VI
DE GASPERI STATISTA*
l. Che Alcide De Gasperi vada annoverato tra i grandi sta­
tisti del nostro paese e che sia legittimo definire gli anni dei suoi
governi come «età degasperiana», con un significato che non im·
plica solo l'aspetto politico, non credo si possa dubitare. Più diffi­
cile è per noi interpretare il senso storico dell' «età degasperiana»,
individuarne la novità rispetto al prefascismo e alla stessa stagio­
ne giolittiana. La definizione che alcuni storici hanno dato del­
l' «età degasperiana» come di pura «restaurazione» non ci è mai
sembrata convincente, anche se in essa sono presenti e vivi ele­
menti tradizionali; troppe cose non si spiegano con il ritorno
puro e semplice alla prassi dei governi liberali. La stessa menta­
lità dello statista trentine, la sua formazione culturale, la sun con­
cezione dello Stato non si possono collocare semplicemente nel
solco della nostra tradizione risorgimentale e post-risorgimenta­
le, per quanto egli sia rimasto estraneo a quelle correnti cattoli­
co-papali che, a cavallo del secolo, praticavano l'astensione elet,., Il 16 dicembre 1981 commemorai la figura di Alcide De Gasperi come
uomo di Stato nell'aula del gruppo parlamentare della Democrazia Cristiana a
Montecitorio, presenti le massime autorità dello Stato. Feci precedere la lettura
della commemorazione da questo saluto: «Signor Presidente della Repubblica,
Signor Presidente del Senato, Signor Presidente della Camera, Signor Presidente
del Consiglio, onorevoli deputati e senatori, consentitemi, anzitutto, di rivolgere
il mio sincero ringraziamento per l'onore che mi è dato di commemorare alla
vostra presenza l a figura di Alcide De Gasperi come statista. Non è senza emo­
zione che vi parlo per ricordare la vita di un uomo straordinario, che credendo,
attendendo {quando attendere significava anche resistere) e lottando dedicò
l'intera sua vita alla causa della libertà e della democrazia. Il mio pensiero rive­
rente va in questa circostanza anche a colei che fu compagna devota e preziosa
di De Gasperi, Donna Francesca. Ci rendiamo ben conto della provvisorietà
e pochezza dei nostri discorsi allorché abbiamo dinanzi alla nostra mente le im­
magini dl uomini, come appunto Dc Gasperi, che hanno consumato una intera
vita, ora per ora, giorno per giorno, in silenzio e in solitudine, nel mezzo
delle passioni, delle contingenze alte o basse della politica, nei più forti ma
anche generosi conflitti ideologici, sempre per una stessa convinzione, per uno
stesso ideale, per uno stesso amore del civile e umano progresso. Perdonate,
pertanto, la già scontata inadeguatezza del mio discorso».
Il testo che riportiamo qui è stato da me rivisto e integrato di nuove parti.
Per questo lavoro ho utilizzato i verbali del Consiglio dei Ministri del 1946 e
1947, conservati presso l'Archivio Centrale dello Stato. La commemorazione,
nella veste attuale, comparve in <<Humaoitas», 4 (1982), pp. 533-558.
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torale con1e anna di contestazione contro lo Stato monarchico
o sabaudista, come si diceva allora.
Alcide De Gasperi si era formato in una regione, il Trentina,
da lungo tempo abituata a quell'esercizio delle autonomie locali,
che era autentica forma mentis, concezione naturaliter assimilata
nel corso di una secolare esperienza comunitaria, omogenea alla
figura di uno Stato, quello asburgico, in cui l'amministrazione
era l'anima e la ragione di tutto. È importante, a nostro avviso,
caphe come De Gasperi, e con lui buona parte della classe diri­
gente trentina tra il XIX e xx secolo vedessero nello Stato impe­
riale una grande macchina amministrativa di compensazione, di
contemperamenti e riequilibri dei conflitti delle varie aree re­
gionali, una specie di Provvidenza pubblica, politicamente inde­
terminata, ma in grado di assicurare, oltre i contrasti nazionali,
gli interessi più generali di una modernizzazione disciplinata,
senza i rischi delle fratture che importava l'introduzione dei mo­
di di produzione capitalistica. Di qui l'inclinazione nella classe
dirigente trentina a dare la prevalenza al momento pratico, alla
traduzione in termini di regolamentazione amministrativa e di
pubblicizzazione attraverso la legge delle sollecitazioni ed esi­
genze sociali, rispetto alla sintesi politica . Questa inclinazione
era evidente nel giovane De Gasperi e lo sarà anche dopo, pure
se in forme molto diverse, dovute alla profonda modificazione
dell'ambiente politico in cui operò e alla natura dello Stato, che,
dopo la grande guerra, era quello italiano, tendente a riassorbire
o a riportare il momento amministrativo entro la più rigida sta­
tualità, nutrita di diffidenze e sospetti verso le spinte centrifughe
delle rivendicazioni autonomistiche.
Un altro elemento importante concorreva a formare verso la
fine del xrx secolo la mentalità dell'intellettuale cattolico tren­
tina, quando De Gasperi era ancora studente universitario: l'in­
teresse per la questione sociale, interesse stimolato dalla J?resen­
za di un movimento socialista, che da fatto urbano stava diven­
tando anche presenza attiva nelle vallate trentine, che erano
state fino ad allora isolate dalle grandi correnti di traffico e
dove gli incrementi demografici erano
stati sempre irrile­
vanti. Diversamente da quanto avveniva in Italia, dove la
questione sociale, carica di suggestioni corporative medieva­
leggianti, fu dibattuta in connessione con la questione roma­
na, anzi a questa subordinata, nel Trentine la questione so­
ciale incominciò a dibattersi e a preoccupare i l clero e l a curia
in rapporto alla diffusione delle società operaie di indirizzo so\
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cialista nei borghi della provincia. Il timore che la pene trazione
socialista e la diffusione del mondo della fabbrica potessero cor­
rodere la tradizione cattolica delle campagne e delle vallate fu
all'origine del movimento solidaristico cristiano, che in pochi
anni si distese in ogni angolo della regione. E che i l movimento
fosse nelle n1ani del clero non può stupire, se si tiene presente il
ruolo anche amministrativo, burocratico e civile che il clero au­
striaco ha sempre avuto. Non riscontriamo nessuna elaborazione
culturale originale nella stampa cattolica trentina della fine del
secolo scorso: le idee erano quelle dei cristiani sociali viennesi,
da Lueger a Vogelsang a Kunschak, con qualche richiamo alle
dottrine del cattolicesimo sociale francese del Secondo In1pero,
in particolare ad Albert De Mun.
Più tardi si passò a citare anche il Murri con il quale De Ga­
speri ebbe cauti rapporti. Il linguaggio era quello del clericalisn1o
attivistico di fine secolo, anticapitalistico e populistico, insieme,
ma con una straordinaria capacità di aggregazione nel Trentine
dei ceti urbani e rurali operai, piccoli proprietari, fittavoli. Tutto
il cattolicesimo sociale tt·a la fine del'Ottocento e i primi anni
del xx secolo si muove lungo la linea di un poderoso sforzo at­
traverso lo strumento della cooperazione per arginare e respin­
gere il movimento di secolarizzazione che dalla borghesia alla
classe operaia coinvolgeva interamente la società civile. La cre­
scente dislocazione della parrocchia da nucleo ordinatore della
vita locale, in tutti i sensi, a fattore periferico anagrafico è in ci­
tna alle preoccupazioni del clero e dei laici cattolici nell'età leontana.
Anche nel Trentina si assiste negli anni della giovinezza
degasperiana al tentativo di pervenire, per cosl esprimerci, a una
modernizzazione delle strutture sociali ed economiche senza pas­
sare attraverso la secolarizzazione e l'abbandono del sacro. Un
siffatto obbiettivo era perseguibile ancora una volta con l'esalta­
zione dei metodi della dottrina di Lueger e Vo�elsang, tra pater­
nalistica ed efficientistica, con la dilatazione dei compiti sociali
dello Stato e con l'utilizzazione della pratica amministrativa come
metodo del governo locale anche economico.
•
2. Che cosa De Gasperi trovò di nuovo e di diverso, allor­
ché, finita la guerra, entrò a far parte del partito popolare? Che
cosa rappresentò l'esperienza politica sturziana rispetto a quella
del cattolicesimo trentina, che aveva trovato nel vescovo Cele­
stino Endrici il proprio ispiratore e la propria guida? C'è un ele147
1nento unitario che lega i due nomi di Sturzo e di De Gasperi
e li affratella i n una con1unanza di ideali e di prospettive politi­
che? Indubbiamente De Gasperi trovò nel partito popolare la
espressione politica più vicina al suo modo eli vedere il rappor­
to tra Stato, amministrazione e società civile. Anche il popola­
risma era n1aturato attraverso una lunga pratica di lotte muni­
cipali, di tentativi per restituire ai cotnuni e agli enti locali una
più ampia autonomia di governo nei confronti dello Stato, di at­
tività economiche che avevano esaltato il momento della coope­
razione, cosl come, sul modello cattolico bergamasco, era avve­
nuto nel Trentina e in Sicilia, quasi nello stesso torno di tempo.
Ma tra le due esperienze c'erano differenze di non poco con­
to: anzitutto, sul movimento cattolico trentina non aveva pesato
il non expedit, il divieto cioè ai cattolici di partecipare alle ele­
zioni politiche, tant'è che si poté costituire un partito popolare,
che si diceva aconfessionale, ma che avrebbe potuto dirsi catto­
lico, dal momento che il confessionalismo ne era la sola forza
unificatrice; nel Trentina non c'era stata nessuna protesta cat­
tolica contro i fatti compiuti; il programma delle autonomie lo­
cali era stato attuato pacificamente, senza riserve contro l'asset­
to statuale della monarchia asburgica; la stessa difesa dell'italia­
nità non aveva mai presupposto nelle popolazioni rurali trenti­
ne una opposizione di principio contro la direzione del potere
centrale. Il popolarismo sturziano, invece, aveva rappresentato
un processo politico di aggregazione della grande massa degli
esclusi dai benefici dello Stato risorgimentale, dei ceti agricoli,
artigiani e di piccola e n1edia borg]lesia declassati dalla politica
protezionistica; il che dava una diversa derivazione storico-socia­
le e un'altra struttura culturale alla dèfinizione della sua acon­
fessionalità; esso rappresentò anche il tentativo di ricondurre
nell'alveo dello Stato liberale, con una forte istanza regionalisti­
ca, il mondo differenziato delle cosiddette classi subalterne. Sto­
ricizzare la presenza di quest'altra Italia, a cui si aggiungeva la
diversa realtà del Trentina, costituitasi nella fedeltà più stretta
alle tradizioni comunalistiche, era obiettivo certamente omoge­
neo alla mentalità di quel laicato, che si era educato alla scuola di
Celestino Endrici. Quella doppia natura del partito cattolico
trentina, come centro di raccolta degli «uomini di buona volon­
tà», senz'altra indicazione, n1a sotto la vigilanza però dell'Azione
cattolica propriamente detta, non c'era più nel partito popolare
italiano del primo dopoguerra: la separazione dall'Azione catto­
lica fu netta, irreversibile, come venne provato al primo congres-
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so del PPI (Bologna 1919). La nuova forma, più secolarizzata,
di partecipazione dei cattolici alla vita politica, la collocazione
dello stesso partito al centro della vita politica e dell'attività par­
lamentare, con una professione di fedeltà alle regole della demo­
crazia, non fu un ostacolo per Alcide De Gasperi, che, dopo la
partenza di Sturzo per l'esilio, divenne il custode del patrimonio
politico ed ideolo gico del popolarismo sino alla sua fine. Diffe­
renze di comportamento tra i due ci furono, ed esse riguardaro­
no. non a caso, il problema del rapporto tra partito e Stato.
Quel senso di sfida che era nei discorsi di Sturzo, quella
priorità che il fondatore del PPI assegnava al momento etico,
mettevano De Gasperi talvolta in disagio, perché restringevano
la possibilità di utilizzare tutti gli spazi politici per le alleanze
e i compromessi parlamentari. C'è una frase di De Gasperi in
una lettera del 10 agosto 1950, che suona implicitamente critica
degli orientamenti intransigenti che il Partito Popolare aveva
assunto nel primo dopoguerra:
e nel 1922 avessimo previsto il totalitarismo fascista, non credi che
saremmo stati più cauti nell'attaccare lo Stato liberale?>>.
«
De Gasperi non era certo un cattolico-giolittiano, ma non era
nem1neno un cattolico albertariano, intransigente, come il mo­
denese Francesco Luigi Ferrari.
Finché poté, De Gasperi ritenne che l'esperimento della colla­
borazione con il primo ministero Mussolini fosse praticabile, con­
vinto, come tanti liberali del suo tempo, che si potesse arrivare a
una «normalizzazione» del fascismo ovvero a farlo rientrare a
poco a poco nella legalità costituzionale, vincolandolo alla prassi
parlamentare ed esautorandone coslla carica di violenza, che De
Gasperi riteneva accessoria, non essenziale al fascismo. Potrem­
mo vedere qui il prolungarsi di quel modo di fare politica del
cattolico trentine, non abituato a vedere nello Stato una macchi­
na ideologica repressiva, e pieno di fiducia, invece, nella capacità
di resistenza e di autogoverno della società civile. Non era con­
geniale alla mentalità di De Gasperi quel ruolo privilegiato che
Sturzo assegnava al partito, come sintesi politica di una deter­
minata visione del rapporto società civile, partito e Stato. Gli
sembrava pericoloso esasperare la conflittualità tra partito e Sta­
to, perché probabilmente riteneva che questa conflittualità avreb­
be presto corroso i pochi margini che restavano all'autonomia
amministrativa, locale e generale. Ma dopo il delitto Matteotti
e dopo la partenza dall'Italia per l'esilio di Luigi Sturzo, assu149
mendo la guida del partito, capl che la sua politica possibilista
era oramai senza uscita, non avrebbe spostato di un ette il fasci­
smo, non avrebbe ottenuto di separare il loglio dal grano, la vio­
lenza dalle ambizioni contro-rivoluzionarie della piccola borghe­
sia fascista e fascistizzante. Egli stesso ammise nell'ottobre del
'24 che aveva sbagliato nel pensare che si sarebbe potuto percor­
rere «un tratto di via insieme» con il fascismo. Tuttavia, nono­
stante le divergenze tattiche, De Gasperi continuò a rivolgersi a
Sturzo, anche quando questi era in esilio, come a una guida, a un
maestro indimenticabile, già carico di un 'eccezionale esperien­
za politica e civile. E che si verificasse una consonanza di pareri
in certe situazioni particolarmente delicate e difficili, lo si riscon­
trò in più di un'occasione; ad esempio, sulla questione della col­
laborazione con l'ala turatiana del socialismo nell'estate del '24,
durante la fase aventiniana; e l'anno appresso, nell'ultimo con­
gresso del partito, nel quale De Gasperi parlò come uomo del
popolarismo, delimitando le scelte future al campo democratico
ed escludendo ormai ogni sollecitazione collaborazionista. La ri­
cerca del <<meno peggio» era finita; il suo possibilismo si era
esaurito : l'etica riacquistava la sua priorità rispetto al calcolo
politico. Non più l'oggi contava, ma il domani.
3 . Caduto il fascismo, restaurata la democrazia, quali pro­
spettive si aprivano per la rinascita del partito? Che cosa esso
era diventato? Intanto, che cosa era rimasto in piedi di quella
lunga opposizione cattolica allo Stato liberale, che era stato il
terreno su cui si erano preparate alla politica le generazioni cat­
toliche, che avevano militato nella prima democrazia cristiana?
L'elettorato medio italiano sarebbe sta'to disposto a leggere di
nuovo un appello ideologicamente definito, come quello del
1919 agli «uomini liberi e forti»? In parole povere, aveva senso
riproporre nel 1943 -44 la stessa ipotesi di partito che era stata
affacciata nel 1905 con il discorso di Caltagirone e poi riversata
nel programma del 1919, caratterizzata da una scelta anti-mo­
derata e anti-bloccarda? Sturzo, non dimentichiamolo, aveva 1a­
vorato per un partito selezionato, senza ambizioni di governo e
che nella sua concezione avrebbe dovuto fungere da ago della
bilancia tra i partiti di tradizione liberale e risorgimentale e il
socialismo. De Gas peri aveva guidato il PPI nelle ultime più
dure battaglie per la libertà, conosceva bene la storia di Sturzo,
il suo lucido e rigoroso meridionalismo e il suo accanito anti­
giolittismo, ma sapeva anche che gli orientamenti, la mentalità, il
150
modo di pensare del n1ondo cattolico, quello più giovane, che
aveva militato anche nei quadri della Resistenza, non si adatta­
vano più al linguaggio degli anni tra il 1919 e il 1925. Sturzo
aveva operato ancora nel clima della politica delle «due paral­
lele » , della separazione cioè dei rapporti tra Chiesa e Stato, come
era stata delineata nel 1904 da Giovanni Giolitti, dopo gli anni
dei conflit ti risorgimentali sugli exequatur, sulla vendita dei be­
ni ecclesiastici e sulla liquidazione delle decime. Gli anni tra il
19.f3 e i l 1944 furono anni di molta cautela e prudenza per De
GJsperi. Più volte dubitò che fosse opportuno fondare un par­
tito, per timore ne venisse pregiudizio alla solidarietà antifasci­
sta; voleva che non si rimarcassero molto le differenze ideologi­
eh dagli altri partiti e che non si scendesse in catnpo con pro­
grammi troppo delineati. Preferiva che si rin1anesse per qual­
che tempo nell'ambito di un movimento di opinione il più largo
possibile. La pressione degli amici, da Giuseppe Spataro a Gio­
vanni Gronchi, lo convinse a impegnarsi nella costruzione di u n
partito vero e proprio 1. Forse il ricordo di certa intransigenza
sturziana e ferrariana, l'insistenza programmatica sui «punti fer­
mi>>, con i quali Sturzo aveva inteso condizionare la collaborazio­
ne ai governi del dopoguerra e che erano stati già motivi di irri­
tazione in Filippo Meda, la sfida di Donati al fascismo dopo i l
delitto Matteotti, il ritorno dei conservatori nazionali sulla sce­
na poli ti ca dopo il congresso di Torino, tutto ciò gli tornava alla
n1ente come un'esperienza dolorosa, sollecitandolo a non far nul­
la che potesse ridestare le vecchie paure nei ceti medi, a evitare
i l pericolo che, con i l ripristino delle libertà politiche e civili,
si ricadesse nella rissa ideologica tra i partiti democratici, di cui
aveva profittato solo il fascismo. E poi c 'era l a Chiesa, la Chiesa
di Pio xn) non quella di Benedetto xv: il timore della Chiesa
di una possibile liquidazione del Concordato non poteva essere
accantonato e neppure potevano essere messi da parte tutti quei
discorsi sulla crisi della «civiltà borghese», sul ritorno alla dot­
trina sociale della Chiesa, mediata un po' con san Tormnaso, un
po' con Toniolo, nelle associazioni e settimane cattoliche durante
gli anni Trenta. La tendenza più forte fra i giovani era verso la
realizzazione di uno Stato sociale, ridistributore della ricchezza e
realizzatore di giustizia. De Gasperi ritenne che si dovessero per­
ciò riprendere non pochi temi che erano stati propri della demo­
crazia cristiana dell'età di Leone XIII. I l popolarismo, con la sua
idea fissa dello Stato di diritto e del rispetto dell'iniziativa pri­
vata, sembrava a molti giovani un abito oramai logoro, peraltro
15 1
compromesso con le responsabilità delle vecchie classi dirigenti
liberali. Giusto o non giusto che fosse il giudizio, questi erano gli
umori e gli orientamenti della parte più attiva del nuovo partito .
Ma De Gasperi doveva tenere conto anche di un'altra situazio­
ne: la paura del comunismo, del « salto nel buio», diffusa in mnpi
strati dei ceti medi, una paura che spingeva il partito nel solco
di una scelta moderata, che avrebbe potuto trasfonnarlo in una
aggregazione sociale conservatrice. Sturzo aveva costruito il par­
tito senza preoccuparsi dell'unità politica dei cattolici: lo aveva
già escluso nel più volte citato discorso di Caltagirone del 1905
e nei colloqui con il cardinale Gasparri alla vigilia della fon­
dazione del partito. Anche De Gasperi sostenne che la Democra­
zia cristiana non doveva essere vista come una rappresentanza
delegata del mondo cattolico. In effetti, formalmente era così,
ma che le sue difficoltà nascessero dal rapporto con il mondo cat­
tolico, che in tanta parte non si sentiva sufficientemente garantito
dalle scelte degasperiane, nemmeno è dubbio; come non è dubbio
che per lo statista trentina l 'obiettivo fosse di fondare un par­
tito al di fuori della logica integralista, UQ partito in grado di
trasformare il suo originario interclassismo da statico program­
ma sociologico in una forza dinamica di aggregazione e di forma­
zione sociale dei ceti e delle classi che già avevano costituito una
volta la base del popolarismo, nel pieno rispetto del metodo de­
tnocratico-parlamentare.
De Gasperi conosceva la storia del movimento cattolico, ne
aveva vissuto le fasi più drammatiche della formazione e del pri­
mo dopoguerra; non avrebbe mai potuto ammettere, una volta
che si fosse deciso di farne uno, la provvisorietà del parti to . Le
sue cautele e prudenze non erano que 11e del conservatore nazio­
nale: non gli passava per la mente l'idea di un blocco d'ordine
e neppure avrebbe accettato il progetto di una fluida disponibi­
lità del partito per qualsiasi combinazione integrativa di destra
o di sinistra. Di qui la preoccupazione di fare del partito non tan­
to un'organizzazione di massa fondata su una scelta programma­
dca specifica, in una impossibile concorrenza con il socialcomu­
nismo, proiettato nella prossima visione di uno Stato sociale cri­
stiano, che gli sembrava utopico ed equivoco, quanto un grande
movimento popolare capace di attrarre una molteplicità di con­
sensi attorno a una linea politica democratica e repubblicana,
impegnato nella realizzazione del possibile e del necessario per
la ricostruzione del paese. Potremmo individuare ancora una vol­
ta in lui il senso della politica come ricerca di equilibri stabili
152
nella pratica dell'amministrazione, funzionale alla visione dello
Stato di diritto. Le progettualità uninominalistiche, i discorsi pa­
lingenetici sullo Stato di giustizia, il confusionismo ideologico lo
insospettivano, gli facevano temere il peggio. Di qui le sue an­
sie, che non mancava di esternare all'impaziente Sturzo:
«Saretnmo capaci di dar vita - si chiedeva in una lettera diretta al­
l'amico datata Napoli 15 giugno 1944- ad una r epub blica veramente
libera e democratica? Questo è il dubbio che mi tormenta [ ... ]».
Era molto facile e generoso parlare di democrazia, di libertà
e di repubblica, sollecitati dal «vento del Nord » , ma c'era anche
un popolo silenzioso, a cui queste parole suggerivano paure so­
cia}j. Gettarsi da una parte, confondersi nel frontismo cielleni­
stico, avrebbe favorito l 'evoluzione democratica del più lento
mondo cattolico o avrebbe provocato pericolose fratture? Insom­
ma, se di vera democrazia doveva trattarsi, si poteva ritenere
che essa fosse già acquisita alla fìne della guerra, quando le pro­
ve di intolleranza e il soverchio ideologizzare sembravano oscu­
rare anche la coscienza di molti? Diffidava pertanto delle posi­
zioni estretne al punto da temere che non ci fosse nel paese la
<<maturità» sufficiente per accettare una democrazia repubblicana
e che i partiti non sarebbero riusciti a «domare nella vita sociale
lo spirito di violenza, che prepara la dittatura totalitaria». De
Gasperi però non spingeva le sue perplessità sino al punto di
inalberare come bandiera del partito l'anticomunismo. È noto
il passo della sua lettera a Sturzo del 12 novembre 1944:
<<Gran parte del paese è anticomunista, ma non è sulla base dell'anti­
comunismo che noi possiamo radunare le forze, altrimenti correremo
il rischio di confonderci con correnti reazionarie».
Ed ecco il suo rebus, come lo riassumeva a Sturzo:
«Come impedire l'avvento di una maggioranza socialcomunista, quin­
di non buttare verso des tra l a frazione cattolica conservatrice?».
S turzo non condivideva queste perplessità: non pensava che
il partito si sarebbe spezzato sulla questione istituzionale. I suoi
dubbi erano diversi: che il prolungato agnosticismo del partito
sulla questione istituzionale sarebbe andato a vantaggio delle si­
nistre e che la democrazia cristiana sarebbe stata rigettata tutta
a destra perdendo il paese {lettera del 17 aprile 1946 da New
York) . I fatti dettero ragione alle valutazioni molto prudenti e
caute di De Gasperi, valutazioni che tenevano conto non solo
degli umori della gerarchia ecclesiastica e in generale del mondo
cattolico, ma anche di larghi strati sociali del paese; si pensi sol-
153
tanto al voto del Mezzogiorno, su cui la monarchia avrebbe po­
tuto contare come grande riserva conservatrice. In altre parole,
De Gasperl rimandava al paese il momento di una scelta, che ri­
teneva che il partito non avrebbe potuto anticipare senza correre
il rischio di dividersi.
4 . In De Gasperi, ma anche in molta parte della classe poli­
tica che fu già aventiniana, era vivo il ricordo della tragedia del
fascismo e della debolezza dello Stato liberale, che aveva favo­
rito l'impunità allo squadrismo. Nei discorsi degli uomini politici
del tempo , da Togliatti a Nenni a La Malfa a De Gasperi a Sa­
ragat, è possibile raccogliere un 'infinità di riferimenti agli errori
dei partiti democratici prima dell'avvento del fascismo. Ma che
questi rifer imenti non fossero retorici e che agissero nella mente
di De Gasperi anche nell'azione interna di governo, possiamo ri­
levare dalla lettura dei verbali del Consiglio dei ministri. Strana
impressione può farci la lettura di questi resoconti degli anni tra
il 1945-47 ; c'è una bozza scritta a mano, alla buona, con molta
ingenuità di scrittura, una grafia per lo più larga, tirata via; c'è
poi la trascrizione a macchina, su carta, spesso grezza, che non
dà ancora l'idea di un ufficio moderno, attrezzato tecnicamente .
Dalle carte spira un'aria quasi familiare, fatta eli semplicità e im­
mediatezza, si direbbe «giolittiana», del buon tempo antico. Chi
trascrive non conosce certo la stenografia, riassun1e o prende ap­
punti come meglio può, ma dobbiamo presumere che, con1unque
sia, i membri del Consiglio dei ministri abbiano riletto i loro in­
terventi. Il testo dei verbali consente di vedere nelle formule
adoperate, nelle ripetizioni e insistenz� di certe espressioni, nei
richiami più frequenti della memoria, che si trovano sparsi qui
e n, il n1odo stesso di valutare gli avvenimenti, i criteri logici,
la mentalità, le consuetudini lessicali dei protagonisti.
Tutto ciò ci riporta a un problema storico di non scarsa im­
portanza : come dobbiamo considerare l'età dei governi degaspe­
riani, dal 1946 al1953, come un prolungamento , una ripresa o
una restaurazione dei temi politici, che furono del periodo pre­
fascista? In al tre parole, quale peso hanno avuto in uomini come
De Gasperi , Togliatti, Nenni, La Malfa, Saragat il ricordo del fa­
scismo, degli anni drammatici del primo dopoguerra, la visione
della crisi e del disfacimento graduale, ma irreversibile dello Sta­
to liberale?
Rileggendo i discorsi di De Gasperi, vi avvertiamo l'eco delle
preoccupazioni proprie di chi aveva compiuto l'esperienza aven154
tiniana: la difesa dell'autorità dello Stato e delle regole della de­
mocrazia , l'esercizio delle libertà politiche e di tutte le forme di
tol leranza civile, la ricerca più larga delle intese interpartitiche
sulle questioni fondamentali inerenti alla stabilità e continuità
del nuovo Stato. Tali preoccupazioni vengono prima di ogni al­
tra. Non c'è una tendenza alla progettualità, alla elaborazione di
politiche pianificatrici; anzi qui la diffidenza è massima, per i l ti­
more che suscita il ricordo della pratica dirigista dei governi tota­
litari. C'è un raccordo tra questa <<politica dell'esperienza» che si
lega alla lezione del passato, e la nuova incandescente realtà socia­
le, emersa dalla guerra di liberazione? Nella incertezza poli tica
generale, punteggiata da tentativi locali insurrezionali, con lo
sguardo vigile e spesso diffidente degli alleati sulla sorte del no­
stro paese, privo ancora di serie prospettive politiche, De Ga­
speri utilizzò e tradusse in termini di statualità compartecipata,
os ia con la collaborazione, pur contrastata, ma decisiva dei par­
titi del CLN l'apporto civile e patriottjco della Resistenza, ricon­
ducendo nell'ambito della normalità democratica con mano fer­
ma senza tatticismi e con una lucidità che si conferma anche nei
suoi interventi al Consiglio dei Ministri, una situazione eccezio­
nale e convulsa che metteva in forse la nostra credibilità presso
gli alleati.
Il nome di Facta viene rievocato come segno di un errore,
che non si deve ripetere, diventa il segno di una situazione em­
blen1atica di resa davanti alla violenza organizzata: rievoca i ri­
schi di una democrazia senza autorità, senza Stato, senza legge.
«Fare la fine e la figura di Facta» ripete spesso De Gasperi,
nei primi anni del suo governo, quando al Nord erano frequenti
gli episodi di into1Ieranza e di insubordinazione armata:
«lo non ho nessuna intenzione di fare questa fine (di Facta), anche
se qualche collega fosse disposto a transigere - leggiamo nel verbale
del 29 agosto 19�6 -. L'insubordinazione armata deve essere condan­
nata. Chiudere gli occhi su ciò non possiamo. Con che ragionamento
e con che forze potremo oramai andare contro ad eventuali ricosti­
tuite squadre fasciste? Si tratta di agire prudentemente, ma di agire
e che lo Stato lo dica. Bisogna dire chiaramente che lo Stato vigilerà
e agirà al momento opportuno. Questo deve sentire il paese dove oggi
mol ri pensano che ci si trovi di nuovo dinanzi ad una situazione alla
Facto [ ] . Nell'altro dopoguerra abbiamo perduto la partita perché
abbiamo troppo creduto nella fortezza della libertà. Bisogna partire
inizialmente e prudentemente da una concezione pessimistica. Niente
di improvvisato, niente di esagerato, ma dare la sensazione che si è
presen tl».
. . .
•
155
Il giorno dopo, il 28 agosto, alla notizia di nuove insubordinaz1on1 armate torna a npetere:
•
•
•
«Senza fare grosse le cose, sembra però eli essere in un atmosfera di
ante-marcia su Roma>>.
'
Lo Stato indulgente, permissivo anche verso coloro che si
erano battuti nella Resistenza e che stentavano a rientrare nel­
l'ordine democratico, era lontano dalla sua mente. I n questa di­
fesa dell 'autorità dello Stato, come si è detto, non voleva essere
solo, chiedeva la collaborazione anche degli altri partiti di massa.
Anche nella questione dell'autonomia siciliana e del pericolo
di una reazione monarchica De Gasperi si mantenne fermo, in­
vitando anche i partiti della sinistra alla coerenza con le leggi del­
la detnocrazia. Allorché nella seduta del Consiglio dei Ministri
del 26 febbraio 194 7 i socialisti Cacciatore e Romita manifesta­
rono preoccupazioni sul possibile esito delle elezioni siciliane del
20 aprile - riaffiorava lo spettro del separatismo insieme con il
rischio di un risultato monarchico- De Gasperi capì che la discus­
sione avrebbe potuto «trascinare a discutere di nuovo della con­
cessa autonomia» . Quindi aggiunse :
«Non si arriverebbe 1nai in Italia alla concessione di autonomie se si
partisse da preoccupazioni unitarie. Siccome lo statuto siciliano è st a­
to concesso, è impossibile, oltreché inopportuno tornare indietro [ . ].
Si potrà sempre trattare meglio con un'Assemblea regolare che non
con comitati o masse di agitazioni. Ma non può mettersi in discussio­
ne l'autonomia».
. .
De Gasperi ritenne
«assolutatnente pericoloso il rinvio [ dellè elezioni] proprio dal punto
di vista nazionale; anche se le elezioni e l'Assemblea regionale [ pote­
vano] portarci ad affrontare qualche rischio» 2•
Lo Stato in quel che erano i suoi fondatnenti - il rispetto del­
la legge per tutti, senza privilegi , l'elaborazione della carta costi­
tuzionale, la firma del trattato di pace, il rispetto delle autono­
mie - non sarebbe stato il risultato di una parte, non sarebbe
stato il risultato di una scelta puramente elettorale, il prodotto
di una parte vincitrice sull'altra, sarebbe stato invece l'espres­
sione di una volontà il più possibile omogenea, di tutti i partiti
che avevano partecipato alla guerra di liberazione: dentocrnzia
consociativa, si potrebbe dire, nelle questioni che coinvolgbno
una responsabilità di lunga durata, e democrazia circoscritta nei
rispettivi ruoli di maggioranza e minoranza nelle questioni che
156
dividevano i partiti nelle scelte economiche e nella politica delle
alleanze internazionali 3• Credo che questa chiarezza nella defini­
zione dei ruoli, alla quale collaborarono gli stessi protagonisti
dell'opposizione, da Togliatti a Nenni, con ciò recando un pre­
zioso contributo anche di cultura alla fondazione del nuovo Sta­
to repubblicano, abbia concorso a dare al paese e ai ceti pro­
duttivi quel senso di fiducia nella stabilità dello Stato, necessa­
ria premessa di ogni sforzo ricostruttivo. Alcide De Gasperi non
avrebbe potuto immaginare quale sarebbe stata l 'evoluzione di
questo Stato, e nemmeno come si sarebbe modificato il rapporto
tra industria e agricoltura e il ruolo che nello sviluppo economi­
co avrebbero potuto esercitare le partecipazioni statali. Tuttavia
è singolare il fatto che con De Gasperi, che aveva conosciuto i
ritmi molto più lenti, artigianali e familiari dell'economia delle
valli trentine e che uscl dagli anni del fascismo con una profon­
da diffidenza verso ogni forma di dirigismo, si siano incomincia ti
a registrare quegli incrementi della produzione industriale, che
dal1949 in poi hanno trasformato profondamente l'economia del
paese, con un ritmo e un'ampiezza doppi rispetto a quelli dei pe­
riodi precedenti, inclusi gli anni più redditizi, tra i l 1897 e il
1 9 1 3 . Sviluppo rapido, persino tumultuoso, spesso incontrolla­
to, con implicazioni anche degenerative del costume pubblico,
fitto di contraddizioni e acuti squilibri interni e di confusioni tra
pubblico e privato, che trovarono, come sappiamo, un severo ma
inascoltato censore i n Luigi Sturzo. Comunque sia, l'Italia inco­
minciò a cambiare in quegli anni e nel clima di una volontà ti­
costruttiva, che fu più importante del successivo «miracolo eco­
nomico» e che non sarebbe stata possibile senza alcune scelte fon­
damentali nella politica estera: senza la liquidazione del fardello
del trattato di pace, senza l'adesione al piano Marshall, senza una
politica di apertura dei mercati, senza l 'adesione pronta ai pro­
getti di unificazione europea non ci sarebbe stata nessuna ricostruz1one.
•
5 . De Gasperi non aveva il gusto delle strategie politiche,
il suo linguaggio era asciutto, scarno, spesso faticoso, talvolta
denunciava cadute lessicali; i suoi discorsi non si prestano a una
elaborazione teorica, non offrono pretesti per costruire una con­
cezione dello Stato, del partito e della società civile. De Gasperi
non amava indugiare nelle perorazioni ideologiche, tuttavia aveva
chiare la distinzione dei ruoli e le priorità politiche, come po­
chi altri politici hanno avuto nella storia politica del nostro pae-
157
se . La lettura dei verbali del Consiglio dei ministri conferma an­
cora una volta l 'essenzialità della politica degasperiana, nell'atto
stesso del suo operare da statista: il verbale del 29 agosto 1946,
quando il problema del trattato di pace era ancora aperto recita
COSI:
'
«Interviene il Presidente osservando e ammonendo che non si può
pretendere di risolvere in qualche settimana tutti i problemi gravis­
simi che incombono allo Stato. Se si arrivasse a sistemare il trattato
di pace e si riuscisse a difendere la moneta sarebbe già molto. Egli
difende il governo. Le altre questioni, pur gravi, sono secondarie di
fronte al problen1a della pace e della moneta. Lavori pubblici, disoc­
cupazione ed altri problen1i verranno dopo: uno alla volta».
Il partito comunista e i suoi ministri sostennero l 'azione di
De Gasperi per arrivare alla firma del trattato : ogni rinvio era
temuto per i riflessi che poteva avere sulla situazione interna e
sulla stessa situazione economica del paese. Scoccimarro critica­
va gli alleati perché non tenevano conto della nostra cobellige­
ranza. La situazione era particolarmente difficile per De Gasperi,
dopo che si conobbero le clausole del trattato, che spinsero lo
Stato tnaggiore a sconsigliarne la firma. Nella seduta del 31 lu­
glio 1 946, illustrando il trattato, De Gasperi rilevò che le clau­
sole economiche imponevano «oneri positivi e negativi», pre­
scindevano dalle nostre capacità, non tenevano conto della co­
belligeranza.
<<L'Italia affermò De Gasperl - non potrebbe riacquistare un equi­
librio economico stabile».
-
.L�lcune clausole consentivano il sequestro dei beni italiani al­
l'estero da parte degli alleati, oltre la rinuncia a tutti i beni in
Etiopia e in Albania, il che avrebbe contribuito «ad un indebito
arricchimento» perché quei beni superavano qualsiasi danno che
potevano avere ricevuto quei paesi dall'Italia. Il nostro paese
avrebbe dovuto rinunciare anche ad ogni credito verso la Ger­
mania, il che avrebbe procurato «una gravissima e irreparabile
crisi della nostra economia» . De Gasperi si aspettava che sul ter­
reno economico l'Italia avrebbe potuto trovare «maggiore appog­
gio presso la Russia», la quale non aveva interesse « a che l'In­
ghilterra ci �annegasse' nel Mediterraneo » . Scoccimarro fu d'ac­
cordo su tutta la linea con De Gasperi, anche nella critica alla ri­
nuncia dei beni in Albania ed Etiopia, che defìnl «un vero atto
di pirateria». Pensava che con quelle clausole gli alleati volessero
mettere «l'Italia in una condizione di perenne travaglio e di im-
158
possibilità di costituire un regime democratico» . Morandi teme­
va «una reazione di carattere nazionalistico» nel paese e consi­
gliava di non «perdere il senso della realtà» .
«L'Italia- diceva- dipende dai rifornimenti e dai finanziamenti ame­
ricani. Non possiamo lasciarci trascinare da reazioni sentimentali».
Nonostante tutto, questa idea che il rinvio o il rifiuto della fir­
ma potesse arrecare ulteriore pregiudizio all'Italia e pregiudicare
i rifornimenti economici ricorre in tutti i consigli dei ministri
fino alla partenza di De Gasperi per Parigi. Le riserve gli venne­
ro non dai comunisti o dai socialisti, ma dagli uomini del suo
stesso partito, dai tninistri Gonella e Scelba. La seduta del 6 feb­
braio, nella quale De Gasperi richiese una specie di investitura
collegiale a firmare, fu tra le più vivaci. Secondo Gonella, la que­
stione de lla firma avrebbe dovuto portarsi avanti all'Assen1blea
Costituente. Propose inoltre che nelle riserve elevate al mon1en­
to della firma si facesse appello ai parlamentari dei popoli liberi
perché non ratificassero il trattato. Sereni per il partito con1uni­
sta, d'accordo con De Gasperi per la firma, manifestò il timore
«che l'appello ai parlamentari dei vincitori (potesse) crearci dif­
ficoltà».
Scelba era contrario alla firma, ma anche se questa fosse sta­
ta autorizzata, chiedeva che ci fosse un voto esplicito dell'Assem­
blea, che ne legasse la sua «corresponsabilità», respinse energi­
camente la tesi di Morandi, che il governo si era costituito con il
compito di firmare il trattato:
«Se cosl fosse stato - aggiunse - non avrebbe accettato di parteci­
parvi. Nessuno si ritiene vincolato alla disciplina eli partito. Egli agi­
rà come cittadino a seconda della propria coscienza. Nega che l'Italia
abbia il dovere assoluto eli firmare il trattato. Possiamo, ritiene, fir­
mare sotto la condizione del riconoscimento del nostro diritto alla
revisione delle clausole del Trattato».
La posizione di Scelba era anche quella di Sturzo, contrario
alla firma e convinto che gli Stati Uniti non ci avrebbero fatto
mancare perciò il loro aiuto 4• Forse anche De Gas peri come Scel­
ba, come Go nella, come Sturzo, pensava che la mancata firma non
avrebbe pregiudicato i rapporti con gli Stati Uniti; ma egli non
poteva non prendere atto del fatto che i Quattro grandi erano
d'accordo e che non si aprivano varchi per dividerli. C'era, a suo
parere, anche il rischio che, senza il trattato, l'Italia rimanesse
sul piano internazionale con le mani legate, nella condizione di
paese responsabile della guerra e sconfitto. Per questi motivi la
159
fuma del trattato era atto, secondo De Gasperi, di tale impor­
tanza politica da coinvolgere necessariamente la responsabilità
eli tutti i partiti. Occorreva presentarsi davanti al paese e al mon­
do uniti, e gli sembrava inutile illusione coprire con un voto del­
l 'Assemblea <<la responsabilità totale del governo» ( verb. 6 feb­
braio 1 94 7 ) .
Dovremmo considerare la fuma del trattato di pace fra gli
atti più lungimiranti della politica degasperiana: senza i l trattato
eli pace l'Italia sembrò a lui una nazione dalla soggettività poli­
tica menomata, uno Stato con il segno negativo, costretto a par­
lare fuori dall'uscio delle grandi cancellerie o per delega. L'ami­
cizia con gli Stati Uniti non avrebbe mai colmato la menomazio­
ne di questo Stato, anzi avrebbe rischiato di aumentarla. L'Italia
doveva essere Stato in senso pieno, per assumere qualsiasi inizia­
ti va su terreno internazionale. La guerra fredda molte volte ci ha
dato un 'immagine di De Gasperi, che non è la sua: il suo rap­
porto con gli alleati, in particolare con gli Stati Uniti, non fu a
senso unico, non fu senza attriti e confronti, fu molto più com­
plesso di quanto la pubblicistica politica del tempo abbia mai po­
tuto sospettare .
6. La crisi del tripartito, vista dall'interno del Consiglio dei
Mini stri, è ben lontana dal rivestire un aspetto traumatico. Le
sinistre si lasciano condurre per mano fuori dal governo, escono
senza sbattere le porte. Le pressioni della CGIL, impegnata a
difendere l'occupazione e i salari contro lo sblocco dei licenzia­
menti, mentre i partiti della sinistra erano condizionati dagli im­
pegni di governo, ebbero il loro peso. Dal canto suo, il governo
è fatto oggetto di forti critiche dalla destra, che chiedeva una po­
litica economica volta a favorire la libera intrapresa, il «quarto
partito», come lo definiva il presidente della Confindustria di
allora, Angelo Costa, composto da «coloro che dispongono del
danaro e della forza economica» . Pietro Scoppola ha già soste*
nuto con buoni argomenti che De Gasperi non concordò con gli
americani l 'estromissione delle sinistre dal governo, anche se si
rendeva conto che l'uscita dei comunisti dal governo avrebbe fa­
vorito l'afflusso di aiuti americani . De Gasperi non fece mistero
di questo suo convincimento in seno al governo, all'epoca della
nussione di I van Matteo Lombardo negli usA. Nel verbale del
Consiglio dei Ministri del 30 aprile 1 94 7, dodici giorni prima
della crisi, si attribuisce a De Gasperi questo intervento:
160
-<<La situazione interna oltre-oceano si è anzi maggiormente orientata
verso destra colla vittoria elettorale dei repubblicani [ .. ]. Se noi po­
tessimo dare in Italia un senso di una reale maggiore unità, anche la
missione Lombardo sarebbe facilitata. Se riuscissimo ad attenuare le
critiche cosl clamorose della opposizione di destra imbarcando a bor­
-do qualche uomo di detta corrente, la cosa riuscirebbe utile sotto
questo aspetto. L'America vuole trovare in noi la stabilità democra­
tica'. Il dire t tore della FIAT, ing. Valletta, ora ritornat o dagli Stati
Uniti, mi ha confermato questa impressione. Ecco perché ritengo uti­
le e necessario imbarcare nel ministero qualche elemento tecnico-fi­
nanziario delle destre».
.
c
Sembra che il problema fosse per De Gasperi i n quel momen­
to di ottenere l'avallo anche delle sinistre alla proposta di « imbar­
care» nel governo un « tecnico finanziario» gradito alle destre.
Anche Vanoni gli dette una mano nel sostenere la tesi dell' allar­
gamento del governo ad una presenza tecnica:
«La situazione non ofire elasticità: vi è una sola strada. Abbiamo
di fronte la minaccia dell'inflazione. Subiamo una enorme divergenza
fra le masse del reddito e le necessità delle spese. Manca l'afBuenza
del credito allo Stato. Inoltre è 1nancata fino l'unità di intenti e di
azione da parte del governo. Dannosa è stata ed è la minaccia di na·
zionalizzazione delle industrie elettriche, mentre occorre il finanzia·
mento dei privati che invece allarmiamo».
Ancora il 7 marzo niente lascia presupporre che si arriverà
all'uscita delle sinistre dal governo e alla fine del tripartito. Dal
resoconto del Consiglio dei Ministri appare che Togliatti «non
ha avanzato eccezioni per un allargamento della base del governo,
specie per la partecipazione di elementi tecnici» . Pietro Nenni
si è mostrato «più riservato» . De Gasperi si dice «maggiormente
persuaso dell'opportunità di creare una zona di tregua e di col­
laborazione attorno al problema economico e finanziario» . In­
siste sull'aspetto finanziario, non politico, della crisi che attra­
versa il paese :
«De Gasperi ammonisce ancora uomini e partiti che non hanno la
sensazione della gravissima realtà, quasi tragica, del momento e del­
l'avvenire. È la ragione finanziaria che dà la paralisi del Paese, non
già quella politica. Abbiamo ancora due mesi di tempo. In questo
tempo tutti gli esperimenti possono essere fatti per una collabora­
zione fattiva al tentativo di salvezza».
Non si discute della formula politica, né della qualità e pro­
spettiva del nuovo «esperimento», in cui vagamente tutti concor­
dano : nessuno, forse per timore di ciò che non si vuole vedere,
161
azzarda un'analisi più a fondo, invitando a scoprire le carte. Per­
sino nella seduta del12 maggio, che è quella delle dimissioni del
governo, tutto sembra procedere nella massima concordia. Leg­
giamo nel verbale del Consiglio dei Ministri:
«De Gasperi : abbiamo bisogno comunque di un supplemento di fi­
ducia generale. Non pensa assolutamente a creare una composizione
che possa mettere in minoranza gli elementi democratici che espri­
mono l a volontà della n1aggioranza degli elettori. Ma crede rendere
un servizio alla democrazia tentando di ottenere l a collaborazione an­
che di altre forze, specie economiche e finanziarie. Sia ben chiaro che
l a sua persona è fuori gioco : che De Gasperi entri ovvero non entri
nella nuova combinazione è cosa del tutto secondaria. Ritiene che
questa parola possa essere detta dali,Asse1nblea [ ... ] . Sereni dà atto
della perfetta lealtà colla quale ha agito il Presidente nei riguardi dei
colleghi e dei partiti; concorda nella inutilità e inopportunità di ùna
relazione dei Ministri Morandi e Campilli. Concorda colla procedura
seguita da De Gasperi. Ritiene che nessuno - salvo Lucifero e pochi
altri - affermerebbe di avere una politica economica da seguire, di­
versa da quella seguita dall'attuale governo. Morandi fa alcune
riserve sugli sbocchi di questa operazione politico-parlamentare e sul­
la procedura proposta dal Pres., pur apprezzando le buone intenzioni
del Pres. Avrebbe desiderato poter fìn d'ora conoscere l a fisionomia
della combinazione da lui vagheggiata».
Quando De Gasperi afferma di non volere creare «una com­
posizione che possa mettere in minoranza gli elementi den1ocra­
tici», non esclude le sinistre, che erano presenti nel Consiglio dei
Ministri . Il rappresentante comunista Sereni dà atto della << per­
fetta lealtà» con la quale ha agito De Gasperi, in pil.1 aggiunge
di non vedere persona che abbia una diversa politica economica
finanziaria da proporre. Chi sembra' insospettirsi e avanzare ri­
serve è il Ministro socialista Rodolfo Morandi: riserve che si tra­
muteranno subito ne1la delibera dell'esecutivo del partito socia­
lista, che confermerà le riserve sull'azione di De Gasperi 5, il
quale, a questo punto, ha i giochi facilitati, rompe gli indugi, non
si presenta all 'Assemblea e si dimette. Ancora una volta Sereni,
nell'ultima seduta del Consiglio dei Ministri del 1 3 maggio, cer­
ca di mantenere un ponte con De Gasperi:
<<Dubito - si legge nel verbale - che il Paese non comprenda le ra�
gioni delle dimissioni e finisca col ritenere che il governo ha cercato
di sfuggire alla discussione. Ritiene e dà atto che il tentativo fatto dal
Presidente possa anche giungere a conclusioni utili. Avrebbe prefe­
rito che il Presidente facesse all'Assemblea le dichiarazioni ieri con­
cordate e che avevano avuto il consenso del gabinetto».
162
Dunque, non ci sembra che De Gasperi abbia affrontato la
situazione con un disegno politico preordinato. Il suo comporta­
mento come presidente del Consiglio lascia almeno intravvedere
una sua disponibilità ad accontentare la destra economica anche
con il sostegno delle sinistre, semmai trattando sull'ingresso ne]
governo del « tecnico-finanziario», che fu poi Luigi Einaudi. Che
egli preferisse arrivare a una soluzione netta e definitiva con l'e­
stromissione delle sinistre dal governo, è probabile, almeno stan­
do a quanto confidava l 'ambasciatore Tarchiani al responsabile
degli affari italiani al Dipartimento di Stato 6 : ma De Gasperi si
preoccupò di non assumersi la responsabilità di una decisione cosl
grave; operò tenendo il 1nassimo conto del comportamento degli
altri, pronto a sfruttarne gli errori. Che i comunisti fossero dispo­
sti a continuare nella collaborazione al governo, pur riservandosi
sulla piazza di criticarne la politica, non può essere negato, ma
quali garanzie avrebbero potuto dare di «stabilità democratica»
in una situazione come quella della primavera del 1947, che già
scivolava sul piano inclinato della guerra fredda? Senza contare
che la borghesia imprenditoriale italiana, la massa dei risparmia­
tori, gli operatori economici erano pronti ad allarmarsi ed a te­
mere il peggio ad ogni annuncio di provvedimenti o leggi dirigi­
stiche o in qualche modo pianificatrici. Alla ne si chiedeva la
garanzia di una coerenza anche formale con le scelte di poli tica
economica, ispirate agli interessi del «quarto partito» .
Non potremmo collocare nella stessa prospettiva della demo­
crazia consociativa l 'operazione elettorale del 1 8 aprile 1948.
Non fu in ballo allora la struttura dello Stato repubblicano, quale
risultò codificata nella nuova Costituzione, ma la continuazione
in maniera più organica e stabile di quella politica centrista, di
cui la Democrazia Cristiana si era oramai resa garante. In più,
non va trascurato il fattore internazionale ( i fatti di Praga), che
dette alla consultazione anche il senso di una scelta storica, a fa­
vore della democrazia occidentale e della tradizione liberale.
7 . La scelta europeistica deve essere collegata alla valutazione
che De Gasperi dette dell'opportunità della firma del trattato. Del
resto egli stesso ci ha dato la chiave per capire il legame tra la
fìrn1a del trattato e l'impegno per la ricerca di un'organizzazione
unitaria europea. Disse a Bruxelles, all'incirca un anno dopo la
firma del trattato:
<< Quanto a noi, in Italia, fu appunto questa speranza di rinnovamento
e di ricostruzione europea che ci infuse la forza d'animo necessaria
163
ad eseguire un trattato di pace che, appena imposto, apparve anacro­
nistico e superato».
Più di trent'anni sono passati da quando Alcide De Gasperi,
affiancandosi a Robert Schuman e a Konrad Adenauer, ingaggiò
la battaglia per promuovere l'unità europea. Si disse allora che
l'intesa tra De Gasperi, Schuman e Adenauer mirava a ricreare
una specie di nuova Europa carolingia, una specie di struttura
federativa neoguelfa, cementata e sorretta, invece che dalla be­
nedizione del Papa, dai partiti ne europei. Si viveva in pieno
clima di guerra fredda, e tutti i sospetti e le fantasie erano pos­
sibili sui propositi dei tre statisti, per altro amici dell'America
di Truman .
Può darsi che questa idea di una Europa carolingia, che par­
tiva dalla base territoriale cos tituita dall'antica Lotaringia, ab­
bia sollecitato l a mente di qualche nostalgico. Nel quadro dei
rapporti internazionali del tempo, nel quale il bipolarismo si an­
dava sempre più drammaticamente accentuando, un linguaggio
della Restaurazione poteva sedurre quanti cercavano un'Europa­
rifugio, fuori dalla minaccia comunista, ma anche al riparo da
una modernizzazione atlantica e protestantica insieme. Ma era ve­
ramente assurdo assegnare uno spazio politico all'immagine di
una seconda Restaurazione, dopo quella viennese della Santa Al­
leanza, in un ambiente culturale, politico, sociale tanto lontano
e diverso, nel quale, strategia sovietica a parte, l'internazionali­
smo operaio occupava un posto di prima fila. Ebbe perciò buon
gioco De Gasperi nel disfarsi di ogni accusa di nostalgia in occa­
sione di un'importante tavola rotonda che si svolse a Roma il 13
ottobre 1953:
l
«Prima ancora che infondata - disse allora - quest'accusa è sciocca».
E un mese dopo ribadiva:
«Non medievalismo ammodernato, né angustia di parte ci muove» .
Ma ecco il brano di un discorso che pronunciò qualche mese
prima della morte :
«Se con Toynbee io affermo che all'origine di questa civiltà euro­
pea si trova il cristianesimo, non intendo con ciò introdurre alcun
criterio confessionale esclusivo nell'apprezzamento della nostra sto­
ria. Solo voglio parlare del retaggio europeo comune, di quella! mo­
rale unitaria che esalta la figura e la responsabilità della persona uma­
na col suo fermento di fraternità evangelica, col suo culto del diritto,
ereditato dagli antichi, col suo culto della bellezza affinatosi attraverso
164
i secoli, con la sua volontà di verità e di giustizia acuita da un'espe­
rienza millenaria».
Niente confessionalismo, niente ipotesi carolingia, però ricer­
ca di un'anima che avrebbe potuto dare una giustificazione idea­
le, spirituale all'impegno europeistico, qualcosa che assomiglia
più all'appello crociano del l 943 del «perché non possiamo non
dirci cristiani» che a un'ispirazione restaurativa o neo-carolingia .
Indubbiamente l'accento era posto più sull'elen1ento spirituale
che su quello stn1tturale ed economico : ma questa spiritualità
era laica, nel senso più ampio del termine, era dinamica, non se­
gno di privi legi , perché tendeva a superare le barriere nazionali
e a cercare quel che v'era di cotnune, di irrinunciabile, di valido
in maniera permanente nella storia di tutti i popoli. Lo sguardo
di De Gasperi si è fatto più penetrante, la sua religiosità non si
misura più con l 'economia del villaggio trentina, ha acquistato
uno spessore antropologico ed esistenziale, che i contemporanei
stentarono ad afferrare. Ci possiamo chiedere a questo punto se le
radici di questo europeismo sono nell'esperienza che De Gaspe­
ri fece sotto la monarchia plurinazionale degli Asburgo. I n parte
è vero, ma non certo nel senso che egli abbia idealizzato quella
monarchia . Egli fu sempre consapevole che le ineguaglianze in1poste dalla monarchia austriaca avevano reso impossibile la con­
vivenza di più popoli: da qui la convinzione di De Gasperi che
il superamento degli egoismi nazionali doveva avvenire per la via
della democrazia, con i l pieno riconoscimento del diritto dei po­
poli alla libertà. D'altra parte, i cattolici e sotto l'Austria e negli
altri Stati non avevano mai brillato per spirito europeo . In un
discorso che tenne al Senato nel 1 950, De Gasperi fece questa
in1portante affermazione:
«I cattolici allora erano in gran parte un mondo circoscritto ai pro­
blenli nazionali dei singoli paesi oppure quando si trattava di politica
generale , di politica europea, non avevano una linea propria e si per­
devano dietro concezioni di carattere, chiamiamolo cosl, starei per di­
re, reazionario, di visione medioevale».
Per la prima volta nella storia del cattolicesimo europeo la
visione cattolica dei problemi europei non era sinonimo di vi­
sione controrivoluzionaria, di neo-medievalismo ecclesiastico, di
baluardo confessionale contro i l mondo moderno, n1a sinonimo
di una scelta democratica ispirata al comune retaggio spirituale
europeo.
165
Quando De Gasperi incominciò a parlare eli un'unità euro­
pea, non gli mancò il consenso di Sturzo. Su un punto però Stur­
zo ebbe da ridire. Perché il baricentro dell'unità europea avreb­
be dovuto essere al Nord? Egli avrebbe voluto spostarlo verso il
bacino mediterraneo. Bisogna tenere conto - scrisse nel luglio
del 1958 - «del mondo spiritualmente e storicamente che è nel
Sud, che bagna le sponde nel Mediterraneo, dove ancor oggi, e
con notevole effetto, si sentono gli echi di Atene e di Roma, di
Siracusa e di Cartagine, di Tessalonica, Alessandria, Bisanzio, Ce­
sarea» . Nella perorazione sturziana a favore di una collocazione
più a Sud del centro della comunità europea si sente l a passione
del vecchio meridionalista, il politico che dagli anni siciliani non
aveva smesso di ritenere che l'economia del Mezzogiorno dovesse
svilupparsi nell'ambito mediterraneo. Questi suoi richiami al­
l'entità storica e culturale più antica del Sud, che a noi possono
dare l 'i mpressione di retorica, facevano parte del suo retroterra
culturale e civile, scaturivano dalla sua idea dello sviluppo dua­
listico del nostro paese. In quel rapido excursus storico dobbiamo
leggere il timore che la comunità europea potesse essere attratta
dalle leggi del mercato e dello sviluppo dei paesi più forti e che
ancora una volta le regioni del Nord sarebbero state le aree pri­
vilegiate per gli investimenti; temeva infine che il Mezzogiorno
potesse configurarsi come un'appendice, una sacca parassitaria,
un angolo morto dell 'economia capitalistica dei paesi più avanzat1 econom1camente.
•
•
8 . Altri convincimenti politici, frutto della lunga esperienza
dalla prima alla seconda guerra mondiale, sollecitarono l a scelta
europeistica di Alcide De Gasperi. Aqzitutto, la sua idea che oc­
corresse in Europa un altro tipo di Stato, diverso da quello, per
esetnpio, che si era formato in Italia negli anni della Triplice al­
leanza, allorché la rivoluzione liberale incominciò a modificare
il rapporto ancien régime tra agricoltura e industria, avvicinando
la nostra econon1ia, con l'appoggio delle dottrine protezionisti­
che, al modello tedesco dello sviluppo. De Gasperi non aveva
mentalità da economista, tuttavia egli, come d'altra parte molti
uomini politici che venivano dal pre-fascismo, riteneva il prote­
zionismo una pratica economica sbagliata, che faceva parte inte­
grante dell'ideologia nazionalistica. Non a caso, proprio a Bru­
xelles, De Gasperi richiamò l a tradizione antistatalistica dei cat­
tolici belgi. Insomma, gli fu chiaro che ogni progettazione euro­
peistica avrebbe dovuto implicare una riduzione della sovranità
degli Stati e una opzione più liberale in economia. Non ci sarebbe
166
stato ulteriore sviluppo nel nostro paese, se la sua economia fosse
rimasta chiusa nel proprio ambito interno e ci si fosse continuati
a illudere sul ritorno a un 'economia agraria, anche se più razio­
nalizzata e sfrondata dal peso delle anacronistiche strutture lati­
fondistiche. Nel clima dei processi alle responsabilità della indu­
stria, che ilnperversava nei primi anni della liberazione, questa
prospettiva era tutt'altro che chimerica. Certamente De Gasperi
non previde l'accelerazione che sarebbe sopravvenuta nel nostro
sviluppo economico, una volta smontate le bardature protezioni­
stiche e immessa la nostra economia entro le leggi della concor­
renzialità del mercato europeo, che doveva tutto puntare sulla
modernizzazione tecnologica: tuttavia l 'idea d i una liberalizza­
zione della nostra econon1ia, come connotazione originale del
nuovo Stato, in un uomo che si era formato nel culto delle auto­
nomie locali e nell'avversione al dirigismo, era ben ferma. Ricor­
dando l'esperienza fascista De Gasperi disse ancora a Bruxelles :
«Si è creduto che in un grande Stato la giustizia sociale potesse avan­
zare e consolidarsi senza la libertà politica e ci si è illusi che le libertà
personali, familiari, sindacali e locali potessero salvarsi senza la libertà
politica>>.
Di qui la sua speranza che l'europeismo potesse fungere da
freno, da remota a ritorni totalitari, come anche alla marcia «del­
le forze isti ntive e irrazionali»: che le cose siano andate diversa­
mente non è certo imputabile a De Gasperi né allo Stato che nac­
que dall'in1pegno dei partiti del CLN. I moti istintivi e irraziona­
l i non sarebbero venuti dagli egoismi nazionali, come De Gasperi
aveva temuto, ma, come intuì molto più tardi Aldo Moro, dalla
crescente divaricazione tra potere statuale e società civile, dagli
eccessi di una modernizzazione che ha consumato rapidamente e
stravolto tutti quei modelli di vita e di convinzione che erano
ancora patrin1onio ideale della generazione di De Gasperi .
Infine, il fattore che più cementò l'amicizia fra De Gasperi,
Schuman e Adenauer fu la comune idea che il moto verso l'unità
europea avrebbe consentito finalmente i l superamento del vec­
chio antagonismo franco-tedesco . L'unità europea - sosteneva De
Gasperi - sarebbe stato il reagente efficace «a una funesta ere­
dità di guerre civili», «a questo alternarsi, cioè, di aggregazioni
e rivincite, di spirito egemonico , di avidità di ricchezze e di spa­
zio, dl anarchia e di tirannia, che ci ha lasciato la nostra storia» .
La unificazione degli eserciti nazionali avrebbe dovuto essere l'an­
tidoto a questi infausti ritorni.
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Rivedendo a uno a uno gli atti decisivi della politica di De
Gasperi possiamo ritenere che vennero proprio dalle sue valuta­
zioni europeistiche ovvero dalla visione che egli ebbe della col­
locazione del nostro paese nell'ambito della ricostruzione euro­
pea, gli impulsi più importanti a modificare il ruolo e l'aspetto
del nostro Stato. Non possiamo dire che la sua visione europei­
stica o meglio quanto egli credette realizzabile in senso comu­
nitario, non solo sul piano economico, ma anche su quello cul­
turale, abbia trovato attuazione; tuttavia, a mio avviso, resta mol­
to della sua lezione di statista di levatura europea: che gli Stati
non sopravvivono se essi perdono la libertà politica e che questa
libertà politica è cosa fragile come tutte le cose sacre e va pertan­
to tutelata con la severità della legge dai rischi delle manipolazio­
ni, aperte od oscure che siano, pubbliche o private, che continua­
lnente la insidiano.
Abbiamo parlato di età degasperiana, ma non vorremmo che
si pensasse a una separazione di questi anni dal processo storico,
economico e sociale, che ne seguì, come se si trattasse di una pa­
rentesi, di una stagione mitizzata: quell'età fu anche caratteriz­
zata dal clima della guerra fredda, da gravi conflitti sociali, e
dai nuovi crescenti squilibri tra Nord e Sud, che incisero forte­
mente anche nel linguaggio politico tra i partiti. Prevalsero anco­
ra per molto tempo le motivazioni ideologiche nelle lotte tra i par­
titi, nelle quali si riflettevano gli effetti del conflitto tra le gran­
di potenze. L'uso propagandistico di ogni scelta politica raramen­
te consentiva di vedere come il paese si stava trasformando. Allo
stalinismo massiccio, nelle forrne della coartazione zdanovista,
si opponevano talvolta le forme di una religiosità fanatica, di un
oscurantismo clericale vieto e anacrorustico, che contrastava con
i processi di razionalizzazione della vita economica pure in atto.
I segni del passato prefascista si andavano a mano a mano dile­
guando e incominciavano a delinearsi le forme di quella nuova
borghesia burocratica e manageriale, che avrebbe a poco a poco
avviluppato anche lo Stato degasperiano, alterandone la fisiono­
mia di base, con un'accentuazione degli aspetti assistenzialistici e
di pubblico e ramificato clientelismo, e con quella progressiva se­
parazione dalla dinamica della società civile, che agli inizi degli
anni '70 Aldo Moro vide con la chiarezza e la drammaticità del
veggente. Ma ll, nei pochi anni , pur fervidi di operosità e di vo­
lontà di rinascita, che fanno l'età degasperiana, noi oggi d�stin­
guiamo e riconosciamo i contorni del nuovo Stato che si stava
formando, con i suoi limiti, ma anche con le sue grandi positività
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politiche e culturali, di democrazia laica e repubblicana, per la
quale De Gasperi seppe lottare tenacemente con l'appoggio dei
partiti di tradizione risorgimentale, una democrazia chiusa ai
vecchi egoismi nazionali che erano sfociati nelle aberrazioni del­
l'autarchia, e aperta all'incontro con la nuova Europa uscita dal
secondo conflitto mondiale e che opera nell'area delle libere de­
mocrazie, alla quale egli stesso dette mano con una passione e
lungimiranza che allora non fu di molti .
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