Assistenti sociali e famiglie caregiver

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Assistenti sociali
e famiglie
caregiver
IN UN CONTESTO DI SERVIZI DOMICILIARI, PER
L’ASSISTENTE SOCIALE RESPONSABILE DEL CASO,
L’ESPLICITAZIONE DI UNA DESCRIZIONE DI SENSO DELLA
STORIA DELL’INCONTRO FAMIGLIA-SERVIZI È PARTE
INTEGRANTE DI UNA PRESA IN CARICO PROFESSIONALE,
PARTICOLARMENTE CRITICA RISPETTO ALLE FAMIGLIE CON
Campari assistente sociale *
GRAVI CARICHI ASSISTENZIALI. Angela
Giuseppina Parisi assistente sociale **
venti che possano essere riconosciuti
come utili e soddisfacenti da chi li riceve e da chi li offre? La possibilità di esercitare questi due ruoli connessi e diversificati tra loro è legata alla capacità
di gestire processi di progettazione e
valutazione, che nel sociale assumono
caratteristiche peculiari: ambientali,
strutturali, culturali e valoriali del settore.
Quello che troviamo utile è usare la
competenza professionale per cercare
di costruire nell’incontro servizi-anziano-famiglia logiche di analisi e valutazione che siano espressione di un confronto dialogico tra chi porta il bisogno
e chi offre risorse per affrontarlo. Si
tratta di concepire il bisogno non come
mancanza da colmare, ma come problema su cui confrontarsi rispetto a
scelte organizzative di vita, di significati relazionali e valoriali che un’azione di aiuto e cura pone in gioco.
L’INCONTRO
L’assistente sociale deve porre la
propria attenzione alla dinamica familiare e al rapporto tra questa e i servizi in quanto la prima anticipa il secondo. Infatti, la disponibilità dell’utente
e dei suoi i familiari a pensare l’intervento di un operatore assistenziale come una possibile risorsa è strettamente connesso alle modalità di esercizio
della cura all’interno della famiglia
stessa.
Parlare dell’incontro tra famiglia e
servizio di assistenza domiciliare comporta, inevitabilmente, semplificazioni e parzialità. E questo non solo perché gli interventi assistenziali sono
numerosi, caratterizzati da specifiche
tecniche, ma anche perché essi sono
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n° 8/2002 Prospettive Sociali e Sanitarie
APPUNTAMENTI
L’attribuzione di significato alla
prestazione assistenziale di un servizio domiciliare è un esito emergente dal
processo interattivo che si sviluppa tra
famiglia e servizi. All’interno di questo
processo, l’assistente sociale oltre a capire qual è il bisogno a cui fare seguire
un intervento, è chiamata a organizzare con la famiglia e l’anziano una relazione di aiuto in un’ottica generativa
dove le modalità con cui vengono eseguiti gli interventi hanno, a loro volta,
un valore costruttivo.
Si vuole proporre una riflessione
sull’esperienza maturata nel campo di
coordinamento di servizi di assistenza
domiciliare per persone anziane gravemente non autosufficienti. Il punto
di vista che riportiamo è quello di assistente sociale coordinatore del servizio e responsabile del caso: da un lato
impegnato nell’organizzazione e conduzione del gruppo degli operatori addetti all’assistenza di base, dall’altro
nell’analisi della singola domanda e
nella stesura del piano assistenziale
d’intervento. La Regione Emilia Romagna con la legge 5/94 “Tutela e valorizzazione delle persone anziane. Interventi a favore di anziani non autosufficienti”, all’art. 18 definisce la figura
dell’assistente sociale responsabile del
caso: “al fine di garantire all’anziano
non autosufficiente un corretto e completo svolgimento del necessario percorso assistenziale, l’assistente sociale
del Servizio Assistenza Anziani che
compie la valutazione della situazione
dell’anziano, assume la responsabilità
del controllo dell’attuazione degli interventi previsti dal piano assistenziale
personalizzato”.
Come progettare e valutare inter-
PROFESSIONI SOCIALI
* Servizio sociale Az. Usl di Reggio
Emilia Distretto di Correggio
** Responsabile Servizi sociali Comune
di Casalgrande (RE).
PROFESSIONI SOCIALI
n° 8/2002 Prospettive Sociali e Sanitarie
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costituiti da innumerevoli combinazioni possibili con altri tipi di prestazioni:
riabilitative, sanitarie, sociali, educative.
Possiamo dire che l’incontro prende corpo in molteplici forme (collaborazione, rifiuto, sfida, sostegno, ecc.) ed
è espressione di una negoziazione tra
le parti in gioco che vede l’assistente
sociale come colui che aiuta a dare forma a questo processo di negoziazione.
Quando una persona anziana si ammala e la malattia dura a lungo, spesso in questo arco di tempo s’inserisce
anche l’intervento dei servizi. Raramente registriamo la presenza di un
servizio domiciliare sin dalle prime fasi
dell’insorgere della malattia. Molto
spesso ci si rivolge all’assistente sociale a seguito di vicende familiari che impediscono, rendono molto difficile continuare come prima nell’assistenza
quotidiana al proprio anziano. Possono
essere vicende che coinvolgono i membri della famiglia come: altre malattie,
allontanamenti, nascita di un nipotino,
matrimoni, separazioni, ecc. L’intervento di un servizio si configura come
un evento che diviene parte della “storia” di chi lo riceve: il servizio entra a
far parte della rete dell’utente e l’utente entra in quella dei servizi. Decidere di ricorrere a un servizio non è
sempre una scelta facile, talvolta l’attivazione di un intervento domiciliare
è anche una ferita all’ideale familiare
di condivisione e solidarietà interna.
Solidale è colui che è garante in solidum: “[…] ce la siamo sempre cavata da
soli”, “[…] ho sempre detto che ci avrei
pensato io alla mamma” sono frasi che
indicano la fatica di far posto ad altri
nella cura del proprio caro.
L’assistente sociale si trova di fronte non solo un anziano non autosufficiente, ammalato, ma un’intera famiglia colpita dalla malattia, che reagisce
organizzandosi e riorganizzandosi a
seconda delle richieste della malattia
stessa e deve far fronte ad eventi critici dovuti al decadimento fisico, psichico, alla morte.
La relazione famiglia-servizi può assumere forme assai diverse indipendentemente, in larga misura, sia dal tipo di patologia sia dal tipo di prestazione erogata. I fattori discriminanti possono essere la qualità delle relazioni familiari e il significato che la malattia assume all’interno del sistema famiglia.
Quando i familiari sono abituati a
rispondere a tempo pieno ai bisogni del
proprio anziano, di fronte a domande
del tipo: “ora che interviene il servizio
domiciliare, come pensa di occupare il
tempo attualmente speso nell’assistere?” il familiare non sa cosa risponde-
re: “come posso allontanarmi anche solo per poco tempo?”, in questi casi oltre
a soddisfare il bisogno del singolo anziano, l’intervento domiciliare può favorire una certa distanza da parte dei
figli o del coniuge rispetto al peso concreto del prendersi cura (scoperta del
piacere del caffè in cucina in santa pace,
di andare in orario a lavorare, ecc.).
La malattia mette alla prova le relazioni familiari: amplifica dinamiche
di inclusione, esclusione, tra i componenti del sistema allargato, di solito
queste dinamiche prendono forma tramite l’assunzione di compiti di cura o
il rifiuto degli stessi. La dimensione del
fare non ha di per sé parola. Il rischio,
nell’analisi di una richiesta di assistenza domiciliare, è considerare i singoli comportamenti dei familiari come
significativi in sé, ciò equivale a pensare che la prestazione/risposta trova
significato solo nel proprio contenuto.
Il luogo della malattia non è l’individuo,
ma l’ambito familiare. La stessa rappresentazione della cronicità, della malattia, non si pone mai al livello del singolo, ma in quello dei rapporti tra le
persone e il sistema familiare di appartenenza.
Si tratta allora di utilizzare un nuovo pensiero nella progettazione dell’intervento che consideri la malattia
come un qualcosa che coinvolge e si
apre a un rete di rapporti da cui prende alcuni suoi significati basilari.
L’INTERVENTO
I servizi, intervenendo, analizzano
la richiesta, programmano, valutano
gli effetti e cercano connessioni di senso per ciò che accade. Nel progettare
l’assistenza domiciliare e definire i bisogni dell’anziano non autosufficiente,
è importante conoscere il grado di autonomia nelle diverse attività della vita
quotidiana e l’effetto della dipendenza/autonomia sulle persone che si prendono cura di loro. Per questo occorre
considerare che il buon esito di un
intervento socio-assistenziale non si
esaurisce nella buona esecuzione della prestazione, ma anche nella percezione, da parte di chi la riceve, di essere aiutato e supportato. Ciò è connesso
con la quantità, qualità, del carico assistenziale e carico emotivo.
Il carico assistenziale è misurabile
attraverso alcuni indicatori che rilevano il grado d’autonomia dell’anziano
nelle attività della vita quotidiana, il
livello delle capacità cognitive, le necessità sanitarie e che costituiscono gli
innumerevoli test, indici, scale attualmente molto utilizzati in ambito geriatrico: Adl (Activities of daily living),
Iadl (Instrumental activities of daily
living), Indice di Kaz, Mms ( Mini mental state), Bina (Breve indice di non
autosufficienza).
In sede di progettazione degli interventi, il dato quantitativo di sintesi ci
permette di farci un’idea sull’entità e
la frequenza d’erogazione delle prestazioni assistenziali da garantire, ma se
a questa misura non si affianca un’analisi più articolata della situazione,
essa ha una scarsa validità operativa:
per un orientamento di senso va collegata al carico emotivo.
Il carico emotivo è difficilmente oggettivabile in numeri e scale: è il peso
o la leggerezza dell’azione assistenziale all’interno di una specifica relazione tra chi fa e chi riceve, tenendo conto
che ognuno è in relazione con gli altri
ed è parte di una data storia familiare.
Esso influenza il modo in cui è vissuto
l’impegno di svolgere azioni concrete,
facendole vivere in modo più o meno lieve da un punto di vista psicologico-relazionale-fisico. Ci sono famiglie che, anche per lungo tempo, reggono situazioni molto impegnative, altre no. Queste
ultime, di solito, portano ai servizi richieste descritte come urgenti e gravi
anche se a esse non corrisponde una severa non autosufficienza dell’anziano.
Il carico emotivo è particolarmente
rilevante nei casi in cui il familiare è
sottoposto a un notevole stress, ciò accade soprattutto in presenza di alterazioni mentali e comportamentali dell’anziano. Il familiare caregiver deve
garantire azioni concrete che tendono
a soddisfare i molteplici bisogni: vestizione, preparazione cibi, acquisto alimenti, medicine, ausili. Queste azioni
possono sembrare così banali e scontate, ma nella quotidianità dell’assistenza e della vita familiare tendono a logorare lo status quo della famiglia stessa. Il rischio è che il familiare si immobilizzi su una di queste due polarità:
assunzione diretta di quasi tutti i compiti di cura e assistenza, o atteggiamenti sempre più deleganti ad agenzie esterne.
In più colloqui con caregiver di anziani non autosufficienti ci siamo sentite dire frasi del tipo: “mi sono occupata di mia madre per tanti mesi, ma
pensavo che le cose si risolvessero velocemente; non ce la faccio più, qualcuno
mi deve aiutare, sono mesi che non vado
più da nessuna parte, sono sempre in
questa casa con una persona che non mi
parla neanche, ma che vita è?”.
L’assistente sociale, come responsabile del caso, raccoglie il carico assistenziale tramite valutazioni multidimensionali e interdisciplinari (Uvg,
Unità di valutazione geriatrica) questo
viene messo in gioco tramite colloqui e
IL TEMPO DELL’INTERVENTO
La relazione di aiuto e assistenza,
una volta iniziata, dura a lungo, comunemente si interrompe o per la morte
dell’assistito o per un suo ingresso in
struttura protetta. Come in tutte le relazioni che durano nel tempo, vi sono
aspetti positivi e negativi: un po’ si va
d’accordo e un po’ si litiga, ci sono incomprensioni, fraintendimenti e chiarimenti. Qualcosa di simile accade anche nel rapporto famiglia/anziano/servizi. Parlando di tipi di rapporto tra servizi e utenti entro lo spazio di un articolo non si può che incorrere in semplificazioni e parzialità, la scelta operata
è quella di ragionare degli effetti emotivo-relazionali che prendono forma dal
momento in cui il servizio domiciliare
entra e permane nella vita di quell’anziano e della sua famiglia. Prendendo
in considerazione il significato attribuito alla prestazione erogata secondo
le valenze di contenuto e relazione, si
possono elencare le seguenti polarità di
senso.
Sostegno: la famiglia si sente più o
meno capita e aiutata nel lavoro di assistenza quotidiana, l’operatore si sente
più o meno utile e valorizzato nel suo
fare assistenza. I componenti del nucleo familiare spesso scoprono confidenza e aiuto reciproco nell’assistere
un proprio caro, in questo caso l’operatore domiciliare tramite il suo lavoro
tecnico pratico può agevolare processi
comunicativi armonici. Monica, caregiver da 5 anni della madre colpita da
ictus cerebrale multinfartuale, riferisce: “è molto duro, ma è stata una piacevole sorpresa vedere mio fratello che
si confidava con me, in un certo modo
ci siamo sentiti più vicini, dalla malattia della mamma. Mi hanno dato sicurezza gli operatori che mi aiutano ad
alzare Amedeo tutte le mattine, mi
hanno aiutato a capire come si fa e come
insegnarlo a mio fratello”.
Non aiuto: a volte la tensione dell’assistenza può creare dei conflitti o
risvegliare vecchi rancori e l’operatore
di cura essere coinvolto in alleanze o
triangolazioni. Luisa, che segue la madre colpita da Alzheimer, dice: “non capisco a cosa serva un servizio come il
vostro, con persone come mia madre c’è
bisogno sempre non serve venire per 40
minuti e poi andarsene via mentre io
rimango qui. Qualcuno dovrebbe chiamare mia sorella che non si fa quasi mai
sentire, praticamente devo assistere la
mamma da sola”.
Conferma: il familiare, soprattutto
il caregiver riconosce nell’intervento
esterno un sostegno, una conferma alla
definizione dell’immagine di sé in relazione agli altri familiari. La competenza del servizio si esprime nell’assistenza specifica, quella della famiglia
nell’essere esperta della cura del proprio caro. Paola, nuora di un’anziana
allettata da diciotto mesi, racconta:
“non volevo chiamare quelli dell’assistenza, ma l’ho fatto. Mi aiuta scoprire
che le sue domande continue e sempre
uguali fanno arrabbiare anche gli operatori professionali, non solo me, pensavo di essere io a sbagliare”.
Squalifica: a volte si assiste a vari
tentativi di invalidare le prestazioni
assistenziali ricevute con azioni, frasi,
comportamenti, l’operatore reagisce
con un senso forte di inutilità. A volte
atteggiamenti iperprotettivi e/o di poca
fiducia verso l’operatore che entra in
casa per fare cose che hanno sempre
fatto i parenti portano a facili fraintendimenti e incomprensioni reciproche. Da un lato il familiare dice meno
male che c’è il servizio, ma dall’altro
non se la sente di lasciare il proprio
anziano in altre mani, per cui è sempre
lì e non lascia spazio agli operatori. In
questo caso l’operatore si può sentire
molto svalutato nel proprio operato: “ci
vado, ma tanto non va mai bene nulla,
non capisco perché dobbiamo andare in
quella casa, fa tutto la figlia! Se ci permettiamo di posturare la mamma nel
letto è sempre sbagliato, lei deve sempre rifare tutto a modo suo”, d’altra parte anche atteggiamenti di eccessiva delega possono rendere difficile la relazione d’aiuto.
Richiesta di attenzione: la richiesta
di attivazione di un servizio può anche
essere un segnale da parte di un componente a un altro membro della famiglia sentito come troppo esterno o lontano, può essere funzionale a un gioco
relazionale già presente in famiglia,
per esempio un disaccordo su chi deve
farsi carico della cura. Nicoletta, nel
richiedere l’ingresso in centro diurno
PROFESSIONI SOCIALI
un’area di confine in cui si scambiano
molte informazioni: nel prendere contatto con il servizio l’utente riceve spiegazioni sulle prestazioni che può ottenere, si fa un’idea di come funziona l’organizzazione e di coloro che in essa lavorano, contemporaneamente dà notizie di sé, del suo lavoro, della sua famiglia, del suo stile di vita oltre che sui
motivi che lo spingono a rivolgersi al
servizio. In questa reciprocità, l’organizzazione rappresenta, compone la
propria immagine e si confronta con
l’immagine che l’utente ha del servizio.
Accogliere e analizzare la domanda nel
suo contenuto esplicito e implicito, programmare e gestire un servizio in risposta alla richiesta di domiciliarità si
basa, di fatto, su questi presupposti.
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valutazioni relazionali in riferimento
alla descrizione che viene fatta del carico emotivo e l’organizzazione datasi
dalla famiglia. A questo punto, si può
prefigurare il significato che verrà dato
alle azioni di cura di estranei, da parte
della famiglia e quindi pensare e proporre strategie che fungano da ponte
per l’incontro familiari, operatori assistenziali, anziano.
Come accogliere questa pluralità di
input? Come utilizzarli, come metterli
insieme? cercare di rispondere a questi
interrogativi vuol dire anche chiedersi
come starà l’operatore domiciliare con
quella famiglia. Questo implica far riferimento alle logiche organizzative, alle
definizioni istituzionali delle finalità,
modelli, teorie, stati d’animo e convinzioni del servizio, che contribuiscono,
nell’incontro con l’utenza, alla formazione del proprio punto di vista professionale, delle proprie percezioni e delle proprie azioni. È nostra convinzione
che, per un coordinatore di servizio, sia
molto importante prendere consapevolezza di come tutto questo entra in gioco nella costruzione dell’intervento.
Così egli può assumere la responsabilità del proprio modo di vedere, senza
la presunzione che esso sia l’unica vera
descrizione della situazione osservata,
ma solo una delle innumerevoli possibili, e utilizzarlo nell’interazione con
l’utente e con il gruppo di operatori
coordinato
Questo atteggiamento ci aiuta a
prendere le distanze da definizioni rigide e standardizzate (famiglie non collaboranti, anziano incontentabile, operatore non disponibile, ecc.) e a utilizzare un approccio metodologico che si
fondi sull’identificazione delle strutture di pensiero e azione da noi utilizzate per connettere i vari elementi per
definire la situazione come bisognosa
di intervento assistenziale. È quello
che G. Bateson chiama pensare in termini di storie, dove per storia s’intende un processo, un pattern che si dipana nel tempo e che connette i suoi protagonisti in un contesto che dà significato a ciò che vi accade. In questa logica di pensiero, l’incontro con la famiglia
è uno strumento estremamente efficace per mettere a fuoco i problemi da
affrontare, far emergere le reciproche
aspettative, fare un programma assistenziale che abbia un senso per quella e non altre famiglie.
L’operazione di definizione del progetto di cura è cruciale per il funzionamento organizzativo, per questo non
troviamo in contraddizione l’esercizio
del ruolo di assistente sociale responsabile del caso e assistente sociale coordinatore del servizio domiciliare. È
del padre, dice: “considerato che tutte
le decisioni vengono lasciate a me io faccio la domanda, poi se qualcuno ha
qualcosa da dire si farà avanti, ma
dovrà anche dire che cosa intenderà
fare”. Giovanni racconta: “ho preso mia
madre a vivere da me e da allora non
ho pace. Di notte si alza e vuole andare a casa, le spiego che ora è qui che abita, ma lei non mi ascolta, finiamo sempre per litigare sino a notte fonda e io
il mattino devo alzarmi presto. Io pensavo che gli altri miei fratelli si sarebbero fatti avanti per darmi una mano,
ma non è stato così per questo chiedo il
servizio domiciliare”. Marco, figlio di
un uomo affetto da morbo di Parkinson,
afferma: “mia sorella si occupa di papà
da diversi anni, credo stia per sfinirsi,
allora ho deciso di chiedere il servizio
domiciliare per darle un aiuto”.
PROFESSIONI SOCIALI
CONCLUSIONI
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Per garantire qualità assistenziale
occorre riferirsi all’interdipendenza
circolare delle due dimensioni descritte, per effettuare una valutazione sui
possibili effetti entro il sistema. L’esplicitazione di una descrizione di senso della storia dell’incontro famigliaservizi è parte integrante di una presa
in carico professionale da parte dell’assistente sociale.
Concludendo possiamo dire che l’incontro famiglia-servizi è sovraordinato dalla configurazione del funzionamento familiare. Ci sono famiglie che
di fronte alla malattia degenerativa del
proprio congiunto implodono su se stesse. Il dolore dovuto alla perdita di autonomia si moltiplica a causa di altri ostacoli inerenti la storia familiare (malattia di altri membri, mancanza di figure femminili che si prendano cura dei
maschi della famiglia, ecc.). Nella maggior parte di questi casi, la famiglia e il
servizio si incontrano attorno alla malattia dell’anziano, secondo una logica
di esclusione reciproca che può sfociare in conflittualità o nella rigida scomposizione delle competenze e prestazioni. Ciò non aiuta la famiglia ad affrontare la malattia dell’anziano.
Servizi e famiglia si possono anche
incontrare, intorno alla malattia dell’anziano, secondo una logica di cooperazione. La capacità dell’assistente
sociale di ascoltare e accogliere il dolore e la fatica dei familiari, è parte dell’azione di cura e presa in carico professionale. Infatti, la nostra esperienza ci sottolinea come, durante la verifica del piano assistenziale, spesso,
oltre alla valutazione dei risultati assistenziali raggiunti, si deve cercare di
rispondere a domande tipo: “come faccio a riconoscere, in questa persona che
si comporta in modo strano mio padre/madre? Com’è possibile che non si
arrabbi con l’operatore e si arrabbi con
me che sono sua moglie? Sembra che
non voglia più bene a nessuno, ci scambia uno con l’altro [...]”. Questi interrogativi ci ricordano quanto l’aspetto
emotivo sia importante e costantemente presente in ogni azione e relazione di aiuto. Sentimenti di paura,
rabbia, impotenza, imbarazzo non sono
emozioni esclusive dei familiari, ma
anche degli operatori: rabbia di fronte
alla difficoltà di eseguire un’igiene o
un’alzata con un anziano che non si
vuole far lavare, non riconosce l’acqua
e reagisce con aggressività. L’aggressività è difficile da accettare e da gestire perché è facile che le esplosioni di
rabbia dell’anziano vengano interpretate come rivolte all’operatore stesso e
non come reazioni a fattori singolari
come, per esempio, la temperatura dell’acqua.
Non prestare la dovuta attenzione
e non affrontare la dimensione emozionale ed emotiva del rapporto tra chi
dà e chi riceve assistenza, può portare
a rapporti famiglia-servizi di tipo non
collaborativo.
Il lavoro dell’assistente sociale che
gestisce e coordina servizi domiciliari
non è, quindi, tanto incentrato sull’organizzazione del servizio in sé, ma “sull’organizzare con”. Legami, conflitti, interazioni, danno forma organizzativa
al servizio e l’utente è coproduttore della relazione di servizio. Con questa diversa prospettiva, i processi organizzativi intessono reti di relazioni superando l’idea puramente tecnico-prestazionistica dell’intervento, considerandolo, invece, intriso di significati di
portata simbolica per la famiglia. Vivere il ricorso al servizio come una modalità utile a far fronte agli obblighi familiari, alimenta il legame tra anziano e
familiari senza esautorarli dall’esercizio della cura.
Bibliografia
Brunello S., Gregory Bateson verso una scienza
eco-genetica dei sistemi viventi, Edizioni GB, Padova, 1992.
Cesaroni M., Lussu A., Rovai B., Professione assistente sociale, Edizioni Del Cerro, Pisa, 2000.
Fruggeri L., Famiglie, NIS, Roma, 1997.
Genevay B., Katz R. S., Le emozioni degli operatori nella relazione di aiuto, Erickson, Trento,
1990.
Motta M., Mondino F., Progettare l’assistenza,
NIS, Roma, 1994.
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