L'eco del canto antico: il melodramma Giovan Battista Doni, Trattato della musica scenica, 1635 “Avanti a quelle che fece il signor Emilio del Cavaliere […] non credo si sia praticato cosa che meriti di essere mentovata. Di costui va attorno una rappresentazione intitolata Dell'anima e del corpo, stampata qui a Roma nel 1600 […]. Conviene però sapere che quelle melodie sono molto differenti dalle odierne che si fanno in istile comunemente detto recitativo, non essendo quelle altro che ariette con molti artifizi […] che non hanno che fare niente con la buona e vera musica teatrale, della quale il sig. Emilio non poté aver lume per mancamento di quelle notizie che si cavano dagli antichi scrittori”. Vincenzo Galilei, Dialogo della musica antica et della moderna, 1581 “Di severa matrona che anticamente era, è divenuta oggi la musica una lasciva (per non dire sfacciata) meretrice”. “La musica antica conservava la pudicizia, faceva mansueti i feroci, inanimiva i pusillanimi, quietava gli spiriti perturbati, incautiva gli ingegni, empieva gli animi di divino furore, racchetava le discordie nate tra i popoli […] liberava gli uomini dalla morte”. Giulio Caccini, Prefazione a Le nuove musiche, 1601 “[...] questi intendentissimi gentiluomini [i membri della Camerata] m'hanno sempre confortato, e con chiarissime ragioni convinto, a non pregiare quella sorte di musica, che non lasciando bene intendersi le parole, guasta il concetto et il verso, ora allungando et ora scorciando le sillabe per accomodarsi al contrappunto, laceramento della poesia, ma ad attenermi a quella maniera cotanto lodata da Platone et altri filosofi, che affermano la musica altro non essere che la favella et il ritmo et il suono per ultimo, e non per lo contrario, a volere che ella possa penetrare nell'altrui intelletto e fare quei mirabili effetti che ammirano gli scrittori, e che non potevano farsi per il contrappunto nelle moderne musiche”. Jacopo Peri, Prefazione a L'Euridice, 1600 “[...] piacque nondimeno a' signori Jacopo corsi ed Ottavio Rinuccini (fin l'anno 1594) che io, adoperando [la musica] in altra guisa, mettessi sotto le note la favola Dafne, dal signor Ottavio composta, per fare una semplice pruova di quello che potesse il canto dell'età nostra. Onde, veduto che si trattava di poesia drammatica e che però si doveva imitar col canto chi parla (e senza dubbio non si parlò mai cantando) stimai che gli antichi Greci e Romani (i quali, secondo l'opinione di molti, cantavano su le scene le tragedie intere) usassero un'armonia, che avanzando quella del parlare ordinario, scendesse tanto dalla melodia del cantare che pigliasse forma di cosa mezzana”.