Antropologia religiosa grande dimenticata

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Antropologia religiosa
grande dimenticata
Julien Ries
Una visione nuova dell’hhomo religiosus dalla preistoria a oggi,
nel nome della scienza e nel rispetto del sacro. La prima definizione cui rifarsi risale a Cicerone, ma l’opera fondamentale
resta quella di Mircea Eliade. Alcuni punti fermi.
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L’
antropologia è la scienza che si dedica Julien Ries è uno dei più autoreantropologi del sacro del noallo studio dell’uomo: da un lato l’uomo voli
stro tempo. Come nessun altro ha
considerato sotto l’aspetto fisico e biologi- studiato le connessioni tra relie politica, simboli e realtà. È
co, e dall’altro lato l’uomo che vive in so- gione
direttore del Centro di Storia
delle Religioni all'Università Catcietà ed è immerso nella cultura.
tolica di Lovanio. La sua opera
Il primo aspetto è connesso al settore omnia è in corso di pubblicazione
l’Editoriale Jaca Book (che
delle scienze fisiche, soprattutto della biolo- per
gentilmente ha concesso il pregia. Il secondo aspetto fa parte dell’ambito sente contributo). Il 19 febbraio
2008 Ries interverrà presso l’Unidelle scienze umane ed è genericamente de- versità Cattolica di Milano a un
internazionale in suo
signato con la denominazione “antropolo- colloquio
onore, sul tema L’antropologia religiosa di fronte alle espressioni della
gia sociale e culturale”.
Si tratta di un ambito vasto, tanto am- cultura e dell’arte.
pliatosi negli ultimi anni da portare a conflitti e a una certa confusione tra etnografia, etnologia e antropologia in senso stretto.
Si parla così di antropologia dell’infanzia, dell’educazione, della
malattia, dell’arte, dell’economia, dell’alimentazione, della famiglia, della sessualità, della guerra, della morte. Si sono costituite diverse scuole: la scuola di Durkheim in Francia, la scuola funzionalista in America, la scuola marxista, la scuola di Lévi-Strauss. Che
posto ha qui la religione? Alcuni antropologi ritengono sia un
aspetto della cultura; altri la negano.
Ci sembra necessario, in primo luogo, dare uno sguardo alla storia delle ricerche.
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Giovanni Pico della Mirandola
Nel clima effervescente del XV secolo italiano compare Giovanni Pico della Mirandola, un prodigio di intelligenza e di sapienza. Adolescente di rara precocità, egli comincia i corsi di diritto ecclesiastico,
all’età di quattordici anni, all’Università di Bologna, passando poi per
Firenze e Padova e soggiornando a Parigi nel 1482-1483. Nel 1484 è
a Firenze, presso Lorenzo de’ Medici, e poi ritorna a Parigi per preparare le tesi che vuole difendere a Roma nel 1486, sotto la presidenza del Papa. Il 7 dicembre viene affisso in tutte le università d’Italia il testo delle Novecento tesi tratte dalla sapienza dei popoli. Dapprima autorizzata, la discussione pubblica fu vietata dal Breve pontificio del 20 febbraio 1487. Il dibattito non ebbe mai luogo. Introduceva la tesi un discorso: la oratio de hominis dignitate, che fu pubblicata dopo la morte di Pico.
Riferendosi a uno scritto del saraceno Abdallah, Pico proclama nel
suo discorso: «Ai miei occhi, nulla è più ammirevole dell’uomo». È
questo manifesto dell’Umanesimo a inaugurare le ricerche di antropologia religiosa. Agli occhi del giovane umanista, «l’uomo domina
tutte le creature, poiché la sua anima è immagine del Creatore: la bellezza fisica, la posizione eretta, la testa rotonda, la disposizione a
guardare il cielo e il libero uso delle mani e della parola. È un microcosmo che si volge al divino. Faber sui, l’uomo esercita la propria libertà, che garantisce la sua dignitas. La sua intelligenza spirituale, assimilabile a quella dell’angelo, lo aiuta a vivere in una pace perpetua».
Tratte da testi antichi, le novecento tesi vogliono esprimere un frammento della verità.
Questa antropologia filosofica basata sulla libertà rappresenta una
novità che si snoda per tutta la prima parte del discorso. Essa afferma
la differenza radicale tra l’uomo e tutto il creato, grazie all’esercizio
della sua libertà che garantisce la sua dignità. È una visione nuova dell’Umanesimo, una rottura con la visione medievale dell’uomo, la cui
funzione era considerata quella di mediare nella gerarchia degli esseri.
Per Pico l’uomo è faber sui, trasformatore di se stesso e del mondo. È
in lui che il mondo raggiunge il suo punto ultimo di perfezione. Gli
umanisti cristiani del Rinascimento proseguiranno per questa strada.
In Francia, nel XVI secolo, con il quietismo di Fénelon e di Madame de Guyon, e in Germania, con i collegia pietatis creati da P.J.
Spener a Francoforte nel 1670, prende avvio e si sviluppa un movi47
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mento di studi sull’esperienza religiosa personale. Raggiunge il suo
punto culminante con l’uomo e la sua esperienza del divino, preconizzata da F. Schleiermacher (1768-1834) nelle sue Reden über die
Religion, pubblicate a Berlino nel 1799. In esse l’autore insiste sull’immanenza dell’infinito nel finito, che chiarisce all’uomo la verità
della sua condizione.
Julien Ries
Émile Durkheim e la sua scuola
Nel 1912 Émile Durkheim pubblica a Parigi Les formes élémentaires de
la vie religieuse. Ispirato al positivismo del XIX secolo, l’autore parte
dal religioso considerato come una manifestazione naturale della vita
umana. Dai fatti osservati in quanto sociologo esclude a priori il soprannaturale, il mistero, il divino e la divinità. Nella religione vede un
sistema di miti, di credenze e di riti, insistendo però sul ruolo fondamentale della società. Secondo Durkheim, la religione trova la sua origine in una forza oscura, il mana, a partire dalla quale si evolve grazie
all’influsso della coscienza collettiva. Il mana è il sacro per eccellenza,
e la società ha il compito di amministrarlo. In quest’ottica, il sacro è
una categoria sociologica e collettiva, il serbatoio dei sentimenti del
gruppo, ma anche un elemento di coesione sociale. Il sacro dà vita al
culto e la religione continua ad avere come scopo l’esperienza della salvezza, un’esperienza che non è quella di una salvezza individuale, ma
di una salvezza che l’individuo realizza nella società e attraverso di essa. Con i suoi riti e le sue pratiche, aventi lo scopo di rifare gli esseri sacri, il culto ricrea la società e mette in movimento la collettività. In definitiva, il sacro è una categoria collettiva che ha la sua origine nella società, una categoria fondamentale della coscienza collettiva, una sfera
di forze create dalla società e aggiunte al reale. Concludiamo dicendo
che in una tale teoria non c’è posto per un’antropologia religiosa. In
Germania queste idee furono rese popolari da Wundt.
Rudolf Otto
Teologo, filosofo, indianista, storico delle religioni a Marburgo, Rudolf Otto si propone di mettere un freno a queste dottrine. Schleiermacher gli fornisce tre principi: la teoria delle idee necessarie (Dio,
anima, libertà); il mantenimento dell’integrità del mistero; la necessità del simbolo per entrare in contatto con il divino. Otto interroga
la vita religiosa dell’umanità e questo gli dà modo di scoprire tutto il
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patrimonio religioso del passato. Sotto l’influsso di Nathan Söderblom (1866-1931), egli affronta il sacro a partire dall’uomo religioso.
Partendo dal sacer arriva al numinosum (il divino). Nella sua analisi
del sacro enuclea quattro elementi: il sentimento creaturale, il timore
mistico in presenza del divino, il mysterium di fronte al quale si trova
l’uomo religioso e infine il fascinans. Viene poi il sanctum, l’aspetto del
sacro considerato come valore per l’uomo. Al postulato durkheimiano della coscienza collettiva oppone il postulato di una rivelazione interiore, compiuta grazie alla lettura dei segni del sacro. Il nostro autore getta le fondamenta di una fenomenologia del sacro e di una psicologia dell’uomo religioso. Ritiene che l’uomo religioso sia dotato
della facoltà di esperire la manifestazione del sacro nel mondo dei fenomeni. Otto mostra che il fenomeno religioso è inseparabile da uno
studio dell’uomo religioso e del suo comportamento. Le sue ricerche
portano alle soglie di un’antropologia religiosa fondata sull’esperienza del sacro.
Mircea Eliade
Nato a Bucarest nel 1907, Mircea Eliade si imbarca per Calcutta nel
1928. Per tre anni studia il pensiero dell’India e nel 1933, all’Università di Bucarest, comincia la sua carriera di storico delle religioni, presto interrotta dalla guerra mondiale. Va a vivere in esilio a Parigi e poi
a Chicago, dove muore nel 1986, considerato il più grande storico
delle religioni del suo secolo.
Nel 1949 pubblica a Parigi il Traité d’histoire des religions e nel
1957 Das Heilige und das Profane (Il sacro e il profano). Proseguendo
il suo cammino sulle tracce dei suoi predecessori Pettazzoni, Söderblom e Otto, egli si interessa da vicino al comportamento dell’uomo
religioso, distinguendo due tipi di uomo nella storia dell’umanità: da
una parte l’homo religiosus con il suo universo spirituale, un uomo
che crede in una realtà assoluta, il sacro, e per questo assume una specifica modalità di esistenza; dall’altra parte l’uomo areligioso, che rifiuta ogni trascendenza. Eliade si mette a esplorare il pensiero, la coscienza e il comportamento dell’uomo religioso. Seguendo Söderblom e Otto, sottolinea la natura specifica del sacro, mostrando che
il sacro si manifesta sempre come una potenza di un ordine totalmente diverso rispetto al profano.
Per il fatto che si manifesta, il sacro entra nel mondo dei fenome49
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ni: viene percepito dall’uomo. Per indicare l’atto di manifestazione
del sacro, Eliade propone un termine nuovo: ierofania. Tuttavia, anche se si manifesta come una realtà che dipende da un ordine differente rispetto all’ordine naturale, il sacro non si presenta allo stato
puro, ma si manifesta attraverso cose altre da sé: oggetti, simboli, miti, riti, uomini, forme divine. Ogni ierofania è un fenomeno percepito dall’uomo religioso: ierofania, homo religiosus e modalità specifica
di esistenza non possono essere separati. È il sacro nella sua dimensione mediatrice, all’interno di una ierofania che dà all’uomo religioso la possibilità di entrare in relazione con la realtà trascendente, la
fonte del sacro. Eliade ritiene che la storia delle religioni abbia la missione di studiare l’homo religiosus in quanto uomo totale, e che tanto
l’homo religiosus delle civiltà arcaiche e dei popoli senza scrittura
quanto quello delle grandi religioni sia in grado di scoprire il sacro.
È con lo studio dell’archetipo, del simbolo, del mito e del rito che
Eliade ha esplorato il comportamento religioso, fornendo così all’antropologia religiosa elementi veramente essenziali, il più importante
dei quali è la messa in evidenza dell’homo religiosus.
Roger Bastide
In un articolo dell’Encyclopaedia universalis, Roger Bastide cerca di
presentare una sintesi della problematica attuale che riguarda l’antropologia religiosa. Inizia redigendo una piccola tabella dei falsi problemi posti dai ricercatori e dalle scuole e mostra che l’antropologia
religiosa è una disciplina indipendente, distinta dall’etnologia, dalla
sociologia delle religioni e dalla storia delle religioni. Essa si interessa più all’uomo che all’etnia. Il suo ruolo consiste nel comprendere la
simbologia del sacro e nel definire le leggi generali dell’uomo costruttore di mondi simbolici, cioè dell’homo religiosus. Si tratta dunque di mettere in evidenza un intero ambito dell’attività simbolica
dell’uomo.
L’antica antropologia religiosa si preoccupava anzitutto dell’origine e della natura della religione. Ora si tratta invece di inquadrare
adeguatamente il fatto religioso senza inglobarlo nei fatti sociali, dal
momento che la religione è un sistema che può essere studiato in se
stesso e messo in relazione all’attività simbolica dell’uomo, e questo
costituisce il campo più importante della nostra antropologia. Del resto, non si tratta di tagliare il religioso a pezzi: è piuttosto necessario
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coglierlo nella sua unità vivente, come un’attività che si esprime attraverso modalità diverse. Un problema importante in antropologia
religiosa è quello dei cambiamenti e dei mutamenti. L’autore segnala
che Eliade ha messo in luce la persistenza degli archetipi nel corso
degli sconvolgimenti religiosi – da cui l’importanza dell’homo religiosus che cambia ma allo stesso tempo resiste. Diviene così evidente che
il tempo delle istituzioni religiose, se rapportato al tempo delle altre
istituzioni, è un tempo «al rallentatore». L’autore pone la questione
del «campo dell’antropologia religiosa». Si tratta di tutta la sfera del
religioso. Definire questo campo non è facile, poiché «l’insieme del
culturale è quasi coestensivo all’insieme del religioso. In ogni modo,
l’antropologo deve sapere che la sfera del sacro è vasta, e che è necessario evitare di perdersi nello studio dell’irrazionale e dell’affettività pura».
Una nuova antropologia religiosa
Dopo questi brevi cenni sulle grandi tappe della ricerca in antropologia religiosa, è ora tempo di uscire dall’ambito delle teorie e di affrontare un progetto tutto incentrato sull’homo religiosus e sulla sua
esperienza del sacro.
Nella decima edizione del suo Systema naturae (1758-1759), lo studioso svedese di scienze naturali Carl von Linné (1708-1778) diede
avvio a una ricerca sull’evoluzione delle specie, una scienza alla quale Haeckel, nel 1874, ha dato il nome di filogenesi e che inaugura la
modalità di formazione delle specie nel corso dell’evoluzione. Viene
creato il genere Homo e si apre la strada alla paleoantropologia. Parallelamente alle scoperte archeologiche avremo quattro grandi categorie: Homo habilis, Homo erectus, Homo sapiens, Homo sapiens sapiens. La maiuscola di Homo sta a indicare che si tratta di quattro
specie successive nello sviluppo del genere umano. Le scienze umane
vanno a prendere in considerazione le attività dell’uomo e a tentare
di definirle per mezzo di concetti presi dal comportamento umano.
Avremo un lessico latino convenzionale, di cui diamo qualche esempio: homo faber, homo viator, homo loquens, homo oeconomicus, homo politicus ecc. Il concetto di homo symbolicus caratterizza l’uomo
che, grazie al suo immaginario, è capace di cogliere l’invisibile a partire dal visibile: si tratta di una facoltà speciale, esteriorizzata grazie
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alla sua creatività culturale. Il concetto di homo religiosus ci viene da
Cicerone, che nel suo De natura deorum (2, 72) parla degli uomini religiosi, ex relegendo, dal verbo relegere, che fa appello al mos maiorum. Questo concetto è divenuto di fondamentale importanza da
quando Eliade ha dedicato un libro all’homo religiosus. Poiché si tratta di concetti che riguardano l’attività umana, homo viene scritto con
la minuscola. Va aggiunto che tutti questi concetti sono concetti operativi, essendo necessari per formulare il discorso nelle scienze umane.
Rimane da definire l’antropologia religiosa di cui stiamo parlando
e da precisarne la specificità: «Essa studia l’homo religiosus come colui che crea e fa uso dell’insieme simbolico del sacro e come colui che
è portatore delle credenze religiose che governano la sua vita e il suo
comportamento».
Ora ci resta da indicare sinteticamente i sette punti su cui si basa
questa antropologia.
L’espressione del sacro e il suo significato nella storia
Una delle più antiche iscrizioni romane è stata trovata nel 1899 presso il Comitium, al Lapis niger, nel luogo chiamato “tomba di Romolo”. Sul tronco della base di un cippo rettangolare figura la parola
sakros, derivata dal radicale sak-, che è all’origine di diverse formulazioni del sacro nell’area delle migrazioni indoeuropee. Dal radicale
sak- e dalla parola sakros provengono sacer e sanctus, così come il verbo sancire, che significa «conferire validità, fare in modo che qualcosa divenga reale». Di conseguenza, il radicale sak- riguarda le strutture fondamentali degli esseri e delle cose. Partendo da questo significato, grazie al metodo della semantica storica, e con l’aiuto di una
ventina di specialisti, abbiamo esplorato il senso del sacro nelle grandi religioni.
Il nostro studio mostra che da cinque millenni l’homo religiosus ha
fissato su pietra, su argilla, su papiro, su legno, su pergamena e su altri supporti il ricordo della sua esperienza religiosa. Disponiamo così del lessico del sacro, fatto inevitabile e sorprendente scoperta: il sacro si trova alle origini delle religioni dell’umanità. Abbiamo ampliato lo spazio delle nostre ricerche. Decine di specialisti hanno contribuito al Trattato di antropologia del sacro, un’opera che mostra che
l’homo religiosus si è forgiato un lessico e un linguaggio che gli servono da strumento mentale e psicologico nella scoperta e nell’e52
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spressione di una logica del senso del cosmo e della vita. Egli ha utilizzato tutto un ordine simbolico e diversi elementi del cosmo: la luce, il vento, l’acqua, il fulmine, gli astri, il sole, la luna. A questo patrimonio simbolico del sacro va ad aggiungersi la sua straordinaria
omogeneità nella concezione e nel pensiero dei credenti delle diverse religioni.
La comparsa e l’attività dell’homo religiosus
Reagendo alle tesi secolarizzanti dell’Aufklärung e contrapponendosi
al positivismo di Émile Durkheim e della sua scuola, che vede nel sacro una categoria sociologica e collettiva, il serbatoio dei sentimenti
del gruppo, Rudolf Otto interroga la vita religiosa dell’umanità, scoprendone le grandi tappe e lo straordinario patrimonio (Das Heilige,
1917). Cammin facendo giunge a constatare l’unitarietà delle disposizioni dell’animo umano, dedicandosi alla spiegazione dell’esperienza del sacro che l’uomo vive. Mircea Eliade prosegue questa ricerca,
insistendo sul fatto che l’homo religiosus fa conoscenza del sacro perché esso si manifesta, perché si mostra come qualcosa che è del tutto
diverso dal profano (ierofania), il «totalmente altro», una realtà che
non appartiene a questo mondo.
L’uomo religioso sente il bisogno di immergersi periodicamente
nel tempo sacro, che considera indistruttibile. Per lui la sacralità si rivela attraverso le strutture stesse del cosmo: la volta celeste, così, gli
fa capire che cosa siano la forza, la trascendenza e l’eternità. Quest’uomo assume nel mondo una modalità specifica di esistenza, dal
momento che, afferma Eliade, «crede che esista una realtà assoluta, il
sacro, che trascende questo mondo ma vi si manifesta, lo santifica e
lo rende reale». Quest’uomo appare come un personaggio storico, di
cui constatiamo l’apparizione nel corso dei millenni della preistoria e
che ci porta ad avanzare con lui per tutta la storia. La sua statura mostra che nell’umanità, dalle origini ai nostri giorni, è presente un’unità
spirituale. La pubblicazione della trilogia Histoire des croyances et des
idées religieuses rivela l’homo religiosus sotto la sua dimensione storica e trans-storica.
L’homo religiosus e la sua esperienza del sacro
L’homo religiosus è caratterizzato dalle sue credenze, ma manifesta la
propria esistenza concreta lasciando la sua impronta sulla cultura e
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agendo nel corso della storia. Questo dato ambivalente spiega l’antropologia religiosa e obbliga a compiere ricerche diversificate per situarla in modo adeguato nelle diverse epoche e in contesti assai differenti. Onnipresente nella storia umana, quello di homo religiosus è
un concetto operativo che rende possibile l’elaborazione della storia
delle religioni, ma che assume al contempo un ruolo centrale nell’antropologia religiosa per via delle attività e dell’esperienza del sacro di
cui quest’uomo è autore. Nel quadro di questa esperienza vissuta,
l’attività dell’homo religiosus costituisce in qualche modo la base su
cui poggia l’antropologia di cui stiamo parlando.
Julien Ries
Homo religiosus, homo symbolicus
Il simbolo è un segno di riconoscimento, il cui significante concreto
suggerisce un significato, a prima vista invisibile ma che viene svelato in trasparenza. Nell’esperienza vissuta del sacro il simbolo esercita una funzione di mediazione in tutte le ierofanie. Secondo Paul Ricour, il simbolo è dotato di un’energia che gli viene dalla manifestazione di un legame tra l’uomo e il sacro. Agli occhi di Mircea Eliade
il simbolo è un linguaggio che rivela all’uomo valori interpersonali e
transcoscienti, poiché il pensiero simbolico è della stessa sostanza
dell’uomo. Il simbolismo religioso conferisce dunque un senso all’esistenza umana, per così dire un’“aura numinosa”. Il cosmo parla grazie al simbolo e fa conoscere all’homo religiosus delle realtà che lo
mettono in relazione al “mistero”. Una simile dimensione antropologica è sottesa al pensiero di Giustino martire e di Clemente Alessandrino quando parlano dei semina Verbi, dei semi del Logos divino
presenti nell’umanità precedente al mistero dell’Incarnazione, e a
quello di Söderblom e di Newman, che considerano l’umanità un «laboratorio di Dio».
Mito, archetipo e comportamento religioso
Il mito è un racconto che narra delle origini e si presenta come una
storia santa. Esso determina un comportamento dell’uomo, dà un
senso alla sua esistenza e lo mette in relazione con il mondo soprannaturale. I miti cosmogonici rivelano i principi-guida del cosmo e
della condizione umana. Per questo vengono posti nell’età dell’oro
dell’umanità. I miti di origine narrano e giustificano situazioni nuove: genealogie, guarigioni, nuove cure. I racconti mitici che riguarda54
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no l’intronizzazione dei re, la renovatio mundi in occasione del nuovo anno e lo svolgimento delle stagioni assumono un ruolo assai rilevante nella vita e nella storia dei popoli. Infine, i miti escatologici
concernono l’Endzeit: diluvio, montagne che crollano. Diremo che il
mito si presenta come uno strumento mentale dell’homo religiosus,
utile per la comprensione del cosmo, della creazione e dell’uomo,
esemplare per dirigere la vita e il comportamento, avente un ruolo di
chiarificazione per la coscienza, capace di portarla ad aprirsi al mondo divino.
Il rito nella vita dell’homo religiosus
Termine arcaico proveniente dai Veda, ritu sta a significare l’ordine
immanente al cosmo (Rig-Veda, X, 124, 5). Sinonimo di dharma, la
legge fondamentale del mondo, esso ha fornito al senso religioso le
nozioni di necessità, di rettitudine, di verità. Il rito fa parte della condizione umana e le conferisce il senso della continuità. L’antropologia religiosa considera il rito nel quadro dell’esperienza esistenziale
dell’uomo. Esso si esprime attraverso gesti e parole allo scopo di far
entrare simbolicamente in contatto con la realtà trascendente. Situato a livello del comportamento umano, esso è inquadrato nella dimensione del sacro vissuto. Il rito viene compiuto facendo ricorso a
elementi presi dal cosmo, come l’acqua, la luce, l’olio, il sale. Con il
rito l’homo religiosus tenta di raggiungere un evento archetipale o un
tempo primordiale. Eliade ha molto insistito sul riferimento a un archetipo, sullo spazio sacro, sulle prove iniziatiche e sulla rivelazione
dei miti a cui i riti sono legati. I riti di iniziazione rappresentano un
elemento rilevante dell’antropologia religiosa, dal momento che l’iniziazione è concepita come un mutamento di carattere ontologico.
Antropologia religiosa e paleoantropologia
I sei aspetti che abbiamo appena tratteggiato prendono in considerazione l’uomo e la sua attività in base a tracce scritte e testi. Tuttavia,
l’antropologia religiosa non può ignorare i millenni della preistoria
che vanno dall’Homo habilis fino al Neolitico. Per mostrare che anche l’uomo arcaico è un homo religiosus e symbolicus è necessario far
luce su questi tempora ignota. Per far questo disponiamo di due vie:
la prima è rappresentata dall’abbondante documentazione archeologica raccolta per mezzo secolo grazie alla scoperta delle vestigia di an55
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tiche culture, in Africa e altrove. A ciò si aggiunge la via del metodo
comparativo genetico, messo a punto da Georges Dumézil (18981986) nella sua sterminata ricerca sul pensiero arcaico degli Indoeuropei. Per quanto riguarda la documentazione lasciata dall’Homo habilis,
creatore della prima cultura dell’umanità a Olduvai in Africa, dall’Homo erectus, con il suo intaglio bifacciale degli utensili e l’invenzione
del fuoco, dall’Homo sapiens, al quale dobbiamo le prime tombe e un
vasto materiale funebre, dall’Homo sapiens sapiens, decoratore delle
grotte dell’arte franco-cantabrica, dall’uomo sedentarizzato, inventore dell’agricoltura e creatore delle prime rappresentazioni delle divinità nel Vicino Oriente, è sufficiente leggere i numerosi articoli che
riguardano l’uomo arcaico.
Sottoposta a critica storica, questa documentazione è stata esaminata facendo uso della griglia di lettura di una duplice ricerca comparata: la comparazione tipologica di Mircea Eliade e la comparazione genetica di Georges Dumézil. Procedendo in direzione opposta alla storia, quest’ultima esige una grande familiarità con le scoperte recenti, ma ha l’immenso vantaggio di studiare l’uomo non distaccato
dalla sua cultura. L’insistenza sull’attività e sulla religiosità dell’uomo
arcaico e alcune – volute – ripetizioni non vanno ricondotte a un gioco dell’homo ludens, ma sono dovute alla volontà di sottolineare un
fattore fondamentale della storia delle religioni e dell’antropologia
religiosa. Queste mostrano l’unità del pensiero umano, mettendo in
evidenza, contemporaneamente, lo sviluppo della coscienza dell’homo religiosus e symbolicus nel corso delle tappe progressive del suo
cammino; la sua dignitas e la sua humanitas, come direbbe Pico della Mirandola.
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