Il volontariato tra processi di individualizzazione e di personalizzazione di Riccardo Prandini Tutto ciò che non viene donato, va perduto Madre Teresa di Calcutta 1. Le trasformazioni del volontariato nella modernità riflessiva: le poste in gioco e i paradossi Negli ultimi due lustri, soprattutto a livello internazionale, si è acceso un interessante dibattito sulle trasformazioni del volontariato1. Proprio quando la generazione degli anni Settanta – quella che aveva impresso nella rappresentazione collettiva il significato di “essere e fare” volontariato – lasciava spazio ai più giovani, occorreva aggiornare quella “immagine ricevuta” e data per scontata, quella specifica forma culturale (Prandini 2010; Orlandini 2010). In questo saggio mi propongo di ricostruire brevemente quel dibattito così da utilizzarlo come “mappa” per orientarsi in quel “nuovo mondo del volontariato” che non è ancora stato sufficientemente messo a fuoco. Non vi è infatti alcun dubbio che i macrocambiamenti che riguardano la società-mondo – o almeno la sua parte Occidentale – toccano anche l’immagine e la pratica volontaria. Alcuni grandi sociologi hanno colto le trasformazioni e, come spesso accade in questi casi, la “figura” del volontario è stata utilizzata come grande 1 In questo saggio si adotta la semantica della “trasformazione, per indicare i cambiamenti nella “forma” del volontariato. Ciò serve a sottolineare che non si tratta né di una genesi di nuove forme (prospettiva da utilizzare solo quando vi è davvero la genesi di una forma “nuova”), né di una mutazione delle stesse (che implica un cambiamento non solo di forma, ma pure di sostanza degli elementi messi in forma) né di semplice variazione di alcuni aspetti della forma (che non implicano un vero e proprio cambiamento, ma soltanto appunto un discostamento di alcuni suoi elementi). metafora di cambiamenti più globali e radicali. Chi, come Putnam (2000), ha parlato di “esaurimento generazionale” del volontariato (negli Us) e chi, come Wuthnow, lo ha contraddetto presentando miriadi di casi di loose connections (1998); chi ne ha decretato il “restringimento” (Macduff 2004) e chi lo “svanire” (Gaskin 1998); chi ha diagnosticato la crisi irreversibile delle appartenenze a organizzazioni fortemente strutturate (Dekker e van den Broek 2006); chi da tempo analizza le forme episodiche e contingenti di volontariato (Hustinnx 2010a). Tutte queste immagini convergono verso la macro-tesi della de-tradizionalizzazione e individualizzazione del nuovo volontariato (Hustinx e Meijs 2011). Come vedremo più analiticamente, il quadro di riferimento teorico di questi studiosi è tale da focalizzarsi sui processi di individualizzazione, sradicamento, professionalizzazione, managerializzazione, mercantilizzazione, etc. del volontariato, a scapito di altre fenomenologie che – pur non contraddicendo questa “Grande trasformazione” – ne illuminano lati diversi e non meno importanti, tali da ricostruirne una immagine più complessa e realistica. Simultaneamente il volontariato di trans-forma anche come personalizzazione, ri-radicamento, umanizzazione, centratura sulle cure all’altro, etc., tutti aspetti che dentro a un unico quadro interpretativo non possono essere realmente colti e spiegati. Chi propone la tesi della individualizzazione e detradizionalizzazione del volontariato, non può fare altro che osservare anche sviluppi del tutto contrastanti, come gli innumerevoli tentativi di riradicamento da parte di “Terze parti” istituzionali, mediante strategie normative obbliganti. Si pensi, solo come esempio, alle innumerevoli proposte di istituire un “servizio civile obbligatorio” per i maggiorenni, o a tutti i programmi di socializzazione all’azione volontaria messe in campo dalle istituzioni scolastiche, educative e finanche dal mondo for profit. Questo modo di osservare, però, non fa altro che ribadire in modo poco innovativo le dinamiche contraddittorie di libertà e controllo (della stessa libertà) che caratterizzano da tempo la tarda modernità. In pratica anche l’esperienza del volontariato è sottoposta alla sindrome tipica del gioco “guardia e ladri”: a processi di liberalizzazione e mercantilizzazione del volontariato – che s-catenano energie prima incastonate istituzionalmente – si prova a rispondere con processi di obbligazione e re-istituzionalizzazione che falliscono l’obiettivo in quanto non fanno altro che deviare le spinte liberalizzanti in altri spazi-tempi (Teubner 2012). Ne deriva, come cercherò di spiegare, una dinamica culturale che rende sempre più difficile riconoscere queste nuove configurazioni come “volontariato”. Alcune ricerche hanno mostrato proprio come le persone comuni, attraverso il “buon senso”, non riconoscano più in molte delle attività attuali il “volontariato”, e cercassero continuamente di ridifferenziarlo, nella sua concettualizzazione e nel suo operare, dalle sue manifestazioni spurie (Handy et alii 2000). Questa dinamica di autodifferenziazione del campo del volontariato ricorda, nel suo aspetto processuale, la tragedia della cultura di simmeliana memoria: qualsiasi “forma” culturale istituita viene decostruita e messa in crisi dal fluire della “vita” sociale che preme per ridefinire i confini di significato delle forme. D’altra parte l’espressione “vivente” del volontariato, per potersi manifestare, necessita di prendere “forma”. Le rappresentazioni culturali e le pratiche del volontariato vengono costantemente ibridate e “toccate” da altri valori provenienti da altri sub-universi di senso (per esempio: dall’efficacia; dalla professionalizzazione; dalla ricerca di ricompense sociali; dalla necessità di regolazione, etc.). Questa ibridazione crea in un primo memento “forme” spurie di volontariato che hanno una loro logica e rispondono a determinati problemi, venendosi così a istituzionalizzare. Simultaneamente però, il nucleo “puro” del (valore sociale del) “volontariato”, attraverso l’operare di particolari attori (individuali – e quali leader – e/o collettivi), si ri-distingue dalle ibridazioni, innescando veri e propri processi di “fuga”. Nella parte finale del saggio vorrei provare a descrivere proprio la parte ricostruttiva di questa dinamica di “toccata e fuga”, laddove sono i volontari stessi ad auto-differenziarsi dalle commistioni con logiche spurie e a ri-specificare le aspettative di ruolo che informano la figura del volontariato. Cercherò quindi di innescare una riflessione su cosa significhi, oggi, essere ed agire come volontari. L’ipotesi che introduco afferma che oggi volontari si diventa (e si viene riconosciuti come tali), solo in-vestendo la propria identità personale di un certo “abito”, impegnandosi nel generare, in un certo modo, “legame sociale” di un certo tipo2. Le variabili distintive in opera in questo divenirevolontario sono almeno tre: 1) l’abito sociale con cui si in-veste la propria identità personale; 2) la modalità di operare; 3) il tipo di legame sociale generato. La prima variabile è costituita dalla distinzione “personale/individuale”; la seconda dalla distinzione personalizzante (unico)/spersonalizzante (standardizzato); la terza dalla distinzione 2 Utilizzo il concetto di in-vestimento e di im-pegno, riprendendoli dalla concettualizzazione di Laurent Thévenot (2006). In buona sostanza il concetto di investimento richiama alla necessità di dare “forma” riconoscibile alle proprie azioni, affinché siano collegabili ad altre azioni: quello di impegno, sta a significare che ogni azione è implicata in un contesto esistenziale e che istituisce un rapporto di co-implicazione. prossimo/distante. Potremmo sintetizzare il discorso con l’affermazione “creare legame sociale è possibile in molteplici modi”, ma solo uno particolare è quello riconosciuto come genuinamente generato mediante l’agire volontario: quello messo in opera “personalmente”, in modo “personalizzante” e capace di generare un legame di “prossimità”. Quali sono i contesti strutturali e culturali, oltreché personali, che rendono possibile essere “volontari”, oggi, diversamente che nel passato? Questa riflessione mi pare necessaria proprio nel momento in cui stiamo perdendo la vecchia rappresentazione e pratica del volontariato. In altre parole vorrei riflettere sui processi sociali (e non psicologici) che “trasformano” un individuo in “volontario”, cercando di mostrare come, similmente agli “oggetti” della quotidianità, anche gli individui possano “tradursi” da un contesto uniformante – in cui vengono valutati in quanto portatori oggettivi di ruoli – a contesti dove sia invece atteso il loro agire “personalizzato”. Da qui, trattandosi comunque di uno shift, di un crossing, tra contesti e ruoli diversi, concluderò con il paradosso della “tragedia” del volontario: volontari si diventa agendo al di fuori dei ruoli professionali, familiari, politici, etc., tipici della società contemporanea funzionalmente differenziata; simultaneamente, però, per fare/essere volontario si deve entrare in un ruolo sociale ben definito, riconosciuto, contestualizzato in organizzazioni (formali o informali), con identità e storie precise. Questo ruolo è a sua volte un fascio di aspettative socialmente istituzionalizzate e quindi non è concepibile come lo spaziotempo della libertà individuale, bensì come un abito che si indossa (e su cui “investe”) per agire in certi modi. Questa uscita – da ruoli funzionalmente definiti – ed entrata – nel ruolo del volontario – è chiaramente un paradosso perché l’agire volontario (per essere tale) deve uscire da certe aspettative senza però rimanere in uno spazio neutrale, bensì ri-entrando in un diverso ruolo dove ci si aspetta un agire specifico. Il paradosso sta nel potersi “convertire” in volontari in modo non volontaristico, bensì rientrando la distinzione agire personale/agire di ruolo, dentro all’agire di ruolo. In questa operazione di re-entry, il volontario in-veste la sua identità in una forma riconoscibile socialmente, ma questa particolare riconoscibilità converte la forma da qualcosa di “uniforme” verso la possibilità di trascendere se stessi (come individui standardizzati dalle attese funzionali sistemiche); converte nella direzione di un “divenire-persona”. 2. Nuove forme di volontariato come risposta ai processi di individualizzazione sociale e il paradosso della “dividuazione” 2.1. Le nuove forme del volontariato: da quello collettivo a quello riflessivo Per inquadrare la riflessione internazionale sulla figura del volontario e del volontariato, utilizzerò alcuni illuminanti contributi di Lesley Hustinx. La sociologa belga ci aiuterà a situare il passaggio del volontariato cosiddetto “tradizionale e classico” a quello “moderno e/o nuovo”. Si tratta di marcare un passaggio di “figura” e di orizzonte culturale che sembrerebbe accadere verso la metà degli anni Ottanta. In entrambi i casi – quelli del volontariato tradizionale e moderno – siamo al cospetto di figure tipiche soltanto della società moderna differenziata per funzioni. Ogni società, in ogni tempo e spazio, ha conosciuto atti di generosità, di aiuto gratuito, di cura incondizionale, ma soltanto la società moderna – strutturandosi sulla base di funzioni specifiche svolte entro specifiche sfere d’azione – ha ritagliato un ruolo per il “volontario”. Non è un caso che, se si sfoglia un qualsiasi dizionario della lingua italiana, le prime due accezioni del termine riguardino la relazione tra un individuo e i ruoli militari, prima (l’arruolarsi e il prestare servizio, come volontario, nelle forze armate di uno stato o in una formazione militare o paramilitare); occupazionali (prestazione volontaria di lavoro, gratuita o semigratuita, eseguita al fine di acquisire la pratica necessaria allo svolgimento di un’attività professionale o di un lavoro, e il relativo titolo di riconoscimento) e, solo in ultimo (anche in termini temporali) in riferimento al cosiddetto terzo settore (prestazione volontaria e gratuita della propria opera, e dei mezzi di cui si dispone, a favore di categorie di persone che hanno gravi necessità e assoluto e urgente bisogno di aiuto e di assistenza, esplicata per far fronte a emergenze occasionali oppure come servizio continuo). Non si tratta dunque di analizzare tratti psicologici peculiari di certi individui (la “propensione” o “l’orientamento” al volontariato) e neppure tipologie caratteriali, quanto di soffermarsi su quelle aspettative riflessive (su quella cultura socialmente trasmessa), che permettono ai membri di una società di riconoscere in certe esperienze ed azioni quelle del “volontario”. Nella definizione corrente gli elementi definitori della figura del volontario sono: 1) operare a favore di altri (solitamente non della propria cerchia familiare) o di organizzazioni; 2) senza alcun corrispettivo in denaro; 3) in modo del tutto libero; 4) entro un contesto organizzativo (Van Daal 1990). Si noti come la quarta caratteristica sia fondamentale anche se spesso non debitamente considerata. Infatti, agire liberamente e senza remunerazione è qualcosa di (normativamente) atteso nella sfera familiare e amicale (per cui apparecchiare la tavola o aiutare a portare in casa la spesa, etc., non sono attività considerate di volontariato), ma anche del tutto normale entro quasi tutte le sfere sociali non familiari/intime: aiutare un collega di lavoro a terminare le pratiche urgenti; dare una mano all’anziana per trasportare un pacco; aiutare un vicino a tenere in ordine il giardino, etc., sono attività volontarie e gratuite, ma che non rientrano del tutto nell’esperienza moderna del “volontariato”. Certo, personalmente ci si può sentire volontari, ma se lo si fa da soli e senza rendersi pubblicamente riconoscibili come “volontari”, questo agire è piuttosto classificato come dedizione personale a una causa o come generosità. Il rapporto con una organizzazione o un gruppo (più o meno formalizzato) e la continuità dell’agire nel tempo (e nell’organizzazione), sono perciò aspetti centrali per definire il volontario. Questo per il motivo fondamentale che il “volontario” come figura riconoscibile socialmente, deve (in)vestirsi di un particolare ruolo, tra gli altri a disposizione, che appunto gli permette di presentarsi pubblicamente come tale (“faccio volontariato”). Non sempre comunque l’identificazione del volontario è agevole. Si pensi a un signore in pensione che – in modo continuativo, a casa sua e senza pubblicizzarlo – aiuta dei bambini a fare i compiti. In questo caso, potremmo dire che egli fa del volontariato, ma non è “un” volontario in quanto non membro di alcuna organizzazione riconoscibile. Per ovviare a queste difficoltà definitorie, lo studioso Cnaan (1996) propone di identificare il volontariato in modo graduale, partendo dalla sua “forma” pura fino ad ampliare la definizione. Egli seleziona quattro variabili definitorie: 1) libertà vs obbligo ad agire; 2) assenza di remunerazione vs remunerazione molto bassa o solo simbolica; 3) contesto organizzativo in cui si opera (formale vs informale); 4) beneficiari dell’attività (l’Altro generalizzato e sconosciuto vs se stessi). Come vedremo a breve, sono proprio i contemporanei processi di mutamento sociale che stanno rendendo sempre più difficile identificare i volontari e il volontariato, soprattutto tra le generazioni più giovani. La Hustinx, ponendo il cambiamento del volontariato circa a cavallo degli anni Ottanta, almeno in Europa, lo definisce in diversi modi: come passaggio da un orientamento collettivistico a uno individualistico, da uno basato sull’appartenenza a una basato su progetti; da uno istituzionalizzato a uno auto-organizzato. In buona sostanza il vecchio volontario che agiva per in modo continuativo, impegnandosi per una causa collettiva e socialmente condivisa, entro la stessa organizzazione, sta lasciando il posto a un impegno molto più caratterizzato da interessi personali (non inquadrati in un contesto comune), forte ricerca di auto-realizzazione e da finestre temporali più brevi (Hustinx 2010b). Più in generale quella della Hustinx è una interpretazione modernista che legge i cambiamenti e le innovazioni in termini di de-tradizionalizzazione, sradicamento, individualizzazione, autoriflessività (della modernità). Fondamentale per questa interpretazione è l’idea che la Modernità – dopo aver trasformato le strutture e le culture delle società tradizionali – stia auto-sabotandosi, rendendo le proprie strutture e processi sempre più precari e ambigui. Dal punto di vista del Terzo settore, potremmo ipotizzare un passaggio da una esperienza di tipo collettivistico e fortemente etero-normativa (l’appartenere a grandi movimenti con strutture ideologiche precostituite), ad una più individualistica e autonoma. Il volontariato “serio” starebbe declinando generazionalmente sostituito da un nuovo ethos, cioè da disposizioni e preferenze soggettive, orientato agli interessi e bisogni personali, alla ricerca di autonomia e libertà rispetto alle organizzazioni, alla selezione chiara e precisa di compiti e tempi per eseguirli: in una parola a un ethos dell’auto-realizzazione personale che utilizza il volontariato in termini piuttosto strumentali. Potremmo anche dire, utilizzando i termini di Taylor e di Bellah, che il volontariato contemporaneo esprime un ethos terapeutico ed espressivistico, ma simultaneamente anche uno atomistico e strumentale (Taylor 1994). Ciò andrebbe a trasformare poco a poco e strutturalmente il ruolo stesso del volontario, rendendolo più effimero, transitorio, episodico: meno “comunitario” e più individualistico; meno duraturo; meno rivolto al bene degli altri; meno “sacrificale”, etc. Di fronte a questo ipotetico cambiamento, si osservano da parte delle organizzazioni – da un lato – tentativi “dal basso” di personalizzare i compiti e gli impegni richiesti ai volontari, rendendoli molto più flessibili e negoziabili e – dall’altro – tentativi “dall’alto” da parte di istituzioni pubbliche di rinvigorire il volontariato andando a cambiare le componenti di “volontarietà” e di “gratuità” che stanno al cuore della pratica. Agli individui è richiesto di “fare volontariato” come esperienza curriculare necessaria ad acquisire un posto di lavoro e le loro attività vengono riconosciute e remunerate in modalità diverse. Le teorie della modernizzazione riflessiva che basicamente stanno alla base di questa diagnosi (Beck e Beck-Gernsheim 2002), riconoscono la compresenza di almeno due fonti normative in contraddizione e competizione reciproca nel dare senso alle biografie contemporanee dei volontari: da un lato una spinta verso l’individualizzazione che mal sopporta ogni appartenenza collettiva forte e qualsiasi richiamo alla eteronomia; dall’altro una spinta ad appartenenze più stabili ed eteronome che, seppure non più di tipo tradizionale, si richiamano ancora a quadri di riferimento comuni. La modernità riflessiva non è la semplice Modernità con il suo progetto in “crisi”, bensì l’insieme plurale di culture – derivato dalla decostruzione di quel progetto – che si scontrano l’una con le altre. A partire da questo sfondo, Hustinx e Lammertyn (2003) elaborano una tipologia di stili di volontariato basata sulle trasformazioni strutturali delle biografie individuali. Vengono considerati i percorsi biografici dei volontari, così come sono inquadrati entro le strutture e culture sociali contemporanee. Non siamo di fronte a una versione individualistica del cambiamento, ma invece a una focalizzata sulle trasformazioni embedded delle biografie individuali. Gli autori differenziano un piano oggettivo dell’analisi – che riguarda i vincoli strutturali delle biografie – e uno soggettivo relativo alle motivazioni. Selezionano poi sei variabili specifiche che dovrebbero caratterizzare quegli stili: il quadro di riferimento biografico; la struttura motivazionale; il corso e l’intensità dell’impegno; l’ambiente organizzativo; la scelta del campo di attività; la relazione al lavoro (pagato). Ne derivano due macro tipologie di volontariato, quello “tradizionale” e quello “riflessivo”, che sintetizziamo nella Tab. 1. Tab.1. Quadro analitico per esplorare stili collettivi e riflessivi di volontariato. Fonte Hustinx e Lammertyn (2003). Quadro di riferimento biografico Struttura motivazional e Stile di volontariato Volontariato collettivo Volontariato Riflessivo Oggettivo: Soggettivo: Oggettivo: Soggettivo: strutturalemotivazionalestrutturalemotivazionalecomportamentale attitudinale comportamentale attitudinale - Biografia standard - Identità - Biografia auto- Auto-identità; e collettiva; collettiva; costruita; - Auto- Continuità - assoggettamento - Discontinuità riflessività; biografica; dato per scontato biografica; - Match - appartenenza ai fini collettivi; - appartenenza biografico; ascrittiva al gruppo; - Dichiarazione di elettiva al gruppo; - Libertà e - Codice di condotta appartenenza al - Corso d’azione incertezza; collettivamente gruppo; auto-determinato. - Autoprescritto. - Monitoraggio monitoraggio eteronomo. - Coordinare il - Senso ovvio del - Interazione intensa - Motivazioni significato religioso dovere e di tra condizione auto-centrate; e ideologico; responsabilità alla biografica ed - Strumenti per - Posizioni e ruoli comunità e alla esperienza di avere a che fare chiari nella collettività; volontariato; con incertezze comunità di - Strumenti per - Discontinuità biografiche e per rilevanza. una affermazione biografiche in una autodi stabilità e termini di crisi e di realizzazione identità ri-orientamenti attiva; biografica. attivi. - individualismo “solidale” o “altruistico”. Corso e intensità dell’impegno - Corso di vita prevedibile è la base per un impegno regolare e a lungo termine; - Partecipazione intensa; - Impegno centrale. - Impegno incondizionale ed auto-evidente; - Devozione completa. Ambiente organizzativ o - Gerarchico, organizzazioni segmentate socialmente o ideologicamente; - Centralità di leadership forti; - Accoppiamento stretto tra appartenenza formale e volontariato; - Volontariato associativo. Inclusione/esclusion e basate sull’universalismo di una cultura e di modi di vita comuni; - Iniziate e controllate da altri; - Riproduzione di modelli di genere tradizionali. - Attaccamento forte all’organizzazion e; - Impegni sovrapposti; - Socializzazione e integrazione tramite impegno; - Dedicazione ai valori e scopi organizzativi. - Società centrata sul lavoro retribuito; - Autorità professionale; - Posizione ancillare del volontario. - Buone intenzioni e senso comune. Scelta dell’attività Relazione al lavoro pagato - Politiche basate sul gruppo; - Solidarietà ristretta; - Idealismo; - Impegno comunitario di ampio respiro e multi scopo. - Corso di vita imprevedibile è la base per un impegno accidentale , irregolare e a breve termine; - coinvolgimento dinamico: entrate e ritirate frequenti; - flessibilità e mobilità; - impegno effimero o lasco. - Organizzazioni non profit e terziarie, iniziative decentralizzate; - Disaccoppiamento tra membership e volontariato; - Strutture istituzionali e forme di acquisizione centrate sui volontari; - Volontariato di programma. - Disintegrazione locale tra integrazione globale; reti elettive globali; - interazione tra azione locale e impegni locali. - Significato esteso del lavoro; volontariato come parte dell’esperienza lavorativa; Professionalizzazio ne del settore volontario e del - Impegno condizionale, dipendente su bisogni e condizioni biografiche; - Preferenza per progetti sequenziali e contingenti. - Attaccamento all’organizzazion e debole; - impegno vicario; - Impegno delocalizzato; - Orientamenti funzionali: focus sulle attività offerte; non sulle organizzazioni in cui sono prestate. - Politiche dell’identità e degli stili di vita; - Sentimenti contingenti di solidarietà; - Pragmatismo, attivismo localizzato; - Preferenza per servizi personalizzati; - Valori postmaterialistici. - Volontari professionali. volontariato; - Volontariato corporativo. Come è facile osservare gli stili sintetizzano due momenti della Modernità, quello tipico dalla fine delle Guerra Mondiale – fino alla metà degli anni Settanta (tradizionale) – e quello successivo che vede esplodere le pratiche riflessive. Per inciso si tratta di un passaggio generazionale che vede esplodere i cosiddetti valori immateriali. Gli autori concludono e rilanciano la loro proposta teorica con tre riflessioni: 1) non è assolutamente vero che la cosiddetta “individualizzazione” del volontariato coincida con una perdita di influenza della società. I processi di individualizzazione sono processi del tutto sociali. Le dinamiche strutturali che innescano l’imprevedibilità e la complicazione dei corsi di vita, la cultura del professionismo che entra nel volontariato – così come molte altre pressioni strutturali e culturali collettive – danno forma alle nuove esperienze di volontariato; 2) una vera trasformazione è visibile nella relazione tra i volontari e le organizzazioni. È infatti evidente che i volontari più giovani non hanno una relazione di appartenenza forte e neppure una forte identificazione con i valori e le procedure delle organizzazioni. Il rapporto è molto più lasco, libero, meno coinvolgente e più pragmatico. Inoltre l’impegno dei volontari tende a diventare più intermittente, oscillante, contingente, dipendente da molti altri impegni che si sovrappongono in maniera non sempre ordinata o ordinabile (e ciò deve essere tenuto in conto dalle organizzazioni); 3) infine, tra chi esperimenta momenti di volontariato aumenta la presenza di persone dotate di capitali umani, economici e sociali elevati, mentre tendono a venire marginalizzati coloro che hanno minori dotazioni. Questa riflessione è corroborata da miriadi di ricerche internazionali che mostrano correlazioni statistiche positive tra numero di volontari/organizzazioni volontarie, un contesto sociale sviluppato e con la presenza di istituzioni pubbliche forti (contraddicendo la tesi della “compensazione” tra pubblico e privato). 2.2. Le strategie per affrontare l’individualizzazione: l’emergere della volunteerability In un successivo saggio Hustinx e Meijs (2011), a partire dalla riflessione sulla de-tradizionalizzazione del volontariato, presentano le diverse strategie messe in atto per re-radicarlo collettivamente. Identificano perciò due aspetti salienti della trasformazione biografica in atto che influenzano la capacità di diventare volontari: 1) la volontà e 2) la possibilità, di diventare volontari. Il primo aspetto riguarda le preferenze individuali – i desideri e i bisogni – che orientano le persone a diventare volontari; il secondo riguarda invece i cambiamenti sociali strutturali che influenzano le biografie individuali e che, conseguentemente, possono agevolare o limitare la possibilità di diventare volontari. Gli studiosi osservano il “divenire” volontari dal punto di vista soggettivo (quanto si desideri fare volontariato) e oggettivo (il contesto che agevola o contrasta quella volontà). L’insieme di aspetti soggettivi e oggettivi definisce la variabile chiamata volunteerability delle persone (la loro “volontariabilità”): non solo il desiderio personale di diventare volontario, ma anche tutto quell’insieme di funzionamenti che possono agevolare il volontariato. Questa volontari-abilità può essere sostenuta e agevolata a tre livelli operativi: individuale (lavorando sugli orientamenti valoriali personali), organizzativo (lavorando sulla relazione tra volontari e organizzazioni) e sociale (lavorando sui macro contesti di vita che possono agevolare il volontariato come, per esempio, gestire meglio l’organizzazione temporale della società). I tentativi di promuovere la volontari-abilità, cioè di riradicarla in un contesto comune e non individualistico, fanno presa su diverse logiche, strategie e attori. Le logiche possono essere “funzionali” e/o “normative” e sono finalizzate a ri-orientare i volontari – sempre più alla ricerca di premi e ricompense individuali – verso ricompense più collettive. Rispetto alla variabile della willingness soggettiva, le logiche sono solitamente di tipo normativo, come per esempio i tentativi di socializzare a valori di buona cittadinanza e impegno comune; rispetto al lato oggettivo della availability, invece, si lavora sulla pervasiva mancanza di tempo e sull’asimmetrizzazione tra i tempi sociali. Le organizzazioni di volontariato rispondono a quelle sfide ampliando, per i loro membri, le possibilità di negoziazione e di impegno contingente. In sintesi pretendono un impegno meno durevole e pervasivo, accettando invece volontari “oscillanti”. Le strategie attuate comprendono, da un lato, la possibilità di adattarsi alle nuove spinte individualistiche e, dall’altro, tentativi di rimediare alle conseguenze negative dell’individualizzazione. Nel primo caso non si cerca di legare il volontario per sempre e “olisticamente”, bensì a progetti limitati nel tempo e molto specifici: il volontario non “sposa” la causa “nella buona e nella cattiva sorte”, ma più semplicemente si impegna finché ciò lo soddisfa. Potremmo dire con Giddens che il volontario elabora una relazione “pura” con l’organizzazione. Organizzazioni e volontari negoziano e scambiano tempi, impegni, risorse, premi, riconoscimenti, etc., sviluppando così strategie “funzionalmente abilitanti”. Nel secondo caso, più presente tra le istituzioni pubbliche, si opera mediante pressioni normative di tipo culturale cercando di modificare e contrastare la cultura dell’individualismo. Qui sono protagoniste tutte le “campagne” di informazione e formazione del volontariato che cercano di modificare la willingness dei cittadini. Rispetto agli attori, infine, si distingue tra interni, cioè relativi alla organizzazione, ed esterni cioè relativi a terze parti (quali i governi, le aziende, la scuola, i gruppi di pressione, i mass mediai, etc.) che cercano di influenzare la partecipazione al volontariato elaborando ampi programmi di socializzazione (corsi di civismo, giornate del volontariato, giorno della donazione, servizio civico pubblico, etc.). Gli autori evidenziano tre tipi diversi di strategie in atto. La prima prende il nome di “abilitazione funzionale” e risponde in termini prevalentemente organizzativi ai problemi dell’individualizzazione. I nuovi valori e desideri degli individui – così come la loro disponibilità di tempo sempre minore, contingente, episodica e oscillante – spingono le organizzazioni a ritagliare le loro attività in modalità estremamente individualizzate. Si parla quindi di “flessibilizzazione” laddove si cerca di proporre impegni più leggeri e semplici che necessitano di meno competenze e attenzioni. In buona sostanza il management delle organizzazione rende più semplice ai volontari entrare ed uscire dal contesto, riducendo il loro impegno e modificando il significato dello stesso. È come se il taylorismo fosse entrato nel mondo del volontariato, con le conseguenze del caso. Non più artigiani, ma operai in una sorta di catena di montaggio del volontariato. Uno dei modi più utilizzati dalle organizzazioni per attirare nuovi individui, è quello di unire una esperienza di volontariato con un diverso tipo di esperienza (per esempio lavorativo, religioso, politico, di tempo libero, etc.), o viceversa, così da rendere possibili due esperienze nel medesimo tempo. Altri esempi molto interessanti sono quelli di combinare una esperienza di volontariato a un “appuntamento” con altri individui single; organizzare esperienze di volontariato famigliare così da tenere unite le famiglie per un obiettivo comune; sperimentare forme di “volon-turismo” mixando turismo e volontariato; unire volontariato ambientalista con attività fisica e finalizzata al fitness, etc. Questo tipo di strategia è chiamato Add-On e implica che i volontari non debbano dedicare tempo alla sola attività di volontariato, bensì fare diverse cose e apprendere nuove capacità che potranno poi essere spese ben al di fuori della sfera volontaria. Non a caso sempre di più i datori di lavoro sono interessati a ingaggiare persone che abbiano avuto anche esperienze di volontariato, perché ritenute più capaci di lavorare in opzione multitasking. La seconda strategia ha invece a che fare con “pressioni normative” che cercano di influenzare i processi di individualizzazione, esattamente in termini opposti ai precedenti. Qui, infatti, si tratta di agenzie formative prevalentemente terze, meno implicate sul piano pratico e organizzativo, che tentano di ri-socializzare i volontari a pratiche meno individuali e contingenti. Le strategie istituzionali vanno da pressioni limitate che mostrano ricompense innovative per i volontari; modalità per informare in modo chiaro sul tipo di impegno richiesto; obblighi istituzionali. Gli autori distinguono tra soft pressure esercitate soprattutto dai governi, dai politici o da leader che fanno appelli pubblici per il volontariato, celebrandone le virtù e provando a incrementare la willingness degli individui appellandosi a valori come la solidarietà collettiva, la cittadinanza attiva e la coesione sociale: e hard pressure come ad esempio l’istituzione di banche del tempo che rendono reciproco l’aiuto, andando così a modificare il sistema di ricompense del volontariato (solitamente asimmetrico); o forme di punizione come il rendere obbligatoria una attività di volontariato per chi ha commesso certi tipi di reato. Una forma diversa di pressione normativa è quella operata dalle istituzioni educative, o comunque da ogni istituzione che attivi un curriculum teso a socializzare gli individui al volontariato. In alcuni Paesi è stato anche istituito un anno di volontariato civico obbligatorio, per i più giovani. Nella loro purezza ideal-tipica queste due strategie esistono raramente. Quasi sempre si tentano mix e ibridazioni proprio perché è necessario operare sia in termini soggettivi sia oggettivi, normativi e funzionali, organizzativi e sociali. Uno degli esempi migliori è dato dal principio della self-reliance utilizzato da numerose organizzazioni per rendere esplicita e obbligatoria la norma del “dover fare volontariato”: “un membro è anche un volontario”, questo il contratto. Si pensi alle attività richieste ai genitori di figli che frequentano un gruppo sportivo, laddove gli si chiede di accompagnare i figli alla partita, o di lavare l’abbigliamento da gara, etc. Qui l’azione volontaria è obbligata, ma allo stesso tempo molto limitata, esplicita e programmabile. Oppure si pensi al movimento cooperativo, laddove per diventare membri occorre anche svolgere ore di volontariato. Queste ibridazioni legano attività volontarie alla erogazione di un servizio, anche se spesso questo volontariato è spesso rivolto a se stessi e ai membri della propria organizzazione. Si tornerebbe quasi all’idea di volontariato come “gettone di accesso” a un lavoro o a un servizio. La riflessione conclusiva degli autori è che queste logiche e strategie, nel tentativo di agevolare la volunteerability, stanno rendendo sempre più difficile riconoscere il “nuovo” volontariato come volontariato tout court. Di fatti stanno entrando nel campo semantico del volontariato aspetti di obbligatorietà molto espliciti e una cultura della negoziazione e del tornaconto personale molto evidente: il risultato finale sembra quello di modificare il significato basilare del volontariato, diminuendo il senso di dedicazione e di auto-sacrificio personale che sta alla base della sua moderna immagine. Non è un caso che numerose survey ci informino della ricezione preoccupata e ambivalente dei cittadini che non riconoscono più in queste forme il volontariato. D’altra parte è però evidente che il volontariato del futuro sarà simultaneamente più ricompensato (individualmente) e più regolato (collettivamente), fino a sfiorare il campo della obbligatorietà. Quali saranno le conseguenze di questi processi a “tenaglia” che, da un lato, enfatizzano in modo non coordinato (e difficilmente coordinabile) “libertà individuale” ricompensata e “obbligatorietà collettiva” sanzionabile e, dall’altro, cercano di ibridarli in una immagine di volontario “a tempo determinato”, su temi sociali sempre più “specifici”, senza “appartenenze” forti, e sempre più mediato dalle tecnologie e dai social network? 2.3. Individualizzazione o “dividualizzazione”? I possibili effetti perversi delle strategie in atto Non è affatto un caso che la stessa Hustinx (2010b) in un recente contributo, metta in evidenza il paradosso di quello che ora chiama “volontariato istituzionalmente individualizzato” e che rappresenterebbe il pendant culturale della cosiddetta rivoluzione delle forme organizzative ibride della tarda modernità. Di cosa si tratta? Riprendendo la concettualizzazione di Beck, la studiosa belga sottolinea come con processo di individualizzazione non si intenda affatto la “liberazione” dell’individuo dai lacci e lacciuoli delle istituzioni e dalle loro regolazioni. Non si può parlare di gioco a somma zero, uno in cui diminuirebbe il peso normativo e aumenterebbe corrispettivamente quello della libertà individuale. Si tratta, invece, proprio di un processo istituzionale che impone all’individuo di diventare più “individuo”. In buona sostanza per individualizzazione si deve concepire il processo di inclusione sociale da parte delle istituzioni della modernità: una «struttura di controllo istituzionalmente dipendente delle situazioni individuali» (Beck 1986, 131). Non vi è alcuna possibilità di confondere questo processo con uno scelto liberamente e di pura emancipazione: nella contemporaneità si diventa individui non per scelta, ma in quanto ri-prodotti dalle strutture e culture sociali. D’altronde questo assoggettamento, questo processo imposto, realmente implica nuove opportunità di libertà e di scelta. Potremmo vedere in questo processo e la sua concettualizzazione, come erede di una lunga tradizione sociologica che percepisce la Modernità come incremento simultaneo di libertà e controllo (Wagner 1994): dalla “sacralizzazione” dell’individuo come rappresentazione sociale di durkheimiana memoria, passando per i processi di razionalizzazione che però scatenano anche spazi di irrazionalità e libertà di derivazione weberiana, fino all’idea di Legge individuale di Simmel, per proseguire con le configurazioni sociali individualizzanti di Elias, l’individualismo individualizzato di Parsons, i processi di distinzione descritti da Bourdieu, fino alla nuova governamentalità di foucaultiana memoria, etc. Per utilizzare una immagine più attuale, siamo di fronte alla società delle “apps”. Le “apps” sono riduzioni istituzionali della complessità, dispositivi pre-definiti di orientamento che un individuo può utilizzare per personalizzare il suo rapporto con il multiverso virtuale della rete. Nella scelta e nell’utilizzo delle “apps”, l’individuo attiva suoi disposizioni e poteri, ma lo fa su qualcosa che comunque è già stato preparato da altri. È ben visibile qui il meccanismo sociale dell’individualizzazione che, appunto, implica una duplice logica in atto: quella del controllo e della standardizzazione, e quella della libertà di scelta. Ciò che non può essere però scelto è se “individualizzarsi” o meno in questo modo. La scelta dei life-styles, compresi quelli dei volontari, è già “incluso” in questo meccanismo e non fa problema: ciò che invece è “scandaloso” è qualsiasi tentativo di uscire da questa “tenaglia”. Così, per fare un esempio chiaro, la scelta di fare “famiglia numerosa” non può che essere concepito come il risultato di una “razionalità limitata” e osservato con sorpresa: chi vuole stare fuori dalla forma di individualizzazione moderna, non può che esporsi al ridicolo. L’individualismo istituzionalizzato trova una sua traduzione, anche nel campo del volontariato, esattamente in questi termini: la crescente istituzionalizzazione di forme più individualizzate di volontariato (Hustinx 2010b). Il nuovo volontariato è agevolato da forme organizzative che, managerialmente, predispongono ruoli aperti e flessibili per individui disposti a svolgerli in modi più oscillanti e meno normativamente regolati. Di nuovo siamo di fronte all’emergere di una configurazione sociale generata da meccanismi la cui logica, simultaneamente, implica l’attivazione di (determinate) capacità individuali e di (determinate) regole organizzative adatte a quel tipo di attivazione. I tentativi delle organizzazioni di abilitare un volontariato più individualizzato e meno impegnativo richiede, paradossalmente, una organizzazione molto più analitica e specifica delle attività volontarie. Da qui la miscela di libertà e controllo tipica di questa sindrome individualistica di cui vedremo più avanti la contingenza e i limiti. Secondo la Hustinx sono in atto due processi di ri-strutturazione del volontariato, uno primario e uno secondario. Quelli primari si riferiscono alla istituzionalizzazione dell’individualismo entro associazioni volontarie di tipo classico; quelli secondari, invece, riguardano l’attività di attori diversi, specialmente quella di organizzazioni ibride. La tipologia è così riassunta (Tab. 2). Tab. 2. Il volontariato istituzionalmente individualizzato (Hustinx 2010b, 170). Forma organizzativa Contesto Immagine del volontario Tipo di intervento Logica dominante Ri-strutturazione primaria Associazione classica Cambiamento biografico Il nuovo volontario Logica organizzativa interna; bottom-up; approcci di nuovo management Rilevanza della scelta Ri-strutturazione secondaria Organizzazioni ibride Welfare mix, politiche dell’ethos Volontariato “Plug-in” Logica istituzionale esterna; top-down; intervento di terze parti Rendicontabilità; disciplinamento I processi primari riguardano le organizzazioni classiche di volontariato e gli attori della società civile moderna. Ne deriva una configurazione dove il volontario è considerato essere un membro stabile di una organizzazione che partecipa alla vita sociale in modo spontaneo e informale, mediante attività multifunzionali, generando legami significativi in un tessuto sociale ben localizzato e denso di tradizioni. Potremmo dire che è un volontariato “comunitario”, cioè ascritto, particolaristico, rivolto all’altro, con attività diffuse, e ricco di attaccamenti affettivi. È da questo contesto che emergono i processi di trasformazione. Il nuovo volontariato si caratterizza come la risposta delle organizzazione ai cambiamenti nelle biografie individuali dei volontari, divenute più flessibili, meno normative e più frammentate. Le organizzazioni, mediante un nuovo tipo di management, cercano soluzioni (solitamente basate su programmi ben determinati) per attirare individui non più disposti a fare i volontari nel vecchio modo. Nascono così progetti di volontariato ad hoc, con tempistiche specifiche e richieste di competenze molto determinate. Il volontariato si presenta nella veste di un menu in cui scegliere su cosa, come e per quanto tempo impegnarsi. Alcuni studiosi parlano di “individualismo organizzato” proprio a sottolineare come le associazioni si trasformino per poter essere scelte da volontari sempre più individualizzati. È un passaggio verso un volontariato di tipo “contrattuale”, cioè fortemente scelto (acquisito), universalistico, rivolto alla crescita del sé, con attività molto specifiche e pregno dei valori della razionalità strumentale (Lichterman 2006; Eliashop 2013). I processi secondari sono, invece, interventi top-down realizzati da terze parti, soprattutto governi, istituzioni socializzative e imprese. Qui non siamo all’interno del contesto della società civile, quanto del welfare mix o comunque della ibridazione e delle partnership pubblico-private che implicano la presenza di attori istituzionali, imprenditoriali e di terzo settore. È da questo contesto – dove la cooperazione attori con identità ben specifiche era schermata dai principi della competizione mercantile – che si sviluppano i nuovi processi di ibridazione istituzionale. Entrano qui le pratiche dei quasi-mercati, dell’accreditamento, del contracting-out. Per alcuni come Bode (2006) si tratterebbe di una mercantilizzazione dell’erogazione di servizi. Ma questa non è la sola logica in atto. Si osserva un contro movimento di ri-collettivizzazione del volontariato, mediante l’intervento di terze istanze votate alla ri-socializzazione degli individui. Il caso del servizio civile nazionale che permette ai ragazzi di sperimentare l’impegno civico; del volontariato scolastico che attribuisce crediti formativi; del volontariato per “esclusi” e per persone in difficoltà; del volontariato nel contesto d’impresa che permette di incamminarsi verso una professione che concili idealità e reddito, sono esempi espliciti di quella strategia top-down che seleziona forme di volontariato a “progetto”, funzionalizzato a raggiungere uno scopo preciso, con impegni ben determinati e di tipo plug-in. Questo secondo stream di volontariato non attiva la libertà di scelta, bensì forme inconsuete di disciplinamento e di politiche dell’ethos, una sorta di ortopedia dell’individualismo autocentrato che le strategie di primo tipo invece enfatizzavano. Le conseguenze di queste due logiche generative, quella della “flessibilizzazione organizzativa” e quella “risocializzazione degli individui”, sono piuttosto problematiche per una serie di motivi che cerco di evidenziare di seguito: 1) vi è una netta contraddizione tra i programmi di “flessibilizzazione” e di “ri-collettivizzazione” del volontariato. Sebbene entrambi facciano leva sull’individualismo istituzionalizzato, i primi tendono a “liberarlo” nel mercato (o in arene che somigliano a mercati), aprendolo a competizione, professionalizzazione e ricerca di ricompensa; i secondi, invece, provano a rinchiuderlo entro istituzioni pubbliche-collettive e a disciplinarne le attività soprattutto a scopi di ri-educativi. Non si comprende bene come queste due logiche, spesso compresenti, possano convivere senza creare confusione nel significato e nella pratica del volontariato; 2) in nessuno dei due programmi il volontariato è più vissuto come un ruolo che richiede una dedicazione definitiva, come un impegno di lungo termine e multi-funzionale, ma ormai come una attività tra le altre che ha una sua logica fondamentalmente funzionale, finalizzata a scopi delimitati (per esempio la crescita personale). Il ruolo del volontario diventa funzionale ad altri ruoli ora però vissuti in parallelo e ritenuti più rilevanti dal punto di vista personale; 3) in entrambi i programmi muta in modo radicale la relazione tra individuo e organizzazione, sempre più estrinseca e non fondativa di un senso di membership rilevante per l’identità personale. Potremmo anche dire che essere volontario diventa molto rilevante per il riconoscimento sociale, diventa una “maschera” che si indossa per acquisire una buona reputazione spendibile in altri campi; 4) muta anche la figura sociale del volontario non più concepito come qualcuno che, senza ricercare alcun “ritorno” o vantaggio si dedica ai bisogni degli altri, ma come qualcuno che impersona il ruolo per finalità di crescita personale, di auto-realizzazione, di self-display; 5) cambiano i rapporti tra i volontari e tra le organizzazioni, laddove i primi somigliano sempre più a quelli tra colleghi e i secondi a quelli di competizione per un mercato dei servizi in espansione; 6) cambiano i tipi di attività da svolgere, sempre meno caratterizzati da un contenuto politico, assistenziale, religioso e sempre più riferiti a compiti “leggeri” ed esperienzialmente arricchenti; 7) cambia il significato dell’azione volontaria sempre più centrata su attività di micro-cambiamento, sulla ricerca di soluzioni ad hoc e senza un contesto di riferimento orientato al mutamento sociale collettivo; 8) cambia il riferimento alle grandi visioni ideali della società che tendono a svanire, essendo sostituite dalla ricerca di alleanze sul territorio che prescindono da ideologie e che tendono a riprodurre lo status quo con pochi, ma precisi miglioramenti; 9) cambia il processo di selezione degli scopi del volontariato, sempre meno scelti autonomamente dai volontari e sempre più decisi dall’alto, da terze istanze non appartenenti al terzo settore. Il volontario diventa “forza lavoro” per progetti decisi da élite; 10) cambia il rapporto tra volontari e appartenenti ad altre forme del terzo settore, laddove la differenza tende a diventare meno chiara. Inoltre aumentano le forme di volontariato ad altissimo turn over associazionistico, laddove ciò che conta non è la fedeltà alla causa auto-definita in un percorso di maturazione e deliberazione collettivo, ma il passare da esperienza a esperienza entro campi di attività e mission diverse. Infine è in atto una selezione di smart volunteer, cioè di quelle persone che possono permettersi di fare volontariato, avendone le capacità, i tempi e i capitali necessari. Mi pare di poter concludere questo paragrafo con alcune riflessioni abbastanza chiare ed evidenti. Il “nuovo volontariato” – fortemente caratterizzato dal punto di vista generazionale – sta mutando di figura. Sembra essere soggetto ad almeno due tendenze, spesso in contraddizione reciproca: la spinta – dall’interno – alla flessibilizzazione dei compiti e degli impegni e quella – dall’esterno – verso la ri-collettivizzazione etica. In altri termini le forze della “privatizzazione” (e mercantilizzazione) e della “pubblicizzazione” (e ri-collettivizzazione), procedono insieme andando a generare un tipo di volontariato “individualizzato istituzionalmente”. Se questa torsione tardo moderna agevola e abilita un certo tipo di volontari (giovani, non ancora occupati, ideologicamente neutri, in cerca di esperienze formative, bisognosi di creare un capitale reputazionale, etc.), seleziona negativamente le forme più tradizionali e quelle che non riproducono i mainstream. Ma è un altro il risultato più “emergenziale” di questa nuova configurazione. Il processo ambiguo di individualizzazione sta, a mio parere, innescando potentissimi processi di “dividuazione”. Con “dividuazione” intendo un processo sociale che tende a dividere la personalità individuale, ritagliando per ogni ruolo sociale un suo aspetto (della personalità) e funzionalizzandolo al compito atteso socialmente. In altri termini la personalità viene scomposta in tante sottopersonalità che devono adeguarsi ai compiti istituzionalizzati nei ruoli. Potremmo anche parlare di Sé multipli, ma preferiamo il termine di disposizioni molteplici del sé introdotta dal sociologo francese Bernard Lahire (2013). In buona sostanza la società funzionalmente differenziata crea sottosistemi specifici dotati di loro propri auto-valori autonomi. Il processo di individualizzazione procede al crescere della differenziazione sociale, proprio perché l’individuo incluso de jure e spesso de facto in ciascun sottosistema, viene socializzato in modo complesso e plurale. Tale socializzazione non viene però più sintetizzata dallo sviluppo ordinato di una identità personale coesa (quello che alcuni autori chiamano il “carattere”) capace di gerarchizzare e regolare l’identità sociale pluralizzata. Al processo di individualizzazione che doveva in un certo senso compensare l’acquisizione di disposizioni di ruolo pluralistiche – generando un centro di controllo stabile e capace di identificazione e individuazione forte, come per esempio il freudismo aveva sperato – viene a sostituirsi una identità personale intra-differenziata capace di adattarsi e reagire alle aspettative sociali e alle loro richieste di ruolo. L’individuo si dividua, diviene un “medium” di possibilità variabili su cui la società può imprimere qualsiasi forma. È esattamente ciò che il filosofo francese JeanMichel Besnier chiama l’homme simplifié, un individuo che serve solo come indirizzo di processi anonimi di comunicazione e che perde l’interiorità come capacità autonoma di riflessione, subissato di segnali da decifrare e rifrangere (2013). Ancora meglio questo dividuo è definito dalla psicanalista Catherine Ternynck (2012) come l’homme de sable, l’uomo fatto di sostanza sabbiosa su cui la società imprime ogni sua “orma”, il dividuo che non ha più alcuna vera sostanza da opporre alla colonizzazione del sociale. Questo dividuo è come l’uomo senza qualità, colui che viene riempito dalle attese sociali, ma che non può più gerarchizzarle attraverso un orientamento personale, un ethos, perché manca di un centro identitario reso vano dall’ironia che sprigiona l’aumento esponenziale del possibile altrimenti. Così questo dividuo agirà ed esperirà in un certo modo a seconda dei ruoli che impersonerà e a seconda delle attese a lui rivolte. Non avrà il problema di integrare i diversi ruoli perché essi saranno mantenuti il più possibile non comunicanti, immuni gli uni dagli altri. Vite parallele, ma non di individui diversi ed auto-centrati, bensì all’interno di ogni dividuo che moltiplica le proprie risposte alle aspettative sociali per agevolare i processi comunicativi. Non occorre essere degli apocalittici per notare, ad esempio, nell’utilizzo dei social media questa deriva alla intradifferenziazione della personalità: la creazione di avatar e di identità fittizie e multiple è una risposta alla crescita della complessità sociale organizzata per differenziazione funzionale (Bodei 2002). Così una parte della psicologia contemporanea parla del Sé come collezione di sé molteplici e dipendenti dal contesto – compartimentalizzati – che servono a ridurre una complessità sociale non regolabile mediante un unico centro di controllo identitario (McConnell 2011). In termini simili argomenta il filosofo remo Bodei (2011) quando riflette sulle molteplici vite immaginarie che danno forma ai Sé attuali, anche se lo fa da un punto di vista diverso, cioè come possibilità di arricchire il proprio sé, in un mondo sociale che tende a reificarlo. Per tornare a una descrizione sociologica, potremmo immaginare una serie di Sé, contemporanei e paralleli, ognuno dei quali risponde, con certe disposizioni, al contesto sociale (ai suoi codici e alle sue regole) in cui si trova. Il buon padre che gioca affettuoso con i figlioletti, per poi diventare spaventosamente esigente e sadico con i suoi dipendenti di lavoro; simpaticamente giovanile con gli amici; seduttivo con le amiche; senza pietà con gli avversari politici; pietosissimo con i vecchietti a cui fa compagnia il sabato pomeriggio per volontariato; tenero e affettuoso con la moglie, etc., tutto nello stesso individuo che, per l’appunto, si dividualizza. Questo dividuo risponde alle richieste dei sotto-sitemi in modo stereotipato: re-agisce alle loro pretese; ma queste “chiamate” non sono vocationes, non sono beruf, appelli morali, per il semplice motivo che il dividuo non oppone a tali pressioni alcuna barriera, alcuna “pausa” riflessiva che lo difenda dall’immediatezza del comando: il dividuo somiglia spaventosamente sa una “macchina banale” etero-programmata. Forse, se gli andrà bene, svilupperà come compensazione una “interiorità” immaginaria che lo schermerà dall’aggancio dei sistemi. Ma sarà soltanto un “abisso” reattivo, non capace di ordinare la panoplia di stimoli da mediare riflessivamente. 2.4. I meccanismi generativi della “dividualizzazione”: socializzazione senza personalizzazione Non è certamente la prima volta che si parla di crisi dell’individuo. Basta ricordare che il Novecento si apre con la descrizione freudiana dell’Io che non è più “a casa propria”; con quella darwiniana di un individuo che è l’epifenomeno dell’evoluzione; con quella nietzschiana della fine dell’uomo e della morte di Dio; con quella marxiana delle strutture materiali latenti che generano le ideologie umanistiche, per non dimenticare la descrizione dell’individuo metropolitano di Simmel. Questa forte critica proseguirà per tutto il Novecento esplodendo nel cosiddetto post modernismo a sfondo nichilista: a quel punto l’uomo non sarà che un epifenomeno di altro. Ma l’incubazione è stata lunga e ha colpito diverse “figure” dell’individualità occidentale – complice l’evento dei totalitarismi – da quella del borghese represso e pseudo-razionale, fino a quella dell’eroe che riesce a sciogliere i nodi gordiani con una de-cisione risolutiva. Tutta l’arte del Novecento ha ironizzato, quando non più decisamente smontato, l’idea di individuo trasparente, razionale e autonomo. Vorrei qui però cercare di evidenziare almeno uno dei meccanismi generativi del dividualismo, riprendendo le analisi di un autore che certamente non può essere tacciato di vitalismo, irrazionalismo, postmodernismo: Jurgen Habermas. I riferimenti espliciti per questa riflessione sono L’excursus sulla appropriazione dell’eredità della filosofia del soggetto da parte della teoria dei sistemi di Luhmann, contenuto in quel poderoso tour de force critico ricostruttivo che è Il Discorso filosofico della modernità, e il capitolo dedicato alla Individuazione tramite socializzazione. Sulla teoria della soggettività di Georg Herbert Mead contenuto ne Il pensiero postmetafisico. Habermas pone il problema dell’individualizzazione dal punto di vista strettamente sociologico e cioè come risultato empirico di un processo di differenziazione. Da Spencer a Durkheim, da Marx a Simmel, da Parsons a Luhmann, la sociologia ha sempre coniugato la differenziazione sociale e l’individualizzazione: l’individualismo, come aspettativa sociale e come semantica culturale, è un valore culturale che diventa norma di comportamento e di auto-stilizzazione. Con ciò l’individualizzazione è sempre un “fatto sociale”, fino alla famosa e ironica definizione di Gehlen: “un individuo è l’istituzione in un caso unico”. Il meccanismo genetico della individualizzazione è genericamente spiegato nel seguente modo: nel corso del tempo gli individui, in quanto organismi bio-psichici, vengono a contatto con combinazioni sempre più diverse di strutture e ruoli sociali (differenziazione delle cerchie sociali, à la Simmel; mutamento delle forme di solidarietà à la Durkheim; razionalizzazione delle sfere di vita à la Weber, etc.); ognuna di queste cerchie si distingue idealmente ed empiricamente sempre di più dalle altre (in termini di aspettative) così che i punti di sovrapposizione diminuiscono. Le diverse aspettative di ruolo a cui ogni individuo viene socializzato nel corso della sua biografia (processo di inclusione sociale), pongono problemi di interpretazione e di conflitto; per poter agire entro tali configurazioni complesse, gli individui debbono essere capaci di elaborare i conflitti (interpretativi); per poterlo fare devono prendere distanza da ognuno dei “campi” o sfere di vita, costituendo nel processo un centro personale di scelta (individuazione o personalizzazione). In una situazione normale gli individui si individuano tramite socializzazione, auto-generando mediante processi riflessivi un centro di regolazione (l’Io), che prende distanza dai ruoli sociali, riuscendo a ordinare la complessità secondo un proiprio punto di vista ormai maturo e responsabile. Come si nota immediatamente, Habermas distingue tra individualizzazione e individuazione. La radice dei termini è la stessa, dal greco “atomo” che significa a livello empirico un “oggetto” singolo; a livello ontologico un determinato ente non ulteriormente divisibile; a livello logico qualcosa che non è predicabile di altro. Così detto un individuo è tutto ciò che può essere identificato quantitativamente in termini spazio-temporali: è una singolarità. È però evidente che questa specificazione quantitativa descrive bene il mondo degli oggetti fisici, ma non quello degli umani. Non a caso tutta la filosofia medievale cercherà di introdurre distinzioni qualitative capaci di dare ragione di quello speciale individuo che è l’essere umano, un “oggetto” che è anche soggetto (De Monticelli 2009). Per comprenderne il motivo, basta un piccolo esempio. Si può ben dire che Saulo di Tarso, Paolo e San Paolo siano lo stesso individuo, dal punto di vista quantitativo; ma certamente non sono la stessa persona, essendo intervenuto un processo di conversione, prima, e di santificazione (cioè di riconoscimento sociale), poi, che ne hanno qualificato diversamente la vita. Quel che conta è che con la crisi della filosofia scolastica e dell’umanesimo cristiano, nella proto-modernità – in specifico mediante Cartesio, Kant e l’idealismo – l’individuo comincia ad essere compreso come la fonte spontanea del conoscere e come il soggetto che agisce autonomamente. La sociologia della conoscenza spiegherebbe questa trasformazione, con il cambiamento della forma di differenziazione da una stratificata a una funzionale. Il concetto corrispettivo sarebbe quello della inclusione dell’individuo in ogni sottosistema sociale con una generalizzazione/rispecificazione del suo valore sociale, in quanto essere umano con diritti universalmente riconosciuti. In questa innovativa valorizzazione sociale dell’individuo vediamo quello che Charles Taylor ha chiamato l’immaginario sociale moderno (2005). Di fatti quando parliamo di individualismo moderno (termine sembra coniato da Tocqueville) o di culto dell’individualità (concetto durkheimiano) stiamo riferendoci ad autorappresentazioni culturali dell’uomo (semantiche dell’individualità). Queste rappresentazioni, queste messe-in-immagine, queste “epistemi” avrebbe detto Foucault, non sono semplici appendici dell’individuo-oggetto, bensì sue parti costituenti che influisco sul modo di vivere, di essere riconosciuti e di auto-comprendersi degli individui nelle società. Ed è proprio a queste auto-rappresentazioni culturalmente valide che dobbiamo ora rifarci, riprendendo le fila del discorso sul “volontario”. Secondo Habermas, infatti, a partire dal Settecento e soprattutto con l’ideologia economicista, l’Occidente sviluppa una auto-interpretazione atomistica-strumentale e individualistica dell’uomo. È la grande trasformazione sradicante di cui parla gran parte della critica culturale del secondo Novecento (Polanyi 2010; Dumont 1993). L’uomo si identifica con un individuo autointeressato e strategicamente orientato agli altri, che si confronta con le sue relazioni sociali in termini di risorse-vincoli: la famosa Dialettica dell’Illuminismo di adorniana memoria. Con la scrittura tipica di Habermas, sintetizziamo questo punto: «Nelle condizioni dell’agire strategico, l’io dell’auto-determinazione e dell’auto-realizzazione viene a cadere fuori dai riferimenti intersoggettivi. Il soggetto che agisce strategicamente non attinge più ad un mondo della vita intersoggettivamente condiviso; diventa egli stesso quasi privo di mondo, si pone solo nei confronti del mondo oggettivo, compiendo scelte in base ai criteri delle scelte soggettive. In ciò egli non è rinviato al riconoscimento altrui. L’autonomia si trasforma in libertà arbitraria, l’individuazione del soggetto socializzato si trasforma nella solitudine di un soggetto senza vincoli che possiede se stesso» (1991, 228). Questo “individualismo possessivo” a sfondo strumentale e solipsistico non ha nulla di naturale, bensì è frutto una cultura e di un “immaginario” specifici. Il meccanismo generativo che ne presiede l’emergere è così sintetizzabile: la società si auto-differenzia in sotto-sistemi funzionalmente differenziati, ognuno dei quali include l’uomo soltanto attraverso la mediazione del suo codice specifico, rigettando tutto il resto. Davanti a questa funzionalizzazione, l’uomo esperisce la moltiplicazione delle attese relative a suoi modi di comportarsi in ambiti sociali diversi; le cerchie sociali da concentriche diventano intersecantesi e la società stessa si presenta come una rete di connessioni da attivare o meno a seconda del proprio interesse o degli obblighi imposti dal contesto. Libertà e controllo sociale coesistono, venendo scambiate contro legami sociali significativi. L’individuo moderno è “quasi privo di mondo”, astrattamente libero ma simultaneamente reificato, dovendo scambiare l’accrescimento di possibilità con forme significative di legame sociale: Luhmann avrebbe detto che si tratta di guadagnare “libertà, mediante indifferenza”. Si badi bene che questa libertà (astratta) di decisione, non è altro che il rovescio di un “obbligo” latente ed invisibile non facilmente tematizzabile (e che quindi agisce, nascosto, quasi in termini di un Super-Ego che ingiunge paradossalmente al godimento). La forma di individualismo che ne emerge è quella di un istanza di “Io” ridotta a prestazione cognitiva d’adattamento passivo a un mondo sociale sempre meno intelliggibile. Questo il tema ricorrente della critica corrosiva di un filosofo come Zizek (2001). In termini heideggeriani l’individuo della società è un campo di possibilità da pro-vocare, da slatentizzare nel modo dell’impiego. L’individuo isolato e singolarizzato è letteralmente un “impiegato” della società che non elabora affatto maggiore autonomia e capacità di condurre la propria vita secondo un orientamento personalizzante. Non vi è alcuna persona inconfondibile, alcuna prima persona in rapporto costitutivo con altri: l’individualizzazione è un divenire non-persona, ma individuo isolato e astratto. Di nuovo con la prosa classica di Habermas: «L’immagine speculare dell’inclusione secondo la teoria dei sistemi è cioè l’individuo liberato e singolarizzato che si vede, secondo molteplici ruoli, posto di fronte a possibilità di scelta moltiplicantesi; in verità egli deve prendere tali decisioni in base alle condizioni sistemiche che non sono a sua disposizione. Come membro di organizzazioni, come partecipante al sistema, l’individuo compreso dall’inclusione è sottomesso ad un diverso tipo di dipendenza. Colui che viene incluso deve adattarsi ai media di regolazione come il denaro e il potere amministrativo. Questi esercitano un controllo sul comportamento che da una parte è individualizzato poiché è improntato sulla scelta del singolo regolata da preferenze, dall’altra parte è invece standardizzato, poiché accorda possibilità di scelta soltanto in una dimensione previamente data (dell’avere o del non-avere, dell’ordinare o del disobbedire)» (Habermas 1991, 232). L’individuo moderno che pensa di possedere se stesso in modo strumentale e singolare, non dispone delle condizioni sociali della sua fioritura. Potrà solo essere individually enhanced and powered, ma mai persona che fiorisce. Il modo di individualizzarsi, seguendo standard estrinseci ed eteronormati, non lo individua, o come preferisco dire non personalizza quella vita individuale. La rete delle dipendenze aumenta di ora in ora; la gabbia di acciaio di weberiana memoria diventa una congerie di dispositivi di (in)dividuazione e identificazione che sembrano lasciare liberi gli individui, ma che in realtà li dispongono a obbedire a logiche anonime e standard. E si badi bene che questa logica di “colonizzazione” non riguarda solo il mondo del lavoro o dell’amministrazione, bensì penetra anche nelle sfere intime, fino a “commercializzare” la ricerca del partner (Illouz 2007) La conclusione critica di Habermas, qui davvero discepolo della Scuola di Francoforte, è chiara e di tale rilevanza da dover essere immediatamente ripresa. Sarà infatti solo comprendendo questa genesi dell’individualismo, che si potranno aprire nuove strade verso un immaginario sociale diverso da quello moderno; quei sentieri interrotti dove l’uomo si auto-comprende come «un soggetto capace di parlare e di agire, che si presenta ed eventualmente si giustifica come persona insostituibile e inconfondibile di fronte ad altri partecipanti al dialogo. Quest’autocomprensione, fonda l’identità dell’Io. In essa l’autocoscienza viene ad articolarsi non come autoriferimento di un soggetto conoscente, ma come l’auto-accertamento etico di una persona capace di intendere e di volere» (Habermas 1991, 203). È solo così, nella ricerca di relazione mediata inter-soggettivamente, nell’auto-relazione a sé indotta dalla relazione con il “prossimo”, che l’individuo diventa persona, trascendendo le ferree logiche dell’individualizzazione sistemica singolarizzante3. 3 Come è ben chiaro, sottoscrivo la pars destruens del discorso habermasiano, pur non riconoscendo a quella construens, la via d’uscita cercata. Per questo si veda Maccarini, A. e Prandini, R (2010).