MARCO MENEGUZZO | Curatore della mostra

MARCO MENEGUZZO
Curatore della mostra
Le regole del gioco *
Marcello Morandini costruisce il suo “mondo perfetto” in bianco e nero. Pochi altri artisti lo hanno
fatto e lo fanno con tanto rigore – Franco Grignani, Marina Apollonio, A.G. Fronzoni, che imponeva
ai suoi studenti di vestirsi in bianco e nero… - e lui stesso, nei suoi progetti di design o di
architettura, qualche volta deroga a questo rigore, inserendo qualche colore. Ma, si sa, il design ha
a che fare col mondo, è una disciplina “mondana”, intesa nel senso medievale del termine, mentre
l’arte è un territorio che si sceglie, in fondo senza dover rendere conto a nessuno, se non alla
purezza della regola che ciascun artista adotta per sé. Naturalmente, la regola che ci si
autoimpone può comprendere anche delle sfrenatezze espressive e narrative, ma è quasi
impossibile che, una volta scelta la propria strada, l’artista ne esca facilmente. Morandini non vi è
mai uscito, a meno che non si consideri il grigio – che talora usa – come un’eccezione, e non come
mediazione tra gli opposti (bianco e nero). Del resto, perché uscirne? Il grande privilegio
dell’artista – ancor più dello scienziato – è quello della costruzione autonoma del proprio mondo,
di cui si stabiliscono limiti e regole, e il cui scopo è quello della perfezione armoniosa, persino
quando si narra il proprio vissuto, magari pieno zeppo di episodi strazianti.
Morandini non si rivolge al vissuto, ma alla forma, non alla psicologia, ma alla matematica, non
all’individuo ma all’universale: per questo sceglie il bianco e il nero, per questo non deflette mai
dalla sua sicurezza operativa. Il processo mentale che lo ha portato alla scelta degli elementi
semplici che costituiscono le basi di ogni sua costruzione è tanto chiaro quanto inflessibile: più si
utilizzano forme elementari e meno si rischia che nella costruzione successiva intervengano
elementi perturbanti o “narrazioni” individuali.
Questo atteggiamento è l’atteggiamento dello scienziato o, meglio, sarebbe l’atteggiamento dello
scienziato se non ci fosse quel sublime arbitrio iniziale per cui l’artista delimita il proprio orizzonte:
per usare un’immagine figurata, si tratta di una sorta di “Big bang pilotato”, di cui non si
conoscono le conseguenze, una volta scatenata l’esplosione, ma di cui addirittura si scelgono le
cause. In tal senso, Morandini appartiene a quella generazione di artisti – molto attiva in Italia –
che già nella prima metà degli anni Sessanta indagava le possibili modalità di una percezione – e
persino di un’estetica – oggettiva, di un modo di guardare alla realtà attraverso parametri non
individuali, né tanto meno individualistici, psicologici o sentimentali. Per questo, il termine
“optical”, utilizzato comunemente e internazionalmente per identificare tutti quegli artisti che
utilizzano artifici ottici e percettivi è fortemente limitativo, perché riduce quella ricerca a un mero
problema fisiologico di visione, per quanto raffinato: al contrario, gli artisti di quella generazione,
specialmente in Italia e in Francia, si ponevano un obiettivo infinitamente più ambizioso, in linea
diretta con le straordinarie utopie delle avanguardie. Lo scopo della ricerca non era certo quello di
creare una nuova forma di astrazione, una specie di nicchia formale che, sfruttando in fondo i
limiti della visione umana, producesse stupore, meraviglia e divertimento, quanto piuttosto
mutare radicalmente il modo di vedere, sia enfatizzando l’aspetto fisico e ottico del vedere, sia
abituando il soggetto a decostruire la visione e a riformarla secondo dinamiche visive differenti dal
passato. Morandini è tra loro, benché in una posizione defilata rispetto ai gruppi e alle mostre
canoniche della tendenza ottico-cinetica italiana, e la sua ricerca è tra le più rigorose. Quest’ultimo
aspetto – il rigore delle scelte di base – potrebbe essere motivato dalla sua parallela attività di
designer e architetto dove – come si accennava all’inizio – il compromesso con le esigenze
contingenti di committenti, situazioni, condizioni operative, spesso costringe a modificare il
progetto iniziale, anche senza snaturarlo: l’arte invece è un “luogo” solo tuo, dove la costruzione
non subisce forzature, se non i mutamenti e le trasformazioni che il linguaggio stesso suggerisce.
Ecco allora che Morandini assume come bagaglio genetico della propria costruzione pochissimi
elementi, e persino nell’aspetto dinamico per passare da un pattern bidimensionale a uno
tridimensionale si limita tendenzialmente alla “progressione” e alla “torsione”. Per la creazione di
un sistema percettivo completo e autonomo – i francesi, con Gilles Deleuze, direbbero
“dispositivo” – la sfida di Morandini è quella di utilizzare solo il “minimo comun denominatore”, il
numero minimo di elementi, oltre il quale la costruzione diventa impossibile: egli ci riesce sia nella
bidimensionalità che nell’aspetto plastico, rispettando alla lettere le regole del gioco che ha
costruito lui stesso. E proprio nel pensare al “gioco” – che è cosa ben diversa dal divertimento di
cui si parlava sopra … - si comprende la portata ideale della sua ricerca, perché il gioco è un
sistema chiuso in se stesso e perfetto nelle sue regole ( il poker batterà sempre il full … ) che non
ha neppure bisogno di realtà normative esterne: forzando i concetti delle neoavanguardie ottiche
e cinetiche, quasi si potrebbe affermare che in Morandini lo sguardo dell’osservatore potrebbe
anche essere superfluo di fronte alla concretezza chiusa in se stessa come una monade, delle
forme perfette costruite secondo le “regole del gioco”.
Se così fosse, si acuirebbe ancor più l’aspetto immanente e silenzioso – silenzioso significa qui che
non ha alcun bisogno di parlare metaforicamente con nessuno, che “basta a se stesso”, e così, tra
l’altro, si giustifica appieno il titolo che lo stesso artista ha dato alla mostra del 2016 alla Galleria
Arena Studio d’Arte di Verona Fiere forme silenti! – del suo lavoro, a scapito del versante sociale e
collettivo della ricerca, ma crediamo proprio che questa interpretazione non gli dispiaccia.
Gallarate (VA), 10 marzo 2017
* Dal testo in catalogo Publi Paolini Editore