Riflessioni sull’ammissibilità della tutela giurisdizionale degli
impiegati delle Camere e della Corte costituzionale nelle
controversie in materia di rapporto di lavoro
Ignazio Zingales
Professore a contratto di Diritto processuale civile - Lumsa sede di Palermo
Con l’espressione “autodichia delle Camere parlamentari nei confronti del personale”,
si fa comunemente riferimento al potere, attribuito alla Camera dei deputati ed al Senato
della Repubblica, di esercitare funzioni “giustiziali” nell’ambito del rapporto di impiego con i
propri dipendenti1 2.
Nella sua forma più estrema, tale autodichia (o giurisdizione domestica) consisterebbe nel potere di queste istituzioni di decidere, in forma definitiva e non suscettibile di gravame esterno, qualsiasi controversia concernente lo status dei propri impiegati3.
1 Cfr. CASETTA E., Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2001, 72.
2 BUSIA G., La Corte riconosce l’autodichia del Parlamento e rinuncia a sollevare la questione di legittimità, in
Guida al Diritto, n. 28 del 17 luglio 2004, 46, osserva che, storicamente, l’istituto dell’autodichia “trae origine dal processo stesso di formazione dei parlamenti, agli albori dello Stato moderno”, in un contesto in cui “la mancata soggezione alla giurisdizione era una delle manifestazioni dell’indipendenza dal sovrano assoluto e quindi costituiva un
tratto caratterizzante di queste assemblee, nate proprio come contrappeso rispetto al potere del monarca”.
3 CIAURRO G. F., Prerogative costituzionali, in Enc. dir., Milano, 1986, XXXV, 10. Sulla problematica in esame,
cfr., inoltre, MONTESANO L. - ARIETA G., Trattato di Diritto processuale civile, I/1, Padova, 2001, 62-63; VIDIRI G., Autodichia degli organi costituzionali e Stato di diritto, in Corr. giur., 1999, 1137; GARRONE G., in
ROMANO A., Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, 2001, 307 ss.; OCCHIOCUPO N., «Sovranità» delle Camere e «diniego di giustizia» nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Dir.
proc. amm., 1986, 245 ss.; Id., Autodichia, in Enc. giur. Treccani, IV, Roma, 1988; Id., Il diritto ad un giudice
«indipendente ed imparziale» del personale degli organi costituzionali e della Corte dei conti, in Studi parmensi, 1979, Vol. XXV, 57 ss.; Id., Il segretariato generale della Presidenza della Repubblica, Milano, 1973, 199
ss.; ESPOSITO F., Ancora sulla sindacabilità dei regolamenti parlamentari e sulla tutela giurisdizionale degli
impiegati delle Camere, in Cons. Stato, 1985, II, 1467 ss.; SCOCA F. G., Atti del Consiglio superiore della magistratura e loro sindacato giurisdizionale, in Dir. proc. amm., 1987, 17 ss.; GATTAMELATA S., Quali limiti per il
sindacato della giurisdizione domestica?, in Dir. proc. amm., 1991, 778 ss.; DI MUCCIO P., Indipendenza delle
Camere e giurisdizione sui loro atti amministrativi e contabili, in Foro amm., 1980, 1555 ss.; Id., Nemo iudex in
causa propria: la politica e il diritto nella tutela giurisdizionale dei dipendenti delle Camere parlamentari, in Foro
amm., 1977, 3047 ss.; Id., L’autodichia parlamentare sugli impiegati delle Camere, in Dir. e soc., 1990, 133 ss.;
SANDULLI A. M., Spunti problematici in tema di autonomia degli organi costituzionali e di giustizia domestica
nei confronti del loro personale, in Giur. it., 1977, I, 1, 1831 ss.; PANUNZIO S. P., Sindacabilità dei regolamenti parlamentari, tutela giurisdizionale degli impiegati delle Camere e giustizia politica nello Stato costituzionale
di diritto, in Giur. cost., 1978, I, 256 ss.; FLORIDIA G. C., Finale di partita, in Dir. proc. amm., 1986, 270 ss.;
FRAGOLA U., Gli impiegati degli organi costituzionali (Studio di aggiornamento sulle giurisdizioni domestiche),
in Cons. Stato, 1997, II, 115 ss.; CICCONETTI S. M., La insindacabilità dei regolamenti parlamentari, in Giur.
cost., 1985, I, 1411 ss.; FELICETTI F., Sopravvissute le giurisdizioni domestiche delle Camere, in Corr. giur.,
1985, 921 ss.; MIDIRI M., Organi costituzionali e giurisdizione (note su una prerogativa controversa: l’autodichia), in Giur. cost., 1989, II, 32 ss.; MORELLI M. R., Sul problema di costituzionalità della autodichia delle
Camere nelle controversie di impiego dei propri dipendenti (nota a Corte cass., sez. un., ord. 11 luglio 1977, n.
356), in Giust. civ., 1978, III, 107 ss.. Mi permetto di rinviare anche ad un mio lavoro dal titolo Il difetto assoluto di giurisdizione tra apparenza e realtà, in Foro amm., 2000, 2038.
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Come è noto, i regolamenti parlamentari (in particolare: l’art. 12, 6° comma, reg.
Camera, approvato il 18 febbraio 1971 e modificato il 16 dicembre 19984; e l’art. 12, 1°
comma, reg. Senato, approvato il 17 febbraio 1971 e modificato il 17 luglio 20025) ed altre
specifiche norme interne accordano a determinati organi della Camera dei deputati e del
Senato della Repubblica il potere di giudicare sulle controversie attinenti al rapporto di lavoro tra le suddette Camere ed i dipendenti6 e su quelle riguardanti le procedure concorsuali
per l’assunzione nei relativi ruoli.
Tali fonti nulla affermano, però, in ordine alla possibilità per gli impiegati di agire dinanzi all’autorità giurisdizionale per la tutela delle proprie pretese; pretese che, anche nella materia de qua, possono certamente avere consistenza di diritti soggettivi o di interessi legittimi7.
Dinanzi, quindi, al silenzio serbato dai regolamenti in questione, l’interprete deve
domandarsi se il sindacato attribuito agli organi interni delle Camere sostituisca ed escluda
quello esercitabile dal giudice statale.
La breve indagine finalizzata a fornire una risposta a tale interrogativo deve prendere
le mosse da una nota e curiosa vicenda processuale avviata, tra la fine degli anni settanta
e l’inizio degli anni ottanta, dalla Corte di cassazione.
Ritenendo che le suddette norme dei regolamenti parlamentari fossero palesemente in
contrasto con gli articoli 24, 101, 2° comma, 108 e 113 Cost., in quanto escludenti, nella materia in esame, il sindacato giurisdizionale sia del giudice ordinario che del giudice amministrativo, la Suprema Corte sollevava, con alcune articolate ordinanze8, questione di costituzionalità.
4 Tale norma statuisce che “l’Ufficio di Presidenza giudica in via definitiva sui ricorsi di cui alla lettera f) del
comma 3”. La lettera f) del 3° comma fa riferimento, da un lato, ai “ricorsi nelle materie di cui alla lettera d)”,
e dunque concernenti “lo stato giuridico, il trattamento economico e di quiescenza e la disciplina dei dipendenti della Camera, ivi compresi i doveri relativi al segreto d’ufficio” [così, appunto, la richiamata lettera d)], e,
dall’altro, ai ricorsi e a qualsiasi impugnativa, anche presentata da soggetti estranei alla Camera, avverso gli
altri atti di amministrazione della Camera medesima. Il vecchio art. 12, nel testo del 1971, così disponeva,
invece, al 3° comma: “L’Ufficio di Presidenza…decide in via definitiva i ricorsi che attengono allo stato e alla
carriera giuridica ed economica dei dipendenti della Camera”.
5 La suddetta disposizione stabilisce, per quanto rileva in questa sede, che “il Consiglio di Presidenza…
approva i Regolamenti interni dell’Amministrazione del Senato e adotta i provvedimenti relativi al personale
stesso nei casi ivi previsti…”.
6 Cfr. FRAGOLA U., Gli impiegati, cit., 120 ss.; DI MUCCIO P., L’autodichia, cit., 135-136.
7 La presenza, nel settore di cui trattasi, di pretese qualificabili come diritti soggettivi o interessi legittimi distingue la tematica adesso in esame da quella concernente il difetto assoluto di giurisdizione nei confronti della
pubblica amministrazione; fenomeno, quest’ultimo, sostanzialmente configurabile in assenza di posizioni giuridiche tutelabili. Sul punto, mi permetto di rinviare a ZINGALES I., Pubblica amministrazione e limiti della giurisdizione tra principi costituzionali e strumenti processuali, Milano, 2007, 135 ss..
8 Cfr. Corte cass., sez. un., ord. 31 marzo 1977 (r. o. n. 408/1977), in Foro amm., 1978, I, 1, 8, ed in Giur.
cost., 1977, II, 1337; Corte cass., sez. un., ord. 11 luglio 1977, n. 356, in Giur. it., 1977, I, 1, 1832, con nota
di SANDULLI A. M., Spunti problematici, cit., in Giust. civ., 1978, III, 101, con nota di MORELLI M. R., Sul problema di costituzionalità, cit., ed in Foro it., 1977, I, 2071; Corte cass., sez. un., ordd. 10 luglio 1980 (r. o. nn.
315 e 316/1981), in Giur. cost., 1981, II, 1259; Corte cass., sez. un., ord. 23 marzo 1981, n. 135, in Foro it.,
2
Dal canto suo, la Corte costituzionale, interpretando restrittivamente l’art. 134 Cost.9,
affermava di non poter sindacare i regolamenti parlamentari e, conseguentemente, dichiarava inammissibile la questione sollevata10; e ciò, sulla base delle seguenti motivazioni:
“Formulando tale articolo, il costituente ha segnato rigorosamente i precisi ed invalicabili
confini della competenza del giudice delle leggi nel nostro ordinamento, e poiché la formulazione ignora i regolamenti parlamentari, solo in via d’interpretazione potrebbe ritenersi che
questi vi siano ugualmente compresi. Ma una simile interpretazione, oltre a non trovare appiglio nel dato testuale, urterebbe contro il sistema. La Costituzione repubblicana ha instaurato una democrazia parlamentare, intendendosi dire che, come dimostra anche la precedenza attribuita dal testo costituzionale al Parlamento nell’ordine espositivo dell’apparato statuale, ha collocato il Parlamento al centro del sistema, facendone l’istituto caratterizzante l’ordinamento. È nella logica di tale sistema che alle Camere spetti – e vada riconosciuta – una
indipendenza guarentigiata nei confronti di qualsiasi altro potere, cui pertanto deve ritenersi
precluso ogni sindacato degli atti di autonomia normativa ex art. 64, primo comma, Cost.”.
La Corte costituzionale, dunque, posta di fronte all’alternativa di dichiarare costituzionalmente legittime le norme regolamentari in esame o, al contrario, di affermarne l’incostituzionalità (per violazione delle richiamate disposizioni costituzionali), sceglieva la strada
dell’inammissibilità della questione proposta, così decidendo sostanzialmente di non decidere e di restituire il problema al mittente senza risolverlo.
La scelta operata dal Giudice delle leggi non rimaneva, però, senza conseguenze.
Conclusosi, infatti, il giudizio di costituzionalità, la controversia ritornava tra le mani
della Corte di cassazione, la quale, reinvestita del problema, dichiarava, sulla base della
pronunzia della Corte costituzionale, l’insindacabilità, sia da parte del giudice ordinario che
1981, I, 971, con nota di MORETTI R.. Secondo l’ultima ordinanza citata, in relazione all’art. 12 reg. Camera,
“…è evidentemente improbabile la interpretazione della disposizione…nel senso di una decisione amministrativa sottoposta a ricorso giurisdizionale (fra l’altro la disposizione appare emanata proprio alla vigilia della soppressione, ad opera della legge n. 1034 del 1971, della «definitività» dell’atto amministrativo come requisito
per la sperimentabilità del rimedio giurisdizionale), ovvero nel senso dell’esplicito «abbandono» del principio
dell’autodichia mediante l’adozione di un’espressione diversa da quella (all’ufficio di Presidenza «esclusivamente appartiene il giudizio sugli eventuali ricorsi») contenuta nell’art. 148 del regolamento precedente (fra
l’altro le disposizioni contenute nei regolamenti interni della Camera concernenti i suoi uffici, il suo personale,
e la disciplina di questo sembrano orientate a tracciare un complesso organico di rimedi senza alcuna riserva, esplicita o implicita, di quelle giurisdizionali comuni)”.
9 Secondo tale norma, “la Corte costituzionale giudica: sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni; sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni; sulle accuse promosse contro il Presidente
della Repubblica, a norma della Costituzione”.
10 Cfr. Corte cost., 23 maggio 1985, n. 154, in Dir. proc. amm., 1986, 245, con nota di OCCHIOCUPO N.,
«Sovranità» delle Camere, cit., in Cons. Stato, 1985, II, 715, in Foro it., 1985, I, 2173, ed in Corr. giur., 1985,
917, con nota di FELICETTI F., Sopravvissute le giurisdizioni domestiche delle Camere, cit..
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da parte del giudice amministrativo, delle determinazioni delle Camere nella materia relativa allo status dei propri dipendenti11 (esito, questo, che, secondo autorevole dottrina, costituisce il risultato di “una operazione processuale, dialogata tra i due supremi organi giudiziari, condotta in modo tale da far apparire il lavaggio delle mani di Ponzio Pilato come un
atteggiamento da dilettante”12).
Tale insindacabilità è stata, nel corso degli anni, sempre confermata dalla Suprema Corte.
In relazione all’art. 12 del regolamento della Camera dei deputati, si è, invero, osservato che: “le sezioni unite… non possono che prendere atto, da un lato, dell’esistenza di una
specifica norma primaria istitutiva (art. 12 del regolamento cit.) dell’autodichia e non sindacabile sotto il profilo della sua conformità ai precetti della Costituzione che concernono l’esercizio della funzione giurisdizionale; dall’altro lato di una valutazione legale tipica – che
discende dall’inserimento della norma stessa in una fonte strumentale alla tutela dell’autonomia e della sovranità dell’assemblea – circa la necessità di configurare gli atti di esercizio
della menzionata prerogativa, vale a dire i provvedimenti posti in essere dai due rami del
Parlamento per la risoluzione delle controversie con i propri dipendenti, come inerenti essi
stessi strettamente all’organizzazione ed al funzionamento delle Camere, con uguali connotati di insindacabilità esterna, non tanto sub specie di privilegi connessi al rispetto, al prestigio ed al decoro dei titolari delle relative potestà, quanto perché strumentali all’autonomo
esercizio delle funzioni di questi; sicché, rispetto a siffatti provvedimenti, si impone in non
minore misura l’esigenza che tale esercizio non sia in modo alcuno condizionato da interventi di altri poteri, i quali potrebbero indebolire quell’indipendenza che costituisce condizione essenziale per il pieno sviluppo della libera azione degli organi suddetti…”13.
Ed alle stesse conclusioni sono sostanzialmente pervenute le Sezioni unite della
Corte di cassazione anche con riferimento all’art. 12 del regolamento del Senato14 15.
11 Cfr. Corte cass., sez. un., 23 aprile 1986, n. 2861, in Giust. civ., 1986, I, 1575, ed in Foro it., 1986, I, 1828;
Corte cass., sez. un., 10 aprile 1986, n. 2546, in Foro it., 1986, I, 1139, con osservazioni di MORETTI R.;
Corte cass., sez. un., 28 novembre 1985, n. 6943, in Dir. proc. amm., 1986, 270, con nota di FLORIDIA G.
C., Finale di partita, cit..
12 SCOCA F. G., Atti, cit., 19.
13 Così Corte cass., sez. un., 27 maggio 1999, n. 317, in Foro it., 2000, I, 2673. Nello stesso senso, anche,
Corte cass., sez. un., 18 marzo - 10 giugno 2004, n. 11019, in Guida al Diritto, n. 28 del 17 luglio 2004, 42,
con nota di BUSIA G., La Corte, cit..
14 Cfr. Corte cass., sez. un., 19 novembre 2002, n. 16267, in Giust. civ., 2003, I, 2429, con nota di BASILICA F., Il punto delle sezioni unite sulla c.d. «giurisdizione domestica» del Senato.
15 In dottrina, cfr. SANDULLI A. M., Spunti problematici, cit., 1835-1836. Osserva l’autore: “…non può rifiutarsi alla leggera il concetto che anche tale materia sia, per tradizione, riservata agli organi stessi…, non sub
specie di prerogativa inerente al rispetto, al prestigio e al decoro di essi, bensì in quanto considerata strettamente correlata alla necessità – strumentale rispetto all’esercizio della loro funzione – che, nella organizzazione e nel funzionamento, essi siano liberi da limiti e vincoli esterni, essendo questi suscettibili di condizionarne in un modo e nell’altro l’azione… Ove questa sia – come, pur con le necessarie cautele, sarei portato
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Le autorevoli indicazioni provenienti dal giudice di legittimità non sono, a mio avviso,
convincenti.
Al riguardo, occorre preliminarmente rilevare che nessuna norma della Carta fondamentale costituzionalizza, nei termini delineati dalla Cassazione, il fenomeno dell’autodichia16.
In secondo luogo, va evidenziato che né l’indipendenza né l’autonomia delle Camere
risulterebbero lese qualora l’autorità giurisdizionale esercitasse un sindacato sugli atti da
esse emanati nell’ambito del rapporto di lavoro con i propri dipendenti, posto che tale sindacato non potrebbe in alcun modo incidere sulla sfera delle attribuzioni istituzionali primarie affidate dalla Costituzione ai suddetti organi costituzionali17.
Ciò premesso, deve, ora, osservarsi che, qualora si ritenesse che le norme regolamentari in esame escludano la sindacabilità giurisdizionale degli atti emanati dalla Camera dei
deputati e dal Senato in materia di rapporto di impiego (e, dunque, di atti che non costituiscono, certamente, estrinsecazione di potestà riconducibili a funzioni costituzionali), dovrebbe
conseguentemente affermarsi la non conformità del sistema (quantomeno) ai principi sanciti,
in tema di tutela giurisdizionale, dagli articoli 24, 1° comma, 111, 2° comma, e 113 Cost.; precetti, questi, che consacrano e garantiscono il diritto di azione nelle sue molteplici sfaccettature, la terzietà ed imparzialità del giudice e la possibilità di sottoporre a controllo giudiziario
tutte le attività delle Amministrazioni che incidano su diritti soggettivi o interessi legittimi.
A ben considerare, però, stante il carattere polisenso delle disposizioni regolamentari
in questione e la conseguente astratta praticabilità di interpretazioni suscettibili di giungere
a differenti risultati, appare possibile una diversa lettura di tali disposizioni; una lettura che
evita il contrasto con i parametri costituzionali18.
a ritenere – la soluzione da accogliere, è giocoforza concludere che – salva l’esigenza che anche i regolamenti degli organi costituzionali si attengano al rispetto dei principi costituzionali in materia di lavoro dipendente –
solo quando si siano autolimitati in tal senso gli organi stessi possono essere considerati soggetti altresì ai principi della legislazione ordinaria della materia (e quindi, tra l’altro, ai principi dello statuto dei lavoratori)”.
L’illustre autore sottolinea, inoltre, che “date le cose dette a proposito della stretta inerenza strumentale, della
regolamentazione e dei provvedimenti concreti degli organi costituzionali relativi al proprio personale, al funzionamento degli organi stessi, non può escludersi, in principio, che anche la relativa materia sia, ancora nell’ordine costituzionale vigente, mantenuta fuori degli schemi dello «Stato di diritto», in vista della piena assicurazione, agli organi anzidetti, di quella funzionale «autonomia costituzionale» di cui si è più sopra fatto cenno”.
16 Cfr. DI MUCCIO P., Nemo iudex, cit., 3051 e 3055.
17 Cfr. GARRONE G., in ROMANO A., Commentario, cit., 307.
18 Come è noto, ad avviso della Corte costituzionale, il giudice, “nell’operare la ricognizione del contenuto normativo della disposizione da applicare, deve costantemente essere guidato dalla preminente esigenza del rispetto dei
precetti costituzionali e quindi, ove un’interpretazione si riveli confliggente con alcuni di essi, è tenuto ad adottare
le possibili letture alternative ritenute aderenti al parametro costituzionale, altrimenti vulnerato” (Così Corte cost.,
11 dicembre 1995, n. 499, in Foro it., 1996, I, 1152. Cfr., inoltre, Corte cost., 23 dicembre 1994, n. 443, in Foro it.,
1995, I, 472; Corte cost., ord. 23 dicembre 1994, n. 451, in Foro it., 1995, I, 2029, con osservazioni di CIPRIANI
F.; Corte cost., ord. 28 novembre 1994, n. 410, in Foro it., 1995, I, 473, con nota di PUGIOTTO A., La problematica del «diritto vivente» nella giurisprudenza costituzionale del 1994: uso e matrici; Corte cost., ord. 16 luglio 1999,
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Ed invero, non essendo, nelle suddette fonti, espressamente esclusa la sindacabilità
giurisdizionale delle determinazioni delle Camere in materia di rapporto di impiego, può (e
deve) ritenersi che le norme regolamentari in questione, in conformità ai principi costituzionali, sanciscano (soltanto) l’esperibilità, avverso tali determinazioni, di ricorsi amministrativi meramente aggiuntivi ai normali mezzi di tutela giurisdizionale; esperibilità che, dunque,
non impedisce ai dipendenti delle Camere di agire davanti al giudice statale19.
In quest’ottica, l’art. 12 del regolamento della Camera dei deputati, nello stabilire che
“l’Ufficio di Presidenza giudica in via definitiva”, non elimina la possibilità di un sindacato
esterno di natura giurisdizionale20, ma si limita esclusivamente a porre al vertice di un sistema di rimedi amministrativi, che si snoda in più gradi di giudizio, il ricorso all’Ufficio di
Presidenza; ricorso che, nella materia in esame, introduce, dunque, l’ultimo gravame interno esperibile dagli interessati21.
n. 314, in Giur. cost., 1999, 2543. Si veda anche Corte cass., sez. un., 30 marzo 2000, n. 72, in Giust. civ., 2000, I, 1291,
con nota di SASSANI B., Le alte Corti all’impatto delle questioni di giurisdizione dell’art. 33 d.lgs. n. 80 del 1998: prime
impressioni di lettura, ed in Corr. giur., 2000, 592, con nota di CARBONE V., Sezioni unite, Adunanza plenaria, T.A.R.
Calabria a confronto sulla nuova giurisdizione esclusiva dopo il D.Lgs. n. 80/1998. In dottrina, sull’interpretazione in
senso conforme a Costituzione, quale autonomo canone ermeneutico, cfr., tra altri, AMOROSO G., L’interpretazione
«adeguatrice» nella giurisprudenza costituzionale tra canone ermeneutico e tecnica di sindacato di costituzionalità, in
Foro it., 1998, V, 89 ss., e ZAGREBELSKY G., Processo costituzionale, in Enc. dir., Milano, 1987, XXXVI, 593).
19 Osserva DI MUCCIO P., Nemo iudex, cit., 3056: “…mentre il regolamento parlamentare del Senato tace del
tutto sul punto…limitandosi a rinviare al regolamento del personale, il regolamento parlamentare della Camera
dei deputati stabilisce che l’Ufficio di Presidenza decide «in via definitiva» sui ricorsi attinenti al rapporto d’impiego dei dipendenti. A tale univoca locuzione non può che darsi il significato tradizionale e pacifico, nella legislazione (art. 16 e 34 t.u. Consiglio di Stato), in dottrina ed in giurisprudenza, di atto suscettibile di impugnazione davanti al giudice amministrativo, essendo noto che, prima della istituzione dei T.A.R., la definitività dell’atto
costituiva il presupposto della sua impugnabilità. Ciò è tanto più vero ove si consideri che il legislatore, quando
ha voluto disporre la sottrazione di un atto amministrativo al sindacato di ogni altro giudice, ha usato l’espressione «in via esclusiva» (vedi, ad esempio: art. 29 t.u. Consiglio di Stato; art. 14 l. n. 87 del 1953, modificato
dall’art. 4 l. n. 265 del 1958). Dal tutto si evince che non solo nessuna norma regolamentare parlamentare vieta
il ricorso al giudice esterno, ma anche che – anzi – il regolamento della Camera dei deputati implicitamente l’ammette, stabilendo che l’atto impugnabile è il decreto del Presidente, che rende esecutiva la delibera dell’Ufficio
sul ricorso del dipendente. Ad ulteriore conforto di questa tesi esiste un altro argomento. L’art. 12 reg. Camera
dei deputati del 1971 ha sostituito in parte le precedenti norme in vigore, contenute nell’art. 148 ed approvate
nelle sedute dell’8 maggio 1848; 2 marzo 1863; 14 novembre 1949. Ebbene, il vecchio art. 148 disponeva
testualmente: «La nomina, le promozioni, il collocamento a riposo, la revoca e la destituzione dei funzionari,
impiegati e commessi spettano all’Ufficio di Presidenza della Camera, al quale «esclusivamente» appartiene il
giudizio sugli eventuali ricorsi». Ne discende dunque senza ombra di dubbio che la riforma regolamentare del
1971, sostituendo la classica e tecnica espressione «esclusivamente» con la non meno classica e tecnica
espressione «in via definitiva» ha inteso rovesciare il precedente sistema, per adeguarlo alla mutata realtà costituzionale. Ci pare che sostenere il contrario significhi andare contro la lettera, lo spirito, l’interpretazione logicosistematica e l’interpretazione storica della norma de qua”.
Le tesi dell’autore, pur essendo riferite alla lettera del vecchio art. 12 del regolamento della Camera, appaiono,
comunque, attuali, posto che il nuovo art. 12, 6° comma, del regolamento medesimo (nel testo aggiornato del 16
dicembre 1998) non presenta, sul punto, rilevanti differenze rispetto alla precedente disciplina.
20 In tal senso, anche, SCOCA F. G., Atti, cit., 19.
21 Cfr. GIOVANNINI G., Profili giuridici delle nuove forme di intervento del Parlamento nell’Amministrazione, in
Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, I, Roma, 1981, 64, nota n. 94.
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Così ragionando, il fenomeno dell’autodichia non appare incompatibile con i principi
costituzionali in tema di tutela giurisdizionale; interpretando, invero, in senso conforme alla
Costituzione le norme regolamentari in questione, si giunge alla conclusione che il sistema
non nega agli interessati la possibilità di agire in sede giurisdizionale per la tutela delle proprie pretese.
Il che, a mio avviso, dimostra l’erroneità tanto della scelta ermeneutica della Corte di
cassazione di intraprendere, con le succitate ordinanze di rimessione, quel percorso processuale che ha condotto alla pronunzia della Corte costituzionale n. 154/1985, quanto
delle reiterate declaratorie di difetto di giurisdizione del giudice ordinario e del giudice amministrativo pronunziate sino ad oggi dalla Suprema Corte; difetto di giurisdizione configurabile, ad avviso delle Sezioni unite, persino nelle controversie relative alle procedure concorsuali per l’assunzione nei ruoli della Camera dei deputati22 ed in ordine alla domanda di
equa riparazione proposta da un ex dipendente del Senato a causa dell’eccessiva durata
di un giudizio svoltosi davanti agli organi interni del suddetto ramo del Parlamento23.
Ed in quest’ottica di completa chiusura verso la giurisdizione statale spicca, inoltre, l’orientamento della Suprema Corte che ritiene inammissibile il ricorso straordinario ex art. 111,
22 Cfr. Corte cass., sez. un., 18 febbraio 1992, n. 1993, in Foro it., 1993, I, 1654, secondo cui: “se l’autonomia del Parlamento può essere lesa qualora altri poteri s’ingeriscano nei rapporti che intrattiene con i suoi
dipendenti, con pari ragione tale lesione può prodursi qualora si ammetta che organi estranei al Parlamento
giudichino sui rapporti in fieri. La determinazione dei criteri di scelta dei propri dipendenti e le procedure di
ammissione sono, infatti, espressione di quella stessa autonomia riconosciuta…ai due rami del Parlamento
sui rapporti costituiti con i propri dipendenti”.
23 Cfr. Corte cass., sez. un., 27 luglio 2004, n. 14085, in Giust. civ., 2005, I, 679, con nota di MOROZZO
DELLA ROCCA F., Il parlamento, l’autodichia e l’irragionevole durata del processo. A sostegno di tale conclusione, la Suprema Corte sottolinea che: “Gli organi di giurisdizione interna delle Camere, come hanno potestà giurisdizionale sulle controversie dei loro dipendenti, così hanno giurisdizione sull’applicazione della l. 24
marzo 2001 n. 89, che sia invocata in relazione alle stesse controversie. Il ricorrente ha sostenuto che la
cognizione, da parte del giudice ordinario, della domanda, da lui proposta, di applicazione della l. n. 89 del
2001 non violerebbe l’autodichia del Senato. La tesi non può essere condivisa, perché l’accertamento sul
superamento o meno, da parte del giudizio svoltosi davanti agli organi giurisdizionali interni del Senato, del
termine ragionevole di durata comporta quel sindacato sull’attività del Parlamento e quel rischio di interferenza che la previsione dell’autodichia ha inteso evitare a garanzia dell’«indipendenza guarentigiata nei confronti di ogni altro potere». Questa considerazione assume una particolare evidenza se si pone mente al fatto che
la domanda di riparazione per il superamento del termine ragionevole può essere proposta anche «durante
la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata» (art. 4 l. n. 89 del 2001). In
siffatta ipotesi l’interferenza con il giudizio in corso davanti all’organo di giurisdizione interno alla singola
Camera sarebbe inevitabile da parte della Corte d’appello che dovrebbe giudicare sulla sussistenza della violazione del diritto alla ragionevole durata del giudizio in corso davanti all’organo parlamentare. Né l’individuazione della giurisdizione può differenziarsi in relazione al momento in cui il diritto all’equo indennizzo sia fatto
valere, affermandosi la giurisdizione degli organi interni del Parlamento quando la domanda sia proposta nel
corso del giudizio in cui la violazione si assume verificata e, invece, la giurisdizione ordinaria prevista dalla l.
n. 89 del 2001 quando la domanda sia proposta dopo la conclusione dello stesso giudizio (come nel caso di
specie). Tale distinzione, priva di razionalità e senza alcun aggancio normativo, renderebbe inoltre la parte
arbitra di scegliersi la giurisdizione da adire”.
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7° comma, Cost. proposto avverso le decisioni “in via definitiva” assunte, nell’ambito delle
materie assoggettate all’autodichia in questione, dai competenti organi interni delle Camere
al termine dei procedimenti contenziosi delineati dai regolamentari parlamentari; inammissibilità che, a mio avviso, discende inevitabilmente dal fatto che tali organi interni non possiedono i requisiti minimi per poter essere considerati giudici speciali.
In argomento, la Corte di cassazione ha osservato che:
“postulata l’inammissibilità di dubbi di legittimità costituzionale circa la norma del regolamento parlamentare che fonda il sistema dell’autodichia, ne resta per ciò stesso esclusa
l’esperibilità del ricorso straordinario per cassazione, ex art. 111 Cost., avverso gli atti destinati, nell’ambito di tale sistema, alla decisione «in via definitiva» delle controversie di cui
trattasi, perchè si tratterebbe di un rimedio, che, configurandosi indiscutibilmente come
espressione precipua della funzione giurisdizionale, da un lato, apparirebbe contraddittorio
col principio di sovranità del potere politico, sul quale riposa il fondamento costituzionale del
suddetto sistema; e, dall’altro lato, trova coerente correlazione, per espressa previsione del
precetto istitutivo (il 2° comma del citato art. 111 fa, invero, testuale riferimento a sentenze
o provvedimenti «pronunciati dagli organi giurisdizionali, ordinari o speciali»), soltanto
rispetto ad atti di omologa espressione, non ravvisabili nei casi in cui debba, come nella
specie, essere individuato un «non-giudice» nell’organo dal quale essi provengano, ancorché deputato alla gestione contenziosa degli interessi in conflitto”24;
il precetto di cui all’art. 111 Cost., che istituisce “la regola dell’indeclinabilità del controllo giurisdizionale di legittimità su tutte le «sentenze», sebbene faccia riferimento con tale
locuzione a provvedimenti di contenuto decisorio incidenti su diritti soggettivi ed idonei al
giudicato, postula un connotato comune di siffatti provvedimenti, vale a dire la loro natura
giurisdizionale. Questa natura deriva da un dato minimo indefettibile: che è costituito dalla
«terzietà» del giudice, il quale è assente per definizione in ogni caso di giurisdizione domestica; qual è quella in esame”25;
il ricorso ex art. 111 Cost. risulta “precluso dal sistema stesso dell’autodichia, incompatibile per definizione col controllo giurisdizionale esterno e non fondato sulla distinzione
fra giudice e parti”26.
L’opera è così completata.
24 Corte cass., sez. un., 27 maggio 1999, n. 317, cit..
25 Corte cass., sez. un., 19 novembre 2002, n. 16267, cit..
26 Corte cass., sez. un., 27 maggio 1999, n. 317, cit. e Corte cass., sez. un., 19 novembre 2002, n. 16267,
cit.. Cfr., anche, Corte cass., sez. un., 18 marzo - 10 giugno 2004, n. 11019, cit..
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In questo modo, infatti, la barriera innalzata dalla Suprema Corte dinanzi agli impiegati del Parlamento ed ai partecipanti alle procedure di reclutamento è totale, essendosi
integralmente garantita l’insindacabilità, in sede giurisdizionale, di tutte le categorie di atti
delle Camere in materia di rapporto di impiego; e ciò, ove si consideri: 1) che i giudizi,
instaurati in tale materia dinanzi al giudice amministrativo o ordinario, aventi ad oggetto o
procedure concorsuali per l’assunzione di dipendenti o atti relativi alla fase di gestione del
rapporto di lavoro (dalla nascita all’estinzione) o, infine, decisioni emesse dagli organi parlamentari competenti a statuire sui gravami amministrativi proposti, saranno destinati, salvo
un poco probabile, ma auspicabile, cambio di rotta giurisprudenziale, a concludersi purtroppo con una declaratoria di difetto di giurisdizione dei suddetti giudici; 2) e che saranno (correttamente) dichiarati inammissibili quei ricorsi straordinari ex art. 111, 7° comma, Cost. proposti avverso le menzionate decisioni “in via definitiva”.
Occorre, adesso, effettuare qualche osservazione in ordine al potere di autodichia
attribuito alla Corte costituzionale dall’art. 14, 3° comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87
(come modificato dall’art. 4 della legge 18 marzo 1958, n. 265); disposizione che stabilisce
espressamente che “la Corte è competente in via esclusiva a giudicare sui ricorsi dei suoi
dipendenti”27.
La lettera della norma induce a ritenere che il sistema neghi, al dipendente della Corte
che voglia agire per la tutela delle proprie posizioni giuridiche soggettive, la possibilità di utilizzare i normali rimedi giurisdizionali28; il che – anche in considerazione del fatto che un
eventuale sindacato giurisdizionale esterno sui provvedimenti emessi dalla Corte in materia di status dei dipendenti non potrebbe assolutamente ledere l’autonomia e l’indipendenza della stessa, in quanto, in tale ipotesi, il giudice sindacherebbe soltanto gli atti emanati
dalla Corte in relazione alla gestione del rapporto di lavoro tra essa ed i propri impiegati,
senza, in alcun modo, intaccare, nell’esercizio di tale controllo giurisdizionale, le funzioni
primarie istituzionalmente attribuite dalla Costituzione al Giudice delle leggi - si pone in con-
27 Al riguardo, si veda il regolamento approvato, in attuazione del suddetto art. 14, dalla Corte con delibera
del 16 dicembre 1999, che sostituisce quello approvato in data 8 aprile 1960, che già contemplava tale forma
di autodichia.
28 Cfr. Corte cost., decisione 17 giugno 1993, n. 36, in Foro it., 1994, I, 3382, secondo cui: “per quel che riguarda la Corte, alla stregua della disciplina regolamentare vigente, che sottrae alle regole di diritto comune le controversie comunque attinenti alla materia dell’impiego (in cui rientra, per principio pacifico, anche il momento
costitutivo del rapporto), deve escludersi la possibilità di un sindacato esterno per tutto quanto riguarda la suddetta materia, essenziale ai fini del funzionamento dei propri uffici ausiliari, che non tollererebbe alcuna interferenza esterna. Questa conclusione trova altresì conforto nella considerazione della peculiare posizione della
Corte nei confronti degli organi giurisdizionali, sia per la sua potestà di risoluzione dei conflitti fra i poteri dello
Stato, sia per quanto riguarda il sindacato incidentale di costituzionalità delle leggi, che, creando un rapporto
particolarmente intenso con quegli organi, esige una specifica salvaguardia in quella direzione”.
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trasto con i già richiamati principi costituzionali in tema di tutela giurisdizionale emergenti
dagli articoli 24, 1° comma, e 113 Cost..
In questo caso, però, tale contrasto difficilmente può essere evitato attraverso una
esegesi costituzionalmente orientata del testo normativo.
Come già rapidamente osservato, l’interprete ha il dovere di verificare se il dato normativo sospettato di incostituzionalità possa consentire interpretazioni adeguatrici.
Sennonché, nell’ambito adesso in esame, non sembra, a mio avviso, possibile individuare un sicuro percorso ermeneutico alternativo che permetta di fornire una lettura della
norma che eviti il contrasto con il paradigma costituzionale, senza stravolgere il significato
letterale della stessa.
Astrattamente, un tentativo potrebbe essere compiuto.
Si tratta, però, di un tentativo che, come sarà facile notare, è sorretto da una interpretazione del dato normativo non convincente.
Si potrebbe ritenere che l’espressione “in via esclusiva” non sia diretta ad eliminare la
possibilità di un sindacato giurisdizionale esterno, ma si limiti soltanto a delineare un sistema contenzioso interno che prevede, quale unico gravame (di natura amministrativa), il
ricorso alla Corte; un sistema, cioè, che non si articola in più gradi di giudizio.
Interpretando in tal senso la norma - e ritenendo, quindi, che l’intenzione del legislatore manifestata con l’espressione “in via esclusiva” non sia quella di impedire, agli impiegati della Corte, l’utilizzabilità dei normali rimedi giurisdizionali, ma esclusivamente quella di
tratteggiare un profilo concernente l’esperibilità di uno strumento di tutela endogeno aggiuntivo a tali rimedi -, verrebbero certamente meno i dubbi di incostituzionalità del sistema29.
Tale ricostruzione non appare, però, a dire il vero, particolarmente solida.
Nella materia de qua, salvaguardare, in via interpretativa, la costituzionalità del sistema significherebbe, sostanzialmente, sacrificare quel principio ermeneutico secondo cui,
“ove... l’interpretazione letterale coordinata con quella funzionale… offra, come risultato, un
unico significato normativo della disposizione”30, contrastante con i parametri costituzionali,
è impedito all’operatore di optare per una diversa esegesi del dato normativo che consenta di superare i dubbi di incostituzionalità.
29 In dottrina, sulla problematica in esame, cfr. GARRONE G., in ROMANO A., Commentario, cit., 310, secondo
cui, nei confronti di tale potere di autodichia, “non sembra potersi…affermare la regola della alternatività, bensì
quella della aggiuntività, delle decisioni giustiziali che ne sono espressione rispetto alle pronunce degli organi che
per Costituzione sono investiti della funzione giurisdizionale (artt. 102, 1° co. e 113 Cost.)”. Per DI MUCCIO P.,
Nemo iudex, cit., 3056, invece, il legislatore, quando vuole disporre la sottrazione di un atto amministrativo al sindacato giurisdizionale, è solito usare, come nell’ipotesi in esame, proprio l’espressione “in via esclusiva”.
30 Il virgolettato appartiene ad AMOROSO G., L’interpretazione, cit., 92.
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Se così è, non resta che sperare che questa ferita al tessuto costituzionale venga al
più presto sanata.
In conclusione, deve dunque evidenziarsi come, alla luce dei valori e dei principi consacrati nella Carta fondamentale, non sia possibile giustificare l’esclusione della giurisdizione
statale nell’ambito delle controversie riguardanti il rapporto di impiego dei dipendenti delle
Camere e della Corte costituzionale o le procedure concorsuali per l’assunzione nei ruoli di tali
organi; in un ambito in cui – non venendo in rilievo funzioni ed atti di natura costituzionale difendersi dal processo, anziché nel processo, costituisce una inaccettabile anomalia.
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