Jacques Coursil, Semiotica dell`ascolto, in Scienze e Ricerche n. 44

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SCIENZE E RICERCHE • N. 44 • GENNAIO 2017 | LINGUISTICA
Semiotica dell’ascolto
JACQUES COURSIL
Traduzione di Maria Giuzio
C’è una scissione d’essenza tra le onde acustiche e i rumori
che mostra come la nostra capacità d’ascolto sia una parte
culturalmente organizzata della nostra sensibilità, sia cioè
un interpretante che semiotizza dei saperi - I limiti semiologici del rumore colti per differenza con i suoni musicali e
quelli linguistici - La musica come linguaggio senza segni
ma isomorfo al linguaggio parlato - In che modo i numeri
e le scritture del solfeggio mostrano l’inaccessibilità della
musica al linguaggio parlato - La genesi nell’ascolto della
fonte sonora e la conseguente natura di architettura psichica
dell’ascolto della musica - L’intervallo d’ottava come relazione differenziale d’identità (a = b) - Alternanza dei valori
acustici e ethos del timbro.
(ineffabilità, asemanticità, purezza, armonia, forma acustica del biologico innato o epigenetico che sia). Coursil, che
nella sua gerla ha una delle letture più rigorose e penetranti
dei testi linguistici e semiologici saussuriani, nelle riflessioni che pubblichiamo avanza una soluzione ai paradossi del
principio di indeterminazione, mostrando quale possa (qualcuno direbbe debba) essere il modello, matriciale o ondulatorio poco importa, con cui studiare i fatti che chiamiamo
musicali. E’ una soluzione interessante, che ci porta molto
dentro alla musica che ascoltiamo quotidianamente e forse
ancora più in profondità nelle lingue che parliamo.
Domenico Russo
N
DALLE ONDE ACUSTICHE AI RUMORI
Proponiamo di seguito alcune dense riflessioni di Jacques
Coursil sulla musica. Lo facciamo per due importanti ragioni tra le altre. La prima sta nel fatto che Coursil, inserendosi
nel filone della prosa scientifica inglese e francese nata nel
Settecento in quegli ambienti e tuttora vivacissima, maestra
e redditizia, sa portare ai colleghi delle altre scienze e al
pubblico colto i contenuti più avanzati e tecnicamente ostici della ricerca semiotica e linguistica. La seconda ragione
sta nel fatto, sorprendente, che non c’è forse semiotica più
negletta e mal trattata della semiotica musicale, nonostante
sia, in termini statistici, di bello e buono la più praticata al
mondo dopo quella linguistica. A tutt’oggi, infatti, sembra
quasi che la musica venga guardata come si guardavano gli
elettroni prima di Heisenberg. Cerchiamo di stabilire quali
sia no i suoi significati cercando di stabilire come mai ne faccia a meno. Cerchiamo di stabilire quali siano i suoi significanti cercando di stabilire come mai non ne abbia. Non c’è
scritto di semiotica musicale da cui non trapeli una sotterranea e sottile vena di infelicità degli studiosi, costretti loro
malgrado, nonostante i modi assertivi, a lasciare da parte
chi la quantità di moto (la musica esprime idee, sentimenti,
ideologie, archetipi e quant’altro ancora) chi la posizione
oi viviamo in un gas. Il dominio dei fenomeni acustici è uno spazio chiuso. Al di
là della bolla atmosferica, il problema dei
suoni e della musica non si pone. Dobbiamo allora, sin dall’inizio, limitare le nostre finzioni; l’aria non sta nelle arie ma sulla terra; non ci
sono né rumori, né musiche celesti; ci sono solo onde.
La fisica ci spiega che le onde acustiche sono longitudinali
e si propagano secondo l’asse del tempo in tutte le direzioni
della nostra atmosfera. La fisiologia ci descrive le fasi della
loro intercettazione. Ma i suoni e i rumori sono dei valori.
Suppongono, per tutte le specie viventi dotate di udito, una
disposizione caratteristica che possiamo studiare solo in una
semiotica dell’ascolto. Tra le onde e i rumori (i rumori di
qualche cosa) c’è una scissione d’essenza, di metodi e di
incognite. Tra, da una parte, i fenomeni fisici della propagazione delle onde e fisiologici della loro intercettazione
e, dall’altra, il verificarsi semiopsichico del loro realizzarsi
come suoni e come rumori, la questione è capovolta, perché
un suono o un rumore non esistono che sentiti. Così, diciamo
il cacciatore ha sentito un rumore; la giraffa ha sentito un
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rumore, ma non diciamo (nonostante sia ottima sintassi) il
cervello ha sentito un rumore; l’orecchio ha sentito un rumore; il ricevitore ha sentito un rumore. Sentire un rumore suppone un processo significante. La semiotica inverte
lo schema classico della comunicazione; a differenza delle
onde meccaniche, i rumori non nascono dalla loro fonte né
viaggiano nello spazio, ma si realizzano nell’ascolto.
Per un soggetto sociale adulto appartenente a una cultura, i
rumori del mondo sono tutti semiotizzati, vale a dire formalmente attesi e predicibili: rumore di vetri rotti, di autobus che
frena, di pioggia, di tempesta, di grida di bambini o di folla in
uno stadio; i rumori insoliti sono rari e pongono delle domande. La nostra capacità di ascolto costituisce una parte culturalmente organizzata della nostra sensibilità1. Un cacciatore
nelle sue profonde foreste sente rumori che un meccanico di
città non sente e viceversa. Questa capacità il cui potenziale
ci è dato all’inizio dall’evoluzione e il cui sviluppo è acquisito con l’educazione e l’acculturazione, è un interpretante (nel
senso di Peirce), vale a dire una memoria effettiva autonoma.
E’ quest’interpretante mnestico che opera la semiosi, la presa
in atto, dei fenomeni acustici come rumori del mondo, perché i rumori sono degli avvenimenti proprio in quanto sono
1 La disposizione preliminare all’ascolto non è nuova. In Kant: «la
materia di tutti i fenomeni ci è data solo a posteriori: la forma deve
essere a priori nello spirito». In Berkeley: «esse = percipi» (essere è
essere rappresentato – in uno spazio). In Peirce troviamo la nozione di
interpretante diagrammatico. In Wittgenstein «Capire un linguaggio è
coglierlo in un simbolismo come un tutto». In Quine: «essere è essere
il valore di una variabile (in un insieme – olismo)» e così via, fino alla
nozione di frame nelle attuali scienze cognitive.
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dei saperi.
In linea generale, gli esseri viventi dotati di udito percepiscono solo una parte dello spettro sonoro. L’orecchio umano
sente solo i suoni in un delta di variazione che va da 16Hz a
20Hz2. Sopra i 20Hz ci sono gli ultrasuoni. Il cane può percepire suoni fino a 45Hz, il gatto fino a 65Hz, il pipistrello (che
caccia nel buio più totale) e il delfino, fino a 500Hz. Sotto i
16Hz, le vibrazioni dell’ambiente sono gli infrasuoni; sappiamo, per esempio, che gli elefanti comunicano a infrasuoni
a diversi chilometri di distanza. Insomma, visto che ci sono
molti suoni a noi inaccessibili che altri invece percepiscono,
noi siamo, di fatto, quasi sordi.
DAI RUMORI AI SUONI MUSICALI
Posto il capovolgimento della fonte nell’ascolto, anche
la nozione di rumore ha i suoi limiti, e li possiamo sottolineare con dei semplici giochi linguistici (Wittgenstein). Si
dice rumore di stivali, di passi ma non rumore di canto, né
tanto meno rumore di clarinetto. Certo, lo possiamo comunque dire (l’ho fatto proprio ora anche io) ma sono tropismi,
forme che non appartengono all’uso linguistico diffuso. Un
francofono o un italofono userà più volentieri suono di. Cercando anche rapidamente tra gli usi, arriviamo facilmente
alla conclusione che la nozione di rumore si arresta (o almeno, bussa) alle porte della musica. Un rumore di tenore ? un
2 A una frequenza debole corrisponde un suono grave, a una frequenza
elevata un suono acuto.
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rumore di sinfonia, di canzone ? Le restrizioni linguistiche zare ciò che troviamo in uno agli altri. Si tratta, sottolinea
non sono affatto obbligate, a essere obbligate sono semmai Saussure (ripreso da Levi-Strauss), di «sistemi totalmente inle loro contrarie, al costo di non potersi più capire su cosa sia dipendenti». Per Saussure, il linguaggio non è che «una parte
la musica stessa (se tutto è musica e tutto è rumore, niente lo di una scienza generale» che copre tutti questi domini e che
è e così sia)3. Così, il mio vicino del piano di sopra suona la lui chiama semiologia; il linguaggio corrisponde a un campo
chitarra elettrica con un potente amplificatore. Fa un rumore semiotico, la musica a un altro, così come l’aritmetica degli
tale che mi manderà al manicomio. La mia vicina del piano interi e poco altro. Scegliamo un numero ristretto (il più picdi sotto invece suona il violino. Ma è una principiante e pro- colo possibile) di semiologie primarie, dette così perché non
duce suoni orripilanti. Anche lei mi manderà al manicomio, sono derivabili. Questi domini, essendo logicamente distinti
ma non è la stessa cosa. Del
e disposti arbitrariamente,
chitarrista dirò senza mezzi
non sono complementari,
Résumé
termini che fa rumore, della
ma sono mutualmente necessari. La loro combinatoviolinista, che pure scortica
Entre les ondes acoustiques et les bruits il y a une coupure
ria apre una varietà immensa
il mio orecchio pre-formattato (semiotizzato), non dirò
d’essence montrant que notre capacité d’entendre n’est
di domini derivati nei quali
lo stesso, se non altro perché
qu’une part culturellement organisée de notre sensibilité,
le culture formano le loro
non sfonda i miei timpani.
c’est-à-dire un interprétant qui sémiotise des savoirs – Les
pratiche.
Succede la stessa cosa per
limites sémiologiques des bruits face aux sons musicaux
Musica e linguaggio costituiscono dunque due sila pratica della parola. Abet linguistiques – La musique en tant que langage sans
biamo rumori con la bocca
stemi rispettivamente chiusignes, mais qui présente, dans sa structure, un isomorphisme avec le langage parlé – De quelle manière les nomsi. Il linguaggio parlato è un
ma difficilmente rumori di
bres et les écritures du solfège montrent l’inaccessibilité
sistema di valori e di segni
linguaggio, anche se si tratta
de la musique au langage parlé – La genèse dans l’entente
(Saussure); la musica è un
di esplosioni di voce. L’uso
de la source sonore témoigne l’architecture psychique de
sistema di valori senza sestorce la bocca ai rumori di
gni. I valori dei due sistemi
la musique – L’intervalle d’octave en tant que relation
parole o ai rumori di frase,
non sono sovrapponibili. La
différentielle d’identité (a=b) – Alternance des valeurs
anche sentiti da lontano;
musica (strumentale), così
acoustiques et ethos du timbre.
la libertà tropologica della
ricca di forme e così variaparola non autorizza tutto.
ta, è intrinsecamente un’arte
Sentiamo suoni linguistici
senza parola, un’arte senza
ma non rumori di sillabe. Le
parole possono essere rumorose ma non sono colte senza tor- significante. Per dirla chiaramente: il linguaggio non è la musione mentale come rumori di umani, mentre lo starnazzare sica, né la musica è un linguaggio6. La musica si mormora, il
delle oche lo è di sicuro.
linguaggio si bisbiglia, l’inversa non tiene. Sappiamo anche
che la simultaneità delle parole non porta all’armonia ma al
LA MUSICA E LA LINGUA PARLATA
disastro significante, perché, contrariamente alla musica, il
linguaggio funziona sull’unicità del ruolo; se c’è più di un
I gruppi umani producono linguaggio e musica4, contano, parlante alla volta, la parola esplode. Basta parlare allo stesso
servendosi della serie dei numeri interi e usano qualche al- tempo e l’effetto è sicuro: la lingua affonda.
tra pratica primaria costitutiva di qualsiasi campo sociale5.
Resta il caso del canto e delle canzoni, che mostrano, graQuesti domini semiotici si ricoprono parzialmente, ma sono devolmente, come il linguaggio e la musica stiano bene indistinti e autonomi. Occorre fare attenzione a non generaliz- sieme. Questa evidenza, data come fattuale, è in effetti un
modo per salvare le apparenze. Certo, una melodia somiglia
alla prosodia del linguaggio ma, radicalmente, le note (grup3 Le musiche contemporanee, come in ogni arte, amano giocare con i
pi di note) non formano né parole né frasi. Non solo, le palimiti. Così qualunque rumore può essere assimilato nella loro musicalità. I
role delle canzoni non sono le parole del dialogo ma testi
musicisti ascoltano attentamente tutti i rumori del mondo. Ma non bisogna
invertire il ragionamento, perché è a partire dalla musica che sentono i
ripetibili:
rumori come tali.
4 Saussure nel suo insegnamento parla di «facoltà dei gruppi umani di
creare le lingue». Questa «facoltà dei gruppi» di creare sistemi semiologici
si oppone radicalmente a qualsiasi facoltà individuale innata. Quest’idea
è sostenuta sin dai tempi dei presocratici. Per Eraclito per esempio «la
ragione non è propria dell’individuo, ma del suo ambiente» (frag. 147,
trad. Battistini).
5 Abbiamo trovato un popolo sul pianeta che non conosceva la serie
dei numeri interi naturali e ne abbiamo concluso un po’ troppo in fretta
che i numeri non erano universali. E’ un ragionamento strano, perché la
questione fondamentale è la seguente: quando sul pianeta troviamo numeri
interi, questi numeri, quale che sia la loro notazione e la loro valenza, sono
dei numeri interi.
6 Per Levi-Strauss la musica è «il linguaggio meno il senso» e per
Stravinsky, nel suo motto celebre: «la musica per essenza è impotente
a esprimere qualsiasi cosa: un sentimento, un atteggiamento, uno stato
psicologico, un fenomeno della natura ecc. L’espressione non è mai stata
la proprietà immanente della musica. La ragion d’essere di questa non è in
niente condizionata da quella. Se, come quasi sempre succede, la musica
sembra esprimere qualcosa, è una illusione e mai la realtà. E’ semplicemente
un elemento addizionale che per tacita e inveterata convenzione le abbiamo
prestato, imposto come un’etichetta, un protocollo, in breve, un’uniforme,
e che, per abitudine o incoscienza, abbiamo finito per confondere con la
sua essenza».
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La chiamavano Bocca di Rosa,
metteva l’amore, metteva l’amore
La chiamavano Bocca di Rosa
metteva l’amore sopra ogni cosa7
I suoni del linguaggio e i suoni musicali sono dunque molto diversi. I primi sono sillabe definite all’interno della complessità di una grammatica8. Dalla loro parte, i suoni musicali coprono una parte più larga di frequenze udibili e evolvono
anche meno rapidamente, il che favorisce la differenziazione
delle altezze. Così, nella lingua parlata la voce del linguaggio non è né quella del canto, né quella della declamazione
testuale; la parola, in principio, non è cadenzata come nella
versificazione. Le forme rimate e cantate costituiscono delle distorsioni artistiche che non dipendono dai principi della
conversazione corrente. L’accentuazione lessicale o frastica,
per esempio, non è in alcun modo sincrona con una cadenza
di tipo musicale; lo mostra bene il rap, retorica ritmata, che
opera per spostamento sistematico degli accenti.
Vènistedamè inuna chiesàgreste vidissifidèl esadèste ched’è?’
(Veniste da me in una chiesa agreste, vi dissi ‘Fideles adeste che
d’è’?’)9
Insomma, il canto non è il frutto del matrimonio felice della lingua (parlata) e della musica, ma quello della musica di
certe forme di parola preliminarmente testualizzate.
Nera di malasorte che ammazza e passa oltre
nera come la sfortuna che si fa la tana dove non c’è luna
nera di falde amare che passano le bare10
Esiste nondimeno un isomorfismo di struttura, una sorta di architettura comune tra musica e linguaggio. Un asse
verticale marca le altezze per la musica e le categorie per il
linguaggio. Un asse orizzontale marca il ritmo nella musica
e per il linguaggio le sequenze dei segni. Tuttavia va notata
una differenza essenziale: la musica dispone di un principio
d’identità che si applica sui due assi mentre il linguaggio lo
accetta solo per le categorie (asse verticale). Così, contrariamente alla ripetizione musicale, procedimento corrente, non
si può avere ridondanza (orizzontale) in uno stesso gruppo
linguistico: la frase un bambino è un bambino non è una
ripetizione e non viene capita sul modello tautologico a =
a. In questo esempio il primo bambino designa un oggetto,
poi, in seconda occorrenza, un giudizio. Altro esempio: provi
un uomo a dire a una donna che una donna è una donna e
imparerà a spese del suo sessismo che nella parola non c’è
ripetizione di segni. In breve, i suoni del linguaggio non si
7 Fabrizio De André, Bocca di Rosa (1967).
8 Contrariamente alle apparenze, i fonemi, costituenti delle sillabe,
non sono suoni. Per esempio, le consonanti che sono dei fonemi, sono
impronunciabili senza il sostegno di una vocale. Senza entrare nei dettagli,
il suono del linguaggio comincia dalla sillaba.
9 Caparezza, Felici ma trimoni (2006).
10 Fabrizio De André, Dolcenera (1996).
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ripetono, tata, papa sono ogni volta suoni distinti. Nella lingua, l’identità a = a è un tropo.
Le arti del linguaggio (retorica, poetica) traggono dalla
musica il principio di ripetizione che a loro manca. Detto
altrimenti, la musica cadenza la lingua. Nel canto, la prosodia del linguaggio (che è una sintassi), si piega alle forme
della misura ritmica. Sappiamo che le assonanze, le rime e il
metro, effetti poetici fondati sulla ripetizione, sono delle forme di godimento: ancora, ancora, ancora… Il grande Count
Basie non esitava: «one more time!» e l’orchestra rieseguiva
la sequenza per l’estasi di tutti. Allo stesso modo, le canzoni
hanno un refrain e nel refrain il pubblico si sente a casa. Ma
la ripetizione musicale, attesa cadenzata, non ha equivalenti nel dialogo; il dialogo corrente evita la ripetizione delle
parole. Il linguaggio e la musica costituiscono dunque due
campi semiotici autonomi.
SOLFEGGIO: NUMERI E SCRITTURE
Nelle culture che praticano la scrittura, la musica elabora
la metrica dei suoi valori sulla teoria dei numeri (Occidente,
Mondo Arabo, India, ecc.). Per la setta dei pitagorici, le altezze musicali di una corda vibrante (monocorde) rinviano alle
potenze dei numeri11. In effetti, nel solfeggio, sotto simboli
diversi, occidentale o sargam carnatico (sarigamapadani), ci
sono solo numeri. Tuttavia, il solfeggio parla ai musicisti ma
non ai profani; la comunicazione tra loro è opaca perché le
scritture musicali (forme numeriche) non sono traducibili in
prosa. Così, per via di questa mancanza di compatibilità tra i
due valori, il discorso sull’esperienza musicale, trascendenza
forzata, resta irrisolto; la musica è ineffabile dicono i filosofi.
Relegato fuori della scrittura che si dà solo con il calcolo,
il discorso che commenta la musica, sorta di filosofia senza
segni, cede alla fine il posto alle scienze. «La musica (scrive
Rameau 1722) è una scienza che deve avere regole certe; le
regole devono essere tratte da un principio evidente, e non è
assolutamente possibile conoscere il principio senza il ricorso alla matematica»12. E cosa importa? L’ascolto musicale,
disposizione antropologica primaria, non suppone, per principio, alcun sapere teorico né tecnico preliminare e neanche
alcuna scrittura; possiamo essere finemente sensibili a un
brano musicale senza saperlo né suonare, né leggerne una
nota. Resta però che cantiamo in quinta nel Caucaso e a Bali,
in terza in Africa occidentale e centrale e anche in Nuova
Guinea, in seconda a Taïwan e in Dalmazia, forse (ma senza
dubbio) senza saperlo13. E così, a parte i musicisti e gli spe11 Si dice la stessa cosa della versificazione classica francese:
dodecasillabi, ottonario, ecc. che possiamo ritmare in valori musicali.
12 Jean-Philippe Rameau, Traité de l’harmonie réduite à ses principes
naturels (1722). Nella storia della musica tonale in Occidente, la
teoria degli accordi di Rameau permette di costruire la gamma per
sovrapposizione di terze e per inversione sulla base di una fondamentale
invariante. Allo stesso modo, per il grande matematico Leonhard Euler
(1707-1783), capire la musica è conoscere i numeri.
13 Quel che vale per le teorie musicali vale anche per le grammatiche
delle lingue, che i locutori ignorano quasi del tutto dal momento che la loro
conoscenza non è per nulla necessaria alla pratica della parola.
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cialisti, che non hanno necessariamente un orecchio migliore
dei profani, il discorso sulla musica si riduce il più delle volte
a una sorta di pathos senza contorni, in cui si mescolano le
emozioni, gli aggettivi e i grandi avverbi.
Il discorso può certamente suggerire e magari anche calcolare la musica in maniera precisa con l’aiuto del solfeggio,
ma non può testimoniare il carattere esperenziale delle forme
musicali. In altri termini, il discorso non può raggiungere la
musica; la musica bisogna ascoltarla. Eppure ne parliamo,
la parola parla di tutto, e ovunque al mondo, in ogni istante,
musica e linguaggio sono mischiati. I trattati disponibili sono
tanti e a questi si aggiungono studi molto severi di musicologia e di etnomusicologia. Possiamo evitare la maldestra
preterizione che consiste nel dire della musica che non si può
dire?
Di musica se ne può parlare solo dal di fuori; l’esperienza sensibile dei suoi valori resta fuori della portata del dire.
Per esempio, il discorso (linguaggio) non può trasmettere,
senza l’aiuto di uno strumento, la semplice esperienza della
differenza tra un accordo minore e uno maggiore e neppure
trasmettere, senza ascolto, la differenza tra le musiche modali e quelle tonali.
L’esperienza sensibile della musica sembra dunque inaccessibile al linguaggio. Tuttavia, non può farne a meno. La
musica non va senza nome. Senza il linguaggio non ha alcun
posto nella città. Così il linguaggio, non potendola afferrare,
l’avvolge nei suoi segni e gli dà corpo sotto forma di funzioni
sociali. A questo punto la parola musica diventa un termine
relazionale (musica di, per, ecc.): musiche da ballo, da divertimento, rituali, dotte, religiose, profane o militari, a cui si
aggiunge la loro localizzazione14: di Bali o del Congo, antica
del Giappone o italiana e altri parametri sociostorici e geografici.
Svilluppando culturalmente il potenziale neuronale di cui
dispone a titolo di anthropos, il soggetto umano, all’opposto
di altre specie, sente la musica come musica e non semplicemente come rumore. Al circo, il cavallo che balla non sente
i suoni dell’orchestra come musica. Gli uccelli, malgrado le
apparenze, non praticano l’unisono, né l’armonia, né compongono nuove arie. Attraverso questa pre-disposizione neuro-semiotica sviluppata nel suo ambiente, l’umano, animale
musicale, si realizza come soggetto. In altre parole, un’aria
musicale è il risultato di un atto di ascolto operato in una
matrice semiotica, in costante attesa; detto altrimenti, un sapere15. E’ proprio questo soggetto ascoltatore che costituisce
l’oggetto di studio della semiotica. Ricordiamo sempre che
i compositori, i musicisti non sono solo produttori ma anche
soggetti ascoltatori16. La questione è dunque rovesciata: il
soggetto della musica è l’altro, l’ascoltatore. La Τύχη (sensibilità toccata) è ormai primaria e riassume la pratica musicale.
L’individuo umano integra la musica del suo ambiente,
intendiamo con ciò un sistema d’intonazione e un sistema
ritmico. Questa doppia architettura memoria non è uno stock
di melodie (rimemorizzazione) ma una tavola caratteristica
di possibili (capacità di ascolto). Così, se la memoria di una
melodia è una rimanenza, la memoria strutturata, semiotica dei valori che permette l’ascolto musicale, è immanente.
Un’aria nuova, mai sentita nella tradizione, una semplice
melodia o una complessa partitura d’orchestra, sono ricevute
perfettamente in quanto si iscrivono in una combinatoria inesauribile, spazio specifico di valori calcolabili.
La nozione di percezione, indispensabile in fisiologia, è
problematica in semiotica. Lascia pensare che la musica si
formi nello strumento, viaggi nell’aria e venga infine percepita, mentre invece nasce come tale, non nell’emissione, ma
nella sensibilità (semioticamente organizzata) del musicista
e del suo pubblico. Nella schema classico di comunicazione
da un io verso un altro, la bocca è sorda e l’orecchio è muto.
Percepiamo le onde, nessuno ne dubita; ma dire che percepiamo la musica vuol dire confondere tutto. Per l’animale
musicale che siamo, la musica non è un fenomeno che viene da fuori. Immaginiamo il caso contrario, una macchina,
un sintetizzatore autonomo, che, in assenza di umani, dia un
concerto a una rete di macchine o a un gruppo di gatti. La
musica bisogna essere lì per sentirla, bisogna che si sia umani perché sia.
Un pezzo di musica è una totalità sui generis, uno spazio di valori chiuso per la definizione dei suoi valori. Basta
sopprimerne un elemento, o che il brano sia incompiuto, e i
suoi uditori, anche se lo sentono per la prima volta, se ne accorgono immediatamente. Supponiamo che nel corso di una
esecuzione un solista sbagli una nota che suona falsa. Cos’è
successo? Il suono sentito ha preso il posto di un altro atteso.
Tale è la semiosi musicale nella sua funzione differenziale
di attesa17.
Appena si cambia punto di vista, dalla fonte generatrice
all’ascolto, tutto si problematizza. Il principio semiotico del
suono implica che ogni volta che si menziona una fonte sonora, siamo tenuti a menzionare l’ascolto in cui quel suono si
forma come valore. La priorità della disposizione all’ascolto
colloca l’artista al centro del campo sociale, non di fronte,
né al di sopra. In altri termini, la musica non è il teatro, dove
l’attore non vede la maschera che mostra. All’inverso, anche
14 H. Bhabha (1994)
15 La distinzione tra poïesis (per il musicista) e estetica (per il pubblico)
stabilita da Jean Molino e Jean-Jacques Nattiez (2009) non può essere
mantenuta, perché il produttore è allo stesso tempo un ascoltatore e un
attante; allo stesso modo, il parlante è un ascoltatore e lo scrittore un
lettore, per definizione. E’ evidente che lo schema d’intercomunicazione
che questi autori assumono nei loro argomenti nasconde loro la divisione
del soggetto.
16 Per Wittgenstein una grammatica è un sistema di comprensione
(understanding). Nota: «Come si può parlare di capire o non capire una
proposizione? E’ evidente che è una proposizione solo quando la si è
capita».
17 Da un sistema di intonazione all’altro un evento dissonante può
passare del tutto inavvertito
LA MUSICA COME ARCHITETTURA PSICHICA
DELL’ASCOLTO
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se vestito di paillettes e altri artifici visivi, il musicista non
sta sulla scena per interpretare il musicista ma per fare musica, la sua presenza è una persona intera non-riducibile a una
rappresentazione. Così quel che suona il flauto è sentito allo
stesso tempo da tutti i presenti: dal flautista e dal suo pubblico. I filosofi (Wittgenstein) e i linguisti (Saussure, Benveniste) alle prese con questo problema non esitano a dire
che il soggetto emana dal linguaggio, che ne è meno l’agente
quanto la posta. Allo stesso modo, la musica, arte sociale, è
fondata su una capacità comune di cui il soggetto è un noiascoltatore iscritto in ogni ego, ego che, da questo momento,
non è riducibile a un io-esecutore. Questo spostamento concettuale, tutto sommato controintuitivo, non ci impedisce affatto di attribuire il merito delle opere (o l’obbrobrio) all’artista; così come una bella esecuzione può non avere successo
davanti a un pubblico inappropriato. Nel suo narcisismo, un
musicista acclamato da tutti può pensare di esprimere il suo
io profondo, ma non fa che ripetere, a suo modo, quel che tutti si aspettano da lui. Guai a prendersi delle libertà, a uscire
dalla tradizione architettonica, deluderebbe le attese di tutti
coloro che lo ascoltano. I grandi innovatori ne sanno qualcosa; quando il noi non è lì, l’ego è nei guai.
I grandi creatori sono sempre contro-culturali, in qualche
modo, perché le loro opere spostano la cultura e la destabilizzano. Gli artisti, contrariamente alle nostre attese, non
sono lì solo per soddisfare le nostre domande, ma per pervertirle e cambiarle. La soggettività artistica si riduce allora a
solitudine ispirata? No. Perché nella soggettività creatrice il
soggetto non è mai solo. Se tutta l’educazione consiste a far
passare una parte del campo sociale in un soggetto individuale, qualunque creazione corrisponde a una forma trasformata
di restituzione. In altri termini, paradossalmente, le creazioni più rivoluzionarie sono forme di continuità della cultura,
mentre le riproduzioni fatte in nome della tradizione spesso
non sono altro che forme lente e qualche volta impercettibili
della sua degradazione.
L’INTERVALLO D’OTTAVA: UNA RELAZIONE
DIFFERENZIALE D’IDENTITÀ
I sistemi d’intonazione nel mondo sono tutti diversi ma
posseggono non di meno un punto comune, proprio all’umano, che distingue i suoni musicali dai suoni (sovente melodiosi e espressivi) delle altre specie. Fondati sui numeri, i
nostri solfeggi, muniti di misure d’unità proprie, potrebbero
suggerirci sequenze armoniche tendenti all’infinito. Tuttavia,
il continuum non è un buon modello musicale di calcolo, perché la sequenza dei valori armonici è articolata da un principio d’identità. Nella musica occidentale, che divide lo spettro
dei toni in base 8, si chiama ottava18. L’ottava è l’intervallo
18 I modi della musica orientale si strutturano su scale contenenti
intervalli di tre quarti di tono e non di quarti di tono. Ciò che conta è
che l’intervallo in uso sia un multiplo. Per esempio, la terza minore
[tono+semi-tono] (re/mi/fa) o in [semi-tono+tono] (re/mib/fa) diventa [3/4
tono + 3/4 tono] (re/mib/fa), il che fa 1 tono + 1/2 tono in tutto, ma non dei
quarti di tono. La scrittura che parte dai micro-intervalli è tradizionalmente
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più consonante, il suo rovescio è un unisono.
Nell’intervallo d’ottava, la frequenza del suono più acuto è
doppia di quella del più grave, e così i due suoni, per quanto
differenti, sono sentiti come uno stesso valore (1 ≡ 8)19. Il
principio d’identità in gioco qui non è quello della metafisica classica (a = a) ma quello della logica contemporanea
(a = b). Questa identità differenziale struttura tutti i sistemi
di intonazione. Il canto umano comincia a questo intervallo
fondamentale, la cui identità non è quantitativa ma principale, se fosse quantitativa non potrebbe essere mai raggiunta.
Quando ci mettiamo dal punto di vista della loro produzione,
tutte le scale sono approssimative, ma nell’ascolto musicale
si tratta di attese assolute per i soggetti iscritti culturalmente
nei loro rispettivi sistemi di intonazione. La scala d’ottava è,
senza alcun dubbio, convenzionale e storica, perché quel che
conta non è il numero (otto o settantadue) ma che l’unitàintervallo sia un multiplo, come le barrette di una scala o le
cifre del quadrante di un orologio. Il principio d’identità in
musica è una disposizione antropologica primaria. Le culture, secondo la loro storia, gestiscono le suddivisioni, ma il
principio resta ovunque costante20.
Gli strumenti musicali e la voce sono stranamente restii.
Cantare bene, cantare male, generalmente sappiamo cos’è
perché, in un sistema d’intonazione acquisito, anche se cantiamo male, forse (come chiunque), sentiamo però bene.
Bene, in una scala armonica tonale, vuol dire che un intervallo è un multiplo (esatto) di un altro e un suono, più le sue armoniche sono calcolabili per multipli interi della fondamentale, più è considerato puro. Questa precisione d’intervalli, la
cui produzione è approssimativa, esiste in tutte le musiche,
perché è l’attesa del suono che è in gioco.
La semiosi musicale, in altre parole, la musica come godimento (che non si ferma al principio di piacere), sta nelle
attese e inattese di una soggettività culturale psichicamente
iscritta e non in forme oggettive da percepire e da osservare21. Così, quando il trombone suona una nota della melodia,
le note che precedono, che non sono più presenti, si mantengono in memoria in absentia; sentiamo un suono nell’eco
di un altro che precede attendendone un altro a venire. Per
suonare la nota che segue, bisogna averla sentita nelle armoniche della precedente. La melodia scorre cambiando il presente a ogni ritorno del tempo forte. Così, la grande arte del
impiegata nel mondo arabo e in India. Nella musica araba, l’intervallo è
abbastanza spesso 3/4 di tono e 2/3 di tono come nella mezued tunisina.
Lo stesso dicasi del neï (flauto arabo).
19 Matematicamente, le frequenze dei suoni situati alle estremità di
una ottava valgono il doppio l’una dell’altra; se si sceglie come punto di
partenza la nota standardizzata (La) che ha una frequenza di 440Hz, le
ottave situate da una parte e dall’altra di questa nota avranno per estremità
le frequenze 55, 110, 220, e 880, 1760 Hz, e così di seguito. All’opposto
per discendere di una ottava, la lunghezza deve essere moltiplicata per due,
di due ottave per quattro e di tre ottave per otto.
20 La scala di seconda aumentata (musica araba, indù, russa, ungherese,
rumena, spagnola) si caratterizza per un intervallo di seconda aumentata in
ognuna delle tetracorde che costituisce l’ottava.
21 Schubert parla di musikalische Momente perché, per lui, la musica è
fatta di momenti vissuti e non di strutture oggettive, si tratta innanzitutto
di presenza.
SCIENZE E RICERCHE • N. 44 • GENNAIO 2017 | LINGUISTICA
ritmo consiste nel suonare il tempo forte il più tardi possibile,
all’estremo, ma nella più grande esattezza. Questa suspense,
attesa seguita da una caduta al fondo-di-tempo, è il marchio
di fabbrica del jazz e del Rythm & Blues. All’opposto delle
musiche militari e di certe musiche popolari attuali che marcano il tempo o lo martellano come (o con) delle macchine,
i batteristi di jazz pongono il tempo, tempo esatto, e non di
meno sospeso.
ALTERNANZA DEI VALORI ACUSTICI
Una nota A (La), fisicamente accordata a 440Hz, ha un
valore in D (Re maggiore) dove suona come una quinta, un
valore diverso in F (Fa maggiore) dove suona come una terza. Nel recitativo modale della liturgia romana do-mi-nusvo-bis-cum / et-cum-spi-ri-tu-tuo / o-re-mus, ogni sillaba è
cantata sulla stessa nota (stessa frequenza) ma non è sentita
come uno stesso valore. Allo stesso modo, in Samba De Uma
Nota Só22, il compositore brasiliano, in una scala tonale, ripete una stessa nota facendone variare il valore. Per mostrare
questa distinzione in maniera più generale, sappiamo che i
rubinetti chiusi male gocciolano in alternanza, che gli orologi fanno tic tac, e non tac tac, che le campane fanno din don
dan e gli schiaffi doppi fanno scift sciaft. In queste variazioni
alterne d’ascolto, troviamo il contrario della non-ripetizione
sintagmatica delle lingue di cui abbiamo parlato più su. Così,
zum zum zum (slogan brasiliano, cantato da Mina) non è una
ripetizione. Ci vuole il genio poetico di Gertrude Stein per
scrivere a rose is a rose is a rose.
Il rovesciamento del primato (emissione / ascolto) sviluppato più su s’impone, perché l’alternanza dei valori per una
stessa frequenza si trova nell’ascolto. Del resto lo possiamo
sentire su un pianoforte elettrico, che, in principio, non varia nelle ri-occorrenze. Per convincersene, basta suonare le
prime misure di Samba De Uma Nota Só o meglio di tamburellare le tre prime note del famoso pom pom pom (pom) che
introduce la Quinta di Beethoven, nessuno, per questi incipit,
sosterrà seriamente che si tratti di stretta ripetizione.
ETHOS DEL TIMBRO
Gli strumenti, le voci, si distinguono per i loro timbri, che
sono forme di armoniche. Nozione molto complessa, il timbro non si può scrivere in un solfeggio. Sotto questa fredda
e oscura definizione si nasconde la specificità individuale
di ogni artista, di ogni gruppo o orchestra. La voce di Fela
Anikulapo Kuti, il suono della tromba di Miles Davis o del
sassofono di John Coltrane sono infallibili. Sono la marca
primaria dell’originalità musicale. Nel jazz, il timbro è l’ethos, la persona, lui/lei, immancabilmente, e non un altro.
In Martinica, il canto delle alture, chiamato la-vwa-béf, è la
voce magica dei fuggiaschi che si sentono ancora nella Bélè
(canto locale recitativo) che, nel timbro inimitabile e intonazione tutta particolare, suona come un appello. L’ethos del
timbro è sentito anche da colui che lo produce. E’ la sua arte.
Così, una toccata, una voce, una sonorità naturale o elaborata, risulta una condivisione, un felice equilibrio tra le cadenze del corpo dell’artista e la finezza del suo orecchio.
L’idea di ethos la ritroviamo negli stoici, filosofi in Grecia,
schiavi a Roma, che sostenevano una concezione materialista dell’anima chiamata «soffio artista (soffio: ‘anima’)» - il
corpo che respira è la sola anima che io abbia - e che sottolinea il carattere centrale dell’individuazione del timbro.
L’anima-soffio si applica solo agli strumenti a fiato e al canto, perché tutti i musicisti respirano (compreso il direttore
d’orchestra!). Glissant parla di «respiration cassée de la connaissance souterraine», perché lo strumento serve anzitutto a
respirare; con gli strumenti a fiato, è quando i polmoni sono
vuoti e un po’ doloranti che i suoni sono più belli. In questo soffio tenuto, niente canta come le vocali e niente risalta
come le consonanti: «Io dico, scrive il poeta, che la poesia (la
musica) è carne».
Il godimento della musica giace negli intervalli (di altezza
e di durata) e non solo nelle note. Il tempo svolge l’armonia
nelle durate cadenzate e noi diciamo che l’armonia eleva lo
spirito e il ritmo l’intero corpo. È il ballo.
BIBLIOGRAFIA
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