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8 marzo 2013
La tua fede ti ha salvata (Lc 8, 40-56)
Il nostro cammino quaresimale procede. Ascolto tante voci e sento
tanti commenti rispetto alla nostra “Scuola della Parola” dedicata alla
ripresa orante e meditata di taluni “miracoli della fede”, narrati da
Luca. Voci e commenti diversi esprimono vive testimonianze
dell’accoglienza personale del vangelo e diventano risonanze della
parola udita e fatta penetrare nel segreto dell’anima ben disposta.
Con vero stupore avverto come lo Spirito Santo, forza persuasiva e
luce potente del “maestro interiore”, si introduce, secondo un modo
misterioso ma efficace, nelle profondità dell’io più nascosto e
apparentemente inviolabile, generando una sorprendente accoglienza
nell’uditore credente e in ascolto di Dio.
Così giunti a metà del percorso di grazia della Quaresima, che ci
porta alle soglie dell’esplosione di Pasqua, possiamo domandarci:
“Che cosa sta accadendo in me? Quale parola forte mi ha
particolarmente colpito? Sto lasciando spazio a Dio nel mio cuore? Mi
lascio guardare dagli occhi amanti di Gesù? Il suo volto si è impresso
sul mio volto? Mi sono reso docile discepolo dei suoi miracoli? Metto
ordine nella mia vita e sto formulando un proposito risoluto di
cambiare direzione ai miei giorni, se per caso fossero disordinati, di
fronte alla bellezza di Gesù?”.
Ecco, sono alcune domande, tra le tante, che vorrei depositare
semplicemente nel vostro cuore, soprattutto dopo l’interrogativo che i
discepoli si sono posti alla fine del racconto della “tempesta sedata”:
Chi è costui?” (Lc 8, 25). Le domande allora servono per prolungare il
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nostro dialogo interiore, così: “Allora chi è Gesù per me, se lui è tanto
vicino a me?”. Gesù è vicino.
La “vicinanza” di Gesù alla vita di ognuno di noi, suppone la nostra
“vicinanza” a lui, l’averlo incontrato e guardato in faccia. Questa
vicinanza richiede una motivazione, un fondamento. Che lui, mi sia
vicino, può anche stare, ma che io sia vicino a lui devo farmene una
ragione. Non basta lo sguardo, devo fargli posto dentro di me.
Un ragazzo della Cresima di Busseto mi ha chiesto: “Quando hai
incontrato Gesù? Che cosa ti ha detto? Che cosa gli hai chiesto?”.
Queste domande a raffica, devo ammetterlo un po’ provocatorie, mi
hanno sul momento spiazzato. D’un tratto mi sono trovato, per così
dire, “nudo”. Ho fatto una ricerca fulminea nel mio sito interiore per
trovare le immagini della mia biografia spirituale.
Con un cero imbarazzo, me la sono cavata con una battuta: “Su una
strada di Nazaret, al tempo della prima giovinezza, ho incontrato Gesù.
Da allora Gesù mi ha sempre tallonato. Io non l’ho più lasciato. Mi
disse: “Va, ritorna dai tuoi fratelli e annuncia loro la mia vita, quello
che ho donato a te”. E così ho fatto e sono felice.
Un amico, piuttosto maturo, mi ha interrogato: “Perché essere
cristiani? Perché seguire Gesù? Perché Gesù è importante?”.
Domande di fuoco che bruciano le eventuali ipocrisie. Ho risposto:
“Perché senza Gesù, la vita mi appare tristissima e senza scampo, senza
verità, senza sole. Gesù è importante non tanto per se stesso, ma perché
attraverso di lui mi rende accessibile l’amore del Padre”. Gesù è
davvero importante e chi è più importante di lui?
In realtà essere cristiani è una scelta di vita, è una visione del
mondo, è una risposta alla tragedia della morte, della malattia,
dell’ingiustizia. Se non avessimo una via d’uscita, se non potessimo
attingere alla verità, se la realtà smettesse di essere intelligibile, se il
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sole si spegnesse, se la morte vincesse, se il male trionfasse, se
l’ingiustizia non avesse tregua… come ipotizzare una vita felice?
Allora questo Gesù atteso, ci è necessario.
C’è dunque un’attesa di Gesù. I miracoli di Gesù rispondono ad
un’attesa. La condizione dell’attesa in realtà esige una chiarezza
interiore, cioè il coraggio di essere vivi in una società di morti in piedi,
in un mondo di omologati, di rassegnati, di lamentosi senza creatività,
di banali senza fantasia, di svuotati senza speranza. Solo l’attesa ci
costringe a stare attenti, perspicaci, produttori di pensiero, capaci di
speranza, di alternativa, inventori di soluzioni, generosi nella società,
nella scuola, in famiglia, nel lavoro.
Per essere cristiani oggi occorre una dose elevata di coraggio. Scrive
Timothy Radcliffe: “La parola coraggio deriva da cor, che significa
cuore in latino. E il coraggio spesso è considerato una qualità del
cuore. Ci si sente paurosi o coraggiosi. Il coraggio è anche considerato
prima di tutto una qualità della mente: il coraggio di vedere le cose
come stanno, di guardare il pericolo in modo fermo e limpido. Così la
persona coraggiosa conosce bene la propria vulnerabilità. I coraggiosi
ammettono le loro paure” (cfr. Il punto focale del cristianesimo. Che
cosa significa essere cristiani, Milano, 2008, pp. 113-114).
E’ vero, il coraggio ci rende decisi anche quando si è immersi in un
ambiente di pavidi che si nascondono dietro il paravento del “così fan
tutti”, e restano ottusi e inconcludenti e, alla lunga, insignificanti
perdendo la propria qualità personale, negando la propria originalità.
Qui avvertiamo come Gesù ci scuote dalla timidezza della fede, dal
rimando sine die di scegliere finalmente di gettarsi nella sua attrattiva.
Ciò che ci impedisce di andare da Gesù è che ci è stata tolta l’attesa di
lui perché siamo saturi di cose, siamo senza qualità.
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Attendere infatti significa “tendersi in avanti”, cercare oltre il solito,
con il coraggio di chi non accetta di essere soffocato dalla banalità
della vita. Il cristiano si ribella contro ogni impedimento di essere
pienamente se stesso, perché, se così dovesse essere, negherebbe la sua
identità responsabile e la sua chiamata alla dignità e alla libertà.
Essere cristiani significa stare dalla parte di Gesù, volerlo conoscere,
volerlo “toccare”, voler strappare da lui il “mistero” della vita, quel
mistero che guarisce le ferite, che risana la vulnerabilità e la paura, che
incita alla ripartenza dopo i fallimenti e le strozzature delle prove
circostanziali della quotidianità.
Forse siamo chiamati oggi ad amare l’eroico, a desiderare il martirio
per la fede in Gesù con scelte forti, controcorrente. Noi siamo figli di
martiri: San Donnino, San Gislamerio, ma anche gli apostoli e i martiri
romani. La figura del martire è congenita al cristiano coraggioso e al
cristiano che è in-attesa di Gesù perché si occupi di lui e venga
trasfigurato in lui.
Così la vocazione del credente di oggi è ben raffigurato nella donna
emorroissa del vangelo: attende Gesù, lo sogna nella sua condizione di
donna usata e ferita, lo incalza, nascostamente lo tocca per ritrovare una
“nuova vita”. Gesù è la sua vera novità che la salva. Altri l’hanno
sfruttata e resa “ritualmente impura” (cfr. Fausto Negri, Ritiro in
parrocchia, 2 dicembre 2012).
In realtà ricordiamoci che non c’è male che Gesù non possa
debellare e chi si sente “malato”, cioè “peccatore”, si nasconde come
in anonimato tra la folla accerchiante e va dritto a Gesù, anche di
soppiatto. Di fatto è la riconosciuta debolezza che ci fa alzare, è la
consapevolezza del peccato che ci fa arrivare da Gesù.
Così come l’uomo Giàiro non esita a recarsi da Gesù, vuole
incontrarlo a tutti i costi. Anche lui riconosce di essere incapace, di
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essere un padre finito. Eppure in lui si sviluppa una tensione verso
Gesù, un desiderio incontenibile di intercettare la sua persona. Scatta il
coraggio di mettersi in fila, scatta l’attesa di stare con lui, perché solo
da lui “usciva una forza che sanava tutti” (Lc 6, 19).
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Al suo ritorno, Gesù fu accolto dalla folla, perché tutti erano in
attesa di lui. 41Ed ecco, venne un uomo di nome Giàiro, che era capo
della sinagoga: si gettò ai piedi di Gesù e lo pregava di recarsi a casa
sua, 42perché l’unica figlia che aveva, di circa dodici anni, stava per
morire. Mentre Gesù vi si recava, le folle gli si accalcavano attorno.
43
E una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni, la quale,
pur avendo speso tutti i suoi beni per i medici, non aveva potuto essere
guarita da nessuno, 44gli si avvicinò da dietro, gli toccò il lembo del
mantello e immediatamente l’emorragia si arrestò. 45Gesù disse: «Chi
mi ha toccato?». Tutti negavano. Pietro allora disse: «Maestro, la folla
ti stringe da ogni parte e ti schiaccia». 46Ma Gesù disse: «Qualcuno mi
ha toccato. Ho sentito che una forza è uscita da me». 47Allora la donna,
vedendo che non poteva rimanere nascosta, tremante, venne e si gettò
ai suoi piedi e dichiarò davanti a tutto il popolo per quale motivo
l’aveva toccato e come era stata guarita all’istante. 48Egli le disse:
«Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace!». 49Stava ancora
parlando, quando arrivò uno dalla casa del capo della sinagoga e
disse: «Tua figlia è morta, non disturbare più il maestro». 50Ma Gesù,
avendo udito, rispose: «Non temere, soltanto abbi fede e sarà salvata».
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Giunto alla casa, non permise a nessuno di entrare con lui, fuorché a
Pietro, Giovanni e Giacomo e al padre e alla madre della fanciulla.
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Tutti piangevano e facevano il lamento su di lei. Gesù disse: «Non
piangete. Non è morta, ma dorme». 53Essi lo deridevano, sapendo bene
che era morta; 54ma egli le prese la mano e disse ad alta voce:
«Fanciulla, àlzati!». 55La vita ritornò in lei e si alzò all’istante. Egli
ordinò di darle da mangiare. 56I genitori ne furono sbalorditi, ma egli
ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che era accaduto” (Lc 8,
40-56).
COMMENTO
Lc 8, 40 “Al suo ritorno, Gesù fu accolto dalla folla, perché tutti erano
in attesa di lui”.
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Ecco, Gesù ritorna. Sembra il racconto di un ritorno trionfale, dopo i
fatti prodigiosi accaduti al di là del lago, sulla sponda pagana. Lo
attende una folla immensa di diseredati, di disperati, di gente di
nessuno, smarrita, senza guida, senza pastore, senza messia. Questa
folla rivela una condizione di attesa, come se attendesse il Signore che
ritorna dalle nozze (cfr. Lc 12, 35 e ss.) per riabbracciare il suo popolo
(cfr. S. Fausti, p. 270).
L’attesa si compie con il ritorno di Gesù nel mezzo del suo popolo.
L’immagine che rivela i significati profondi di questo compimento
dell’attesa, dell’atto dell’accogliere la venuta di Gesù, richiama lo
sponsale eterno di Dio con la comunità di Israele. All’origine sta la
promessa di Dio che si codifica in un’alleanza. E’ molto significativo
che Gesù sia “accolto dalla folla perché tutti erano in attesa di lui”.
L’apertura della folla è calorosa, unanime, entusiasta. In tal senso la
sottolineatura dell’“attesa”, come concorde e massiccia, avverte che il
cuore del popolo è assetato di Dio, di verità, di certezze. E ancora
questa attesa, sentimento indicatore di un desiderio e di una
soddisfazione, va sottoposta alla prova di quale sia il suo vero e
autentico contenuto.
In realtà Gesù ritorna. Ma il Gesù che le folle attendono è il Messia
Figlio di Dio o una sua riduzione mistificante relativa ai bisogni
funzionali e interessati delle folle? Attendere Gesù implica di
accoglierlo nel suo essere “segno di contraddizione” (cfr. Lc 2, 34), nel
suo essere sì destinato alla gloria, ma alla “gloria di croce”: non un
Gesù “trionfale”, ma un Gesù che domanda di seguirlo “prendendo la
croce ogni giorno” (cfr. Lc 9, 23).
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Lc 8, 41-42a “Ed ecco, venne un uomo di nome Giàiro, che era capo
della sinagoga: si gettò ai piedi di Gesù e lo pregava di
recarsi a casa sua, perché l’unica figlia che aveva, di
circa dodici anni, stava per morire”.
Giunge sulla scena un “uomo di nome Giàiro” e Luca lo presenta con
un clamoroso “ecco”, come se fosse un noto personaggio della regione.
Di fatto lo è se ne cita il nome. Giàiro (in ebraico significa “Egli
risveglierà”, “brillerà”) è un capo, persona influente dell’ebraismo
locale. E’ un padre di famiglia con moglie e una figlia.
Più che adolescente, è in “età da marito” (S. Fausti, p. 271), ma in
punto di morire. Non è detto di quale malattia. In luogo della esaltante
gioia nuziale, si diffonde un pianto sconsolato e tragico per la fine del
sogno della vita. Per di più è “l’unica figlia”.
Tragico è il destino di una ragazza che si vede troncare la vita
mentre aspetta lo sposo. Il padre è fuori di sé per la costatazione della
sua impotenza, per il fallimento di ogni ritrovato umano, per non sapere
aiutare la sua “unica figlia”; è divorato dal suo stesso amore di padre e
si corrode nel suo orgoglio ferito.
Qui non conta l’alto rango che occupa nella comunità ebraica del
luogo, ma il suo sentirsi padre inetto e inane. Forse è giunto anche per
lui il tempo del rendiconto della sua genitorialità e della sua paternità.
La sua “casa” (… la “casa di Israele”?) è colma di morte, senza
spiraglio di vita dal come si mettono le cose.
Ora avviene il cambio di scena. In quel trambusto di folla in attesa,
si fa strada e, con gesto inaudito, “si gettò ai piedi di Gesù”. Un atto di
assoluta auto-umiliazione, voluta e ricercata, di fronte a Gesù. Lo prega
di recarsi “a casa sua”, esattamente riconoscendo che solo chi è il
Signore della vita può estrarre dal baratro della morte certa, solo chi è il
Signore dell’amore può ridonare l’amore a chi l’ha perduto.
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Non per nulla il vangelo annota che il luogo autentico
dell’amore/morte e della morte/amore è la “casa”, dove l’uomo vive la
fecondità delle generazioni e della vita, dove sogna e tenta di vivere una
felicità, ma anche dove esperimenta il fallimento, la fine della vita, la
morte.
Lc 8, 42b-44 “Mentre Gesù vi si recava, le folle gli si accalcavano
attorno. 43E una donna, che aveva perdite di sangue da
dodici anni, la quale, pur avendo speso tutti i suoi beni
per i medici, non aveva potuto essere guarita da
nessuno, 44gli si avvicinò da dietro, gli toccò il lembo
del mantello e immediatamente l’emorragia si arrestò.
Ora Luca usa uno stratagemma letterario di straordinario effetto
drammatico: la tecnica dell’incastro, tesa ad amplificare i fatti, ad
attirare l’attenzione degli uditori, intrecciando storie di donne di alto
tenore tragico. Nel caso appena accennato di una donna in fiore e
pronta alle nozze ma in stato agonico, inserisce il caso di un’altra
donna in via di morte per un’emorragia inarrestabile, in cura da dodici
anni, perfettamente senza esito positivo.
Nel 1991 il Card. Martini pubblica una Lettera Pastorale che fece il
giro del mondo e che stupì e scandalizzò molti. Paragonò i media e la
civiltà della comunicazione al “lembo del mantello”. Questo era il titolo
della Lettera.
Scriveva il cardinale: “Leggevo in essa l’icona di una società che ha
bisogno di essere guarita dai propri blocchi comunicativi” e proseguiva:
“Tra le masse però una persona comincia ad emergere. Ha un progetto,
una volontà precisa e soprattutto una grande fede. Gesù le dirà: «Figlia,
la tua fede ti ha salvato!». Ha una tale fiducia in Gesù da pensare che
anche solo il contatto con il lembo del suo mantello la possa guarire.
Per questo, pur restando nascosta tra la folla, essa vive un processo di
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forte “personalizzazione”, entra in un contatto autentico con Gesù,
contatto di cui egli stesso si accorge e che proclama pubblicamente.
Dalla massa è emersa una persona” (C. M. Martini, Il lembo del
mantello, 1991,m p. 10).
Ancora la storia di una donna ferita a morte. Così la contiguità dei
due casi, di per sé accidentale, investe nel sovrapporsi delle storie
un’eloquente accelerazione di significati e di contrasti dove le persone
vivono le loro esperienze di vita. Le due donne, pur nella diversità, si
accomunano per somiglianze impressionanti.
Anzitutto i comuni “dodici anni”: per la prima indicano lo sbocciare
della vita nuziale, il vertice della femminilità, dell’affettività,
dell’amore fecondo; per la seconda la tristezza di una delusione infinita
perché quel “vertice” non è stato mai gioito, pur potendolo, a causa di
sfruttamento e di violenza.
In secondo luogo le due donne – l’una “figlia” (v. 48), l’altra “serva”
(v. 54) – rappresentano “la figura di Israele antico e nuovo” (cfr. S.
Fausti, p. 272) e la comune sorte delle “nozze” negate, dunque la
perdita della femminilità, cioè della propria identità, vocazione e
missione, negando il loro incontro con lo sposo. Sono donne finite,
senza speranza, senza vita.
Tra i due racconti il passaggio è segnato dalle “folle”, come in un
contrappunto o come la funzione del “coro” nelle tragedie greche. Lo
sfondo delle folle fa intuire la vastità del male presente nel mondo e il
“bisogno” di redenzione. Allora, come oggi, l’uomo ha bisogno di Dio
perché la condizione di peccato lo divora e la morte sta dentro di lui.
Gesù ha detto infatti: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico,
ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori
perché si convertano” (Lc 5, 31-32).
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Ora siamo sulla scena della donna che soffriva “perdite di sangue” e
impedita di guarire, dunque da sempre malata nella sua femminilità più
intima e personale. Gesù chiama con il bellissimo nome di “Figlia”
colei che lo attende come medico/sposo, il solo in grado di
guarirla/purificarla. Lei è impura perché è stata amata senza essere
amata e ha amato senza amare: è il peccato più grave perché è
l’idolatria di sé, del corpo, senza vita, senza futuro.
Qui l’emorragia è davvero la perdita della vita, segno di morte
sicura: il dissanguamento indica l’essicazione della vita.
Se
l’uomo/donna non ama Dio, ma se stesso in modo esclusivo e ossessivo
perde Dio e perde se stesso. Per questo “nessuno è in grado di guarirla
da questo male di vivere” (S. Fausti, p. 271).
E si capisce che tutti i rimedi “umani” (medici!) diventano palliativi
se non si incontra il “medico” che è Gesù, l’autore della vita e
dell’anima. L’uomo ha bisogno di Dio per realizzare se stesso. Da solo
si perde e non c’è nulla che lo passa salvare/guarire.
I gesti della donna appaiono di forte determinazione perché ha
capito, ispirata dall’alto, che ora è il tempo in cui bisogna operare con
durezza e fermezza, costi quel che costi, contro tutte le chiacchiere dei
benpensanti. E’ lei stessa che compie le azioni decisive guidata dallo
Spirito di fortezza: “gli si avvicinò”, “gli toccò” e così il flusso si
“arrestò” subito. Sono atti fulminei, e messi a segno non badando al
protocollo o alle cortesie di abitudine.
Lei “toccò” perché prima è stata toccata dalla fede in lui. Tocca le
frange del mantello: ma basta per essere irrorata dalla sua potenza di
grazia e di amore. E’ l’energia divina che passa in lei. Ma passa anche
in noi se con coraggio osiamo “toccare” Gesù. La fede è il nuovo
vestito che copre le nostre nudità (cfr. San Francesco).
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Così la donna ha trovato lo sposo della vita vera, dell’amore vero ed
è risanata, ridonata-riconsegnata alla vita. Il mantello è simbolo della
vita (cfr. il mantello di Elia lasciato ad Eliseo) perché ci ricopre della
vita donata di Gesù. Tanto Gesù si effonde che della sua energia basta
un “lembo”.
Lc 8, 45-46 “Gesù disse: «Chi mi ha toccato?». Tutti negavano. Pietro
allora disse: «Maestro, la folla ti stringe da ogni parte e ti
schiaccia». Ma Gesù disse: «Qualcuno mi ha toccato. Ho
sentito che una forza è uscita da me».
Segue ora un duetto colmo di sottile umorismo che nasconde
sottintesi, dove Gesù pare faccia il finto tonto. Sbuca Pietro, come al
solito, che con una rimbeccata a Gesù del tutto ovvia, cerca di spiegare
le cose. Ma è un gioco letterario raffinato da parte di Luca. La
domanda di Gesù mira ad altro, è allusiva.
Lui avverte che qualcosa di nuovo è accaduto. Quel toccare della
donna causa una fuoriuscita di “energia divina”. Da Gesù esce una
“forza” potente che risana. La sfida del toccare, il dono dell’essere
guarito: ecco il nuovo dinamismo della grazia. Non bisogna aver paura
di Gesù: con Gesù bisogna osare.
Se vuoi essere liberato dai vincoli del male – il quietismo, l’accidia,
il sonno dell’anima, la pavidità, ecc. – non esiste altra cura che quella di
“toccare” Gesù, entrare in comunione con lui, stabilire con lui
un’alleanza nuziale, come un patto d’acciaio. Lui ti consegnerà se
stesso in dono, la sua “forza” che è la vita in Cristo in te.
Lui stesso dice: “Ho sentito che una forza è uscita da me”. E’ una
confessione d’amore con la quale Gesù rivela un legame di intensa
comunicazione che trasmette energia di vita: la sua vita viene riversata
nella donna, e dunque in noi e stabilisce una unione inscindibile.
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Lc 8, 47 “Allora la donna, vedendo che non poteva rimanere nascosta,
tremante, venne e si gettò ai suoi piedi e dichiarò davanti a
tutto il popolo per quale motivo l’aveva toccato e come era
stata guarita all’istante”.
La forza di cui è stata investita e per la quale ha riacquistato la
pienezza di sé, la bellezza del suo corpo, la floridezza della sua
femminilità, la libertà dai suoi vincoli di morte, trasforma
completamente “la donna” che non è più “una donna”, come all’inizio
del racconto e prima del miracolo, ma, ormai trasfigurata, è “la donna”,
emancipata, rinvenuta alla vita piena, senza più complessi.
Non aveva più senso rimanere anonima e “nascosta”. Ella ha
acquisito la stessa dignità e parità con l’uomo, tanto che utilizza la
stessa modalità di azioni di Giàiro: “venne e si gettò ai piedi e
dichiarò”. Quale veloce prontezza, quale ammirabile scioltezza, quale
autorevolezza e dignità!
E’ proprio vero che Gesù cambia la persona una volta che è stata
toccata da lui, dalla sua “forza”. La donna ormai affronta il pubblico,
forse quel pubblico stupito, irridente, mormoratore che l’ha vista prima
e altrove. Il suo racconto diventa pura testimonianza, come se fosse in
un tribunale e sotto giudizio, ma libera di dire quello che è.
Allora è finalmente una donna libera, senza paura e resa
ininfluenzabile rispetto all’opinione pubblica. Anzi non ha più ritegni a
confessare la sua scelta, a riconoscere quello che era, come una
“martire” perché dice quello che crede e crede in colui che l’ha guarita.
Lc 8, 48 “Egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace!».
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La donna è guarita, ritrovata, fatta nuova. E allora Gesù le cambia i
“connotati” e le consegna la nuova identità. Ora è “Figlia” perché ha
creduto in lui, si è affidata totalmente a lui, perché ora davvero è degna
“Figlia di Sion”, rappresentante del popolo eletto. Così la fede salva
dall’abisso della morte, dal dissanguamento di amori folli, dalle
passioni cieche, della perdita dell’appartenenza.
La donna ci rappresenta e nel contempo si fa modello per ogni
credente che vagola nel buio della propria confusione, nella separatezza
di Dio, nella resistenza ad accondiscendere alla luce. Allora il suo
arrendersi a Gesù, produce il miracolo della salvezza e può “andare in
pace”.
L’invito di “andare” viene da Gesù. E’ l’anticipo della pace
pasquale, è la prova di camminare verso la pienezza di sé che è
pienezza della gioia di essere risorta in Dio. E’ guarita per sempre,
porta il segno dello “shalom” di Dio e può aver parte del suo Regno.
Lc 8, 49-50 “Stava ancora parlando, quando arrivò uno dalla casa del
capo della sinagoga e disse: «Tua figlia è morta, non
disturbare più il maestro». Ma Gesù, avendo udito,
rispose: «Non temere, soltanto abbi fede e sarà salvata».
Sull’onda della guarigione miracolosa, che viene dilatata da un
sottofondo di qualche parola di commento, Luca riprende la scena
lasciata sospesa. Ora c’è l’annuncio di una notizia ferale: la morte
avvenuta della figlia di Giàiro. Quando tutto è finito, allora conviene
chiudere ogni speranza e togliere il disturbo: “Non disturbare più il
maestro”, viene suggerito dalla sapienza popolare.
Se la speranza umana è dunque finita, subentra un senso di
rassegnazione e di fatalità e non poca delusione, dopo aver coltivato
tanta attesa. Si dice che “finché c’è vita, c’è speranza”, ma nella morte
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si scioglie ogni illusione. I ragionamenti umani di speranza finiscono di
fronte all’impossibilità, la costatazione del limite invalicabile.
Eppure “per chi crede, tutto è possibile” (Mc 9, 23). Quel “ma”
avversativo, posto all’inizio della chiamata in causa di Gesù, cambia la
realtà. Nella prospettiva della fede, l’umano ritorna in attesa. Gesù si
pone in modo diverso di fronte alla morte: la sua visione salta le “leggi
della natura” e poi Gesù è lo “sposo”: può lo sposo permettere che
l’amore sia vinto dalla morte, finisca nel nulla eterno?
E’ lui che incita a “non temere”. Questa è una parola rassicurante e
molto “sua”, perché solo lui la può proclamare senza smentita. A noi
serve solo la “fede”. La restrizione mentale del “soltanto” indica in
realtà la necessità e l’assolutezza dell’atto di fede, che non può essere
sostituito da null’altro.
La salvezza poi è data in promessa. La fede diventa conditio sine qua
non per l’evento del miracolo che viene adombrato sullo sfondo, nel
futuro, se le condizioni maturano verso il gesto prodigioso. Occorre
liberarsi dai pregiudizi, dal dubbio che possa accadere.
Ma quale fede? Quella liberante che vince il “temere”. La fede
“liberante” è quella pasquale che si fonda sulla verità di Gesù vincitore
di ogni paura e di ogni altro oscuro accanimento del male. Noi
crediamo sulla parola di Gesù, in lui poniamo la nostra fiducia in
quanto è “luce ai nostri passi”, in quanto lui, uscito dalla morte ci salva
nella morte. Allora la “morta” avrà la vita: “sarà salvata”, perché è
passata nella morte di Gesù. Come lui si sveglia e viene alla luce, così
la “fanciulla”, così tutti noi.
Lc 8, 51 “Giunto alla casa, non permise a nessuno di entrare con lui,
fuorché a Pietro, Giovanni e Giacomo e al padre e alla
madre della fanciulla”.
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Adesso si apre l’orizzonte esclusivo della “casa”. A nessun estraneo
è permesso di entrare: “Non permise a nessuno di entrare con lui”. E’
un ordine perentorio e significativo. Rivela una “sacralità” non come
dimensione “privativa”: Gesù rivendica uno spazio speciale e intende
preservarlo da infiltrazioni maliziose e corrosive.
Nella casa vive la famiglia: il padre, la madre e la fanciulla, le
persone che hanno edificato e vissuto il progetto d’amore di Dio. Con
Gesù si accompagnano i tre apostoli-testimoni della trasfigurazione sul
Tabor e della sfigurazione al Getsemani (cfr. S. Fausti, p. 273): sono gli
amici dello sposo da presentare alla “sposa”.
Il gruppo che si forma in casa costituisce una “pienezza”: sono sette
persone, tutte molto rappresentative. E’ una “forma di chiesa”,
presieduta da Gesù, lo sposo: una chiesa in attesa, una chiesa che
veglia, una chiesa che piange ma che poi gioirà. E’ Gesù che prende
l’iniziativa ed è lui che la raccoglie e la custodisce in una sorta di
intimità.
Lc 8, 52-53 “Tutti piangevano e facevano il lamento su di lei. Gesù
disse: «Non piangete. Non è morta, ma dorme».3Essi lo
deridevano, sapendo bene che era morta”.
Fuori dalla casa, ritrovata nella sua unità con Gesù, “tutti piangevano
e facevano il lamento su di lei”. E’ un pianto rituale dove si mescolano
condoglianze e piagnisteo plateale in forma di esecrazione della morte
avvenuta. Si piange insieme per condivisione del comune destino e per
solidarietà: è una celebrazione laica della morte, che diventa lutto
collettivo e costatazione dell’impotenza umana di fronte alla vittoria
della morte inesorabile.
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Nel compianto messo in scena non passa la fede e neanche la
speranza che Gesù possa fare qualcosa di particolare. Davanti alla
morte è meglio il silenzio.
Arriva ora la parola autorevole e decisa di Gesù, dello sposo che
visita la “sposa” morta. Gesù svela la realtà superando il velo
dell’apparenza: chi sta nella morte sopravvive in modo diverso e la sua
vera condizione è il sonno: “Non è morta, ma dorme”.
I dolenti esteriori alla casa non capiscono e pensano di essere presi in
giro. Dunque “lo deridevano”. Non sanno come in realtà stanno le cose
e tuttavia “sapevano”: vi è un “non senso”, una contraddizione perché
leggono la realtà stando alle apparenze fisiche. Non riescono ad andare
oltre l’esperienza sensibile, assolutizzandola e negando una “diversa”
modalità di vita oltre il dato della morte.
Gesù non è ascoltato e dunque non è capito perché la loro “scienza”
non ammetteva altra possibilità. A volte capita che anche noi siamo
“materialisti” come loro! Solo la parola di Gesù ci apre gli occhi
all’intelligenza di un oltre, che è contiguo alla realtà della morte.
Lc 8, 54-55 “ma egli le prese la mano e disse ad alta voce: «Fanciulla,
àlzati!». La vita ritornò in lei e si alzò all’istante. Egli
ordinò di darle da mangiare”.
Gesù è in piena azione. Non si arresta e continua la sua “missione” di
rivelatore dell’opera del Padre, perché lui e il Padre operano insieme.
In realtà il gesto di “le prese la mano” è proprio dello sposo che
“impalma la sposa” (cfr. S. Fausti, p. 273) e trasfonde in lei la forza
della vita con un’autorità che solo un Creatore può disporre e con la
tenerezza dell’amare che solo un Dio amore può donare.
Solo lui possiede ciò che manca all’uomo e il potere di riabilitare,
rivitalizzare ciò che giace nella morte. Quel “disse ad alta voce”
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riecheggia la voce creatrice di Dio, di allora e di adesso che risuona
nell’intero universo. E’ la parola sulla morta che ordina di svegliarsi dal
sonno.
In controluce si delineano i tratti della resurrezione di Gesù sotto il
comando di Dio. “Alzati” eguaglia: “Risorgi dai morti”. Così il “tocco”
di Gesù si manifesta nella sua efficacia e la “fanciulla-serva”
obbedisce. In tal modo le due donne “guariscono” “all’istante”, senza
ostacoli ormai perché la parola non indugia nella sua realizzazione.
E’ sintomatico il “ritorno” nella fanciulla dello spirito che le era
stato soffocato. Questo ritorno alla vita piena è la condizione dell’
“uomo nuovo” dopo il battesimo: non è di rivivere ora, ma una vita
nuova, creata ex novo. Il “mangiare” diventa segno concreto, vitale,
visibile della “normalità” nuova in cui si adempie il miracolo della vita.
Lc 8, 56 “I genitori ne furono sbalorditi, ma egli ordinò loro di non
raccontare a nessuno ciò che era accaduto”
L’accenno ai “genitori” è significativo. Nonostante che siano stati
gratificati in esclusiva, sono “sbalorditi”, fuori di sé, perché non
riescono a raccapezzarsi di quanto è accaduto. In realtà non capiscono.
Se i loro occhi fossero disponibili sarebbero già avvolti e afferrati dal
“mistero” di Gesù.
Forse capiranno più tardi se seguiranno Gesù nella sua passione,
morte, resurrezione e comprenderanno, alla luce di Pasqua, che loro
hanno vissuto in anticipo quello che sarà la sorte di Gesù e di tutti noi.
L’ordine infatti di “non raccontare a nessuno ciò che era accaduto”
richiama la prudenza e la necessità di non trasformare Gesù in un mago
o in un taumaturgo fine a se stesso e non in funzione della salvezza, e
riguarda l’esigenza di una sequela esigente che passa dalla croce-morte.
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Così questi due “miracoli”, in favore di due donne, ci aprono alla
conoscenza di Gesù, alla rivelazione della forza che la divinità infonda
nella sua umanità, all’urgenza di un autentico contatto con lui, che si fa
intimità e comunione per essere con lui nella resurrezione.
Se si vuole essere con lui, occorre il coraggio della donna matura, la
sua tenacia, al sua volontà di raggiungerlo anche tra le traversie della
vita. E occorre l’umiltà di Giàiro, il riconoscimento della sua
impotenza, l’accoglienza in casa di Gesù, perché solo nell’intimità
Gesù si manifesta come colui che restituisce la vita e certifica la
speranza.
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Preghiera
Signore, mi credo sano e sono malato,
mi credo vivo e sono morto.
Come avviene questo controsenso dentro di me?
Sono sano: il mio corpo è vibrante, in salute, quasi perfetto.
Mangio, bevo, dormo, mi diverto, ne combino di ogni specie,
mi dimostro che sono forte, aitante, gagliardo…
E sono malato: il mio spirito si è illanguidito,
la mente va ad intermittenza, la volontà batte la fiacca,
sono confuso, lento nelle decisioni, mi dimentico…
Signore, vedi: sono sano e malato insieme!
Ho bisogno di una sveglia, di un ritorno alla vita vera, di un riscatto.
Sono vivo! E sono morto!
Signore donami il coraggio e la tenacia di uscire da me stesso,
di venire da te anche di nascosto,
e toccare il lembo del mantello, la tua vita, la mia salvezza.
Così mi getto ai tuoi piedi e riconosco la morte
che porto dentro di me, e sento in questa malattia
che mi divora lo spirito e io la nego per non vederla,
che mi annoia a morte, da essere esausto,
quasi morto in piedi!
Liberami tu e donami lo stesso slancio della donna che,
infischiandosi di quel che dicevano gli altri,
ti raggiunge e finalmente ti “tocca”… e s’accende in lei una
scintilla di fuoco che le cambia la vita.
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“Non temere”, mi sussurri all’orecchio del cuore.
Devo avere audacia e non essere codardo,
devo decidermi per te.
A volte mi trovo anch’io a piangere sul mio peccato,
nel segreto della mia intima coscienza,
coperto dalle colpe che grondano sangue
e non me ne libero e sono morto nell’anima.
Tu solo puoi investirmi della tua parola potente,
del tuo perdono che bramo.
Tu solo puoi prendermi teneramente per mano,
e gridare nel mio cuore: “Alzati”!
Sì, con te riprenderò la vita, sarò purificato,
e mangerò di nuovo il tuo Pane, mistero della tua presenza,
dono del tuo amore.
Così la tua vita ritornerà in me,
dolcezza senza fine.
Ora mi sento “miracolato”, perché finalmente
libero di amarti con tutto il cuore,
con tutta l’anima.
Ed è ormai la pace di Pasqua!