1 ITALIANO E DIALETTI COME SI ARRIVA ALLA SITUAZIONE CONTEMPORANEA Fino al XVI secolo tutti i volgari furono considerati sullo stesso piano: erano tutte lingue di uguale prestigio. Nel 1525 Pietro Bembo, un importante scrittore veneziano, pubblicò un’opera, intitolata Prose della volgar lingua, nella quale proponeva a tutti gli scrittori italiani di imitare la lingua di Petrarca per la poesia e quella di Boccaccio per la prosa. Dal quel momento il fiorentino letterario trecentesco fu la lingua usata per la scrittura e per tutti gli usi alti e riuscì a imporsi su tutti gli altri dialetti non per ragioni politiche ma solo per cause di prestigio culturale. Per molti secoli però gli italiani continuarono ad adoperare il dialetto per parlare in famiglia e nella comunicazione quotidiana;; l’italiano era abbastanza conosciuto ma poco parlato. Nel 1861 l’Italia divenne una nazione unitaria, un solo Stato. Il sistema scolastico si unificò, i collegamenti migliorarono, cominciò l’emigrazione e il servizio militare obbligatorio;; l’italiano si diffuse molto più di prima. Il grande cambiamento si è avuto dopo la seconda guerra mondiale, negli anni ‘50 del Novecento: grazie allo sviluppo economico, gli spostamenti verso le città e da una regione all’altra, la scuola dell’obbligo, i mezzi di comunicazione di massa e soprattutto la televisione, in pochi decenni l’italiano è diventata una lingua parlata da tutti e per tutti gli usi. L’italiano è ancora oggi una grande lingua di cultura. Nei secoli del Rinascimento (XV-­XVI sec.) ha contribuito alla formazione della cultura occidentale. Oggi non ha più la stessa importanza, ma molti stranieri studiano l’italiano per motivi culturali (arte, musica, storia, letteratura) e da qualche anno anche per motivi economici. Molte parole italiane sono rimaste nelle altre lingue: sonetto (poesia), allegro, piano, lento, ecc. (musica), pizza, maccheroni, ecc. (gastronomia), il saluto ciao e ancora molte altre. Gli italòfoni non sono solo in Italia (Svizzera, emigrati, Malta, Albania, ex colonie africane Eritrea e Somalia). Oggi l’Italia è terra di immigrazione e molti stranieri apprendono qui la lingua per esigenze di lavoro. Per avere una comunità linguistica non basta parlare la stessa lingua in qualsiasi situazione o paese. Una comunità linguistica è costituita da persone che condividono una stessa lingua con tutte le sue varietà, lo stesso territorio geografico, la stessa organizzazione politica, lo stesso atteggiamento 2 verso le varietà della propria lingua. Percepiscono quindi allo stesso modo il valore e le funzioni delle varietà della propria lingua e il rapporto che questa possiede con altre lingue. Il repertorio linguistico è l’insieme delle varietà di una lingua. Se una comunità linguistica possiede più di una lingua, avrà più di un repertorio. La varietà linguistica è un sottoinsieme della lingua caratterizzato da tratti linguistici adoperati da un certo gruppo di parlanti in certe situazioni. I tratti possono essere fonetici, morfologici, sintattici, lessicali, testuali. L’italiano è la lingua comune a tutto il territorio nazionale e convive da sempre con i dialetti delle singole regioni. I dialetti non sono varietà dell’italiano ma lingue autonome. Hanno tutti origine dal latino. Non sono “figli dell’italiano ma fratelli”. Ancora oggi molti italiani alternano l’uso del dialetto e l’uso dell’italiano a seconda della situazione comunicativa. La situazione linguistica italiana però non può definirsi né di bilinguismo né di diglossia. Con bilinguismo si indica “una situazione linguistica in cui i parlanti possono alternare due lingue considerate di uguale livello e prestigio”. Si ha un bilinguismo comunitario quando tutta la popolazione di un territorio conosce entrambe le lingue;; si dice invece bilinguismo bicomunitario, quando una parte della popolazione, come accade in Alto Adige, parla e conosce una delle due lingue e l’altra parla e conosce l’altra. Con diglossia si indica una situazione linguistica in cui i parlanti usano una lingua per le comunicazioni più alte e formali e un’altra per situazioni basse e informali. In caso di diglossia le due lingue non possono scambiarsi mai i ruoli. In Italia invece il dialetto si usa solo per la comunicazione familiare e colloquiale, mentre l’italiano si usa in tutte le situazioni. Fino agli inizi del Novecento si poteva parlare di diglossia anche per l’Italia, ma da quando l’italiano ha cominciato a farsi strada anche nella comunicazione familiare, quotidiana e colloquiale, ciò non è stato più vero. Per questo motivo il linguista Gaetano Berruto per definire la situazione italiana ha parlato di dilalia, con la quale indichiamo l’esistenza di due lingue, una l’italiano, comune all’intera comunità linguistica e adoperato in tutte le situazioni, l’altra il dialetto, diverso da regione a regione e adoperato solo per gli usi privati e colloquiali. 3 Carta dei dialetti italiani: http://ioparloitaliano.yolasite.com/resources/00italica.jpg?timestamp=1264274
803461 Figg. 1 e 2 Dialetti italiani e parlate alloglotte 4 I confini di una carta geolonguistica sono segnati dalle isoglosse. Un’isoglossa è una linea immaginaria che unisce tutti i punti estremi di un’area geografica che condivide lo stesso fenomeno linguistico. Il fenomeno può essere fonologico (e in questo caso definiamo la linea isòfona), morfologico (isomòrfa), sintattico, lessicale (isolessi). L’isoglossa delimita pertanto un’area linguistica che possiede un determinato fenomeno linguistico e la separa dal territorio confinante che non lo possiede. 5 • Dialetti settentrionali parlati a nord della cosiddetta linea La Spezia -­ Rimini che corre tra il Tirreno e l’Adriatico. I dialetti settentrionali si possono distinguere in − dialetti galloitalici, parlati in aree abitate anticamente da popolazioni celtiche: Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia Romagna e, per effetto di antiche migrazioni, in alcune piccole aree linguistiche della Basilicata e della Sicilia;; − dialetti veneti, parlati in aree abitate anticamente dai veneti: Veneto, Trentino, Venezia Giulia. • Dialetti centromeridionali parlati a sud della linea La Spezia -­ Rimini. Tra i dialetti centromeridionali distinguiamo − i dialetti toscani;; − i dialetti còrsi, parlati nella Corsica che rientra nel territorio politico francese;; − i dialetti mediani, parlati nelle altre regioni dell’Italia centrale e in particolare quelle a sud della cosiddetta linea Roma -­ Ancona, Marche centrali, Lazio a est del Tevere, Abruzzo aquilano;; quelli a nord della linea Roma -­ Ancona, detti mediani di transizione, condividono alcuni tratti con i dialetti toscani. • Dialetti meridionali o alto-­meridionali, parlati nelle aree più a sud delle Marche e del Lazio, in quasi tutto l’Abruzzo, in Molise, in Campania, in Basilicata, nella Puglia centro settentrionale, nella Calabria settentrionale. • Dialetti meridionali estremi, parlati nel Salento (Puglia meridionale), nella Calabria centromeridionale e in Sicilia. • Hanno sistemi linguistici autonomi nell’insieme delle varietà italo-­romanze il ladino, parlato in alcune vallate del Trentino-­Alto Adige e del Veneto, e il friulano, parlato nel Friuli. A parte vanno considerati i dialetti sardi, distinti tra gallurese e sassarese, a nord (più vicini al toscano), logudorese, campidanese. In Italia esistono minoranze alloglotte che parlano lingue minoritarie, non considerate nel novero delle varietà italo-­romanze, come l’arbäresh, il grico, lo sloveno, il francoprovenzale, ecc. I dialetti settentrionali sono caratterizzati da sonorizzazione delle consonanti sorde intervocaliche, caduta delle vocali atone, assenza di consonanti lunghe: 6 fradel “fratello” ( da FRATELLUM e non da FRATREM). Una caratteristica particolare dei dialetti galloitalici è la presenza di vocali turbate (sono le vocali anteriori pronunciate con lieve arrotondamento delle labbra – anteriori procheile) lüna “luna”, fög “fuoco” I dialetti mediani conservano la u finale del latino e distinguono tra il genere neutro per indicare la materia (FERRUM > lo ferru) e il genere maschile per indicare l’oggetto (lu ferru “l’oggetto di ferro”). I dialetti meridionali sono caratterizzati da indebolimento delle vocali atone soprattutto in fine di parola: russəә “rosso”;; da assimilazioni come quannəә “quando”, chiumməә “piombo” (< PLUMBUM);; da metafonesi: rossa ma russəә, mesəә ma misəә. Molti tratti sono in comune ora con le aree centrali ora con quelle del Meridione estremo. I dialetti meridionali estremi hanno un vocalismo tonico diverso e le vocali atone in posizione finale sono solo i, a e u (tila, cruci, filu, ecc.). DIALETTI ITALIANIZZANTI L’italianizzazione riguarda in misura minore o maggiore tutto il repertorio del dialetto. È un fenomeno che colpisce in particolare il lessico originario dei dialetti. Si formano coppie sinonimiche. Il termine del dialetto arcaico può convivere o essere soppiantato da un termine dell’italiano quasi sempre rifonetizzato. È una sorta di traduzione in dialetto del significante (cioè dell’aspetto fonico-­
acustico) italiano. Italianizzazione del lessico dei dialetti Esempi dal salentino Dialetto arcaico Dialetto italianiz. Italiano aunu, aunicieddu agnellu, agnieddu agnello frummicula furmica formica scincarieddu vitieddu vitello Esempi dal bolognese Dialetto arcaico Dialetto italianiz. Italiano andavén curidur corridoio catér truver trovare pker mazlér macellaio Esempi dal calabrese meridionale Dialetto arcaico Dialetto italianiz. custureri sartu muccaturi fazzolettu cantunera angulu 7 Italiano sarto fazzoletto angolo 8 IL TIPO LINGUISTICO ITALIANO Tratti che caratterizzano il tipo linguistico italiano: Ø importanza delle vocali nella struttura in sillabe;; Ø posizione libera dell’accento (anche se la maggioranza delle parole è accentata sulla penultima sillaba);; Ø suffissi alterativi per esprimere grandezza e piccolezza (campanella, campanone, scatolina, scatolone, ecc.);; Ø possibilità di formare parole per composizione (cassapanca, aspirapolvere, ecc.);; Ø possibilità di non esprimere il pronome personale (dormo bene, piove, ecc.);; Ø maggiore libertà nell’ordine delle parole (Mario canta domani;; domani canta Mario;; canta Mario domani). Con le altre lingue romanze condivide: Ø la preferenza per la sequenza determinato+determinante (la casa di Giulia, la gonna gialla, piazza Garibaldi, ecc.);; Ø la tendenza a dare maggiore pregnanza semantica al nome più che al verbo, quindi alla parte esterna della frase più che a quella centrale. Si parla infatti di lingue esocentriche, a differenza delle lingue germaniche dette ebdocentriche. L’ITALIANO STANDARD Possiamo definire standard una lingua che rappresenta il modello di riferimento di una comunità linguistica e che ha carattere neutro, non marcato. L’italiano standard funge da modello per l’intera popolazione;; è la lingua descritta dagli strumenti di riferimento, come dizionari e grammatiche. Deriva dalla lingua letteraria fissatasi nel Cinquecento sul fiorentino trecentesco di cui porta ancor oggi le tracce (per es. il dittongo -­uo-­ in parole come buono, il nesso atono -­er -­ in forme come amerò, ecc.). Nel tempo si è però distanziato dal modello letterario (per es. nell’uso del passato prossimo in luogo del passato remoto). In generale il prestigio del fiorentino si è esaurito a favore dell’italiano settentrionale e (in misura minore da qualche anno) della varietà romana. In quanto neutro e non marcato l’italiano standard dovrebbe essere privo di regionalismi e dei tratti tipici del parlato colloquiale. È il modello linguistico di maggior prestigio, ma mentre nello scritto la sua presenza e il suo uso sono estremamente rilevanti, nel parlato i suoi usi sono più limitati. 9 Dal punto di vista fonetico è realizzato solo parzialmente nella comunicazione orale. 10 MORFOLOGIA FLESSIVA La morfologia studia le forme delle parole e il modo in cui queste forme cambiano per esprimere diversi valori grammaticali. L’italiano è una lingua flessiva: le sue forme nominali, verbali, pronominali flettono, variano cioè la desinenza per esprimere significati grammaticali diversi. La morfologia flessiva studia il modo in cui si esprimo i diversi significati grammaticali. La flessione Ø dei nomi, degli articoli e degli aggettivi indica genere (maschile/femminile) e numero (singolare/plurale);; Ø dei pronomi indica numero, persona (prima, seconda, ecc.) e funzione sintattica (io soggetto, me oggetto);; Ø dei verbi indica persona, numero, tempo, modo (amo, amerei, ecc.), aspetto (amai, ho amato, amavo) e diatesi (amo, sono amato, ecc.). La morfologia derivazionale o lessicale studia invece la formazione delle parole attraverso la derivazione e la composizione. Da una parola base se ne possono ricavare delle altre. In base al sistema morfologico le lingue sono classificate in due grandi categorie: le lingue analitiche e le lingue sintetiche. Nelle lingue analitiche, dette anche isolanti, ogni significato è rappresentato da un solo elemento, una sola parola autonoma che non cambia forma. Nelle lingue sintetiche più elementi si uniscono, si legano in una sola parola per esprimere significati diversi. Gli elementi isolati o legati insieme in una parola sono i morfemi. Per morfema intendiamo dunque la più piccola unità linguistica dotata di significato. Nelle lingue analitiche abbiamo morfemi liberi, in quelle sintetiche morfemi legati. Le lingue flessive come l’italiano appartengono alle lingue sintetiche. In quasi tutte le parole dell’italiano, infatti, possiamo distinguere tra un morfema lessicale, detto anche radice o radice lessicale, che porta il significato della parola e uno o più morfemi grammaticali, che danno l’informazione grammaticale e segnalano, attraverso gli accordi, il rapporto che la parola ha con le altre contenute in una frase o in un testo o sono, in alcuni casi in grado di cambiare il significato e il ruolo grammaticale della parola. Il morfema grammaticale o l’insieme dei morfemi grammaticali di una parola è detto anche desinenza. Se i morfemi grammaticali hanno la funzione principale di variare la parola per darci le forme del genere, numero, tempo, aspetto, ecc. parliamo 11 di morfemi flessivi;; se invece hanno anche il potere di cambiare il significato della parola ed eventualmente la sua categoria grammaticale, parliamo di morfemi derivativi: morfemi morfemi morfemi morfemi lessicali grammaticali -­
lessicali grammaticali flessivi derivativi ragazz-­ -­o ragazz-­ -­ata am-­ -­are am-­ -­abile cant-­ -­erei cant-­ -­ata bell-­ -­e bell-­ -­ezza La morfologia flessiva è dunque quella che si occupa delle trasformazioni che la stessa parola subisce per trasmettere diverse informazioni grammaticali (genere e numero per i nomi, tempo, modo, aspetto, persona per i verbi, ecc.). La morfologia derivazionale si occupa delle trasformazioni di una parola in un’altra parola di diverso significato. La flessione ha un’importante funzione di economia linguistica: risparmia un alto numero di elementi linguistici riuscendo a esprimere più cose con forme sintetiche. La flessione grammaticale in italiano si realizza attraverso i morfemi grammaticali che si legano direttamente al morfema lessicale con qualche eccezione come alcuni tempi verbali che si formano con l’aggiunta dell’ausiliare (ho mangiato, avevo letto, ecc.);; con il cambiamento della vocale radicale (feci/faccio), con lo spostamento dell’accento (amo/amò). La morfologia lessicale riguarda la formazione delle parole, che in italiano può avvenire per derivazione e per composizione. Gli affissi si distinguono in suffissi, che si aggiungono di seguito alla parola base (decis-­o > decis-­ion-­e), e prefissi che si premettono alla parola base (deciso > in-­deciso). Si parla anche di infissi quando si interpongono tra la base lessicale e il suffisso: regol-­abil-­ità. I suffissi si interpongono tra la parola base e la desinenza (forn-­ai-­o, pan-­ific-­
are). Modificano il significato della parola base, ma possono modificare anche la categoria grammaticale, possono cioè operare una transcategorizzazione (deciso > decisione, lavorare > lavoratore, bianco > biancheggiare, ecc. ). Buona parte dei suffissi italiani deriva dal latino (arius > aio, ibilis > ibile, ecc.);; altri sono stati introdotti attraverso altre lingue, come il suffisso -­iere, che è 12 stato tratto da francesismi affermatisi nel medioevo, come cavaliere, destriero (anticamente destriere), ecc. Alcuni suffissi si specializzano nel formare nomi di persona o di azione, ma più spesso formano derivati con funzioni differenti (benzinaio ma anche vecchiaia). I prefissi, a differenza dei suffissi, si premettono alla base lessicale e soprattutto non consentono la transcategorizzazione: con la prefissazione, cioè, da un sostantivo si avrà sempre un sostantivo o da un aggettivo un aggettivo e così via (deciso > indeciso, visione > previsione, ecc.). I suffissi non sono mai morfemi autonomi, mentre i prefissi possono avere anche funzione di preposizioni o avverbi: sotto, con, sopra, ecc. La composizione associa, invece, due parole distinte e autonome formando una nuova entità (chiaro + scuro > chiaroscuro;; porta + bagagli > portabagagli). I composti si distinguono in verbali e nominali. I composti verbali sono formati dall’unione di verbo + nome (asciugamano, portabagagli) o dall’unione di verbo + avverbio (benedire). I composti nominali derivano dall’unione di due nomi (cassapanca), di nome + aggettivo (pellerossa), di due aggettivi (agrodolce). Come si vede la formazione delle parole implica cambiamenti semantici e spesso anche passaggi di categoria grammaticale. La possibilità di mutare le forme è nota al parlante che abbia una completa e adeguata competenza della propria lingua. Ciascun parlante ha la capacità di ricondurre ogni singola forma a una forma primaria da cui dipendono le altre e che in italiano sono perlopiù il maschile singolare per nomi e aggettivi e l’infinito per i verbi (ragazzi è ricondotto a ragazzo e corriamo a correre). In altre lingue può esserci un sistema diverso. Se in italiano vogliamo cercare sul dizionario una parola che non conosciamo come flogistica, sappiamo di dovere cercare flogistico. In lessicografia (che si occupa della compilazione dei dizionari), questa forma originaria si chiama lemma;; se pensiamo alla rappresentazione mentale che ne ne fa ciascuno di noi, parliamo di lessema. Non dobbiamo confondere lemma e lessema con parola. Parola è una definizione impropria che adoperiamo comunemente e che ha un significato 13 ampio e generico. Possono per esempio svolgere la funzione di parole anche alcuni sintagmi fissi o polirematiche Se consideriamo il significato delle parole composte, come aspirapolvere, capodanno, ecc., siamo di fronte a parole distinte da quelle che costituiscono la base della loro formazione (aspirare – polvere, capo di anno). È una distinzione evidente sia per la diversità della forma sia e soprattutto per la diversità di significato. Nei dizionari, infatti, i composti sono considerati come lemmi e viene loro riconosciuto lo statuto di parola. Diverse sono le espressioni ferro da stiro, carta di credito o anche chiedere scusa, dove la natura di costituente semantico è meno evidente, perché il significato si deduce dal significato dei singoli elementi che le compongono. Tuttavia anche in questi casi dobbiamo ammettere che si tratta di sequenze particolari: non possiamo sostituire un elemento e dire *attrezzo da stiro, non possiamo neppure modificarne le singole parti con l’aggiunta di determinanti: *la carta nuova di credito, *il ferro caldo da stiro ecc. Diremo al contrario la carta di credito nuova o la nuova carta di credito o anche il ferro da stiro caldo. Queste espressioni il cui significato è deducibile dai significati delle parti che le compongono (sala d’aspetto), hanno comportamenti particolari che le assimilano a parole semplici. Sono espressioni linguistiche costituite da più parole chiamate in vari modi: unità lessicali superiori, sintagmi fissi, unità polirematiche o semplicemente polirematiche. Se consideriamo infine espressioni nominali come palla al piede, vicolo cieco, lacrime di coccodrillo, sala d’aspetto, carta di credito o espressioni verbali come vuotare il sacco, prendere sotto gamba, chiedere scusa, ci troviamo di fronte a casi molto diversi tra loro. Tuttavia se il criterio principale in base al quale distinguiamo le parole una dall’altra è quello semantico, queste sequenze, pur essendo costituite da più elementi, si avvicinano molto di più, dal punto di vista lessicologico, a delle parole autonome, perché esprimono un concetto e un significato nella loro globalità, un significato unitario. Sono, sia pure con modalità diverse, un costituente semantico. Il fatto che espressioni come palla al piede, lacrime di coccodrillo, vuotare il sacco, che appartengono alla fraseologia italiana, siano costituenti semantici è dimostrabile facilmente: la palla al piede non è una palla, ma una persona o una situazione che rappresentano un peso e un ostacolo;; una persona che piange lacrime di coccodrillo, non versa dagli occhi le lacrime dell’animale feroce, ma mostra un falso pentimento. Allo stesso modo chi vuota il sacco non svuota un contenitore di tela ma racconta la verità. 14 Abbiamo detto della grande distinzione tra lingue analitiche e sintetiche. La distinzione tra lingue analitiche e lingue sintetiche si basa, tuttavia, sul numero prevalente di forme autonome (morfemi liberi) o di parole sintetiche (morfemi legati);; la tipologia è valutata in base alle caratteristiche predominanti. In ogni lingua però esistono sia elementi analitici sia elementi sintetici. Anche in italiano possiamo avere formazioni analitiche (i verbi con ausiliare;; il comparativo: più bello, meno grasso, ma a volte convive la forma sintetica come nel caso di più cattivo e peggiore). Anche in italiano abbiamo morfemi legati come le congiunzioni (e, che, ecc.) gli articoli e i pronomi. In qualche caso alcuni di questi morfemi sono detti semiliberi, perché, come avviene per gli articoli, possono svolgere la loro funzione solo se legati a un nome. L’italiano deriva il suo carattere flessivo dal latino. La lentezza con cui l’italiano è cambiato nei secoli in cui è stata lingua prevalentemente scritta ha fatto sì che si generasse una forte allomorfia: convivono cioè forme diverse per esprimere la stessa informazione grammaticale oppure si hanno esiti irregolari, che cambiano nonostante ci si trovi davanti allo stesso contesto fonetico. Per es. il plurale di amico è amici (con l’affricata palatale), ma il plurale di cuoco è cuochi con occlusiva velare. Abbiamo paradigmi di verbi in cui cambia la vocale della radice: tiene ma teniamo, irregolarità come posso, puoi, possiamo, potevo, alternanza di radici come vado/andiamo. Di solito questi allomorfi sono complementari: si escludono a vicenda, possiamo cioè usare o l’uno o l’altro (non possiamo dire *ando o *vadiamo). Esiste però anche un’allomorfia libera che fino agli inizi del Novecento si incontrava spesso soprattutto nei testi scritti: la prima persona dell’imperfetto poteva essere io amavo o io amava, questione/quistione, ecc. Oggi è rimasta solo qualche traccia come nell’alternanza devo/debbo che è anche nel congiuntivo deva/debba, anche se orami deva quasi non si usa più. Il carattere flessivo dell’italiano deriva dal latino, che però possedeva un grado maggiore di flessività. Il latino, infatti, cambiava desinenza anche per esprimere la funzione sintattica: ROS-­A (“la rosa”) femminile, singolare, soggetto;; ROS-­AE (“della rosa”) femminile, singolare, genitivo, ecc.;; Ora in italiano l’espressione della funzione sintattica è esterna alla parola: avviene tramite preposizioni o tramite la posizione nella frase. Tutte le forme che possono assumere nomi, verbi, pronomi, ecc. rappresentano il paradigma (l’insieme di tutte le flessioni possibili). L’italiano eredita dal latino paradigmi complessi con molte possibilità di flessioni, spesso irregolari. 15 I paradigmi nominali sono più opachi: abbiamo gli invariabili, il morfema –e che può indicare femminile plurale (rose) ma anche maschile singolare (cane);; il morfema –i che può indicare anche il plurale femminile (mani), ecc. Molto più trasparenti sono i paradigmi dei verbi, che indicano in un solo morfema la persona, il tempo, il modo, l’aspetto (cant-­avamo). Rispetto al latino c’è stata comunque qualche semplificazione ma anche qualche aggiunta, come il condizionale, comune a tutte le lingue romanze o i cinque tempi del passato (passato prossimo, passato remoto, imperfetto, trapassato prossimo, trapassato remoto). MORFOLOGIA NOMINALE I NOMI La flessione dei nomi indica le categorie di numero e di genere. Il genere non sempre è legato al significato del nome, in rapporto al quale è perlopiù immotivato. La distinzione maschile/femminile coincide spesso con il genere naturale quando si tratta di nomi che indicano persone o esseri animati: fratello/sorella;; ragazzo/ragazza;; leone/leonessa;; gatto/gatta, ecc.). Non è però sempre così: il soprano (per un ruolo di cantante femminile), la sentinella (anche per il soldato che fa la guardia alle caserme militari). Per le cose inanimate o per i concetti astratti il genere maschile o femminile è del tutto indipendente dal significato (il quaderno, la casa, la carità, il pensiero, ecc.). È solo un genere grammaticale. Il maschile è il genere non marcato in cui si inseriscono le parole nuove formate senza suffissi e i prestiti stranieri. Se però hanno terminazione in –a è favorito il genere femminile. Molte discussioni si sono fatte riguardo alla correttezza politica da usare verso le donne. Non tutti le parole o i suffissi hanno prodotto tradizionalmente il femminile: maestro/maestra, dottore/dottoressa, direttore/direttrice, ma se avvocatessa si è affermato da qualche tempo, medichessa, soldatessa o anche ministra, sindaca hanno spesso una connotazione ironica se non dispregiativa. Si è abbastanza affermato l’uso dell’articolo femminile in casi come la presidente, la preside o anche il nome dopo il presidente Rosi Bindi o l’accordo al femminile come il ministro Fornero è stata intervistata. Le posizioni sono spesso contrastanti. Per indicare il numero i nomi italiani sostituisco sempre la desinenza e non devono aggiungere un nuovo morfema come avviene in altre lingue: spagnolo: amig-­o / amig-­o-­s 16 italiano: ragazz-­o / ragazz-­i È un sistema più economico perché un solo morfema grammaticale indica il genere e il numero. In base alle desinenze in italiano distinguiamo tra nomi che escono in -­o, in -­a e in -­e;; la flessione tra singolare e plurale per ciascuna delle tre uscite o l’assenza di flessione ci consente di distinguere sei classi di nomi: 1. La classe dei nomi in -­o / plur. -­i: soldato/-­i, lupo/-­i, fatto/-­i. Sono tutti maschili, con eccezioni come mano/-­i che è femminile. 2. La classe dei nomi in -­a / plur. -­e: donna/-­e, cicala/-­e, causa/-­e. Sono tutti femminili. 3. La classe dei nomi in -­e / plur. -­i: occasione/-­i, fiore/-­i, insegnante/-­i. Sono sia maschili sia femminili, con l’eccezione di il carcere maschile al singolare e femminile al plurale: le carceri. 4. La classe dei nomi invariabili: re, virtù, caffè, città, ecc. Sono sia maschili sia femminili. 5. La classe dei nomi in -­a / plur. -­i: poeta/-­i, papa/-­i. Sono maschili con l’eccezione di arma/-­i, ala/-­i che sono femminili. 6. La classe dei nomi in -­o / plur. -­a: dito/-­a, ciglio/-­a. Sono maschili al singolare e femminili al plurale. Le classi 1, 2 e 4 sono ancora produttive: si formano cioè ancora parole maschili in -­o/-­i e femminili in -­a/-­e e il patrimonio lessicale continua ad arricchirsi di parole invariabili. Sono ancora attive anche la classe 3, per le parole formate con -­tore, -­trice, -­zione e dai participi presenti (redattore, redattrice, attore, cantante), e la classe 5 per la formazione di parole che finiscono in -­ista (giornalista) o in -­ma per formazioni dal greco (enzima). La classe 6 non è più produttiva. Non si formano più plurali in -­a che derivavano direttamente dal latino. Per molte di queste parole, infatti, si è affiancato anche un plurale in -­i: il lenzuolo, le lenzuola/i lenzuoli;; il braccio, le braccia/i bracci;; il muro, le mura/i muri, ma in molti casi il significato dei due plurali può essere diverso. La classe 4 nell’italiano antico comprendeva soltanto i monosillabi (re, gru, tre, ecc.);; in seguito si sono aggiunte le parole tronche (accentate sull’ultima vocale) derivate da parole che avevano subito un’apocope: virtu(de)/virtu(di) > virtù Oggi le parole invariabili, riconducibili alla classe 4, sono molte di più e comprendono: − prestiti da altre lingue: bar, computer, sport;; − parole in -­a: mascara;; 17 − parole in -­e: specie;; − parole in -­i: crisi;; − parole in -­o: radio. È una classe di parole che in italiano si va sempre più ampliando, anche grazie al fatto che i recenti prestiti dalle lingue straniere non sono più adattati alle forme della nostra lingua. La categoria del numero in questi casi è espressa dagli articoli o anche dal verbo o dal contesto e così via. La stessa cosa in questi casi e per i nomi della classe 3 vale per il genere che non è espresso dalla desinenza ma da altri elementi. I prestiti integrali dalle lingue straniere e, in particolare, dall’inglese vanno di solito ad arricchire il serbatoio delle parole invariabili. La norma prevede infatti che il plurale con –s finale in italiano non sia espresso (il computer / i computer). La norma è bene rispettata anche per i prestiti che terminano in –o e che potrebbero essere assimilati ai nomi della classe 1 (il video / i video, il jumbo / i jumbo). Nell’italiano popolare accade spesso però che la –s del plurale non solo sia mantenuta ma sia estesa anche al singolare (i jeans ma anche un jeans, un fans e, per lingue diverse dall’inglese, un murales). In alcuni casi più rari il plurale originario si è stabilizzato (i Lieder, plurale tedesco di un genere musicale, da Lied “romanza”, o anche i marines). AGGETTIVI Gli aggettivi si dividono in tre classi: 1. la classe in -­o/-­i per il maschile e -­a/-­e per il femminile, che comprende le desinenze per entrambi i numeri ed entrambi i generi (bello/belli/bella/belle);; 2. la classe in -­e/-­i con una sola desinenza per il singolare e una per il plurale, senza distinzione tra maschile e femminile (triste/tristi);; 3. la classe degli aggettivi invariabili che comprende l’aggettivo pari, alcuni aggettivi che indicano colori (rosa, viola, avana, ecc.), i prestiti (trendy, ecc.) e altri elementi usati come aggettivi (è un locale in;; una giornata no, ecc.). Il comparativo in italiano è di tipo analitico: più ricco, più triste, ecc. Ma esistono relitti di comparativo sintetico modellati sul latino: migliore, minore, peggiore, inferiore (accanto a più buono, più piccolo, più cattivo, più basso). 18 Il superlativo assoluto è di tipo sintetico: ricchissimo, tristissimo, ecc. Sul latino sono modellati ottimo, minimo, pessimo, infimo (accanto a buonissimo, piccolissimo, cattivissimo, bassissimo). Oggi in italiano si affermano sempe di più, soprattutto nel parlato, superlativi formati con prefissi: super-­eroe, maxi-­schermo, ecc. Il superlativo relativo è di tipo analitico: Mario è il più bravo studente della nostra scuola. Anche gli alterati in italiano si formano tramite suffissi che si aggiungono alla base lessicale di nomi e aggettivi: pover-­ino, ragazz-­accio, palazz-­one, pan-­ino, ecc. La possibilità di formare il diminutivo in modo sintetico, con l’aggiunta di suffissi, è un tratto tipico dell’italiano. Si può applicare anche forme nominali oltre che agli aggettivi (bicchierino, casetta, ecc.). Talvolta la forma alterata cambia il genere grammaticale: campana / campanone, scatola / scatolone, villa / villino, ecc. ARTICOLO In italiano le categorie di genere (maschile e femminile) e di numero (singolare e plurale) sono spesso marcate due volte, tramite l’articolo (nella testa del sintagma) e per mezzo del morfema grammaticale: Testa del sintagma il (masch. sing.) tavol-­o (base lessicale + morfema grammaticale masch. sing.) la (femm. sing.) ragazz-­a (base lessicale + morfema grammaticale femm. sing.) In molti casi, però, l’articolo disambigua, perché è l’unico a segnalare la categoria di genere o anche di genere e numero: il poeta, le città, ecc. L’articolo ha anche importanti funzioni deittiche e testuali. La scelta dell’articolo determinativo o indeterminativo, infatti, si basa: a. sulle caratteristiche del referente (cioè della cosa o persona a cui l’articolo si riferisce);; b. sul tipo di referenza;; c. sulla struttura informativa del testo. 19 a. Relativamente alle caratteristiche del referente, se questo è costituito da una categoria generale si usa il determinativo: Il cavallo è un mammifero;; se invece è costituito da un termine che indica un individuo specifico si usa l’indeterminativo: Posseggo un cavallo da corsa. b. Per il tipo di referenza, se questa è univoca si usa il determinativo: Non sforzare l’occhio destro;; ma se il referente non è univoco usiamo l’indeterminativo: Si è fatto male a un occhio. c. Per la struttura informativa, si usa l’articolo determinativo se ci riferiamo a un elemento dato, cioè a un referente già introdotto nel testo, o ben noto a chi ascolta, o presente nel luogo in cui parliamo: − Nel paese delle fate viveva una fanciulla... Un giorno la fanciulla decise di partire… − Questa mattina il postino non è venuto. − Chiudi la porta. Ma se l’elemento è introdotto per la prima volta, non è noto a chi ascolta, non è presente nel luogo in cui parliamo, si usa l’indeterminativo: − C’era una volta una fanciulla. − Oggi è venuto un postino nuovo. − Nell’aula dovrebbe essere rimasto un ombrello. L’alternanza tra lo/gli e il/i o tra uno e un si è andata fissando nel corso del tempo: a volte si tratta di convenzioni recenti (nell’italiano antico ancora fino all’Ottocento era diffuso l’articolo lo davanti all’affricata alveolare z), in altri casi, di relitti che si sono trasmessi inalterati. Oggi l’uso di lo è previsto davanti a s preconsonantica, laterale palatale, nasale palatale, fricativa palatale, affricata alveolare, semivocale j (lo Ionio) e vocale, davanti alla quale si elide. Si usa talvolta anche per gruppi consonantici estranei alla tradizione italiana (lo psicologo, ma la psicologia) e oscilla nel caso della semivocale w (l’uomo ma il week end). I PRONOMI PERSONALI I paradigmi dei pronomi sono più complessi di quelli di nomi. Distinguiamo prima di tutto tra pronomi tonici e atoni, cioè pronomi accentati e pronomi privi di accento. I primi sono forme autonome e sono quindi considerati morfemi liberi. I secondi, detti anche clitici, si appoggiano sempre alla parola che segue (proclitici: mi piace) o si legano alla parola che precede (enclitici: dimmi);; per questo motivo sono considerati morfemi semiliberi. 20 I pronomi, oltre a esprimere nella flessione la persona, il numero e, talvolta per la terza persona, il genere, esprimono anche la funzione sintattica: spesso cioè cambiano in base al ruolo che debbono svolgere. I pronomi tonici possono svolgere la funzione di soggetto o di complemento;; per il complemento indiretto si associano a una preposizione (che un tempo si chiamava segnacaso: a me, con te, per lui, ecc.). Nel paradigma dei pronomi tonici in qualche caso le forme per il soggetto e per il complemento coincidono: Pronomi tonici Ruolo di soggetto Ruolo di complemento Io Me Tu Te Egli/ella/lui/lei [esso/essa] Lui/lei Noi Noi Voi Voi Essi/esse/loro Loro Come si vede, le forme di prima e seconda persona plurale sono identiche per entrambi i ruoli sintattici. Anche per la terza persona, a dire il vero, è da tempo in atto, nell’italiano di uso comune, un’ulteriore semplificazione. Si tende sempre più a usare le forme del complemento per il soggetto: nel parlato è quasi prevalente il ricorso a lui e lei;; sopravvive nello scritto molto formale egli, mentre è considerato sempre più arcaico ed è visibilmente in regresso il femminile ella. In alcune aree della penisola, inoltre, si tende ad adoperare la forma del complemento te in luogo del soggetto tu e, a causa dell’influenza dei media, l’uso si sta estendendo. La distinzione più salda rimane dunque quella tra io e me. I pronomi atoni si adoperano solo per le funzioni sintattiche di complemento diretto (oggetto) o indiretto (di termine). Per quanto riguarda la distribuzione, i clitici hanno delle restrizioni: devono infatti sempre precedere o seguire il verbo (ti regalo un libro;; regalati un momento di pausa;; non voglio regalarti niente). La posizione sintattica dei pronomi clitici inoltre segue delle regole. Di norma si pongono prima dei verbi, tranne nel caso degli imperativi e dei modi verbali non finiti: lo ascolti;; ascoltalo;; ascoltandolo impari. La posizione è libera con l’imperativo negativo: Non ascoltarlo, ma anche non lo ascoltare. 21 Oggi sta diventando libera anche la posizione in presenza di infinito dipendente da un verbo, soprattutto se verbo modale come potere, dovere, ecc.: Mario deve ascoltarlo ogni giorno tende a diventare, soprattutto nel parlato, Mario lo deve ascoltare ogni giorno. Si parla in questi casi di risalita o anticipazione del clitico, un fenomeno recente, frequente nel parlato ma solo parzialmente ammesso nello scritto. D’altro canto l’anticipazione del clitico è obbligatoria in casi come lo fai dormire o lo sento cantare. Rimane ancora in uso l’enclisi in forme come affittasi, vendesi o, come si legge in alcuni testi burocratici, pregasi. È il relitto arcaico dell’enclisi pronominale che nell’antico italiano si poteva avere anche dopo le forme coniugate del verbo. Anche il paradigma dei pronomi atoni presenta delle semplificazioni: Pronomi atoni (o clitici) Complemento oggetto Complemento di termine Mi Mi Ti Ti Lo/la Gli/le Ci Ci Vi Vi Li/le Gli/[loro] Come si vede i pronomi di prima e seconda persona, singolari e plurali, coincidono per entrambi i ruoli sintattici, mentre variano per l’oggetto o il complemento di termine i clitici di terza persona. Un caso particolare è rappresentato da loro usato per il complemento di termine. Si tratta di una forma in forte regresso, anche a causa delle sue limitazioni d’uso: 1) prima di tutto è bisillabo e quindi non è un pronome atono;; è estraneo alla serie dei pronomi che servono per i complementi e non può combinarsi, a differenza di gli, con altri pronomi atoni. Con loro, cioè, non sono possibili combinazioni come diglielo, mentre dirlo loro è ormai arcaico e totalmente in disuso anche nelle situazioni più formali. 2) Il pronome loro in funzione di complemento indiretto ha poche possibilità di movimento nella frase: deve collocarsi sempre dopo il verbo (ho detto loro). Anche per questi motivi dunque il pronome loro nel ruolo di complemento di termine sta quasi scomparendo. Nel cosiddetto italiano neostandard e, in generale, nell’uso vivo e comune, il sistema dei pronomi atoni per il 22 complimento di termine si sta riducendo a due sole caselle: gli per il maschile singolare e per il plurale sia maschile sia femminile;; le per il femminile singolare. Nell’italiano popolare (o substandard) si assiste ancora a un’ulteriore semplificazione, con il ricorso al solo gli anche per il femminile singolare, ma si tratta ancora di una tendenza marcata come bassa. Il pronome riflessivo ha una forma tonica (sé) per il ruolo del complemento e una forma atona tanto per il complemento oggetto quanto per il complemento di termine (si). Il pronome si è adoperato anche per le costruzioni impersonali: si dice bene di te;; si parla poco quando non si sa, ecc. Richiede in questi casi l’ausiliare essere e l’accordo al maschile nelle forme composte: quando si è vecchi. Il si è adoperato anche nelle costruzioni passive, soprattutto in assenza di agente (si è votato ieri), ma non è sempre facile distinguere la funzione impersonale da quella passivante: si è scritto molto su questo tema. Sul piano semantico non c’è molta differenza ma sul piano grammaticale la distinzione non è chiara. In più di un caso i clitici perdono la funzione pronominale per assumere altri ruoli, grammaticali e lessicali. Sono sempre più numerosi i verbi transitivi usati come se fossero pronominali: mi bevo una birra, ci facciamo un bagno. Si tratta però di usi ancora riservati al parlato più che allo scritto. Il pronome la assume un valore indefinito in presenza di alcuni verbi: la sa lunga;; se la passa male, anche con funzione soggetto in alcune espressioni fisse: o la va o la spacca. Il pronome ne, i locativi ci e vi Tra i pronomi atoni sono da includere anche ne, ci, vi (con funzioni diverse da quelle de personali ci e vi) Ne svolge funzioni di partitivo (non ne voglio), di complemento di argomento (non ne voglio parlare), di moto da luogo (non se ne andrà) ma in questo ruolo sopravvive ormai quasi esclusivamente con il verbo andarsene;; ci ha funzioni di locativo (non ci sono fiori, non ci vado), di complemento indiretto se riferito a oggetti inanimati (non ci penso mai = “non penso mai a ciò”) o talvolta a persone ma soprattutto in alcune espressioni tipiche del parlato (non ci conto = “su di lui”;; non ci vado mai insieme = “con lui”);; vi svolge il ruolo di locativo, ma è sempre più in disuso anche nello scritto. Si assiste oggi a una sovraestensione della particella ci: si dice spesso nel parlato molto informale ci parlo per dire “parlo a lui, lei, loro” invece di dire gli parlo. 23 In generale ci è usato ormai in moltissimi contesti nei quali perde la propria natura pronominale: − ha preso quasi totalmente il posto di vi come locativo;; del resto con essere è obbligatorio: c’è polvere e anche c’è polvere in casa (non è possibile *è polvere in casa);; qui c’è il maestro (non è possibile *qui è polvere, ma è possibile il maestro è qui);; − ha valore attualizzante soprattutto con il verbo avere usato nel suo significato pieno e non come ausiliare: ci ho mal di testa − esserci ha assunto significati particolari in espressioni come ci sei? ci siamo? − Ha assunto significati particolari anche con i verbi entrarci: non centra niente questa storia;; farcela: ce l’abbiamo fatta per un pelo;; volerci: ci vuole un tecnico, ecc. Molti di questi usi sono però ammessi solo nel parlato (anche nel parlato della finzione letteraria) e nelle situazioni informali. Qualcosa di analogo ma in misura meno vistosa del ci sta accadendo con il ne che in alcuni verbi attenua la sua funzione pronominale: importarsene: non me ne importa niente si usa con riferimento a un complesso di cose e non a un referente ben preciso. Infatti si può usare anche in presenza del complemento: non me ne importa niente del tuo esame / di quello che dici. Casi analoghi sono infischiarsene, convenirne, ecc. Si assiste in alcuni di questi casi a una lenta lessicalizzazione: il pronome ci, in particolare, perde lo statuto di pronome e si lega stabilmente al verbo (entrarci “essere pertinente”, starci “essere d’accordo”, tenerci “avere a cuore”, ecc.) cambiandone il significato. Funzioni allocutive Alcuni pronomi hanno funzione allocutiva: servono cioè per rivolgersi a qualcuno. Gli allocutivi da usarsi nei rapporti paritari sono tu per il singolare e voi per il plurale. Gli allocutivi di cortesia sono lei, ella per il singolare e loro per il plurale. Ella e loro sono però ormai in disuso o comunque usati nei testi burocratici o in contesti altamente formali. Il voi dunque finisce con l’essere l’unico allocutivo al plurale. Esiste ancora l’allocutivo di cortesia al singolare voi, ma è ormai da considerarsi un regionalismo di area meridionale. Lei è dunque diventato l’unico allocutivo di cortesia al singolare. 24 I DIMOSTRATIVI Per quanto riguarda i dimostrativi, aggettivi e pronomi, il sistema tripartito, questo (perciò che è vicino a chi parla), codesto (per ciò che è vicino a chi ascolta), quello (per ciò che è distante) è ormai vivo solo nell’uso parlato toscano e nella scrittura burocratica. Nell’italiano scritto e parlato il sistema è ormai solo bipartito (questo, quello). Nel parlato i dimostrativi hanno prevalentemente valore deittico, nello scritto prevalentemente valore anaforico: Valore deittico: Prendimi quel libro. Valore anaforico: I ragazzi che hai incontrato al bar non sono gli stessi che ti ha presentato Mario;; questi sono di Roma, mentre quelli vengono da Firenze. Di recente si assiste a un fenomeno che tende ad assegnare ai dimostrativi il semplice valore di articolo nel parlato. È un fenomeno del parlato, ma di recente si legge anche in alcuni scritti informali;; non è ammesso nella scrittura elevata e accurata: Ho trovato un libro in classe e non so di chi sia, ma è probabile che l’abbia perso Giovanni perché è andato via di corsa. Questo libro tra l’altro ha delle note che sembrano scritte da lui. In questo contesto sarebbe sufficiente l’articolo determinativo (Il libro tra l’altro…). La tendenza a sovrapporre la funzione dell’articolo a quella del dimostrativo fa sì che nel parlato per precisare il valore di dimostrativo ricorriamo ad avverbi come qui, lì, ecc. in funzione rafforzativa (questo qui, quello lì, ecc.). Sono quasi scomparsi costui, costei, costoro, mentre resistono nello scritto, soprattutto al plurale, colui, colei, coloro quando precedono una relativa (coloro che/i quali vogliono aderire, rimangano).