine della p.a.
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