CIRPIT REVIEW Rivista Internazionale On-line n. 2 - Marzo 2011 Atti del 1° Colloquium Internazionale Cirpit Napoli, 2-3 Dicembre 2010 “LA DIMORA DELLA SAGGEZZA: L’ECOSOFIA TRA FILOSOFIA INTERCULTURALE E PENSIERO DELLA COMPLESSITÀ” Omaggio a Raimon Panikkar n. 2 - March 2011 Ist Cirpit International Colloquium Naples, 2-3 December 2010 BETWEEN INTERCULTURAL PHILOSOPHY AND COMPLEXITY: ECOSOPHY, THE WISDOM OF DWELLING. Dedicated to Raimon Panikkar Proceedings Centro Interculturale dedicato a - Intercultural Center dedicated to Raimon Panikkar www.cirpit.raimonpanikkar.it CIRPIT REVIEW PUBBLICATION Editorial Board Editorial Staff Alessandro Calabrese, Intercultural Page Paolo Calabrò, Epistemological Page Marcello Ghilardi, Aesthetics Page Victorino Perez, Philosophical Page Gianni Vacchelli, Literary Page Editorial Director Anna Maria Natalini Intercultural Center dedicated to Raimon Panikkar President: M. Roberta Cappellini Vice President: Giuseppe Cognetti www.cirpit.raimonpanikkar.it [email protected] Indice / Index 3 Indice/Index 5 Editoriale 7 Editorial 9 M. Roberta Cappellini PRESENTAZIONE I°Colloquium Internazionale Cirpit - Omaggio a Raimon Panikkar “LA DIMORA DELLA SAGGEZZA: L’ECOSOFIA TRA FILOSOFIA INTERCULTURALE E PENSIERO DELLA COMPLESSITÀ” 14 Giuseppe Cognetti INTRODUZIONE AI LAVORI DEL COLLOQUIUM SESSIONE INTERCULTURA / INTERCULTURAL SESSION 16 Giuseppe Cacciatore CITTADINANZA INTERCULTURALE 27 Francis D’Sa THE SIGNIFICANCE OF PANIKKAR’S COSMOTHEANDRIC VISION 35 Achille Rossi MITO CHE MUORE, MITO CHE NASCE SESSIONE COMPLESSITÀ / COMPLEXITY SESSION 39 Piero Bevilacqua NOVECENTO DIVISO: TRA RIDUZIONISMO TECNICO-SCIENTIFICO E SAPERE DELLE CONNESSIONI 45 Giuseppe Gembillo PERCHÉ LA COMPLESSITÀ 52 Gabriele Piana BUDDISMO, SCIENZA E INTERDIPENDENZA 3 Indice / Index TAVOLA ROTONDA / ROUND TABLE Per un incontro tra Scienza, Religione e Filosofia 59 Paolo Calabrò RAIMON PANIKKAR E LA SCIENZA MODERNA 65 Alessandro Calabrese LA FILOSOFIA TEORETICA TRA INTERCULTURALITA’ E COMPLESSITA’ NEL PENSIERO DI RAIMON PANIKKAR 69 Marcello Ghilardi APPUNTI PER UN INTERVENTO IN CHIUSURA DELLA PRIMA GIORNATA DEL CONVEGNO IN ONORE DI RAIMON PANIKKAR SESSIONE RAIMON PANIKKAR / RAIMON PANIKKAR SESSION 76 Fred Dallmayr A SECULAR AGE? REFLECTIONS ON TAYLOR AND PANIKKAR 93 Fulvio C. Manara LA FILOSOFIA “INTERCULTURALE”. NOTE E RIFLESSIONI 110 Michiko Yusa ECOSOPHY, RAIMON PANIKKAR, AND BASHŌ’S NATURE-AESTHETICS 122 Victorino Pérez Prieto THE COSMOTHEANDRIC STRUCTURE OF REALITY: THE PART AND THE WHOLE. INVISIBLE HARMONY AND ECOSOPHY 4 Editoriale ATTI DEL 1°COLLOQUIUM CIRPIT L’Associazione Cirpit desidera ringraziare l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (IISF)e il Prof. Antonio Gargano, per il sostegno offerto al nostro progetto, il Dr. Marco Emanuele e le Associazioni Napolitalia e Link Campus University e i Proff. Alberto Manco e Francesco Parisi dell’Università l’Orientale per le collaborazioni, le Università di Napoli, Siena e Bergamo, il Comune di Napoli, la Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco per i patrocinii, l’Editrice Jaca Book e il Dr. Sante Bagnoli per la collaborazione. Ed ancora la D.ssa Rammairone per il servizio traduzione e l’Agenzia Sant’Elia per il supporto tecnico. Infine tutti i relatori e gli amici che sono gentilmente intervenuti a Napoli in occasione del 1°Colloquium della nostra Associazione. Un particolare ringraziamento va agli ospiti: ai Professori Vincenzo Scotti, Massimo Cacciari e Gianni Colzani. Ed ancora al Dr.Mario Cavani della Fondazione Culturale Responsabilità Etica ed alla D.ssa Milena Carrara Pavan curatrice dell'Opera Omnia (Edizioni Jaca Book), per il bellissimo video “La mia Opera”, (temi sviluppati e presentati dall’autore stesso) la cui proiezione ha suggellato il termine dei Lavori. Ed infine un ringraziamento anche ai Soci e collaboratori del Cirpit ed al pubblico presente. A tutti un grazie di cuore per aver permesso la realizzazione di questo Colloquium. Editoriale In questo secondo numero della Rivista, corredato di Supplemento, riportiamo gli Atti del 1°Colloquium Cirpit di Napoli, insieme alle domande che sono state rivolte ai relatori da parte del pubblico e degli amici presenti. Nel Supplemento abbiamo raccolto alcuni contributi postumi relativi alle riflessioni scaturite spontaneamente dai Lavori insieme ad alcune recensioni. I Lavori del Colloquium hanno rappresentato non solo un momento accademico ma anche un’occasione di vera e propria condivisione amicale e di convivialità, in quello spirito di “philìa” cui sempre invitava Panikkar. Egli era solito affermare infatti l’importanza della lingua parlata, della vitalità e diversità della parola orale rispetto a quella scritta, la sua sacralità, essendo irripetibile, in quanto portatrice della dimensione olistica della persona. Una parola pertanto “integra” nel suo senso pieno e nella sua valenza simbolica, a rappresentare l’incarnazione dell’esperienza di vita e di pensiero, dell’autenticità dell’essere umano 5 Editoriale “qui ed ora”. Una parola di vita, che emerge e ritorna nelle profondità del silenzio, di cui si nutre. “In un certo senso la lingua parlata è una liturgia e ogni liturgia è unica e fine a se stessa. …In un Simposio si mangiano e si bevono le parole, non si leggono frasi. Poiché il valore e il merito di un Simposio consistono nella sua concelebrazione.” 1 Nonostante la consapevolezza di tale irripetibilità e dei limiti di ogni possibile registrazione, pensando di fare cosa gradita al pubblico dei lettori, abbiamo pensato di aggiungere alle pagine dedicate agli interventi dei relatori, qualche minuto di videoregistrazione delle loro “parole dal vivo”, ad accompagnarne la lettura. Analogamente per quanto riguarda gli ospiti del Colloquium, non avendo disponibile il testo scritto, abbiamo ritenuto significativo offrire qualche minuto videoregistrato dei loro interventi. LINKS: V. Scotti; G. Colzani; M. Emanuele; M. Cacciari Desideriamo sottolineare che l’intento del Colloquium è comunque riferibile al limite d’orizzonte relativo al suo particolare contesto, rimandando per la comprensione profonda delle tematiche proposte alle pubblicazioni dell’Autore. Ci auguriamo inoltre che le riflessioni e le tematiche proposte in questi Atti possano continuare ad essere dibattute sul Forum delle nostre pagine web, che fa seguito al Colloquium, invitando gli studiosi, i lettori e gli amici ad entrare in un “dialogo dialogale”in merito al dibattito avviato a Napoli. Anna M. Natalini 1 M. Roberta Cappellini R.Panikkar, La sfida di scoprirsi monaco, Cittadella, Assisi, 1991, Introduzione, 7-9 6 Editorial Proceedings of the 1st Cirpit Colloquium Cirpit Association wishes to thank the Italian Institute for Philosophical Studies (IISF) and Prof.Antonio Gargano, for the support given to our project, Dr. Marco Emanuele of Napolitalia Association and Link Campus University, Prof. Alberto Manco and Francesco Parisi of L’Orientale for their contributions, the Universities of Naples, Siena and Bergamo, the City of Naples, the Italian National Commission for UNESCO for their moral patronage. Furthermore Jaca Book Editors and Dr. Sante Bagnoli for their cooperation, Dr. Rammairone for the translation service and St. Elias Service for the technical support. Finally, all the speakers and friends who have kindly intervened in Naples on the occasion of the 1st Colloquium of our Association. Special thanks to the guests: Professors Vincenzo Scotti, Massimo Cacciari and Gianni Colzani. And still to Dr.Mario Cavani of Fondazione Culturale Responsabilità Etica and to Dr. Milena Carrara Pavan curator of the Opera Omnia (Jaca Book Editions) for the projection of her beautiful video “La mia opera” (with themes presented and developed by the author himself) . And final thanks go to Cirpit staff and Members and to the public. Thanks to everybody for having allowed the realization of this Colloquium. Editorial The second issue of Cirpit Review is dedicated to the Proceedings of the 1st Colloquium of Naples and is accompanied by a Supplement with some contributions following up the Conference, together with some book reviews. The questions addressed to the speakers by the public and friends have been added, together with the speeches and reflections spontaneously arisen during the debate. The meeting has represented not only an academic occasion but also a moment of conviviality, in that spirit of "Philìa " which Panikkar always invited to. He used to underline the importance of the spoken language, the vitality and strength of the oral word compared to the written one, its holiness and uniqueness, as bearer of the holistic dimension of the person. A word so "integral " in its full meaning and its symbolic value, to represent the embodiment of “life experience and thought, the authenticity of the human being here and now. " A word of life, emerging and returning to the depths of silence, to its origin. 7 Editorial "In a sense, the spoken language is a liturgy and each liturgy is unique and an end in itself. ... In a symposium words are eaten and drunk , sentences are read. Since the value and merits of a symposium lies in its con-celebration." Despite the awareness of this uniqueness and of the limitations of every type of recording, a few minutes of video-taping of the speakers’ "live words" have been added to the pages dedicated to their papers, for the pleasure of the public. The same has been done as regards the guests of the Colloquium, where the written texts were not available.(see links here below) Links: V. Scotti; G. Colzani; M. Emanuele; M. Cacciari We wish to emphasize that the intent of the Colloquium addresses to the horizon and limits of its particular context, referring to the author’s publications for further understanding of the issues here proposed We also hope the discussions and topics raised by these papers will continue to be debated on our Forum web pages, following the Colloquium, inviting scholars, readers and friends to join in a "dialogic dialogue" and in the debate started in Naples. Anna M. Natalini 8 M. Roberta Cappellini Maria Roberta Cappellini I°Colloquium Internazionale Cirpit, 2-3 Dicembre 2010 “LA DIMORA DELLA SAGGEZZA: L’ECOSOFIA TRA FILOSOFIA INTERCULTURALE E PENSIERO DELLA COMPLESSITÀ” Omaggio a Raimon Panikkar Presentazione di Maria Roberta Cappellini Penso sia difficile o forse inutile presentare la figura di Raimon Panikkar perché credo che tutti i presenti in qualche modo, o di persona o sui libri abbiano conosciuto l’uomo e il suo pensiero. Scomparso il 26 agosto scorso, Panikkar è stato filosofo, teologo, mistico, poeta, oppure più semplicemente uomo di confine tra i diversi mondi dell’oriente e dell’occidente, avendo vissuto contemporaneamente in vari continenti. Antesignano dell’intercultura e del dialogo interreligioso (riferito in particolare a Cristianesimo, Buddhismo, Induismo e Secolarità) Panikkar è stato un esempio di saggio contemporaneo che ha saputo combinare l’aspetto intellettuale e contemplativo ad un profondo sentimento umanitario, ad “una compassione globale”(Prabhu). In questo senso e soprattutto per chi ha avuto il privilegio di conoscerlo e frequentarlo Raimon Panikkar ha rappresentato indubbiamente la figura di un Maestro. “Una delle più grandi sintesi del ‘900” : così Edgar Morin lo definiva nel volume del Metodo dedicato all’Etica, nominandolo insieme ad altre personalità ed autorità intellettuali non occidentali (Gandhi, Mandela, il Dalai Lama ecc) le quali hanno aperto la contemporaneità alla coscienza del problema planetario e umanitario. Con eguale ammirazione Panikkar si esprimeva nei riguardi di Edgar Morin stimando profondamente il suo illuminato Pensiero della Complessità. Questo rappresenta uno dei motivi del titolo del nostro Colloquium, pensato in senso interculturale e transdisciplinare, sulla scia del dialogo contemporaneo tra scienza e tradizione, tra Filosofia della Scienza, in particolare la complessità della scuola di Edgar Morin e Filosofia della Tradizione, nello specifico l’Interculturalità di R. Panikkar. Il soggetto dell’Ecosofia scelto come tema del Colloquium è stato un argomento particolarmente caro ai due filosofi, entrambi sostenitori della necessità di una profonda trasformazione nella nostra epoca, al fine della stessa sopravvivenza planetaria. A tal riguardo Panikkar parlava di “metamorfosi” nell’accezione etimologica di mutazione radicale, utilizzando la metafora della crisalide che abbandona il bozzolo per una nuova forma di vita. Una trasformazione in profondità, che né gli orienti né gli occidenti individualmente riuscirebbero a realizzare, se non entrando in relazione di reciprocità e mutua fecondazione, attraverso il dialogo e la critica della modernità. 9 Maria Roberta Cappellini In particolare davanti alla nostra contemporaneità Panikkar parlava di tre catastrofi: quella ecologica incombente, quella psicologica visibile e quella economica reale, comprendendole in un unico fenomeno: “la sindrome del villaggio globale” (comprensiva del mercato globale, del governo mondiale, della democrazia planetaria, della scienza universale, monocultura, monoteismo ecc)1 . E ponendosi in senso critico davanti a tale panorama, osservava che se il fenomeno da un lato rivela un allargamento della conoscenza dei popoli e degli orizzonti fisici e psicologici ed una diffusa tendenza generale verso l’unità, dall’altro evidenzia un mito distruttivo totalitario e colonialistico. Panikkar ne ritrae il quadro: olocausti, guerre, impoverimento diffuso, una crescita senza omeostasi, in cui ha predominato l’accelerazione, alla quale ogni individuo sottomette la vita e la natura, ma soprattutto la separazione, la frammentazione della dimensione umana e del sapere che è diventato esclusivamente specialistico, per contro alienando l’uomo dalla vita. Ancor più l’esperimento di divisione della realtà si è spinto fino al frazionamento dell’atomo e come inevitabile conseguenza, di noi stessi. Il risultato è che non si riesce più a ricomporre tutto quello che si è scoperto e nello stesso tempo l’obiettivo di tale ricerca non ha prodotto alcuna pietra filosofale. L’ecologia ha costituito forse il risveglio di una certa consapevolezza, ma ha continuato a proporre soluzioni tecnologiche proseguendo quindi secondo l’atteggiamento strumentale nei confronti della Natura. Su questo punto è necessario pertanto interrogarsi poiché per quanto 1 Raimon Panikkar, Ecosofia: la nuova saggezza. Per una spiritualità della terra, Cittadella Editrice, Assisi, 1993, p.39 10 concerne l’epoca“civilizzata”, secondo Panikkar, non è cambiata la mentalità, che continua ad essere separativa, dualistica, alienando progressivamente l’uomo dalla natura, dal cosmo e dal divino, dimenticando che il corpo umano è analogo alla terra: di entrambi infatti si sono perse la coscienza, la sacralità e i ritmi naturali. Ma la terra non è solamente luogo, pianeta, in quanto essa è fondamentalmente simbolo della realtà intera. Pertanto recuperare l’ordine naturale dell’universo nella sua interezza, non solo attraverso una coscienza dei diritti degli uomini e degli animali ma anche attraverso una diversa coscienza della terra, da considerare non come corpo inerte, ma come organismo vivente, come soggetto, è quanto invita a fare il messaggio ecosofico di Panikkar (collegandosi a chi coniò per primo il termine: Arne Naess). E’ necessario pertanto recuperarne le radici, quell’”humus” proprio dello stato di contingenza, che avvicina paradossalmente l’uomo al punto di tangenza con il divino. Per giungere ad un cambiamento di mentalità. Un cambiamento radicale che sappia far tesoro del logos senza assolutizzarlo, recuperando il mythos. Panikkar propone “una dimensione cosmoteandrica”, olistica, che riapra l’uomo contemporaneamente alle tre forme di conoscenza: quella empirica, quella intellettuale e quella olistico-mistica, tre forme che costitutivamente si co-appartengono essendo in reciprocità di relazione, affinchè possa riemergere nella sua struttura fondamentale di “polis”, ossia di tribù, di comunità. Comunità radicata, carnale, politica (non partitica), comprensiva cioè di tutte le forme viventi (cose, animali, uomini e dèi), in cui tutto Maria Roberta Cappellini è in relazione con tutto.2 L’approccio (non sistema) olistico (non globale) non deve essere confuso con l’ideale universalistico di assolutizzazione dei valori umani. Né l’Intero con il Tutto, in quanto il pensiero fa parte dell’Intero/Realtà, la modifica, ma non l’esaurisce. Panikkar suggerisce un ordine adualistico di intelligibilità, diverso dall’evidenza razionale, assumendolo come intrinsecamente pluralistico. L’Intero non ha né nome, né concetto, né cosa. Non si tratta della somma delle parti, ma di un orizzonte di intelligibilità. In tal senso esso dà luogo non ad un sistema, ma ad un’attitudine. Ne segue che non si tratta di applicare riforme, distribuire ricchezze o di mettere a punto una tecnologia se prima non si effettua un profondo cambiamento a monte: ciò che deve cambiare profondamente, radicalmente è in primo luogo l’atteggiamento dell’uomo sulla terra. La situazione di emergenza lo richiede. E’ necessario pertanto porci secondo una diversa visuale, più complessa e transdisciplinare come afferma Morin seppur da un fronte diverso, ma in modo analogo a Panikkar. Come dichiarato nel Manifesto della Transdisciplinarietà, sottoscritto da Nicolescu, da Morin e dai più grandi uomini di Scienza e di pensiero, davanti alla minaccia della tecnoscienza seguace della logica univoca di produzione, davanti alle ingiustizie e povertà che affliggono differentemente i paesi del mondo, è necessario accogliere la consapevolezza del rischio dell’auto-distruzione delle specie umane e riacquisire la conoscenza dei molteplici livelli 2 Raimon Panikkar, Ecosofìa. Para una espiritualidad de la tierra, Madrid, 1994, p.32, “La dimora della saggezza”, Mondadori, Milano, 1991, p.73 di realtà dipendenti da differenti logiche, al fine di sviluppare una più umana coscienza planetaria e cosmica aperta alle diverse discipline ed alla mutua interazione di ciò che possono condividere nell’interesse comune.3 E’ infatti impossibile investigare una parte della realtà senza essere coinvolti con il tutto: siamo tenuti pertanto ad uscire dai recinti specialistici e a ricomporre l’infranto attraverso una visione d’insieme, con apertura ai miti ed alle tradizioni, con rigore del pensiero e senso tollerante verso le diversità, non dimenticando che l’approccio olistico è di tipo diretto e richiede una rivalutazione della sensibilità, dell’intuizione e dell’immaginazione: del cuore oltre che della mente. I due si danno inseparabilmente poiché appartenenti alla medesima sorgente. Panikkar parla di un approccio di conoscenza/amore, privo di sintesi dialettiche, quanto piuttosto aperto al dialogo che potrà forse sollecitare l’auspicata trasformazione. È la storia del volo di Icaro e della sua caduta, nel quadro di Bruegel, come ricorda Morin metafora dell’intuizione audace che diviene realtà, poiché a ben vedere è dopo un gran numero di Icari sempre più evoluti che l’uomo è giunto al primo aereo.4 Sarebbe pertanto l’azzardo utopico di Icaro a farci uscire dalla preistoria della mente umana, ad indicare un pensiero più aperto ed una logica paradossale (o a-dualistica in termini panikkariani), al fine di coniugare la visione delle parti (analitica, razionale, propria della scienza ) con la 3 Basarab Nicolescu, “Manifesto of Transdisciplinaity”, State University of New York Press, 2002 4 Edgar Morin, Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano 1990, p.32, “L’identità umana”, Il Metodo, 5, RaffaelloCortinaEditore, Milano, 2002, pp. 109-112 11 Maria Roberta Cappellini visione dell’intero (intuitiva, propria della Philosophia Tradizionale). E’ quanto auspica il dialogo interculturale e transdisciplinare che, senza nulla togliere alle rispettive diversità, intende collegarle in modo fecondo ed in senso uni-pluriversale, a salvaguardia della conoscenza , dell’ambiente e delle relazioni etniche e culturali, per un futuro sostenibile. Su tutto questo si propone di riflettere il Colloquium , proponendo di aprire un dialogo intra- inter e trans-disciplinare tra scienza e filosofia, confrontandosi autocriticamente con altre diverse visioni della realtà, su un tema comune, partendo dal famoso distinguo panikkariano : “La scienza sull’infinito non è la conoscenza dell’Infinito”. BETWEEN INTERCULTURAL PHILOSOPHY AND COMPLEXITY: ECOSOPHY, THE WISDOM OF DWELLING. Dedicated to Raimon Panikkar I think it is difficult or perhaps unnecessary to introduce Raimon Panikkar because I believe that everyone here in some way, either in person or on books, have met the man and his thinking. Disappeared on August 26, Panikkar was philosopher, theologian, mystic, poet, or simply a “border man” between East and West, having lived on several continents simultaneously. Forerunner of the intercultural and interreligious dialogue (with particular reference to Christianity, Buddhism, Hinduism and secularism) Panikkar was an example of contemporary sage, able to combine the intellectual and contemplative aspects with a deep humanitarian feeling, with "a global compassion "(Prabhu). In this sense, especially for 12 those who have had the privilege to know and meet him personally Raimon Panikkar has undoubtedly represented the figure of a Master. “One of the greatest synthesis of the twentieth century”: this is how Edgar Morin depicts Raimon Panikkar, in the volume Ethics, in his Method, naming him along with other non-western intellectual authorities (such as Gandhi, Mandela, the Dalai Lama, etc.) who opened the contemporary consciousness to the Earth concern and to a lively interest in humanity. With equal admiration Panikkar referred to Edgar Morin, estimating his enlightened thinking of Complexity. To the philosopher who recently died, is dedicated the 1st International Colloquium CIRPIT (Intercultural Center Dedicated to Raimon Panikkar). A meeting about Ecosophy between Intercultural Philosophy and Thought of Complexity, between science and tradition. A subject particularly dear to Panikkar and Morin, both supporters, even if from different sides, of the need for a profound transformation in our times, aiming to the very survival of man and planet. In that regard Panikkar spoke of "metamorphosis" in the etymological meaning, using the metaphor of the chrysalis, which leaves the cocoon to a new form of life. A transformation in depth, that neither the Easts nor the Wests would be able to achieve individually, without dialogue, mutual relationship, and critique of modernity. The man of "civilized" times has progressively alienated himself from nature, from cosmos and from divine, forgetting that his body is similar to the earth and losing consciousness of nature rhythms and sacredness. As a matter of fact the earth is not only a place, a pla- Maria Roberta Cappellini net, but chiefly a symbol of the whole reality as well. Man must therefore recover his roots, that' humus' characterizing his state of contingency, which, paradoxically constitutes the point of tangency with the divine. In order to achieve a change of mentality. Radical. In particular it’s now necessary for him to go beyond logos regaining mythos, as thought cannot get over itself. Panikkar proposes "a cosmotheandric cosmology " that can re-open man to the three forms of knowledge: empirical, intellectual and mystic-holistic, three forms that are constitutively in mutual terms of relationship. What emerges from this vision is a man who is essentially "polis," tribe, community. A deeprooted, carnal, political (not party politics) community, including all living forms (things, animals, human beings and gods), where everything is related to everything. The approach (not system) proposed here is not global but holistic and cannot be confused with the abstract absolute ideal of universal human values, but rather be applied to the different concrete human experiences. and calculating use of rationality, as: "Science about Infinity is not knowledge of the Infinite." (Panikkar) Briefly, today we should try to gain a more complex and trans-disciplinary view (Morin). It’s the old story of Icarus’s flight and his fall, as depicted in Bruegel famous picture, a metaphor of human daring intuition. In this sense, as Edgar Morin asserts, it’s up to Icarus to free ourselves from the prehistory of the human mind. Both Morin and Panikkar in a very similar way, even if through different approaches, invite contemporary man to open his mind, according to a paradoxical logic (or “a-dualistic”, as in Panikkar’s terms ) in order to combine the analytical vision ( rational, according to science) with the vision of the whole (intuitive, according to Traditional Philosophia). This is what the transdisciplinary and intercultural dialogue suggests, in full compliance of their diversities, trying to connect them in a fruitful, uni-pluriversal way, to protect knowledge, environment and cultural and ethnic relations, for a sustainable future. Panikkar’s ecosophic message calls for the reclamation of the natural order of the universe as a whole, not only through an awareness of the rights of men and animals but also through a different consciousness of the earth, to be considered not as a dead body, but as a living organism, as a subject. We’re invited to keep open an inter-transdisciplinary dialogue between science, philosophy and theology, as disciplines belonging to the same cosmological context, comparing ourselves self-critically with other different views of reality, trying to emancipate ourselves from our exclusive conceptual thought 13 Maria Roberta Cappellini net, but chiefly a symbol of the whole reality as well. Man must therefore recover his roots, that' humus' characterizing his state of contingency, which, paradoxically constitutes the point of tangency with the divine. In order to achieve a change of mentality. Radical. In particular it’s now necessary for him to go beyond logos regaining mythos, as thought cannot get over itself. Panikkar proposes "a cosmotheandric cosmology " that can re-open man to the three forms of knowledge: empirical, intellectual and mystic-holistic, three forms that are constitutively in mutual terms of relationship. What emerges from this vision is a man who is essentially "polis," tribe, community. A deeprooted, carnal, political (not party politics) community, including all living forms (things, animals, human beings and gods), where everything is related to everything. The approach (not system) proposed here is not global but holistic and cannot be confused with the abstract absolute ideal of universal human values, but rather be applied to the different concrete human experiences. and calculating use of rationality, as: "Science about Infinity is not knowledge of the Infinite." (Panikkar) Briefly, today we should try to gain a more complex and trans-disciplinary view (Morin). It’s the old story of Icarus’s flight and his fall, as depicted in Bruegel famous picture, a metaphor of human daring intuition. In this sense, as Edgar Morin asserts, it’s up to Icarus to free ourselves from the prehistory of the human mind. Both Morin and Panikkar in a very similar way, even if through different approaches, invite contemporary man to open his mind, according to a paradoxical logic (or “a-dualistic”, as in Panikkar’s terms ) in order to combine the analytical vision ( rational, according to science) with the vision of the whole (intuitive, according to Traditional Philosophia). This is what the transdisciplinary and intercultural dialogue suggests, in full compliance of their diversities, trying to connect them in a fruitful, uni-pluriversal way, to protect knowledge, environment and cultural and ethnic relations, for a sustainable future. Panikkar’s ecosophic message calls for the reclamation of the natural order of the universe as a whole, not only through an awareness of the rights of men and animals but also through a different consciousness of the earth, to be considered not as a dead body, but as a living organism, as a subject. We’re invited to keep open an inter-transdisciplinary dialogue between science, philosophy and theology, as disciplines belonging to the same cosmological context, comparing ourselves self-critically with other different views of reality, trying to emancipate ourselves from our exclusive conceptual thought 13 Maria Roberta Cappellini I°Colloquium Internazionale Cirpit, 2-3 Dicembre 2010 “LA DIMORA DELLA SAGGEZZA: L’ECOSOFIA TRA FILOSOFIA INTERCULTURALE E PENSIERO DELLA COMPLESSITÀ” Omaggio a Raimon Panikkar Presentazione di Maria Roberta Cappellini Penso sia difficile o forse inutile presentare la figura di Raimon Panikkar perché credo che tutti i presenti in qualche modo, o di persona o sui libri abbiano conosciuto l’uomo e il suo pensiero. Scomparso il 26 agosto scorso, Panikkar è stato filosofo, teologo, mistico, poeta, oppure più semplicemente uomo di confine tra i diversi mondi dell’oriente e dell’occidente, avendo vissuto contemporaneamente in vari continenti. Antesignano dell’intercultura e del dialogo interreligioso (riferito in particolare a Cristianesimo, Buddhismo, Induismo e Secolarità) Panikkar è stato un esempio di saggio contemporaneo che ha saputo combinare l’aspetto intellettuale e contemplativo ad un profondo sentimento umanitario, ad “una compassione globale”(Prabhu). In questo senso e soprattutto per chi ha avuto il privilegio di conoscerlo e frequentarlo Raimon Panikkar ha rappresentato indubbiamente la figura di un Maestro. “Una delle più grandi sintesi del ‘900” : così Edgar Morin lo definiva nel volume del Metodo dedicato all’Etica, nominandolo insieme ad altre personalità ed autorità intellettuali non occidentali (Gandhi, Mandela, il Dalai Lama ecc) le quali hanno aperto la contemporaneità alla coscienza del problema planetario e umanitario. Con eguale ammirazione Panikkar si esprimeva nei riguardi di Edgar Morin stimando profondamente il suo illuminato Pensiero della Complessità. Questo rappresenta uno dei motivi del titolo del nostro Colloquium, pensato in senso interculturale e transdisciplinare, sulla scia del dialogo contemporaneo tra scienza e tradizione, tra Filosofia della Scienza, in particolare la complessità della scuola di Edgar Morin e Filosofia della Tradizione, nello specifico l’Interculturalità di R. Panikkar. Il soggetto dell’Ecosofia scelto come tema del Colloquium è stato un argomento particolarmente caro ai due filosofi, entrambi sostenitori della necessità di una profonda trasformazione nella nostra epoca, al fine della stessa sopravvivenza planetaria. A tal riguardo Panikkar parlava di “metamorfosi” nell’accezione etimologica di mutazione radicale, utilizzando la metafora della crisalide che abbandona il bozzolo per una nuova forma di vita. Una trasformazione in profondità, che né gli orienti né gli occidenti individualmente riuscirebbero a realizzare, se non entrando in relazione di reciprocità e mutua fecondazione, attraverso il dialogo e la critica della modernità. 9 Maria Roberta Cappellini In particolare davanti alla nostra contemporaneità Panikkar parlava di tre catastrofi: quella ecologica incombente, quella psicologica visibile e quella economica reale, comprendendole in un unico fenomeno: “la sindrome del villaggio globale” (comprensiva del mercato globale, del governo mondiale, della democrazia planetaria, della scienza universale, monocultura, monoteismo ecc)1 . E ponendosi in senso critico davanti a tale panorama, osservava che se il fenomeno da un lato rivela un allargamento della conoscenza dei popoli e degli orizzonti fisici e psicologici ed una diffusa tendenza generale verso l’unità, dall’altro evidenzia un mito distruttivo totalitario e colonialistico. Panikkar ne ritrae il quadro: olocausti, guerre, impoverimento diffuso, una crescita senza omeostasi, in cui ha predominato l’accelerazione, alla quale ogni individuo sottomette la vita e la natura, ma soprattutto la separazione, la frammentazione della dimensione umana e del sapere che è diventato esclusivamente specialistico, per contro alienando l’uomo dalla vita. Ancor più l’esperimento di divisione della realtà si è spinto fino al frazionamento dell’atomo e come inevitabile conseguenza, di noi stessi. Il risultato è che non si riesce più a ricomporre tutto quello che si è scoperto e nello stesso tempo l’obiettivo di tale ricerca non ha prodotto alcuna pietra filosofale. L’ecologia ha costituito forse il risveglio di una certa consapevolezza, ma ha continuato a proporre soluzioni tecnologiche proseguendo quindi secondo l’atteggiamento strumentale nei confronti della Natura. Su questo punto è necessario pertanto interrogarsi poiché per quanto 1 Raimon Panikkar, Ecosofia: la nuova saggezza. Per una spiritualità della terra, Cittadella Editrice, Assisi, 1993, p.39 10 concerne l’epoca“civilizzata”, secondo Panikkar, non è cambiata la mentalità, che continua ad essere separativa, dualistica, alienando progressivamente l’uomo dalla natura, dal cosmo e dal divino, dimenticando che il corpo umano è analogo alla terra: di entrambi infatti si sono perse la coscienza, la sacralità e i ritmi naturali. Ma la terra non è solamente luogo, pianeta, in quanto essa è fondamentalmente simbolo della realtà intera. Pertanto recuperare l’ordine naturale dell’universo nella sua interezza, non solo attraverso una coscienza dei diritti degli uomini e degli animali ma anche attraverso una diversa coscienza della terra, da considerare non come corpo inerte, ma come organismo vivente, come soggetto, è quanto invita a fare il messaggio ecosofico di Panikkar (collegandosi a chi coniò per primo il termine: Arne Naess). E’ necessario pertanto recuperarne le radici, quell’”humus” proprio dello stato di contingenza, che avvicina paradossalmente l’uomo al punto di tangenza con il divino. Per giungere ad un cambiamento di mentalità. Un cambiamento radicale che sappia far tesoro del logos senza assolutizzarlo, recuperando il mythos. Panikkar propone “una dimensione cosmoteandrica”, olistica, che riapra l’uomo contemporaneamente alle tre forme di conoscenza: quella empirica, quella intellettuale e quella olistico-mistica, tre forme che costitutivamente si co-appartengono essendo in reciprocità di relazione, affinchè possa riemergere nella sua struttura fondamentale di “polis”, ossia di tribù, di comunità. Comunità radicata, carnale, politica (non partitica), comprensiva cioè di tutte le forme viventi (cose, animali, uomini e dèi), in cui tutto Maria Roberta Cappellini è in relazione con tutto.2 L’approccio (non sistema) olistico (non globale) non deve essere confuso con l’ideale universalistico di assolutizzazione dei valori umani. Né l’Intero con il Tutto, in quanto il pensiero fa parte dell’Intero/Realtà, la modifica, ma non l’esaurisce. Panikkar suggerisce un ordine adualistico di intelligibilità, diverso dall’evidenza razionale, assumendolo come intrinsecamente pluralistico. L’Intero non ha né nome, né concetto, né cosa. Non si tratta della somma delle parti, ma di un orizzonte di intelligibilità. In tal senso esso dà luogo non ad un sistema, ma ad un’attitudine. Ne segue che non si tratta di applicare riforme, distribuire ricchezze o di mettere a punto una tecnologia se prima non si effettua un profondo cambiamento a monte: ciò che deve cambiare profondamente, radicalmente è in primo luogo l’atteggiamento dell’uomo sulla terra. La situazione di emergenza lo richiede. E’ necessario pertanto porci secondo una diversa visuale, più complessa e transdisciplinare come afferma Morin seppur da un fronte diverso, ma in modo analogo a Panikkar. Come dichiarato nel Manifesto della Transdisciplinarietà, sottoscritto da Nicolescu, da Morin e dai più grandi uomini di Scienza e di pensiero, davanti alla minaccia della tecnoscienza seguace della logica univoca di produzione, davanti alle ingiustizie e povertà che affliggono differentemente i paesi del mondo, è necessario accogliere la consapevolezza del rischio dell’auto-distruzione delle specie umane e riacquisire la conoscenza dei molteplici livelli 2 Raimon Panikkar, Ecosofìa. Para una espiritualidad de la tierra, Madrid, 1994, p.32, “La dimora della saggezza”, Mondadori, Milano, 1991, p.73 di realtà dipendenti da differenti logiche, al fine di sviluppare una più umana coscienza planetaria e cosmica aperta alle diverse discipline ed alla mutua interazione di ciò che possono condividere nell’interesse comune.3 E’ infatti impossibile investigare una parte della realtà senza essere coinvolti con il tutto: siamo tenuti pertanto ad uscire dai recinti specialistici e a ricomporre l’infranto attraverso una visione d’insieme, con apertura ai miti ed alle tradizioni, con rigore del pensiero e senso tollerante verso le diversità, non dimenticando che l’approccio olistico è di tipo diretto e richiede una rivalutazione della sensibilità, dell’intuizione e dell’immaginazione: del cuore oltre che della mente. I due si danno inseparabilmente poiché appartenenti alla medesima sorgente. Panikkar parla di un approccio di conoscenza/amore, privo di sintesi dialettiche, quanto piuttosto aperto al dialogo che potrà forse sollecitare l’auspicata trasformazione. È la storia del volo di Icaro e della sua caduta, nel quadro di Bruegel, come ricorda Morin metafora dell’intuizione audace che diviene realtà, poiché a ben vedere è dopo un gran numero di Icari sempre più evoluti che l’uomo è giunto al primo aereo.4 Sarebbe pertanto l’azzardo utopico di Icaro a farci uscire dalla preistoria della mente umana, ad indicare un pensiero più aperto ed una logica paradossale (o a-dualistica in termini panikkariani), al fine di coniugare la visione delle parti (analitica, razionale, propria della scienza ) con la 3 Basarab Nicolescu, “Manifesto of Transdisciplinaity”, State University of New York Press, 2002 4 Edgar Morin, Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano 1990, p.32, “L’identità umana”, Il Metodo, 5, RaffaelloCortinaEditore, Milano, 2002, pp. 109-112 11 Maria Roberta Cappellini visione dell’intero (intuitiva, propria della Philosophia Tradizionale). E’ quanto auspica il dialogo interculturale e transdisciplinare che, senza nulla togliere alle rispettive diversità, intende collegarle in modo fecondo ed in senso uni-pluriversale, a salvaguardia della conoscenza , dell’ambiente e delle relazioni etniche e culturali, per un futuro sostenibile. Su tutto questo si propone di riflettere il Colloquium , proponendo di aprire un dialogo intra- inter e trans-disciplinare tra scienza e filosofia, confrontandosi autocriticamente con altre diverse visioni della realtà, su un tema comune, partendo dal famoso distinguo panikkariano : “La scienza sull’infinito non è la conoscenza dell’Infinito”. BETWEEN INTERCULTURAL PHILOSOPHY AND COMPLEXITY: ECOSOPHY, THE WISDOM OF DWELLING. Dedicated to Raimon Panikkar I think it is difficult or perhaps unnecessary to introduce Raimon Panikkar because I believe that everyone here in some way, either in person or on books, have met the man and his thinking. Disappeared on August 26, Panikkar was philosopher, theologian, mystic, poet, or simply a “border man” between East and West, having lived on several continents simultaneously. Forerunner of the intercultural and interreligious dialogue (with particular reference to Christianity, Buddhism, Hinduism and secularism) Panikkar was an example of contemporary sage, able to combine the intellectual and contemplative aspects with a deep humanitarian feeling, with "a global compassion "(Prabhu). In this sense, especially for 12 those who have had the privilege to know and meet him personally Raimon Panikkar has undoubtedly represented the figure of a Master. “One of the greatest synthesis of the twentieth century”: this is how Edgar Morin depicts Raimon Panikkar, in the volume Ethics, in his Method, naming him along with other non-western intellectual authorities (such as Gandhi, Mandela, the Dalai Lama, etc.) who opened the contemporary consciousness to the Earth concern and to a lively interest in humanity. With equal admiration Panikkar referred to Edgar Morin, estimating his enlightened thinking of Complexity. To the philosopher who recently died, is dedicated the 1st International Colloquium CIRPIT (Intercultural Center Dedicated to Raimon Panikkar). A meeting about Ecosophy between Intercultural Philosophy and Thought of Complexity, between science and tradition. A subject particularly dear to Panikkar and Morin, both supporters, even if from different sides, of the need for a profound transformation in our times, aiming to the very survival of man and planet. In that regard Panikkar spoke of "metamorphosis" in the etymological meaning, using the metaphor of the chrysalis, which leaves the cocoon to a new form of life. A transformation in depth, that neither the Easts nor the Wests would be able to achieve individually, without dialogue, mutual relationship, and critique of modernity. The man of "civilized" times has progressively alienated himself from nature, from cosmos and from divine, forgetting that his body is similar to the earth and losing consciousness of nature rhythms and sacredness. As a matter of fact the earth is not only a place, a pla- Maria Roberta Cappellini net, but chiefly a symbol of the whole reality as well. Man must therefore recover his roots, that' humus' characterizing his state of contingency, which, paradoxically constitutes the point of tangency with the divine. In order to achieve a change of mentality. Radical. In particular it’s now necessary for him to go beyond logos regaining mythos, as thought cannot get over itself. Panikkar proposes "a cosmotheandric cosmology " that can re-open man to the three forms of knowledge: empirical, intellectual and mystic-holistic, three forms that are constitutively in mutual terms of relationship. What emerges from this vision is a man who is essentially "polis," tribe, community. A deeprooted, carnal, political (not party politics) community, including all living forms (things, animals, human beings and gods), where everything is related to everything. The approach (not system) proposed here is not global but holistic and cannot be confused with the abstract absolute ideal of universal human values, but rather be applied to the different concrete human experiences. and calculating use of rationality, as: "Science about Infinity is not knowledge of the Infinite." (Panikkar) Briefly, today we should try to gain a more complex and trans-disciplinary view (Morin). It’s the old story of Icarus’s flight and his fall, as depicted in Bruegel famous picture, a metaphor of human daring intuition. In this sense, as Edgar Morin asserts, it’s up to Icarus to free ourselves from the prehistory of the human mind. Both Morin and Panikkar in a very similar way, even if through different approaches, invite contemporary man to open his mind, according to a paradoxical logic (or “a-dualistic”, as in Panikkar’s terms ) in order to combine the analytical vision ( rational, according to science) with the vision of the whole (intuitive, according to Traditional Philosophia). This is what the transdisciplinary and intercultural dialogue suggests, in full compliance of their diversities, trying to connect them in a fruitful, uni-pluriversal way, to protect knowledge, environment and cultural and ethnic relations, for a sustainable future. Panikkar’s ecosophic message calls for the reclamation of the natural order of the universe as a whole, not only through an awareness of the rights of men and animals but also through a different consciousness of the earth, to be considered not as a dead body, but as a living organism, as a subject. We’re invited to keep open an inter-transdisciplinary dialogue between science, philosophy and theology, as disciplines belonging to the same cosmological context, comparing ourselves self-critically with other different views of reality, trying to emancipate ourselves from our exclusive conceptual thought 13 Giuseppe Cognetti I°Colloquium Internazionale Cirpit, 2-3 Dicembre 2010 “LA DIMORA DELLA SAGGEZZA: L’ECOSOFIA TRA FILOSOFIA INTERCULTURALE E PENSIERO DELLA COMPLESSITÀ” Omaggio a Raimon Panikkar Introduzione ai Lavori di Giuseppe Cognetti Desidero avviare i lavori del Colloquium leggendo un testo, tratto da Colligite Fragmenta, che potrebbe valere come “manifesto” della prospettiva di R.Panikkar: “È giunto il momento di iniziare a raccogliere i frammenti sia della cultura moderna, che eccelle nell’analisi e nella specializzazione, che delle diverse civiltà del mondo. Non possiamo consentire ad alcuna religione, cultura o frammento di realtà – anche se etichettato come “rimasuglio” di una civiltà posteriore o un pezzo rotto da un più alto grado di coscienza – di essere dimenticato, negletto o tralasciato, se dobbiamo conquistare quella totale ricostruzione della realtà che diventa imperativa oggi”. Queste parole, che,come gli aforismi di Nietzsche, andrebbero “ruminate” a lungo, hanno vaste e profonde implicazioni alle quali qui non possiamo neanche accennare. Vale però forse la pena di sottolineare, riprendendo alcune lucide riflessioni di G. Pasqualotto, che il problema dell’intercultura, posto con vigore dal testo panikkariano succitato, oggi non può che essere pensato in un contesto dominato dal processo,ormai irreversibile,della globalizzazione, che sembra andare proprio nella direzione opposta all’auspicio di Panikkar. Il dato più evidente che questo processo 14 mette in luce, e che sarebbe bene accettassero fino in fondo soprattutto coloro che utilizzano strumenti di analisi della realtà di provenienza marxiana, spesso invece ancora irretiti in un astratto utopismo, è che negli ultimi due secoli della storia dell’Occidente si è venuta imponendo una colossale inversione di tendenza per la quale la prevalenza del potere politico su quello economico ha progressivamente ceduto ad una netta prevalenza del potere economico (e tecnologico) su quello politico. Non sembrano esserci più ostacoli strutturali all’avanzata della globalizzazione, che quindi procede sempre più velocemente sia in profondità (uniformità crescente di pensiero e comportamento,che neutralizza qualsiasi residua fiducia nell’antagonismo delle “moltitudini”) che in estensione (si pensi alla Cina e all’India). Pasqualotto osserva giustamente che alla domanda posta alcuni anni fa da Cacciari – “È concepibile che il mondo venga ‘conquistato’ da un sistema di poteri assolutamente deterritorializzato, da una ‘super-società’ dominante le risorse finanziarie ed i mezzi di informazione, e di cui le leadership politiche nazionali siano sempre più o diretta espressione o variabile dipendente?”, si è oggi costretti a rispondere affermativamente. Richiamandoci al grande Schopenhauer, si potrebbe dire che il mondo Giuseppe Cognetti attuale è la piena oggettivazione di quella cieca, irrazionale (perché non c’è nulla di razionale nei miti sottesi ai processi di globalizzazione) e insensata Volontà ch’egli poneva a fondamento della realtà. Mi piace dire che la morte della Politica è una sorta di seconda “morte di Dio”, che Nietszche faceva annunciare all’”uomo folle” nell’af.125 della Gaia Scienza.Per molti, che hanno creduto e ancora credono nella Politica, valgono le parole con cui Nietzsche nel medesimo aforisma descriveva gli effetti devastanti dell’evento: “In che direzione ci muoviamo? Lontano da ogni sole? Non precipitiamo sempre più?…Non scende sempre più notte?”.Però sempre Nietzsche, nell’af.343, sottraendosi al rischio incombente del pessimismo di debolezza, o nichilismo decadente, scriveva, versus un pessimismo di forza o nichilismo dionisiaco: “In effetti noi filosofi e ‘spiriti liberi’ ci sentiamo, alla notizia che il ‘vecchioDio è morto’, come sfiorati da una nuova aurora…l’orizzonte ci sembra di nuovo libero…il mare aperto è di nuovo là, e forse non c’è mai stato un mare così ‘aperto’”. È possibile rispondere con “più vita” , con una nuova progettualità, ma consapevole dei suoi limiti, alle conseguenze spesso mortifere della globalizzazione economica, e, per riprendere ancora Pasqualotto, declinarla in termini terapeutici, di ritrovamento sul piano esistenziale di un senso, indirizzata soprattutto alle vittime potenziali e attuali dei processi irreversibili, propriamente ‘satanici’, (Satana è l’”Avversario” per antonomasia), che stanno distruggendo ogni relazione umana (comprese le relazioni fra culture) significativa? Se siamo onestamente coscienti del carattere marginale e testimoniale di qualsiasi progetto interculturale, e non ci facciamo illusioni, per es., sullo stato di salute delle culture “orientali” (le gandi case editrici indiane oggi stampano i testi tradizionali della cultura e spiritualità hindu quasi esclusivamente per gli occidentali), possiamo sforzarci di rimemorizzare in Occidente, e farli dialogare “dialogicamente” con le nostre tradizioni religiose, di pensiero etc., aspetti di orizzonti di senso, di kosmologie e “miti”, direbbe Panikkar, che rischiano di inabissarsi e i cui valori sono oggettivamente sovversivi rispetto ai modelli di vita veicolati dalla globalizzazione, e sono molto in sintonia ,per tacer d’altro, con i momenti alti, per es., del pensiero femminile del Novecento (si pensi a Maria Zambrano e Simone Weil) e con il pensiero della “complessità”. La globalizzazione è molto potente, ma non è onnipotente, e il divenire storico mostra il fallimento disastroso dei sogni generati dall’inflazione psichica di collettività o individui. Non dovremmo dimenticare che i grandi processi di trasformazione ed evoluzione e ampliamento della coscienza (e oggi è fondamentale il dispiegarsi di un’accelerazione evolutiva per uscire dalle secche in cui siamo impantanati) hanno lunghissimi periodi di gestazione nell’inconscio (dimensione con la quale occorrerebbe cominciare seriamente a familiarizzarci), e oggi si moltiplicano i segni di un insieme di “stati emergenti”, di sensibilità e consapevolezze (si pensi all’ampiezza e diffusione dei movimenti per la salvaguardia dell’ambiente, da una prospettiva puramente “ecologica” all’orizzonte “ecosofico”, il tema di questo primo Colloquium del Centro Panikkar) che possono essere segni precursori (se la struttura psicologica degli esseri umani sarà all’altezza, come osserva C.G.Jung nell’interessantissimo saggio del 1957 Presente e Futuro) di un grande cambiamento. 15 Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore CITTADINANZA INTERCULTURALE Giuseppe Cacciatore Giuseppe Cacciatore (Video) 1. Il concetto di cittadinanza e la pratica interculturale «Voler instaurare un “modo di pensare unico” o una civiltà unica è un peccato di lesa umanità che deriva dal fatto di avere confuso il pensiero con l’astrazione. Il concetto “uomo” non esaurisce ciò che è l’uomo. L’interculturalità è indispensabile per non cadere in una visione monolitica delle cose che può sfociare nel fanatismo»1. Inizio con questa citazione di Panikkar, non solo per rendere omaggio al filosofo, al teologo, al grande intellettuale al quale è dedicato questo convegno, ma per sottolineare ciò che egli da tempo aveva ben capito e su cui aveva fecondamente riflettuto: la centralità che sempre più ha assunto e assumerà il tema dell’interculturalità. Tema che io, in questo mio intervento, analizzerò nella sua relazione col concetto e la prassi della cittadinanza. 1 Cfr. R. Panikkar, Pace e interculturalità. Una riflessione filosofica, a cura di M. Carrara Pavan, Jaca Book, Milano 2002, p. 12. 16 Credo che sia oggi necessario acquisire una consapevolezza critica – che è anche informazione, conoscenza, capacità di giudizio storico ed etico – del concetto di cittadinanza, il quale non deve diventare un magico passepartout buono per ogni situazione e per ogni latitudine storico-culturale o uno slogan da sbandierare con innocente retorica o, peggio ancora, con colpevole intenzione propagandistica. L’idea di cittadinanza deve passare dal pur importante livello del dibattito concettuale e della chiarificazione teorica, ad una pratica di vita quotidiana, di educazione permanente ai valori civili riconosciuti e condivisi nel continuo intercambio tra il patto costituzionale fondativo e l’insieme delle tradizioni e delle specificità umane e culturali della comunità di appartenenza. Essa deve trasformarsi da passiva attribuzione di qualificazioni giuridiche in attiva costruzione di momenti partecipativi al governo del territorio. Così come non basta aver letto e assimilato Montesquieu e Toqueville per agire democraGiuseppe Cacciatore, Università degli Studi di Napoli “Federico II” Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore ticamente e per testimoniare una pratica democratica, allo stesso modo non basta aver letto le analisi contemporanee di Marshall o di Dahrendorf2 per ritenersi automaticamente capaci di esprimere livelli di pratica della cittadinanza attiva. Per essere più concreti, con l’idea di cittadinanza attiva, si tratta – sia pur senza cadere in astratti schematismi – di costruire nella determinatezza di situazioni storico-sociali e culturali di ogni città e di ogni dimensione urbana le occasioni di una pratica effettività dell’insieme dei diritti dei quali è titolare ogni appartenente alla comunità. tate delle discariche per i problemi causati dalla globalizzazione» (forse Baumann non immagina quanto corposa possa essere per gli abitanti di molte città italiane la sua metafora). E, tuttavia, il riferimento a Bauman consente di individuare un ragionevole e plausibile modello, al tempo stesso teorico e pratico, di politica e di nuovo diritto della cittadinanza . La sua applicabilità non è certo facile (come non è facile ogni passaggio possibile dalla paura alla fiducia), giacché si tratta dell’arduo compito di «trovare soluzioni locali alle contraddizioni globali». Che la città di oggi, la «città globale», come l’ha definita Zygmunt Bauman, stia attraversando una inedita fase storica che fa di essa l’asse focale delle trasformazioni culturali, psicologiche, sociali ed economiche del XXI secolo, è ormai dato incontrovertibile. La città postmoderna rappresenta il luogo di una contraddizione strategica di fondo: quella della concentrazione in essa delle funzioni più avanzate del capitalismo finanziario e telematico e della contemporanea presenza di una spaccatura sempre più radicale tra la città della sicurezza3 e della ricchezza (dominata anche visivamente dai simboli della difesa dalla paura: guardie private, ronde di quartiere, sistemi elettronici, esercito nelle strade, recinzioni e inferriate) e la città invivibile dell’insicurezza economica, del disagio, della violenza, delle nuove e vecchie povertà. Non solo, ma, come osserva ancora Bauman4 «le città sono diven- Eppure, anche se ormai la politica locale appare “sovraccarica” di quei problemi che su essa riversa l’inadeguata politica di fronteggiamento degli effetti della globalizzazione, non si può non ripartire dai “luoghi” della cittadinanza, dai luoghi in cui si può sperimentare la pratica interculturale, in cui si forma e si consolida l’esperienza del vivere condiviso, in cui questa esperienza viene elaborata e trasformata in norme comuni e sempre negoziabili nell’interesse generale della collettività, dai luoghi infine dell’incontro con gli altri, con i diversi, con lo straniero immigrato, dai luoghi dove finalmente prevalga la mixofilia sulla mixofobia. 2 Mi riferisco all’ormai classico libro di T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale (1950), Utet, Torino 1976. Si veda anche R. Dahrendorf, Al di là della crisi, Laterza, Roma-Bari 1984. 3 Bauman parla dell’insicurezza come una delle più «infauste e dolorose tra le angustie contemporanee» (cfr. Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 13 e ss.). 4 Z. Bauman, Fiducia e paura nella città, Bruno Mondadori, Milano 2005, pp. 19 e ss. 2. La funzione di giuntura della terza generazione di diritti Qui occorre un chiarimento. Spesso i diritti di cittadinanza sono stati individuati e definiti in una sorta di terza generazione dei diritti, che verrebbe dopo i diritti politici e quelli sociali. Si fa cioè riferimento ai diritti all’informazione, alla comunicazione, al tempo libero, all’ambiente, alla gestione del proprio corpo, del proprio patrimonio genetico e di quello di chi verrà dopo di noi. È indubbio che si tratta di ambiti spesso inediti della vita e dei 17 Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore bisogni delle donne e degli uomini contemporanei. Ma guai a considerare, antistoricamente, la sequenza tra le tre generazioni di diritti in una prospettiva evolutiva, dando cioè per scontata l’acquisizione erga omnes dei diritti politici e sociali. Basterebbe gettare uno sguardo sul mondo, tanto globale quanto locale, per rendersi conto di come possa sembrare drammaticamente sarcastico invocare diritti di cittadinanza là dove si soffre la mancanza degli altri elementari diritti alla dignità e alla sopravvivenza. Si potrebbe tuttavia individuare nella cittadinanza attiva e interculturale l’elemento chiave di giuntura tra le varie articolazioni dei diritti, una volta però che la si intenda – come io la intendo e più avanti cercherò di argomentare – come reale riconquista della partecipazione politica nel suo senso, però, più ampio e comprensivo, nel significato, cioè, originariamente aristotelico del governo della polis e non, dunque, come mero esercizio del diritto al voto. In tal senso si può parlare di una trasfigurazione della nozione classica di cittadinanza, di un suo ampliamento, un ampliamento preparato dall’affermarsi di una teoria e di una pratica dell’interculturalità. L’interculturalità non è soltanto la registrazione di livelli, più o meno garantiti dalla legge, di coesistenza di plurali culture in un determinato territorio nazionale, ma è la ricerca di strategie che mettano in moto processi dinamici tra identità complesse che si relazionano nel confronto tra stili e condotte di vita diversi e sul terreno della partecipazione a istituzioni e a servizi degli Stati investiti dai fenomeni immigratori. Come ha spiegato con esemplare chiarezza Raimon Panikkar un discorso filosoficamente ed eticamente convincente sull’inter18 culturalità deve evitare al massimo paradigmi olistici e parametri di uniformità astratta. L’interculturalità è innanzitutto riconoscimento e valorizzazione delle differenze, senza che questo dia adito all’esaltazione dei conflitti e delle separatezze etnico-culturali. «Le differenze tra culture – scrive il filosofo catalano – […] sono anche differenze antropologiche», ma è proprio il rispetto per l’uomo che esige il rispetto di ogni cultura umana5. Se questo è vero, anche la cittadinanza e i diritti che ad essa fanno riferimento (o i doveri che la sua giuridicità prescrive) non possono non misurarsi con il compito di una vera e propria educazione e consapevolezza interculturali6. Questo significa che la trasformazione dell’idea di cittadinanza non dev’essere valutata e compresa soltanto a partire dal problema della sua applicabilità a un contesto che non è più quello del suo tradizionale luogo di radicamento (lo Stato Nazione7), quanto, piuttosto, dalla presa d’atto della sua ritrascrizione in termini, non solo politici ed economici – segnati dalla globalizzazione –, ma anche interculturali, giacchè, grazie all’impatto stra5 Cfr. R. Panikkar, op.cit., pp. 12 e ss. 6 Sul rapporto tra cittadinanza e interculturalità come processo educativo cfr. M. Santerini, Educare alla cittadinanza. La pedagogia e le sfide della globalizzazione, Carocci, Roma 2001. 7 Si parla, nei dibattiti attuali sui diritti di cittadinanza, della prevalenza di un modello “postwestfaliano” (in riferimento alla pace di Westfalia, 1648, che ridisegnò e sanzionò i confini delle maggiori nazioni europee e costituì per così dire l’atto di nascita delle moderne sovranità statali). Su questo punto e sulla relativa bibliografia cfr. S. Benhabib, I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini, Cortina, Milano 2006, pp. 2 e ss. Il problema delle migrazioni impone che si ripensi radicalmente l’idea di sovranità statale. «Da un punto di vista filosofico – osserva la filosofa della Yale – le migrazioni transnazionali portano alla ribalta il dilemma costitutivo che sta al cuore delle democrazie liberali: quello tra le rivendicazioni del diritto sovrano all’autodeterminazione, da una parte, e l’adesione ai principi universali dei diritti umani, dall’altra». Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore ordinario dei nuovi mezzi di comunicazione e della produzione e riproduzione delle immagini, si sono enormemente dilatate e moltiplicate le occasioni di scambio di modelli antropologici, di esperienze artistico-letterarie e religiose, di vere e proprie ibridazioni culturali, fino a determinare tensioni, ora positive e feconde, ora negative e nocive, tre vecchie e nuove appartenenze. L’idea stessa e il complesso di norme e di ordinamenti che sono a fondamento della territorialità sono sempre più diventati anacronistici e, tuttavia, le politiche migratorie e i diritti di cittadinanza restano vincolati alla tradizionale titolarità statale della sovranità. Si capisce, allora, come la definizione e la realizzazione di un «regime internazionale dei diritti umani»8 non sia da considerare come un mero capitolo di filosofia politica o un aspetto di un generoso programma cosmopolitico, ma come il vero punto cruciale dell’agenda politica dei prossimi anni. Si tratta, in sostanza, per usare una indicazione di Benhabib, di rivendicare e attuare un universale «diritto umano all’appartenenza»9 che non metta però in discussione l’altro fondamentale diritto all’emigrazione. Cosicché, l’accesso ai diritti di cittadinanza, nel modo in cui esso viene configurandosi nell’era della comunicazione e della trasmigrazione globale, si presenta come una modalità del diritto umano all’appartenenza, di un «aspetto del principio universale del diritto, cioè del riconoscimento dell’individuo quale titolare di un diritto al rispetto morale e al riconoscimento della propria libertà comunicativa»10. Si profila, così, una chiara distinzione tra i diritti derivanti da norme di giustizia internazionale e le norme di giustizia cosmopo8 Ivi, pp. 6 e ss. 9 Ivi, pp. 107 e ss. 10 Ivi, p. 113. litica. Questi ultimi – come sostiene ancora Benhabib, sviluppando alcune idee di Hannah Arendt – appaiono vincolanti non soltanto per gli Stati che sottoscrivono trattati e accordi, ma anche e soprattutto per gli «individui in quanto persone morali e giuridiche di una società civile globale»11. 3. Le ambivalenze della cittadinanza La tematica dei diritti di cittadinanza, di una cittadinanza che assume sempre più i contorni di una esperienza, al tempo stesso, globale e frammentata, tendenzialmente universalistica e al contempo plurale e relativa nell’articolarsi e nello stratificarsi delle appartenenze che si incrociano in una medesima persona (all’appartenenza di base, etnica e familiare, si aggiungono quelle, per così dire, culturali e sociali), diventa uno dei passaggi cruciali della riflessione interculturale. Benhabib suggerisce alcune sensate analisi delle “ambivalenze” che presenta oggi la frammentazione della cittadinanza12. Si tratta di un pro11 Cfr. S. Benhabib, Cittadini globali, il Mulino, Bologna 2008. Il titolare dei diritti cosmopolitici non è più solo lo Stato e i suoi rappresentanti, ma i singoli individui, come mostra, osserva Benhabib, lo sviluppo e il consolidarsi di un diritto penale internazionale. Viene in tal modo attuandosi un «passaggio definitivo da un modello di diritto internazionale basato sui trattati tra Stati a un diritto cosmopolitico inteso come diritto pubblico internazionale che vincola e sottomette il volere degli Stati sovrani» (ivi, p. 15). Il presupposto filosofico di tale impostazione è l’adesione esplicita di Benhabib ad una teoria critica del cosmopolitismo come variante dell’etica universalistica del discorso di origine habermasiana. 12 Anche e forse soprattutto i giuristi individuano nella cittadinanza una delle fondamentali fenomenologie della democrazia contemporanea. Stefano Rodotà, ad esempio, analizza le decisive trasformazioni della nozione di cittadinanza e parla di un ormai avvenuto attestarsi di una «cittadinanza a geometria variabile». S. Rodotà, Repertorio di fine secolo, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 45 e ss. Uno studioso di teoria generale del diritto, Giuseppe Zaccaria, ha osservato come «il processo di allargamento della cittadinanza ha contribuito al riconoscimento delle differenze individuali e delle in- 19 Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore blema che non solo tocca le forme possibili del dialogo interculturale e dell’espansione planetaria dei diritti umani13, ma investe i modi in cui può essere ripensato l’insieme delle regole democratiche che non riguardano più terdipendenze che strutturano l’individualità stessa, frantumando l’immagine di un individuo universale ed astratto». G. Zaccaria, Questioni di interpretazione, Cedam, Padova 1996, pp. 36 e ss. Un recente contributo alla chiarificazione storico-concettuale della cittadinanza e alla critica di alcuni suoi paradigmi è quello di R. Ciccarelli, La cittadinanza. Una prospettiva critica, Aracne, Roma 2005. Per la storia del concetto di cittadinanza cfr. P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, voll. I-IV, Laterza, Roma-Bari 1999 e cfr. infine S. Mezzadra, Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Ombre Corte, Verona 2006. 13 La bibliografia sui diritti umani è ovviamente sterminata. Mi limito qui a richiamare alcuni studi recenti e, in modo particolare, quelli più attinenti alle problematiche teorico-filosofiche qui affrontate. Cfr. H. Bielefeldt, Philosophie der Menschenrechte. Grundlagen eines weltweiten Freiheitsethos, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1998; Cfr. P. Barcellona. A. Carrino (a cura di), I diritti umani tra politica filosofia e storia, Guida. Napoli 2003; F. Ciaramelli, I diritti umani e il problema della cittadinanza, ivi, vol. II, pp. 29-51; A. De Benoist, Universalité et non-universalité des droits de l’homme, ivi, pp. 53-66; M. Kaufmann, Menschenrechte und internationale Gerechtigkeit, ivi, pp.143-164; Id., Diritti Umani, Guida, Napoli 2009; B. Finelli, F. Fistetti, F.R. Recchia Luciani, P. Di Vittorio (a cura di), Globalizzazione e diritti futuri, Manifestolibri, Roma 2004; F.S. Trincia, Diritti umani, coscienza, esistenza, ivi, pp.191-212; M. Chemillier-Gendreau, A quali condizioni garantire i diritti umani nella globalizzazione?, ivi, pp. 215-227; Y.M. Boutang, Diritti dell’uomo, globalizzaiione e diritti umani futuri, ivi, pp. 241-269; I. Strazzeri, Riconoscimento e diritti umani. Grammatica del conflitto nel processo di integrazione europea, Morlacchi, Perugia 2007; J. Gardner, “Semplicemente in quanto esseri umani”: titolari e giustificazioni dei diritti umani, in «Ragion Pratica», 29, 2007, pp. 413-431; D. Miller, Diritti umani, bisogni fondamentali e scarsità, ivi, pp. 433-447; J. Raz, Diritti umani senza fondamenti, ivi, pp. 449-468; R. Dworkin, Cosa sono i diritti umani? (2003), ivi, pp. 469-480. È ora disponibile una raccolta antologica di interventi sui diritti umani (datati tra il 1973 e il 1995) della filosofa svizzera J. Hersch, I diritti umani da un punto di vista filosofico, a cura di F. De Vecchi e con una prefazione di R. De Monticelli, Bruno Mondadori, Milano 2008. Si veda inoltre: V. Gessa Kurotschka, Diritti umani e vita, in F. Brezzi (a cura di), Pari opportunità e diritti umani, Equal Opportunities and Human Rights, Tor Vergata University Press on-line, www.uptotorvergata-laterza.it, 2009. 20 esclusivamente il governo del locale e del territoriale. «Lo stato-nazione – così Benhabib – si sta sgretolando, e il confine tra diritti umani e diritti di cittadinanza tende a scomparire: emergono così nuove forme di cittadinanza deterritorializzata […]. Le enclave multiculturali di tutte le grandi città del mondo esibiscono i volti nuovi di una cittadinanza non più fondata sull’adesione esclusiva a un territorio e a una tradizione»14. La cittadinanza frammentata15 e democraticamente regolata diventa, se così si può dire, la “condizione di possibilità” nella individuazione e creazione di relazioni tra multiple e diverse articolazioni culturali, religiose, linguistiche, ma diventa anche l’auspicabile ponte di passaggio dalla teoria alla pratica dell’interculturalità, giacché soltanto partecipazioni attive e costruzioni di vere e proprie istituzioni interculturali (nella scuola, nella società, nel governo dei territori locali) possono dar vita ai nuovi diritti di una cittadinanza cosmopolitica16. Bisogna perciò uscire 14 S. Benhabib, Cittadini globali, cit., p. 139. Sul tema della necessaria relazione tra interculturalità, diritti umani e cittadinanza come pratica democratica cfr A. Papisca, Cittadinanza e cittadinanze, ad omnes includendos: la via dei diritti umani, in M. Mascia (a cura di), Dialogo interculturale, diritti umani e cittadinanza plurale, Marsilio, Venezia 2007. 15 «Siamo giunti – scrive Benhabib – ad una fase dell’evoluzione politica che segna la fine del modello unitario di cittadinanza, che intrecciava la residenza in un territorio delimitato con l’amministrazione di un popolo percepito quale entità più o meno coesa. L’esaurimento di quel modello non implica l’obsolescenza della sua presa sulla nostra immaginazione politica o della sua forza normativa nel guidare le istituzioni vigenti. Significa piuttosto che dobbiamo essere pronti a immaginare forme di agency e soggettività politica capaci di anticipare nuove forme della cittadinanza politica» (ivi, p. 143). 16 Sulla necessità, per le società e le nazioni occidentali di tradizione liberale e democratica, di passare dal mito di un astratto universalismo democratico esportabile con ogni mezzo (anche la guerra, purtroppo), ad una concreta ipotesi di “democrazia cosmopolitica”, cf. D. Archibugi, Cittadini del mondo: verso una democrazia Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore dall’ambivalenza di una situazione in cui i diritti di emigrazione e di ospitalità vengano deliberati escludendo dalla decisione coloro che di quei diritti potrebbero divenire titolari. La soluzione che al dilemma dà Benhabib è convincente, anche perché essa non fa che elaborare una teoria che è già dentro la pratica delle norme e delle procedure di riforma e di emendamento delle principali costituzioni democratiche contemporanee. Si tratta di un «processo continuo di autocreazione costituzionale», basato innanzitutto sulla capacità autocorrettiva delle regole democratiche, su ciò che Benhabib definisce iterazioni democratiche, cioè sull’insieme dei momenti di pubblica discussione e di deliberazione da parte delle istituzioni giuridiche e politiche, ma anche da parte delle associazioni della società civile, «attraverso i quali le rivendicazioni e i principi universalistici dei diritti vengono contestati e contestualizzati, invocati e revocati, proposti e situati»17. Da questo plesso di problemi non si può prescindere. Quale che sia la soluzione, non si può non ricollocare al cosmopolitica, Il Saggiatore, Milano 2009. Il filo conduttore della proposta di Archibugi è individuabile nella percorribilità di un itinerario di ampliamento delle regole democratiche dalla territorialità nazionale al governo delle questioni globali. Tale proposta poggia sul convincimento che sia non più differibile il compito di «dare ai cittadini del mondo la possibilità di partecipare direttamente alle scelte globali tramite nuove istituzioni, parallele ed autonome rispetto a quelle già esistenti all’interno degli stati». In questo senso, la democrazia cosmopolitica non si riduce a un pur generoso e velleitario neo-utopismo, ma esige la concreta formazione di «nuovi canali istituzionali che consentano di aumentare la partecipazione popolare e il controllo politico sulle scelte globali. Solamente rendendo effettiva la condizione di cittadini del mondo sarà finalmente possibile raccogliere i frutti promessi da una democrazia cosmopolitica» (ivi, pp. 11 e ss.). La questione del cosmopolitismo è diventata oggi uno dei punti principali del dibattito etico. Un punto significativo di riferimento, in questo dibattito, è costituito dalle riflessioni di K.A., Appiah, Cosmopolitismo. L’etica in un mondo di estranei, Laterza, Bari-Roma 2007. 17 S. Benhabib, Cittiadini globali, cit., p. 139 e s. primo posto nell’agenda politica (e prima ancora nella riflessione etica e filosofica) delle società contemporanee il problema della riformulazione dei diritti di cittadinanza, alla luce di una realtà sempre più multiculturale18 e della sua necessaria declinazione in chiave interculturale19. Non bisognerebbe mai dimenticare – come ammonisce ancora la Benhabib – che «il trattamento riservato agli stranieri e agli altri fra noi costituisce un formidabile terreno di verifica della coscienza morale e della riflessività politica delle democrazie liberali»20. La necessità di pensare oggi ad un saldo legame tra diritti di cittadinanza e interculturalità, è motivata dall’esigenza di non separare astrattamente la cittadinanza dall’appartenenza culturale, ma di trovare le modalità, anche giuridiche e normative, di un «vivere insieme nel mondo della differenza»21. Questo naturalmente non significa assimilare la pratica e la teoria dell’interculturalità a forme più o meno esplicite di relativismo culturale. È ancora una volta Panikkar che ci ammonisce a 18 All’idea e alla chiarificazione teorica della cittadinanza coniugata in senso multiculturale ha dato un fondamentale contributo W. Kymlika, La cittadinanza multiculturale (1995), Il Mulino, Bologna 1999. Lo studioso canadese collega significativamente il riconoscimento e la garanzia di diritti fondamentali per le minoranze etniche e culturali all’ampliamento della sfera dei diritti tradizionali individuali. La dimensione giuridica multiculturale non depotenzia, anzi ne fa una condizione di possibilità, il diritto universale all’appartenenza. Kymlika elabora una proposta in cui i «diritti polietnici» devono convivere con i diritti umani universali, imponendo anche per essi i vincoli democratici della libertà individuale e della giustizia sociale: dunque rispetto delle differenze e delle minoranze etniche e attuazione di principi e di scelte di uguaglianza. 19 Ho, a più riprese, tematizzato la necessità del passaggio dal multiculturalismo all’interculturalità in molti miei interventi. Per tutti rinvio a G. Cacciatore, Identità e filosofia dell’interculturalità, in «Iride», 45, 2005, pp. 235-244. A questo testo rinvio anche per le indicazioni bibliografiche di massima sull’interculturalità. 20 S. Benhabib, Cittadini globali, cit., p. 142. 21 Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, cit., p. 201. 21 Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore non pensare che una cultura vale un’altra, né che la natura umana possa essere artificiosamente frammentata. «Ogni cultura è cultura umana – anche se può degenerare. Detto più filosoficamente, ci sono invarianti umane, ma non ci sono universali culturali»22. Diventa così fondamentale la distinzione tra relativismo e relatività. Se è vero che possiamo analizzare e comparare un’altra cultura, tenendo presente quella a cui apparteniamo, è altresì vero che non possiamo considerare unici ed assoluti i nostri criteri di valutazione. «C’è una via media – scrive Panikkar – fra l’assolutismo e il relativismo culturale: la relatività culturale. La filosofia interculturale cerca di seguire questa via di mezzo. Il suo metodo è il dialogo come apertura all’altro»23. D’altro canto il diritto di cittadinanza reca con sé già nella sua stessa genesi terminologica il riferimento alla generale sfera dei diritti della relazionalità e della sociabilità. Per questo lo sforzo teorico e pratico di giuristi e filosofi, oggi, potrebbe essere indirizzato a riscrivere la tavola dei diritti di cittadinanza, dinanzi all’accelerato stato di trasformazione sociale e antropologica della contemporaneità. Si tratta di individuare i fondamenti di una cittadinanza interculturale24 che si muova lungo il crinale del non facile equilibrio tra cittadinanza come appartenenza ad una determinata comunità e cittadinanza come pieno e libero esercizio di un diritto acquisito di residenza (garantito da regole democratiche costituzionali) e, al contempo, di 22 Cfr. Panikkar, cit., p.13 23 Ivi, p. 37. 24 Utili informazioni sul tema (anche se non sempre inquadrate in un discorso coerentemente organico) si possono trovare in M. Simeoni, La cittadinanza interculturale. Consenso e confronto, Armando Editore, Roma 2005. Su un piano più specificamente pedagogico si muove M. Tarozzi, Cittadinanza interculturale. Esperienza educativa come agire politico, La Nuova Italia, Firenze 2005. 22 un diritto umano universale di circolazione degli individui, delle persone, prima che dei cittadini.25 4. La cittadinanza come spazio per la realizzazione di una alleanza umanistica In via di provvisoria conclusione, ritengo che l’uomo contemporaneo non possa più accontentarsi di quella plurisecolare forma di rassicurazione della dignità della vita affidata al convincimento aristotelico che la politicità appartiene solo all’essere umano. Né possono più offrire elementi di rassicurazione eticopolitica i modelli classici, liberali e democratici, di cittadinanza (e non solo quelli storicamente nati nel contesto dell’idea di Stato nazionale o quelli riformulati in chiave comunitaristica, ma persino quelli ispirati al cosmopolitismo e all’ideale repubblicano). Se le teorie contemporanee della cittadinanza continuano a fondarsi sulla esclusività di alcune appartenenze (a un territorio determinato e tendenzialmente chiuso alle migrazioni, a un sistema di diritti non sempre accessibili a tutti, a strutture produttive e mercantili che sono restate e resteranno fonte di disuguaglianze), allora diventerà ben difficile ipotizzare e realizzare un rapporto virtuoso e produttivo, sul piano della pratica, tra cittadinanza e interculturalità. L’etica, la filosofia e la politica che si confrontano con le questione interculturali rivoluzionano il senso e la finalità stessa del concetto di appartenenza, liberandolo dal sigillo della ricchezza economica e della produttività lavorativa (che continuerebbe ad 25 Su queste ultime considerazioni cfr. L. Ferrajoli, Cittadinanza e diritti fondamentali, in «Teoria politica», 3, 1995. Per una informazione critica sul complesso dei temi relativi al concetto di cittadinanza e alle sue trasformazioni in età contemporanea cfr. D. Zolo (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Bari-Roma 1994. Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore escludere dalla cittadinanza come diritto umano universale milioni di immigrati e di nuovi poveri delle nostre società in crisi economica sempre più profonda). Il modello di filosofia interculturale non è peraltro da intendere come miracoloso toccasana per guarire le contraddizioni ognora vistose tra il diritto universale umano alla cittadinanza e il diritto alla scelta delle nostre identità26, senza che ciò si traduca in una espulsione da essa per ragioni formalmente giuridiche e sostanzialmente economiche. Si tratterebbe, se così fosse inteso, di una ingannevole retorica che narra solo a se stessa dei suoi successi immaginari. Vi è bisogno invece di costruire una nuova alleanza umanistica che riconduca al massimo di unità operativa l’effettività delle norme di giustizia sociale (tentandone anche una coerente applicazione, a livello di obbligazione politica e giuridica da riconoscere per i diritti sociali universalizzabili nei trattati e nelle carte costituzionali sovranazionali) e la pratica quotidiana della relazione interculturale. Solo in questa relazione perdono astrattezza l’obbligazione politica e il bisogno di universalizzazione etica. Da un lato, la cittadinanza acquista nuovi contenuti giuridici e politici planetari27, dall’altro il 26 L’espressione è di A. Sen, Identità, povertà e diritti umani, in P. Fassino, S. Maffettone, A. Sen., Giustizia globale, Il Saggiatore, Milano 2006, p. 32. 27 «Ciò non significa – ha scritto Balibar – che esiste un'unica politica possibile, ma anzi che si impone una scelta tra politiche diverse, definite da diversi obiettivi, mezzi, condizioni, ostacoli, “soggetti” o “volontà”, rischi. L'alternativa è il campo della politica. Il problema diventa allora: quali sono le alternative alle forme dominanti? […] Parlare di una politica necessariamente mondiale non significa disinteressarsi alle condizioni e ai problemi delle persone, lì dove vivono o dove la storia le ha collocate. Significa anzi affermare che la cittadinanza locale ha per condizione una cittadinanza mondiale attiva. Ogni scelta che orienta una politica locale in materia economica, sociale, culturale, istituzionale implica una scelta “cosmopolitica” e viceversa» (E. dialogo interculturale perde in genericità e ambiguità. Non si tratta solo di narrare28 o di ottenere reciproche informazioni sui propri modelli di vita e le specifiche identità di ogni individuo e di ogni cultura, ma di trasferire il patrimonio comune di conoscenze ed immaginazioni in un progetto29 altrettanto comune (nella scuola, nella sanità, nei luoghi della produzione, nelle comunità locali) che abbia come guida e come finalità la realizzazione dei diritti umani universali, civili, politici e sociali. Bisogna, in tal modo, non solo teorizzare l’incontro e gli spazi sia territoriali che culturali entro i quali si può realizzare il reciproco riconoscimento e la sempre maggiore universalizzazione dei diritti umani, ma far diventare il dialogo una tecnica che dal livello della conversazione sappia passare a quello della stipulazione, della creazione di una citBalibar, È in Europa l’altro mondo possibile, in «Il Manifesto», 28 marzo 2007). Lo studioso francese esprime il convincimento – peraltro lineare in un quadro ideologico di radicale trasformazione sociale – che le ineguaglianze sociali «costituiscono il più potente fattore di esclusione dalla pratica politica, e dunque dal “diritto eguale” o dal pari diritto di accesso alla rappresentanza e alla decisione». Ma ciò è anche alla base delle motivazioni che caratterizzano «i movimenti di rivendicazione e le resistenze collettive che hanno per oggetto la difesa e la conquista dei diritti sociali». Sono proprio questi movimenti che costituiscono «una delle forme più efficaci di accesso dei cittadini all’espressione e alle responsabilità politiche. La questione è perciò più attuale che mai ed è, in concreto, quella di stabilire se e come i cittadini riusciranno ad adattarsi a condizioni storiche nuove e a uno spazio nuovo formulando rivendicazioni di nuovi diritti fondamentali inerenti alla cittadinanza, e caratteristici del “momento costituente” attuale» (E. Balibar, Le radici culturali della Costituzione europea, in «Lettera internazionale», n. 81, 2004). 28 Il che non significa che il racconto e le storie degli altri non possano costituire materiali di analisi critica delle politiche contemporanee nei confronti dell’immigrazione. In merito, cfr. F. Sossi, Migrare. Spazi di sconfinamento e strategie di esistenza, Il Saggiatore, Milano 2007. 29 Sull’interculturalismo come progetto cfr. P. Malizia, Interculturalismo. Studio sul vivere “individualmenteinsieme-con-gli-altri”, Franco Angeli, Milano 2005, pp. 40 e ss. 23 Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore tadinanza universale dei soggetti e delle culture30. Da questo punto di vista la filosofia dell’intercultura può presentarsi come la modalità critica e riflessiva all’altezza delle cosiddette sfide della globalizzazione e della trasformazione antropologico-culturale indotta dalle migrazioni31, giacché uno dei suoi compiti fondamentali appare quello della riformulazione di categorie chiave come incontro, dialogo, diritti umani, solidarietà. Si tratta di livelli, tanto teorici che pratici, che si richiamano l’un l’altro, giacché non è possibile 30 Utilizzo qui i convincenti parametri analitici elaborati da F. Cambi, Incontro e dialogo. Prospettive della pedagogia interculturale, Carocci Editore, Roma 2006, pp. 8 e ss. Più avanti si legge, a proposito del necessario processo di integrazione tra identità e differenza: «L’Europa soprattutto mediterranea […] sta faticosamente elaborando un altro modello: un modello squisitamente interculturale, fondato sulla costruzione di un reciproco riconoscimento e di una reciproca integrazione e, al limite, un reciproco innesto tra culture, rivolto a dar vita al métissage, a una “nuova cultura meticcia” che si guarda – sia pure nel futuro – come un’occasione, come una risorsa, come un evento non fatale, ma positivo, proprio in vista di quella Globalità del Mondo che nessuno potrà più arrestare» (ivi, p. 17). Sugli aspetti pedagogici e didattici connessi alle pratiche interculturali si veda F. Pinto Minerva, L’intercultura, Laterza, Roma-Bari 2002. 31 Per una analisi dell’esser migranti come forma preponderante dell’esser-uomo oggi, cfr. Cambi, op. cit., pp. 40 e ss. «Infatti, la condizione di emigrazione/migrazione è la condizione stessa attuale del soggetto. […] Essere migranti è stare in una esperienza (in un fare-esperienza) che si caratterizza come avventura, come sfida, come ricerca, come incontro. Pertanto è […] stare in una forma mentis plurale, dialettica, integrata e dismorfica ad un tempo, capace di leggere, insieme, e le identità e le differenze, ad ogni livello» (ivi, p. 41). Sulla soggettività nomade come passione politica per la trasformazione e come riflessione su una idea post-nazionale, multipla e flessibile di cittadinanza, cfr. R. Braidotti, Nuovi soggetti nomadi. Transizioni e identità postnazionaliste, Luca Sossella Editore, Roma 2002. Cfr. inoltre A. Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 2004; M. Traversi, M. Ognisanti (a cura di), Letterature migranti e identità urbane. I centri interculturali e la promozione di spazi pubblici di espressione, narrazione e ricomposizione identitaria, Franco Angeli, Milano 2008; A. Arru, D. Caglioti, F. Ramella, Donne e uomini migranti. Storie e geografie tra breve e lunga distanza, Donzelli, Roma 2008. 24 un dialogo che non sia favorito dall’incontro, né si può pensare di promuovere una solidarietà fattiva e concreta se non si amplia e si rende effettiva la sfera dei diritti umani32. Una sfera che certamente è fatta, dovrà esser sempre più fatta di dispositivi giuridici e di obbligazioni politico-istituzionali, ma che si configura anche e soprattutto come condizione di possibilità per il confronto e per la postulazione di una sempre più ampia e comune umanità. In tal senso il primo, inamovibile e necessario diritto per gli uomini e le donne della società migrante ed interculturale è quello alla solidarietà. Una solidarietà che non è solo generosa petizione di principi, ma costruzione reale, da rendere operativa «e nella società e nelle coscienze» e che costituisce una «risorsa cognitiva, etica e politica»33, giacché favorisce nuove esperienze di conoscenze e incontri fra culture, ha l’impegnativo obiettivo di realizzare un’etica discorsiva e comprensiva che trova poi il suo necessario pendant in una democrazia deliberativa. Ma il vero cemento che tiene insieme tutto ciò è il senso dell’appartenenza ad una comune umanità, la quale – come osserva giustamente Baumann – deve essere intimamente relazionata ad un legame, ad un vincolo, che vengono ancor prima e che sono quelli della solidarietà e dell’assistenza reciproca. Racconta Baumann di un suo vecchio professore di antropologia che spiegava l’origine della società umana partendo dal ritrovamento di uno scheletro di una creatura invalida con una gamba spezzata. Ma l’incidente come rivelarono le analisi era avvenuto in età infantile. Significa che qualcuno si era preso cura di lui e non era stato abbandonato alle fiere. «La pre32 Su questi nessi cfr ancora F. Cambi, op. cit., pp. 45 e ss. 33 Ivi, pp. 47 e ss. Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore Domande al Prof. Giuseppe Cacciatore Domanda 3): La prospettiva interculturale in filosofia, rivela un elemento di strutturale debolezza quando si traduce in una serie di auspici, per così dire, che spesso nel mondo conflittuale attuale non trovano una rispondenza o almeno non trovano le condizioni per potersi realizzare. Provo a tradurre in termini filosofici questi auspici: si tratta dell’eterno contrasto fra il dover essere e l’essere. Come noi dovremmo essere per impostare le condizioni della società interculturale e come invece siamo in realtà? Domanda 1): Come si concilia questo riconoscimento auspicabile dei diritti per un nuovo cosmopolitismo, che non sia solo astrattamente universalistico ma si concretizzi nell’identità dei popoli e delle persone, con la resistenza dei poteri? Il respingimento, il rifiuto dell’altro, (al di là di ogni considerazione di solidarietà, che è la condizione prospettica della relazione) pongono degli ostacoli oggettivi all’affermazione dei principi di libertà connessi proprio alla condizione di estremo bisogno che, ad esempio, è propria dei migranti. Questo problema dell’affermazione della libertà rispetto alla resistenza tenace dei poteri in quanto tali è un ostacolo oggettivo. Si tira in ballo il cosmopolitismo, ma gli scenari reali sono poi quelli della barbarie (Prof. Giuseppe D’alessandro). Abbiamo sentito citare Seyla Benhabib a proposito dei diritti universali della libertà di comunicazione e di espressione, e questo naturalmente ci piace. Però noi sappiamo, per fare solo un esempio, che nelle società islamiche più rigoriste prioritaria non è la libertà, ma il senso di appartenenza alla comunità e la sottomissione alla legge divina; sicché giustapporre l’aggettivo “universale” a diritti di libertà, di libertà d’espressione da parte della Benhabib può apparire una ingenuità pari a quella che spesso si è consumata nella tradizione filosofica occidentale ogni volta che pensatori di prima grandezza hanno affiancato ingenuamente quell’aggettivo a concetti e li hanno considerati applicabili a tutto l’universo mondo. Bisogna evidentemente trovare nuove modalità di pensiero Domanda 2): Come si può pensare ad una città cosmopolita in questa nostra società, dal momento che una tale città non potrà somigliare né alla polis greca di Aristotele né ad una città nel senso dello Stato liberale, dello Stato nazionale? (Prof. Fred Dallmayr). Una categoria lei l’ha proposta: quella di universalizzante o universalizzabile. Ora, quale potrebbe essere, per così dire, il volano di quel movimento di tendenziale universalizzazione che caratterizza l’universalizzabile? A me sembra che la categoria con cui possiamo pensare l’estensione di un concetto “universalizzabile”, la “costruzione” di uno spazio di più ampia condivisione, sia proprio quella del riconoscimento, che da categoria etica sembra occupazione odierna, per Bauman, è tutta qui: portare questa compassione e questa sollecitudine sul piano planetario. So che le generazioni precedenti hanno affrontato questo compito, ma voi dovrete proseguire su questa strada, vi piaccia o no, cominciando dalla vostra casa, dalla vostra città, adesso. Non riesco a pensare a niente che sia più importante di questo. È da qui che si deve cominciare»34. 34 Z. Bauman, Fiducia e paura nella città, cit., p.79. 25 Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore trasfigurarsi in categoria logica (penso naturalmente ad una logica non astratta ma dialogante: una dia-logica). Dunque creare “ponti” attraverso il dialogo interculturale e il riconoscimento reciproco, negoziale dei valori interni alle diverse culture: questa potrebbe forse essere una via per articolare il concetto di universalizzabile. Mi interessa la sua opinione su questo punto. (Prof. Rosario Diana). Risposta 1): Ho provocato io questa prosecuzione. Sarò brevissimo con Rosario Diana. Un tema sul quale discutiamo da anni e sul quale abbiamo – seppure con differenze di posizioni – un comune orientamento. Lui ha già dato una parziale risposta quando ha parlato del concetto di universale non nel senso dell’assolutezza delle posizioni ma di ciò che è universalizzabile e universalizzante: come dire, qualche cosa che si definisce, si autocostruisce con una possibilità di universalizzazione mai definitiva e che in un modo o nell’altro può incontrarsi con quella importante tematica, quella formulazione del riconoscimento non inteso in maniera astratta. E qui aggiungerei al concetto di universalizzabile e universalizzante il concetto di comune, nel modo in cui – come molti di voi sanno – è stato teriorizzato non da un filosofo, non da un teologo, ma da un sinologo, François Jullien. Questo concetto di comune diventa parzialmente analogo al concetto vichiano del senso comune. In un modo o nell’altro entrambi legano situazioni diverse, differenze di culture, di storie, di religioni. Risposta 2): Per quel che riguarda la domanda del collega, qui si tratta di una città che abbia le stigmate, se possiamo dire così, del postmoderno e della globalizzazione. Ritengo importanti posizioni come quelle e26 spresse in un libro importante, un libro di Daniele Archibugi: Cittadini del mondo. Verso la democrazia cosmopolitica, dove si teorizza la percorribilità di un ampliamento delle regole democratiche dei diritti di cittadinanza. È quello che sia gli storici che i teorici della politica chiamano: dimensione post-westfaliana, ovvero successiva all’età costruitasi a partire dal famosissimo trattato di Westfalia, che ha posto l’inizio delle grandi nazioni europee. Siamo in una situazione post-nazionale, dove i diritti dei cittadini, di umanità e umanizzazione, di tutti sono conquistabili e devono essere conquistabili nella realtà territoriale della città e non più nello Stato nazionale. Questo non vuol dire creare un’anarchia di piccole città stato come nell’antica Grecia; significa ricondurre una possibilità che va al di là della retorica dell’ingenuità, come sostiene la Benhabib, che parla di un passaggio ad un modello di diritto internazionale basato su trattati fra Stati di diritto cosmopolitico. Non è una situazione immaginaria e immaginata. Qui ha ragione Panikkar, che queste parole le diceva già dieci o quindici anni fa: “se non si riconoscono queste prospettive, se non si attuano o comunque si comincia a praticarle, il mondo è perduto, c’è poco da scherzare”. E questa secondo me è l’unica prospettiva, una prospettiva di scomparsa del mondo e di noi… e allora altro che una prospettiva cosmoteandrica… Intercultural Session - Francis X. D’Sa THE SIGNIFICANCE OF PANIKKAR’S COSMOTHEANDRIC VISION Francis X. D’Sa Francis X. D’Sa (video) 0. Introduction The Cosmotheandric Insight, I submit, is the core of Raimon Panikkar’s inspiration. Anyone interested in understanding Panikkar will first have to become familiar with this insight. This neologism is neither an-eye catching label nor just an attractive sounding name. It is in fact one more intimation of the dawn of a new axial age that some of today’s Seers perceive. This might sound a bit too presumptuous but bear with me as I clarify and elucidate in what follows. 1.The Cosmotheandric Intuition The Cosmotheandric Intuition is an insight into what Reality is in us, around us and above us. This also means that we who are speaking about Reality are really part of the Cosmotheandric Intuition. Though we are speaking “about” Reality this is only a heuristic way of going about, since our speaking too is an integral aspect of Reality. That is why language employed here is symbolic, not descriptive. The Cosmotheandric Intuition perceives Francis X. D’Sa, Pontificium Athenaeum, Pune, India three centres in Reality: World, Man and God; or the Cosmic, the Human and the Divine, or again material, mental, and spiritual are some of the ways of expressing it.1 Whatever expressions one chooses, it is important to keep in mind their threefold dynamics. Each of these centres is important and indispensable. Each is unique and cannot be reduced to the other two. None is superior to the others. But all of them are interdependent because none can exist without the other two. The three always and without exception go together; they constitute the threefold dynamics of Reality. The other way round, when we say Reality we are in fact meaning its threefold dynamics. Panikkar’s summing up is profound: "God, Man and World are three artificially substantivized forms of the three primordial adjectives which describe Reality."2 On this background it is important to Raimon Panikkar, The Rhythm of Being. The Gifford Lectures (Orbis, 2010), 183: "...the three human 'faculties' (sense, mind and consciousness) belong together; and the three referents of our awareness (World, Man, and God) are also inseparable. Reality is their relationship." 1 2 Raimon Panikkar, “Philosophy as Life-Style”, in: A. Mercier/M. Vilar (Eds.), Philosophers on Their Own Work IV (Bern/Frankfurt/Las Vegas,1978 [193-228]), 206. 27 Intercultural Session - Francis X. D’Sa note that our way of going about with Reality has not only to take account of the threefold dynamics but it has also to respond to it positively. Speaking hermeneutically we have to follow the threefold dynamics in both the senses of following: to understand and to go after! The cosmic dimension refers to the world of things, the human dimension refers to the world of persons and the divine dimension refers to the inexhaustibility of both these two worlds. Here inexhaustibility refers to the fact that the cosmic dimension can be objectified without end; and that the human dimension too can objectify without ever coming to an end. This endlessness, the infinity, so to say of these two dimensions constitutes the depth- or divine dimension. The depth-dimension, by whatever name it may be called, is constitutive of Reality. Our usual way of thinking and speaking enumerates the three worlds of God, World and Man separately. Though we do not intend to separate them, we do separate them as a matter of fact when we speak and perhaps when we think. The end-result is that our understanding takes them to be separate realms. It has been Panikkar’s merit to coin a neologism that mentions all three at once as it were so that attention is drawn to the three together. The neologism is cosmotheandric (or genderwise more appropriately, theanthropocosmic). Reality is cosmotheandric; each being is cosmotheandric, every human being is cosmotheandric. Everything that exists, God, World and Man, everything is cosmotheandric. God is cosmotheandric but when we speak of God we focus more on the depth-dimension 28 without omitting the cosmic and human dimensions; when we speak of the World we focus more on the cosmic dimension without omitting the human or the depth-dimensions; and when we speak of Man we focus on the human dimension without omitting the cosmic and the depth-dimensions. The expression “cosmotheandric” highlights not just the three dimensions of Reality but more especially its threefold dynamics or its trinitarian nature. 2. The Dynamics of the Cosmic Dimension The world, namely the world of perception, is our first centre, the basic access to Reality. It is the place of any and every encounter as well as the address of every being. The world of perception is the cosmic dimension of Reality. It locates Reality, the Reality of every being. Without the cosmic dimension there is neither contact nor relationship. We are not speaking of the pragmatic aspect of the cosmic dimension; we are referring to its constitutive dimension. The world of perception employs descriptive language which is informative. Information has to be univocal and precise. It is at home in the world of perception where efficiency is of the essence. The more precise the description the higher will be the degree of performance and success. We speak of success here because at this level (and only at this level) there is the possibility of verification and falsification respectively. Quantification and measurability, unique characteristics of the world of perception, are both essential and important factors in information and in the information world. Matter, the cosmic dimension, is rarely taken to have its own importance and tends to be un- Intercultural Session - Francis X. D’Sa derstood as an ancilla for the spirit. Panikkar says, “If in the past centuries there was a pathos to see everything sub specie aeternitatis, there is now a similar pathos to see everything sub specie quantitatis.”3 And again, „Here the contribution of modern science is paramount. Thanks to it we have come to know matter in its own right and not as a mere servant of the soul or the spirit.“4 (My emphasis) Hardly anyone speaks of „matter in its own right and not as a mere servant of the soul or the spirit“. This is uniquely significant. Panikkar’s ideas express and give rise to a new understanding of and a different approach to the world of matter. To yield to the temptation of punning on the word, matter in the cosmotheandric vision matters. But what is new about this? Why does matter matter? Let us begin by asking the other way round, why has matter not mattered all this time? Why has it been always instrumentalized? Early in life Panikkar realized how our age has concentrated on the objectification of Reality and begun building a civilization on that faulty premise. Science has had an important role to play in this process. Science, Panikkar says accusingly, has changed the meaning of words. For instance, the world means for science the scientific cosmos. But in Reality "The kosmos is not only the scientific cosmos; the mathematical method is not the Raimon Panikkar, The Rhythm of Being. The Gifford Lectures (Orbis, 2010), 389. 4 Raimon Panikkar, The Rhythm of Being. The Gifford Lectures (Orbis, 2010), 403. 3 only way to approach reality."5 The world so to say has become a collection of objects for modern Man. All our crises today have their roots here. Our relationship to the world, to the animals, to human beings and not least, to the Divine, has changed dramatically. If matter were only matter, then, of course it would not matter. Panikkar has been one of the first persons to view the secular perspective, the process of secularization positively. The process of secularization cannot but be positive for Panikkar and though he does not approve of secularism as such he is convinced that secularization has introduced a positive view of the saeculum, that is, of time and the world. For him matter is never matter alone. It is a dimension of Reality along with the human and the divine dimensions. The cosmic dimension far from being static has its own unique dynamics which make the world what it is, namely, an interrelated, interdependent and organic body. Our main response has to be to this interrelated, interdependent and organic body. Because of his possessiveness Man has reduced the world to a source of resources. The asian religions have all focused on Man’s possessiveness as the cause of his blindness to the divine dimension. This is also the source of his inability to experience the world as interrelated, interdependent and organic. It is time that our civilizations which also share in this blindness discover that they too have to be a part of a positive response to the dynamics of the cosmic dimension. Sadly our Raimon Panikkar, The Rhythm of Being. The Gifford Lectures (Orbis, 2010), 388. 5 29 Intercultural Session - Francis X. D’Sa present civilizations are anything but a positive response to the cosmic dimension and we are surprised that we have an ecological crisis of such unprecedented dimensions. Admittedly then, the historical response to this interrelated, interdependent and organic body has been diametrically opposed to the dynamics of the cosmic dimension. Possessiveness has deepened our blindness to the real world and have constructed a world where the only thing that matters is the world of matter. We have to change gears and take the dynamics of the cosmic dimension seriously. Just planting trees is not the real solution. Our thinking has to be so transformed that we realize that we are really part and parcel of the world body, the world process, and not a Subject that treats it as a collection of objects. Only a transformation of our thinking will transform our being and our beingin-the-world. Our attitude to the world has to change and become a be-attitude, not a haveattitude. 3. The Dynamics of the Human Dimension The Human Dimension does not mean Man but refers to that dimension in Reality which focuses on Man without neglecting the other two dimensions. This dimension lights up our being-in-the-world. Like the other two it cannot be objectified though it also has an objectifying aspect. It points to and locates the objective aspect of Reality. Like the cosmic dimension the human dimension too does not have a limit. It can go on objectifying endlessly. The uniqueness of the human dimension consists in the fact that it does not permit Man to get lost in the „objective“ 30 world and become one among many other things. Because of this he stands out (=exists) in the world of things without getting lost in them. Not surprisingly the dynamics of the human dimension are different from the dynamics of the cosmic dimension. Things are located in and by the cosmic dimension. It sees to it that every being has a place as it were in the cosmos. But it is different with the human dimension. It ensures that Man finds his place in the world. The human dimension aims at personhood and does this best through the discovery of the world of symbol and by expressing it in metaphor. Symbols are not produced by Man; they are discovered by Man in so far as he is open to the depthdimension. Whereas a distorted consciousness promotes individualism and reduces the world to mere objects, fidelity to the dynamics of the human dimension helps retrieve symbols if and when Man takes to the path of personhood. These dynamics also collaborate in expressing the experience of symbols in metaphors. In the realm of symbols and metaphors Man discovers his real vocation as person to be a poet, a prophet and a pontifex. This is one of the most fitting ways in which Man can respond to the dynamics of the human dimension. Man discovers his poetic vocation when he does not get lost in the world of objects and things which he himself creates. Instead, if he lets himself be driven by hope (which is of the invisible) he goes beyond the perceptible/object dimension of Reality to the depth-dimension. It is this kind of hope that drives the poet to experience the world of Intercultural Session - Francis X. D’Sa symbols and express this in metaphor. However Man’s vocation is not limited to the poetic alone. He is also called to be a prophet. He is not just a neutral observer but a critical observer of whether Man in the world has fallen a prey to his likes and dislikes or whether he is open to and capable of responding to the dynamics of the human dimension. A prophet does not jump on the band-wagon of popularity nor does he play to the gallery. Listening to and guided by the Spirit he engages in the discernment of spirits. This he does not out of private devotion as it were to enhance his spiritual life but as a member of the human family. He is fully committed to the welfare of all beings. For the prophet justice is an important priority. Finally the dynamics of the human dimension goad Man on to play his role as the pontifex, the bridge-builder between the Divine Mystery or the depth-dimension and Man-in-the-World, on the one hand and between Man and World, on the other. The human dimension expresses itself in the interconnectedness of all things. But modern Man does not take this fact into consideration when building his world. Never before has Man been fragmented on so many levels as he is today. This fragmentation can be repaired by responding to the dynamics of the human dimension. The response consists in building bridges at all the various levels where fragmentation has taken place and is still taking place. The human dimension counteracts the human tendency towards individualism by strenthening the path towards personhood. Personhood, the cornerstone of a genuine community, flourishes in a world of symbol and metaphor. Briefly, the dynamics of the human dimension focus on Man so that he does not get lost among beings but stands out (exists) as poet, prophet and pontifex. The danger for Man on the one extreme is individualism and on the other is neglect of his calling by letting himself be transported on the conveyor-belt of routine and pragmatism. 4. The Dynamics of the Depth-Dimension Unlike the human and the cosmic dimensions the depth-dimension is of an altogether different kind. It acts through both these dimensions lending them a sort of endlessness. The cosmic dimension can be objectified endlessly (without any limit) and the human dimension can objectify endlessly (without any limit). This is a dimension that Man can in no way master or manipulate. His life in the world of the senses, the mind and the spirit is totally and inexorably dependent on this dimension. The drive towards “more”, “deeper”and “higher” derives from this dimension. The right realization of this is acquired not by “doing” or “achieving” something but in and through silence, as we shall see a little later. Man’s yearning for peace, joy, happiness, goodness, beauty, justice, etc., etc. is endless. He can never have enough of any one of these. On the other hand, Man stands helpless in the face of inexplicable tragedy and sorrow. This dimension is related to Man’s meaning in life, of how he can face life and life’s vicissitudes. Only openness to the depth-dimension can help one to face such situations. The depth-dimension has to do with hope. Hope, as Panikkar reminded us 31 Intercultural Session - Francis X. D’Sa constantly, is of the invisible. The invisible at work in the present is the focus of hope. Hope, Vaclaw Havel tells us, is not the optimism that everything will be all right but the convinction that everything has meaning. Recognizing that this dimension can in no way be manipulated Man has to admit his limitations, cultivate hope by letting oneself be led by the Mystery in which we live, move and have our being. The dynamics of the depth-dimension have to do with hope, not with expectation. This is not a dimension where human wisdom can help or plan or produce hope. At the most human wisdom can produce expectation but not hope. Here nothing will help except the realization that helplessness is the first step towards opening up to a realm where the Mystery of Life speaks in silence. One important requisite of the dynamics of the depth-dimension is familiarity with silence. The path of silence leads to self-discovery and hopefully to the source of all hope. Silence, not merely external silence but the silence of the mind and of the heart, is a word that is not found in the dictionaries of our technological/technocratic age. Unfortunately very few, indeed very, very few persons seem to be aware of the seriousness of this lacuna. We hardly encounter any positive signs in this direction. Religions are all engaged in honing their doctrines and persuading people to join their ranks in order to achieve peace and prosperity. Panikkar would have diagnosed it as an overstress on the logos and a complete neglect of the mythos. Intelligibility ousting out interiority. Words silencing silence! To summarize: If the requisite of the cosmic dimension to counteract possessiveness is detachment, and the requisite of 32 the human dimension to counteract individualism is the pursuit of personhood, the requisite of the depth-dimension is familiarity with the world of silence. Both detachment and the pursuit of personhood grow and flourish in the soil of silence. 5. Implications of the Cosmotheandric Vision The Cosmotheandric Vision grows out of a phenomenological awareness, not from any moralistic project/pressure. Our being-in-theworld makes us discover the three dimensions of the Real: The cosmic or material dimension, the human or consciousness dimension and the depth- or divine dimension. But we have to remind ourselves that we do not find these dimensions separately, though we speak of them separately. We experience something that is perceived, and us as perceiving. At the same time we experience that there is no limit to the process of our perceiving and being perceived. 5.1 Reality as a Community of the Cosmic, the Human and the Divine Dimensions The Cosmotheandric Vision is about the solidarity of the three dimensions which constitute the Real. Our experience is definitely not of each of these dimensions separately. Our experience is cosmotheandric, that is, an experience of the cosmic, the human and the depth-dimensions but our focus is not on all three but now on one, now on another. For heuristic purposes we speak separately till we reach that stage of awareness where we shall be equally aware of all three. Panikkar has led us to the first step in this direction by calling this experience as cosmotheandric. From now on the word cosmotheandric will be a constant reminder Intercultural Session - Francis X. D’Sa that the Real consists of the threefold dynamics. We are born and brought up – without our knowing it – in a world of threefold dynamics. We need to become more aware of our cosmic, human and divine relationships. Reality is an interconnected and interdependent community. More significantly, we are members of this community. The more intensely we follow and respond to Reality’s threefold dynamics the more authentic members we shall be of this community. We too have to cultivate our cosmic relationship, our cosmic relatives, both through our body as well as through the world-body. Here is our responsibility, more precisely, our response-ability towards the environment. At the same time we have to become more familiar with the complexity of the human community, the human family, ruled as it is now by considerations of colour, caste and creed. Questions of economic, political, social, religious, racial/ethnic and gender justice are part of this programme. The human family is bedevilled by all these kinds of injustices and prejudices. In our day religions have become part of the problem, not part of the solution. Religions are busy with power politics, not with peace of mind and peace for the minorities and the marginalized. Increasingly we are realizing that behind the façade of religious problems lurks the spectre of socioeconomic problems. With that we return to the ubiquitous problems of injustice. The cosmotheandric community is a Reality, not a romantic dream. Modern Man finds himself alienated and needs to retrieve his cosmotheandric roots. 5.2 A Cosmotheandric Spirituality The Cosmotheandric Intuition would be incomplete or seriously wanting if a cosmic spirituality were not part and parcel of that intuition. This is not difficult to understand. The Cosmotheandric Intuition is not a description of the Real. It is a symbolic expression of the threefold dynamics of the Real. It is a metaphor for their three dimensional dance, perichoresis, of the Greek tradition. A dance is not a dance if it is not danced in much the same way that a song is not a song that is not sung and a play is not a play that is not played. The cosmic spirituality is the three dimensional dance of the Cosmic, the Human and the Divine. We who believe that we are cosmotheandric in our being, will be confirmed in our belief when our being joins the cosmotheandric dance! Finally the Cosmotheandric Intuition does not explain Reality. Reality remains a mystery. The Cosmotheandric Intuition puts forward a relevant way of discovering our connection with Reality. 6. Emergence of a Common Horizon All over the world there are intimations in our times that a common concern (however minimal) as regards Man and World is emerging. Both world peace and the environment are part of these intimations. It is not the magnitude of this concern that is striking as the kind of concern-community that we are witnessing. Cutting across the board we have movements from all kinds of political, social, religious, ethnic and cultural groups showing awareness of the urgency for peace and care of the environment. A common horizon is on the way. People may not have heard of the Cosmotheandric 33 Intercultural Session - Francis X. D’Sa Intuition but they seem to hear and feel the threefold dynamics of Reality and are acting on it. The emerging horizon is the result. QUESTIONS TO Prof.D’SA Q1): My question is about the relation between the critical consciousness of man and the symbolic dimension keeping the divine aspect into man’s horizon. Kant also spoke of this dimension, the divine man in us……….. Q2): Could you comment a little bit on the reformulation of the Trinity in Panikkar ? Because the trinity in traditional theology is a Trinity among three persons in God. But in Panikkar it becomes a cosmic trinity. So how can this be reformulated and still be called the Trinity? (Fred Dallmayr). A1): I begin with your first question: when you stand under a certain mythos, a certain horizon, there’s no possibility for critical reason to question that horizon, because that horizon means what makes sense to you. Everyone has a horizon where certain things make sense other things don’t. So for example the Christian background: when you’re talking about polytheism in India this is not part of your horizon. But a hindu won’t be able to give you reasons for all this, only some kind of external answers, but he won’t be able to give critical reasons. When there’s a symbolic experience, when a symbol is a living symbol, reason has no place there, rightly or wrongly. It’s simply the structure of your symbolic knowing that is not able to make sense. For example for a military person what makes sense are the most sophisticated war 34 weapons, for his understanding of peace. But for a non violent person who doesn’t believe in this, it doesn’t make sense. Both of them have to try to find where they can meet. You see some thing makes sense to you in your kosmovision: outside that it doesn’t. The Buddhist experience makes sense in a Buddhist kosmovision. There’s no such thing as a universal horizon making sense. Today the peace horizon is becoming broader and broader. But people who are for the military system have little understanding of peace. They think the more sophisticated your weapons, the more chance peace has. This is why more and more people are talking about peace but differentry… A2): Coming to the Trinity: it’s a certain Christian horizon where Father, Son and Spirit make sense. But your question is more than that: then why do you bring in the cosmichuman-divine? I’ve always ascertained that people who live in monocultural worlds will never understand Panikkar. His horizon is not theirs. The only possible thing is an attempt to broaden our horizon. An intercultural effort to find what Panikkar would have called: functional, homeomorphic equivalents. They are not equivalents, but functional equivalents, like Incarnation could be eventually the functional equivalent of Avatara. But Panikkar doesn’t say that Incarnation is Avatar. So here also he would agree with me: that the cosmotheandric vision is the functional equivalent of the Christian Trinity and vice versa. Our effort is intercultural expansion, understanding intercultural expansion. Intercultural Session - Achille Rossi MITO CHE MUORE, MITO CHE NASCE Achille Rossi Achille Rossi (video) Il pensiero di Panikkar è come una immensa cattedrale: si può entrare dalla porta principale, l’intuizione cosmoteandrica, o da qualche ingresso laterale. Ne ho scelto uno legato all’attualità. Panikkar è convinto che un mito stia tramontando e uno nuovo stia albeggiando al nostro orizzonte. - Non c’è bisogno di ricordare l’importanza del mito nella sintesi panikkariana. Il mito è l’orizzonte che avvolge il nostro pensiero e le nostre pratiche, come un utero all’interno del quale galleggiamo, che determina i confini del reale e del possibile e che non sentiamo necessità di mettere in discussione. Il mito ci libera dal pensiero. Nella gnoseologia panikkariana il mito occupa il primo gradino, poi viene il logos e al livello superiore lo Spirito. Il non pensato – il pensabile – l’impensabile. - I miti si consumano e si logorano come i vestiti per diverse ragioni: basta che si entri in contatto con nuove culture, che si Achille Rossi, direttore del mensile di informazione, politica e cultura: L’Altrapagina, Città di Castello (Pg). www.altrapagina.it presentino nuove scoperte scientifiche, che venga intaccato razionalmente. In tal caso il mito muore e viene sostituito da un nuovo mito. L’uomo è un essere mitopoietico. A. Il mito che tramonta è quello della cosmologia scientifica e, insieme con esso, quello delle antiche cosmologie e di un rigido monoteismo. Panikkar lo esprime così: «Anche se il tempo non è del tutto maturo per un nuovo mito, noi abbiamo perso la nostra innocenza con quelli vecchi e non possiamo credere in essi più a lungo. Il progresso, la scienza, la tecnologia, la storia, la democrazia e altre simili narrazioni in cui molti dei nostri predecessori hanno creduto, e a cui molti dei nostri contemporanei ancora si aggrappano, non sono ritenute vere da una moltitudine di gente e dai pensatori responsabili dei più diversi percorsi di vita e persuasioni». La cosmologia scientifica che sta tramontando non ci offre un mondo dove noi possiamo trovarci a casa, perché il Divino è assente, l’uomo perde la propria umanità, il 35 Intercultural Session - Achille Rossi cosmo è ridotto semplicemente a un ammasso di materia e di energia. A.1. Prima di riprendere punto per punto questa affermazione voglio esaminare il limite della cosmologia scientifica. Il principale è legato al metodo scientifico e alla sua assolutizzazione. La scienza pretende di fornirci una visione completa del mondo, dimenticando che il suo metodo ci regala solo una descrizione degli aspetti quantitativi della realtà. Quando cerchiamo di conoscere qualcosa dipendiamo dagli strumenti che utilizziamo e dalla precomprensione della natura della cosa che stiamo tentando di raggiungere. Lo strumento per eccellenza del metodo scientifico è la matematica, che proietta sulla realtà la sua rete e ci fa prendere coscienza di una certa struttura del reale, ma questo non equivale a conoscere il mondo. In parole povere, il metodo condiziona ciò che possiamo conoscere. A.1.1. Il metodo scientifico ha di mira il controllo dei fenomeni, prevederli per poterli controllare, perciò s’interessa del comportamento delle cose, non del loro perché. Non ha bisogno di un approccio olistico né richiede una cosmologia. In questo modo il metodo acquista una importanza così centrale da diventare il contenuto e i mezzi diventano il fine. Poiché il metodo ci abilita a cercare la quantità in tutti i campi finiamo per trovarla dappertutto e non vediamo altro. In una simile cosmovisione l’astrazione e il pensiero calcolante prendono il sopravvento. A.2. Panikkar fa ancora notare che esiste uno stretto rapporto fra questa 36 cosmologia scientifica e il monoteismo, perché ambedue comprendono la realtà in base a un unico principio: la ragione umana nel caso della scienza, Dio nel caso del monoteismo. Panikkar non è iconoclasta e non vuol buttare a mare né la scienza né il Divino ma tenta di riposizionarli, liberando la scienza dal suo assolutismo, salvaguardando tutto il positivo che il mito monoteista veicola. Il monoteismo c’insegna che la realtà ha sempre una dimensione trascendente, il deismo cerca di armonizzare Dio e ragione, il panteismo sottolinea che il Divino pervade tutto, il politeismo ci ricorda che il divino è irriducibile a qualsiasi singolarità, l’ateismo il carattere apofatico dell’Ultimo, l’agnosticismo che noi non siamo Dio, lo scetticismo che il fondamento delle nostre certezze può essere solo Dio. B. L’assenza del Divino: Nella descrizione scientifica l’universo è concepito come un ammasso di materia ed energia che si sviluppa nello spazio e nel tempo fino all’uomo che osserva tutto il processo. Dio è collocato alla fine come punto Omega, ma in realtà non c’è bisogno di lui. La religione è un fatto privato; nell’ipotesi migliore Dio è l’insieme che contiene il mondo come sottoinsieme. Il Dio vivente è perduto. D’altra parte il monoteismo tende come china fatale a sostanzializzare, dunque a limitare Dio. La perdita dell’umano: L’uomo è assente nel mito scientifico perché è solo l’osservatore o, al massimo, colui che ha programmato le misurazioni, ma è sentito quasi come un ostacolo alla purezza Intercultural Session - Achille Rossi dei calcoli. Tutto l’umano è oggettivato e l’uomo è ridotto alla terza persona. La scienza non sa chi è l’uomo. L’apologo dell’indù e dello scienziato: «abbiamo mandato un uomo sulla luna». «Ma se non sapete nemmeno chi è?». C’è una differenza fondamentale tra conoscenza scientifica e conoscenza umana. La conoscenza scientifica ci permette di cogliere i fenomeni che appaiono al metodo scientifico, la conoscenza umana ci permette di diventare in un certo modo quello che conosciamo e impegna l’attività di tutto il nostro essere e implica anche l’amore. “Qui Deum cognoscit, Deus fit”. L’oblio della dimensione cosmica: Non c’è bisogno di un’analisi approfondita del sistema economico dominante per rendersi conto che la natura è considerata una risorsa a costo zero di cui si può fare ciò che si vuole “La natura è una meretrice…” (Bacone). Il linguaggio è illuminante. C. Il nuovo mito È necessaria una svolta per superare il conflitto di cosmologie in cui siamo impantanati. La cosmologia scientifica, che riposa sulla quantità e che tenta di eliminare completamente il fattore soggettivo, non può prepararci un mondo umano. Dopotutto il fattore soggettivo non può essere eliminato perché noi apparteniamo al mondo. Ed è ingenuo pensare che oggi per la prima volta abbiamo una visione oggettiva dell’universo. L’osservatore dimentica se stesso e legge gli oggetti “sub specie quantitatis”. Neppure l’aspetto oggettivo, però, può essere eliminato sposando una prospettiva idealistica. Il mondo non è né soggettivo né oggettivo. D’altra parte nemmeno le cosmologie tradizionali possono aiutarci perché le nostre attuali conoscenze non ci permettono di condividerle più. Non si tratta nemmeno di coniugare cosmologia scientifica e cosmologie tradizionali, ma di trasformarle entrambe e di entrare in un nuovo mito. Descrizione: Il Divino esiste, non è una proiezione dell’uomo, è qualcosa di più e di differente, irriducibile all’uomo e al mondo. Viene espresso col linguaggio delle diverse culture. È una dimensione reale, né indipendente né separabile dall’Universo, che pervade ogni cosa, ma che non è afferrabile direttamente come un corpo o intellegibile come un’idea. Il Mistero divino non è né un Essere supremo né una sostanza separata. «Dio non è né un idolo, né una formula, né una cosa, né un concetto». L’uomo non può essere ridotto alla terza persona (esso) come fa la scienza, perché è il punto d’incontro dell’intera realtà. A questo alludono le tradizioni che lo definiscono “icona di Dio”, o parlano di “atman-brahman”. Il Cosmo è vivo, non può essere staccato dalla dimensione divina e da quella umana. Dio-uomo-mondo sono dimensioni inter-in-dipendenti e alla fine non sono né uno né tre. Panikkar è consapevole di aver descritto un mito e ogni mito consente molteplici interpretazioni. Riecco di nuovo il 37 Intercultural Session - Achille Rossi pluralismo. Queste intuizioni, aggiunge Panikkar «non sono né dogmi né semplici ipotesi, ma filosofia, che è l’unica vera sofia umana». Osservazioni conclusive: Dopo questa sommaria incursione in alcune tematiche panikkariane permettetemi alcune osservazioni a mo’ di conclusione. Il mondo che ci troviamo a vivere è un mondo impossibile sia dal punto di vista etico, che da quello ecologico, che spirituale. L’etica c’impedisce di accettare un mondo dove (tre quarti dell’umanità vivono in condizioni disagiate); la questione climatica ci spinge a un cambiamento urgente altrimenti è in pericolo la sopravvivenza dell’umanità, l’asfissia spirituale provocata dal nichilismo impedisce una vita veramente umana. Panikkar è cosciente della necessità di un cambiamento radicale che dovrebbe toccare tutti gli aspetti della vita umana, dalla spiritualità all’economia, dalla politica all’ecologia. Questo cambiamento sarà possibile solo attraverso un cambiamento di cultura altrettanto radicale, altrimenti tutti i tentativi di mutamento ricadranno su se stessi. La forza del pensiero di Panikkar sta proprio nell’aver delineato questo nuovo orizzonte, il nuovo mito, e averlo fatto in un confronto con le culture del mondo, al di fuori di ogni provincialismo e senza la minima paura di mettere in discussione il mito dominante. Eppure questo grande spirituale ha affrontato un compito così titanico con 38 grande delicatezza perché il mito che tramonta non sono solo macerie, ma anche tesori di inestimabile valore che meritano di essere integrati sotto una luce nuova nel mito che sta albeggiando. Complexity Session - Piero Bevilacqua NOVECENTO DIVISO: TRA RIDUZIONISMO TECNICO-SCIENTIFICO E SAPERE DELLE CONNESSIONI Piero Bevilacqua Piero Bevilacqua (video) Intanto una premessa chiarificatrice sui termini utilizzati nel titolo di questa comunicazione. Perché uso la parola sapere, distinta da scienza? Non sto ricorrendo a un sinonimo per eliminare una cacofonia da ripetizione. Nel mio vocabolario la scienza è un fenomeno storicamente determinato dell'età contemporanea: con la sua ricerca istituzionalizzata, divisa in discipline, con le sue procedure universalmente riconosciute, i suoi protocolli, le sue finalità eminentemente tecniche, la sua dipendenza dai poteri dominanti1, la sua incorporazione nella macchina della produzione capitalistica. A quest'ultimo proposito sappiamo, almeno dai tempi di Marx, che «l'invenzione diventa un'attività economica e l'applicazione della scienza nella produzione immediata un 1 Rimando al vasto affresco di F. Capra, Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente (1982) Feltrinelli Milano 2008, e al contributo - che solo a tratti ha un'impostazione storica - di M.Cini, Un paradiso perduto. Dall'universo delle leggi naturali al mondo dei processi evolutivi.Feltrinelli Milano, 2004. Su saperi,scienze e conoscenza si veda il testo, a più voci, Manifesto sul futuro dei sistemi di conoscenza.Sovranità della conoscenza per un pianeta vitale, Press Service, Sesto Fiorentino 2009 criterio determinante e sollecitante per la produzione stessa.»2 I saperi, ovviamente, possono essere anche scienza, quanto a universalità di criteri di procedura e di validazione, ma essi sono contaminati da conoscenze e finalità extrascientifiche. Oggi i saperi che si occupano della biodiversità, ad esempio, e che utilizzano il patrimonio conoscitivo di discipline tradizionali come la biologia o la zoologia, rappresentano forme di conoscenze che osservano non solo i singoli fenomeni, ma le loro reciproche relazioni e lo spazio specifico in cui essi si svolgono. E non danno vita necessariamente a tecnologie, a farmaci o a qualunque altro prodotto mercificabile. Essi sono incomprensibili, al di fuori di un impulso di carattere non scientifico, proveniente dalla reazione morale e politica all'avanzare delle monoculture agricole e alla riduzione delle Piero Bevilacqua, Università La Sapienza, Roma 2 K.Marx,Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Presentazione, traduzione e note di E.Grillo,La Nuova Italia, Firenze 1970, vol.I, p. 399 39 Complexity Session - Piero Bevilacqua specie viventi sulla Terra. Il testo di Vandana Shiva, Monoculture della mente ne costituisce una testimonianza significativa3 Resta da aggiungere che i saperi sono spesso esterni alle istituzioni dominanti, hanno talora a che fare con le sapienze locali tramandate oralmente. E' questo il caso dei contadini. Essi hanno elaborato e tramandato un sapere che per diecimila anni ha permesso all'umanità di nutrirsi e di sopravvivere. Una massa di conoscenze empiriche e di concezioni olistiche, su cui è sorta la scienza agronomica nell' 800. Per il tratto più lungo della sua storia l'umanità si è retta sui saperi, e questi sopravvivono e hanno la loro larga e spesso invisibile influenza, anche nella nostra epoca e nelle società dominate dalla scienza. Si pensi a quanto sapere orienta la nostra vita quotidiana, il lavoro domestico femminile, ecc. Dunque, scienza e saperi. Simili, ma diversi. Una diversità che vogliamo marcare per ragioni non scientifiche, ma morali e politiche. Sempre, è con nuove parole che ci si separa da un passato che si vuol superare. Ora, il Novecento ormai concluso squaderna al nostro sguardo storico uno spettacolo di grande interesse. Esso mostra, ad esempio, come alcuni principi e caratteri fondativi della scienza moderna pervengano alla loro estrema conclusione. Ma ci mostra, anche, al tempo stesso, come dall'interno del corpo della scienza dominante si facciano strada saperi che addirittura colpiscono alla radice il suo principio ed il suo fine originario. Questo è senza dubbio il caso della fisica. La Big science della prima parte del 3 V.Shiva, Monoculture della mente. Biodiversità,biotecnologia e agricoltura “scientifica”, Bollati Boringhieri, Torino 1995. 40 secolo. Questa disciplina che, com'è noto, con Galilei, fonda la scienza moderna, conosce nel Novecento l'esito più estremo del riduzionismo che ne segna l'atto di nascita. Ricordo per brevità quanto dice Edgar Morin a questo proposito, ne La natura della natura: «La fisica occidentale non ha solamente disincantato l'universo, essa l'ha desolato», cioé le ha sottratto la vita riducendola a rapporti matematici fra corpi. 4 Ebbene, esattamente questa scienza, che nel secolo scorso ha puntato a indagare le strutture prime della materia, a smontare la complessità del vivente e a ridurlo nei suoi elementi ultimi e costitutivi, è sfociata in un risultato tecnico di gigantesca distruttività. I fisici della prima metà del '900 hanno creato la bomba atomica. Hanno cioé finalizzato il sapere della scienza per un compito totalitario di morte. La bomba atomica, come ricordava Ivan Illich, non è un'arma qualsiasi da usare contro un nemico in guerra: è un progetto di genocidio. 5 Al tempo stesso, la fisica, seguendo questo sentiero riduzionistico della conoscenza e di ulteriore dominio sulla natura, si consegnava a poteri esterni, poteri illiberali e di guerra. Come ha ricordato Karl Jaspers, nel suo saggio La bomba atomica e il destino dell'uomo, riferendosi a quanto accadde negli USA negli anni '40, «quella che era una organizzazione, in un primo tempo libera, di scienziati impegnati col massimo spirito di sacrificio, per la libertà degli uomini, subito sempre più divenne una impresa militarmente 4 E.Morin, La méthode.Tome I, La Nature de la Nature, Edition Seuil, Paris 1977, p. 365 5 I.Illich, Nello specchio del passato.Le radici storiche delle moderne ovvietà:pace,economia, sviluppo, linguaggio, salute, educazione, Red Como 1992, p. 28 Complexity Session - Piero Bevilacqua controllata.6» Crediamo di poter concludere che mai nella storia dell'umanità si era verificato un così totale rovesciamento dei fini della conoscenza. Eppure è stata questa stessa scienza, la fisica, nel corso del '900, a sfociare nella negazione delle sue cadute riduzionistiche, a scavare un altro sentiero accanto a quello strumentale e distruttivo, a porsi di fronte il grande mare della complessità. «La fisica, animata dall'ossessione mitologica dell'unità prima - ha scritto ancora Morin ne La vita della vita- scoprì in principio la molecole, poi l'atomo, poi ancora la particella. Nella sua ricerca dell'elementare, essa trovò di volta in volta il combinato, il complicato, il complesso e, nella particella, la maggior complessità logica che si possa immaginare.» 7 Com'è noto, è stato, fra tanti, un fisico eterodosso, Fritjof Capra a riflettere genialmente su questa tarda evoluzione della fisica contemporanea. Uno sviluppo che ha portato una scienza eminentemente riduzionistica a scoprirsi profondamente affine al pensiero mistico orientale: vale a dire a riconoscere «l 'unità e l'interdipendenza di tutti i fenomeni e la natura intrinsecamente dinamica dell'universo»8 «La meccanica quantistica rivela – ha scritto Capra nel Tao della fisica – un'essenziale interconnessione dell'universo e ci fa capire che non possiamo scomporre il mondo in unità elementari con esistenza indipendente. Quando studiamo la materia in profondità, scopriamo che essa è composta da particelle, ma queste non sono i “mattoni fondamentali” nel senso di Democrito e di 6 K.Jaspers, La bomba atomica e il destino dell'uomo, il Saggiatore Milano, 1960, p.289 7 E. Morin, Il metodo. 2 La vita della vita, (1980) Raffaello Cortina Editore, Milano, p. 116 8 F.Capra, Il Tao della fisica, (1975) Adelphi Milano 2009, p.27 Newton. Sono soltanto idealizzazioni, utili da un punto di vista pratico, ma prive di significato fondamentale.» 9 L'ecologia come sapere olistico. Ma nel Novecento, soprattutto nella seconda metà del secolo, fiorisce e potremmo dire esplode una conquista sostanzialmente dimenticata del pieno Ottocento: l'ecologia. La «scienza delle relazioni – come scriveva il suo pioneristico fondatore, Ernst Haeckel, nel 1866 - fra le cose viventi e il loro ambiente».10 E' questo elementare principio fondativo che ha rivoluzionato e sta rivoluzionando i saperi della nostra epoca. Esso contraddice infatti alla radice il principio su cui si è retta l'intera scienza moderna: vale a dire la separazione e l'isolamento dell'oggetto dal suo ambiente, per essere studiato nella sua intima e solitaria struttura. L'ecologia ha invece mostrato che tale separazione e isolamento portano a conoscenze parziali, riduttive, esemplificatrici. Esse finiscono con l'occultare i condizionamenti, gli influssi, le determinazioni che il tutto interrelato ha sulle singole parti. Certo, come mostra tanto la storia del sapere scientifico che la storia della società industriale, il riduzionismo della scienza, e la sua finalizzazione in tecnica, sono stati coronati da un enorme successo. Essi hanno costituito la stoffa stessa della nostra epoca, interamente fondata su un progetto di dominio assoluto sulla natura. Ma è stato esattamente tale dominio e le alterazioni prodotte, le minacce che esso ha fatto 9 Ibidem, p. 156 10 P. Bevilacqua, La terra è finita. Breve storia dell'ambiente, Laterza Roma-Bari, 2006, p.138; C. Modonesi e G.Tamino ( a cura di ) Biodiversità e beni co- 41 Complexity Session - Piero Bevilacqua intravedere all'orizzonte, che hanno fatto emergere dal campo stesso della scienza dominante percorsi nuovi della ricerca e del pensiero. globalizzate. Ma questa, per la verità, era una conoscenza che la scienza medica aveva cominciato a far propria almeno a partire da Pasteur. L'osservatore della realtà esterna ha dovuto accorgersi che egli era fatto della stessa materia della realtà osservata, il dominatore ha dovuto constatare che il dominio gravava anche su di lui, frammento della natura assoggettata. Il secondo Novecento ha potuto infatti assistere a un sotterraneo mutamento di paradigma scientifico, indotto dalla constatazione, per dirla ancora con parole di Morin, che «L'asservimento della natura da parte dell'uomo ha trasformato la natura dell'asservimento»11 Perché «il controllo dell'ecosistema sulle società umane aumenta nella misura in cui aumenta il controllo cui esso è soggetto (...) Più l'uomo possiede la natura, e più la natura lo possiede »12 Ma non è solo questo. Non è certa questa la novità che fa epoca. Con drammatica sorpresa, solo negli ultimi decenni gli uomini si sono accorti di essere inscindibilmente legati all' infinitamente grande. La scoperta che le attività umane, i nostri fumi e scarichi, i nostri allevamenti alterano addirittura l'atmosfera, il cielo lontano che sta sopra di noi, provocando il riscaldamento del clima, illumina sinistra-mente l'esito potenzialmente catastrofico del nostro dominio. Uno dei maggiori studiosi degli effetti economici del global warming, del riscaldamento globale, Nicholas Stern, ha definito il fenomeno «il più grave ed esteso caso di fallimento del mercato che si sia mai verificato.»14 Ben detto. Ma non è soltanto questo. Esso costituisce la rivelazione drammatica dei limiti conoscitivi su cui la scienza moderna ha edificato la gigantesca macchina di dominio tecnico sul mondo vivente. E' una sorta di bilancio, un conto che la natura immaginata come lontana e infinita presenta ai manipolatori ignari e maldestri che l'hanno violata. Gli uomini non potevano, dunque, e non possono sottrarsi né col pensiero né con l'agire pratico alle infinite e spesso ancora ignote relazioni che li legano al loro ambiente, che li imprigionano nella maglia invisibile, complessa e sfuggente della biosfera. Essi appaiono sempre più legati e condizionati al mondo infinitamente piccolo dei virus e dei batteri, protagonisti, come ormai sappiamo, nella lunga vicenda della storia umana.13 E come abbiamo imparato a sperimentare negli ultimi anni con le pandemie che dal mondo animale si diffondono nelle società umane muni. Introduzione di M.Capanna, Jaka Book, Milano 2009, p.23 11 E. Morin, Il pensiero ecologico, Hopeful Monster ,Firenze 1988, p.94 12 Ibidem ,p. 95 13 J.Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni. Introduzione di L. e F. Cavalli Sforza, Einaudi Torino, 2006, p. 149 e ss. 42 Nel Novecento, un altro ramo della scienza – che negli ultimi decenni sembra aver sostituito la fisica nel ruolo di Big science – la biologia, si è inoltrata nel sentiero della scomposizione del vivente nei suoi costituenti primi e fondamentali. Non senza grandi successi, sia conoscitivi che tecnici. E' sufficiente pensare alle scoperte della genetica, a partire dalla decodificazione della doppia elica del DNA da parte di Krick e 14 N. Stern, Clima è vera emergenza. Il rapporto Stern: cambiare è possibile, introduzione di C.Carraro, Brioschi Milano , 2008, p.22 Complexity Session - Piero Bevilacqua Watson, nel 1953, o agli indubbi progressi realizzati in campo medico e biotecnologico. Negli ultimi decenni non pochi scienziati hanno addirittura creduto – seguendo le sirene di un meccanicismo che sopravvive ad almeno 4 secoli di storia della scienza - che tramite i geni si potessero definitivamente stabilire i caratteri degli organismi, predire l'evoluzione organica degli individui. Ma si sono dovuti rassegnare al fatto che gran parte dei geni non sono invarianti, non replicano i caratteri dell'informazione ereditata, ma sono fenotipi, sono cioé soggetti all'alterazione e modificazione dell'ambiente, variano nel tempo e dunque sono intimamente connessi agli andamenti imprevedibili della storia individuale.15 La stessa genetica, d'altro canto, progredendo nelle sue scoperte, ha mostrato che la materia possiede anch'essa una sua “soggettività”. Non solo gli uomini e gli animali, ma anche le piante si sviluppano ed evolvono sulla base di codici informativi contenuti nei geni. Gli alberi vivono e crescono per via di messaggi invisibili. Forme insospettate di “sapere”, dunque, orientano le strutture profonde della vita, anche quelle che a partire da Cartesio avevamo pensato e rappresentato come res extensa, come oggetto esterno e contrapposto alla nostra soggettività.16 Ecco, dunque, un altro e clamoroso caso in cui il riduzionismo ha dovuto cedere alla 15 Cfr. B.Commoner, Replicazione del DNA: il tallone d'Achille della genetica molecolare; E.Gagliasso Luoni, Riduzionismi:il metodo e i valori, in C.Modenesi, S.Masini, I.Verga, Il gene invadente.Riduzionismo, brevettabilità e governance dell'innovazione biotech. Introduzione di M.Capanna, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2006, p. 51 e ss. e p.111 e ss. 16 Si vedano in proposito le osservazioni di M. Alcaro, Coscienza e mondo. Un dialogo tra filosofia e scienza, in P.Bevilacqua ( a cura di) A che serve la storia? I saperi umanistici alla prova della modernità, Donzelli Roma, 2011. complessità, l'uno al molteplice, l'“astratto” al contesto, l'isolato alle connessioni. L'infinitamente piccolo si è nuovamente mostrato indissolubilmente legato all'infinitamente grande, lo condiziona e ne è condizionato. Ha ricordato Marcello Buiatti nel suo saggio sulla Biodiversità : «Quando parliamo di biodiversità (.... )parliamo della diversità fra molecole all'interno di una cellula, fra cellule in un organismo, fra organismi che fanno parte di una popolazione (insieme di organismi di una stessa specie), specie diverse appartenenti ad un ecosistema, ecosistemi che compongono la biosfera. La vita cioé è un insieme di componenti tutti più o meno collegati fra di loro e quindi non indipendenti ma che inevitabilmente si influenzano l'un l'altro.»17 Una minacciosa involuzione Lo scenario del Novecento mostra tuttavia percorsi di rovesciamento della direzione della ricerca anche in altri campi: vale a dire in ambiti poco sospettabili di caduta nell' illusione riduzionistica che da sempre accompagna e spesso porta fuori strada le ambizioni e i sentieri della ricerca. E' il caso di una scienza sociale nata in Europa nel XVIII secolo e che ha celebrato i suoi trionfi e le sue perniciose illusioni nel XX secolo.18 Mi riferisco all'economia, nata da una costola della filosofia morale e diventata, alla fine del suo percorso, una tecnologia della crescita. Un sapere della complessità, delle relazioni tra i fenomeni produttivi e le classi sociali, tra la divisione del lavoro e i mercati, 17 M. Buiatti, La biodiversità, il Mulino 2007, p.8 18 Sul carattere per cosi dire inventato dell'economia, come disciplina scientifica, che si è ritagliata uno spazio autonomo tra i fenomeni sociali, S.Latouche, L'invenzione dell'economia, Bollati Boringhieri, Torino 2010 43 Complexity Session - Piero Bevilacqua tra il centro e la periferia, tra la ricchezza e la pubblica felicità, si è ridotta a una sofisticata macchina volta ad un unico fine: l'incremento del Prodotto interno Lord, il sacro Graal della nostra epoca. O per meglio dire, la crescita dei beni e servizi disponibili senza alcun riguardo per quel che accade alle connessioni che legano la società, alle relazioni fra gli individui, al benessere delle persone, alla loro vita intima e alla spiritualità collettiva. E naturalmente senza riguardo – ma questo era un peccato originale anche dell'economia politica sin dai suoi esordi settecenteschi19 – per la distruzione di risorse non rinnovabili che produce, per gli effetti negativi che ha sull'intero mondo vivente, per le alterazioni e i danni che genera dentro la placenta che tutti ci contiene, cioé l'atmosfera. L'involuzione grave che ha subito questa disciplina scientifica nella seconda metà del Novecento, mostra in maniera paradigmatica – non diversamente da quanto è accaduto alla fisica con la creazione della bomba atomica come essa possa trasformarsi in uno strumento di distruzione della biosfera. Messa al servizio di una macchina che divora immani risorse e mette a sacco gli habitat dell'intero pianeta, essa si è trasformata in un dispositivo meccanico di autoperpetuazione del proprio agente. La scienza economica sembra aver subito lo stesso destino della fisica messasi al servizio del potere militare, secondo la rassegnata constatazione di Jaspers. Essa ha perduto le sue caratteristiche di libera e “disinteressata” ricerca e si muove a testa 19 Per la rimozione della natura nel processo economico già in Smith, Ricardo e in parte nello stesso Marx, cfr. H.Immler, Natur in der ökonomischen Theorie,Westdeuscher Verlag, Opladen,1985, p. 138. e il commento di chi scrive in P.Bevilacqua, Demetra e Clio.Uomini e ambiente nella storia, Donzelli roma, 2001, p 118 e ss. 44 china, al cappio dei poteri e delle ideologie dominanti Ma la sua metamorfosi ha contagiato altri ambiti dell'umano pensare. Il suo stato attuale, la riduzione del sapere economico in una tecnologia della crescita, coinvolge e immiserisce oggi uno dei saperi più antichi dell'umanità - non meno antico dell'economia- elaborato sin da quando gli uomini si sono uniti in società. Un sapere delle connessioni, profondamente olistico, creato per gestire la diversità e la complessità della vita organizzata degli uomini: la politica. La subordinazione della politica alla tecnologia della crescita è responsabile in larghissima parte dell'irrilevanza in cui oggi annaspa questo antico sapere. E costituisce forse uno dei nodi fondamentali che spiegano gli equilibri fragili e precari in cui l'umanità sembra precipitata negli ultimi decenni. Equilibri ambientali ed equilibri sociali al tempo stesso. La politica è oggi sempre più unilateralmente irretita, nelle sue forme dominanti, dal delirio riduzionistico dell'economicismo: la peste ideologica dell 'età contemporanea.20 E rischia di trascinarci nella rovina se non riusciamo a ridarle autonomia, a farla somigliare a quella che Morin chiama, ricordando il nostro Gianbattista Vico, la «prima scienza nuova», vale a dire l'ecologia, un sapere delle connessioni e delle interrelazioni che legano le infinite varietà del vivente in un tutto che muta nel tempo. 20 Su questi aspetti rimandiamo, anche per la bibliografia specifica utilizzata, a P.Bevilacqua, Miseria dello sviluppo,Laterza, Bari Roma, 2008, p.. e Id. Il grande saccheggio. L'età del capitalismo distruttivo, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 94 e ss. Complexity Session - Giuseppe Gembillo PERCHÉ LA COMPLESSITÀ Giuseppe Gembillo Giuseppe Gembillo (video) La concezione della Complessità è la nuova visione della realtà che si propone come alternativa a quella tradizionale. Che si propone, cioè, come alternativa al Riduzionismo. Ma il Riduzionismo ha una gloriosa tradizione teorica e ha conseguito grandissimi successi tecno-pratici. Inoltre, si fonda su una concezione che affonda le proprie radici sia nel pensiero filosofico, da Talete a Cartesio; 1 sia in quello scientifico, da Galilei a Einstein . Tenuto conto di ciò, se la concezione della complessità si vuole proporre come alternativa al riduzionismo ha l’obbligo di presentare argomentazioni forti e ben fondate. Io proverò a farlo, cominciando col sottolineare il fatto che anche la concezione della Complessità si fonda su una gloriosa tradizione filosofica e su un’altrettanto gloriosa tradizione scientifica. La tradizione filosofica risale a Vico ed Hegel e Giuseppe Gembillo, Centro della Complessità, Univ. Messina 1 Cfr. G. Galilei, Le opere, voll. 20, ed. nazionale, a cura di A. Favaro, Firenze 1890-1909;Id., Il Saggiatore, a cura di L. Sosio, Feltrinelli Milano 1990;R. Cartesio, Opere filosofiche, trad. di E. Garin, G. Galli, M. Garin, Laterza, Roma-bari 1998; G. Gembillo, Neostoricismo complesso, ESI, Napoli 1999. passa per Croce, per Cassirer, per Dewey, per Perelmann; la tradizione scientifica risale a Fourier e a Darwin, e passa per Mach, per Planck, per von Bertalanffy, per Heisenberg, per Bohr, per Prigogine, per Maturana, per 2 Wiener, per Lovelock, per Mandelbrot . 2 Cfr. G. Vico, la scienza nuova e altri scritti, a cura di N. Abbagnano, UTET, Torino 1976; G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1995; Id., Scienza della logica, trad. di A. Moni, Laterza, Roma-Bari 1983; Id., Lezioni sulla storia della filosofia, trad. di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1972; B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Laterza, Bari 1964; Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Laterza, Bari 1967; G. Gembillo, Filosofia e scienze nel pensiero di Croce, Giannini, Napoli 1984; Id. Benedetto Croce filosofo della complessità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006; E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche. 1. Il linguaggio, Trad. di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1966; Id., Determinismo e indeterminismo nella fisica moderna, trad. di G. A. De Toni, La Nuova Italia, Firenze 1970; J. Dewey- A.F. Bentley, Conoscenza e transazione, trad. di E. Mistretta, La Nuova Italia, Firenze 1974; J. Dewey, Logica, teoria dell’indagine, trad. di A. Visalberghi, Einaudi, Torino 1965; Ch. Perelman – L. Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione, trad. di M. Meyer, C. Schick, E. Barassi, Einaudi, Torino 1976; Ch. Perelman, Il campo dell’argomentazione, trad. di E. Mattioli, Pratiche, Parma 1979. Riguardo all’ambito scientifico per il momento rimando a: L. von Bertalannfy, Teoria generale dei sistemi. Fondameni, sviluppo, applicazioni, trad. di E. 45 Complexity Session - Giuseppe Gembillo Considerato ciò, mi propongo di mostrare che la concezione della Complessità è il risultato coerente di una serie di rivoluzioni avvenute nell’ambito della filosofia e delle varie scienze a partire dagli inizi dell’Ottocento e tuttora in corso. L’aspetto più significativo di tutto questo è che tali rivoluzioni hanno modificato radicalmente il nostro concetto di Natura, di Realtà esterna, di Universo e hanno comportato innanziuttto: la fine della contrapposizione tra Natura e Storia; la storicizzazione del concetto di sistema; una radicale trasformazione di tutti i principali concetti scientifici tradizionali, e, proprio come coseguenza generale di ciò, hanno reso inevitabile il passaggio dal Riduzionismo alla Complessi3 tà . Bellone, Mondadori, Milano 2004; H. Maturana – F. Varela, Macchine ed esseri viventi. L’autopoiesi e l’organizzazione biologica, trad. di A. Orellana, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1992;Idd., L’albero della conoscenza, trad. di G. Melone, Garzanti, Milano 1999; AA.VV., Conoscere è fare. Omaggio a Humberto Maturana, a cura di G. Gembillo e L. Nucara, Sicliano, Messina 2008; N. Wiener, Introduzione alla cibernetica, trad. di D. Persiani, Bollati Boringhieri, Torino 1997;Id., La cibernetica. Controllo e comunicazione nell’animale e nella macchina, trad. di G. Barosso, Mondadori, Milano 1968; J. Lovelock, Gaia. Nuove idee sull’ecologia, trad. di V. Bassan Landucci, Bollati Boringhieri, Torino 1996; Id., Le nuove età di Gaia, trad. di R. Valla, Bollati Boringhieri, Torino 1991; G. Gembillo, Le polilogiche della complessità, Le Lettere, Firenze 2008 3 La storia e le ragioni teoriche di tale trasformazione si trovano perfettamente condensate nei sei volumi del Metodo di Edgar Morin: Il metodo 1. La natura della natura, trad. di G: Bocchi e A. Serra, Cortina, Milano 2001; Il metodo 2. La vita della vita, trad. di G. Bocchi e A. Serra, Cortina, Milano 2004; Il Metodo 3. La conoscenza della conoscenza, trad. di A. Serra, Cortina, Milano 2007; Il metodo 4. Le idee: habitat, vita, organizzazione, usi e costumi, trad. di A. Serra, Cortina, Milano 2008; Il metodo 5. L’identità umana, trad. di S. Lazzari, Cortina, Milano 2002; Il metodo 6. Etica, trad. di S. Lazzari, Cortina, Milano 2005. Su ciò cfr. A. Anselmo, Edgar Morin e gli scienziati contemporanei, prefazione di Edgar Morin, Rubbettino, Soveria Mannelli, 46 Il Riduzionismo “messo a fuoco” Da Talete ad Einstein abbiamo cercato di semplificare il mondo esterno “complicato”, cercando il principio unico di spiegazione. La via per conseguire questo risultato è passata attraverso un approccio metodologico conforme allo scopo: il complicato è stato spiegato come aggregato di parti, riconducibile alle singole unità, senza difficoltà, anzi con grande e decisivo vantaggio, come ha mostrato Cartesio proponendo un metodo che consisteva nel ridurre ogni oggetto, identificato con un meccanismo facilmente scomponibile, alle sue parti costituenti. Per via scientifica, lo schema di questo aggregato è stato esteso alla realtà nella sua interezza ed è stato ordinato in sistema eterno, retto da leggi immodificabili e caratterizzato da andamento ricorsivo e ripetitivo. La perfezione in tal senso, e dunque la meta definitiva, è stata raggiunta, come proclamavano per vie diverse Laplace e Kant, col sistema solare delineato da 4 Newton . Ma ecco il paradosso: un sistema, il sistema del mondo di Newton, che ruota attorno a un astro infuocato, presenta solo processi adiabatici, per i quali lo scambio di calore non è preso in considerazione. In conseguenza di questa scelta, l’universo newtoniano diventa freddo e statico. A un certo punto, però, e imprevedibilmente, qualcuno comincia ad affrontare sul 2005; G. Gembillo- A. Anselmo- G. Giordano, Complessità e formazione, ENEA, Roma 2008; G. Gembillo, Da Einstein a Mandelbrot, Le Lettere, Firenze 2009 4 Cfr. I. Prigogine – I. Stengers, La nuova alleanza, trad. di P. D. Napolitani, Einaudi, Torino 1993; G. Gembillo – G. Giordano- F. Stramandino, Ilya Prigogine scienziato e filosofo, Siciliano, Messina 2004; G. Giordano, La filosofia di Ilya Prigogine,Siciliano, Messina 2005 Complexity Session - Giuseppe Gembillo serio il problema del calore e scopre, con Fourier, che il calore è una forma di energia universale come la forza gravitazionale ma del tutto opposta ad essa, perché esso trasforma i corpi, li degrada, ne determina un’evoluzione storica nella direzione della progressiva dissoluzione. Fourier, al seguito di Napoleone durante la campagna d’Egitto, contrasse, dopo avere attraversato 30 kilometri di deserto, una strana malattia: il suo corpo perdeva lentamente ma progressivamente calore. Nessun medico dell’epoca riuscì a venire a capo del problema. Allora Fourier cominciò ad affrontare da sé il problema, estendendolo alla natura del calore in generale. I risultati furono sconvolgenti: ogni corpo possiede calore che prima o poi si disperde, degradando il corpo. Esso, dunque, è strutturato temporalmente, è soggetto allo 5 scorrere del tempo. Con questo atto di consapevolezza, il tempo e la storia entrano di prepotenza e definitivamente nella scienza. Scompare la differenza tra Natura e Storia. Queste conseguenze emergono anche attraverso la trasformazione che via via subiscono tutti i concetti fondamentali su cui si fondava la scienza classica. Primo fra tutti quello di reversibilità che viene sostituito dal suo opposto, quando ci si rende conto che nel mondo concreto, reale, gli eventi seguono sempre una direzione che va dalla loro genesi fino alla loro dissoluzione, che si chiama morte per gli esseri viventi e si chiama dissipazione per tutti gli altri corpi. 5 J. J. Fourier, Thèorie analytique de la chaleur, Gabay, Paris 1988 Il concetto di causa, a sua volta, si volatilizza quando applicato ai fenomeni della trasmissione del calore. In essi la causa della trasmissione è la differenza di temperatura tra i corpi che entrano in contatto. Ma, a fine processo, il calore si distribuisce i maniera uniforme tra i corpi e la causa, cioè la differenza, scompare e non si ripristina in maniera naturale: dall’effetto non si risale alla causa nemmeno nel senso che a fine processo essi restino distinguibili perché per chi ha non ha avuto modo di assistere al processo di diffusione è impossibile capire quale sia stato, in partenza, il corpo a cedere calore. Il tempo, poi, in fisica classica era considerato o uno dei parametri che consentono di inquadrare i fenomeni in maniera spaziotemporale (Cartesio); o un contenitore assoluto, dentro il quale gli eventi scorrono(Newton); oppure una delle forme pure della sensibilità (Kant); in ogni caso esso restava sempre esterno ai fenomeni. Con Fourier, invece, il tempo diventa una struttura intrinseca ai vari fenomeni; ognuno di essi ha un tempo proprio che ne determina i ritmi evolutivi. Chiarisco questo concetto servendomi di una situazione particolare immaginata da Ludovico Ariosto nella sua Satira settima: un albero di pero si sveglia dal letargo invernale e si trova coperto da una zucca. Indispettito, le chiede spiegazioni. La zucca lo prende in giro facendogli rilevare come mentre lui aveva impiegato molti anni per crescere, lei in due mesi lo avesse sopravanzato. Al che il pero risponde. “è vero, tu sei cresciuta rapidamente, ma altrettando rapidamente morirai”. La simpatica discussione rende bene l’idea per la quale ogni esistente ha un “tempo prorprio”, segue un ritmo temporale indi47 Complexity Session - Giuseppe Gembillo viduale, e non può dunque fare affidamento su un tempo “isocrono”, uguale per tutti. singolo, ma anche nella sua essenza, nella sua Analogo discorso va fatto per lo spazio inteso, anch’esso, tradizionalmente, come un contenitore indifferente ai corpi che contiene. Con la termodinamica, invece, esso si è trasformato in ambiente con il quale qualunque esistente interagisce in maniera attiva. Così lo spazio non contiene indifferentemente oggetti, ma interagisce con entità che lo trasformano e che vengono a loro volta trasformati. Coniugando questi risultati con il secondo principio della termodinamica, Ernst Mach, a sua volta, è giunto a storicizzare la Meccanica, inserendo il tempo nel cuore della fisica classica e trasformando le teorie scientifiche da rispecchiamenti oggettivi della realtà in elaborazioni storiche dei singoli scienziati, espresse per fini economici e pratici e volti non alla conoscenza della natura, ma alla sua ma- Tutto questo impone un’ulteriore svolta a favore del disequilibrio e della diseguaglianza. Nessun esistente è identico a qualcosa di diverso da se stesso; anzi, nessuno è identico a se stesso perché cambia continuamente nel tempo; tutto ciò che è, esiste in condizioni nipolazione . lontane dall’equilibrio, che è stasi e morte . quella ondulatorio-immateriale . In questo modo subisce una radicale trasformazione non solo il reale microscopico, ma la logica stessa con la quale possiamo in qualche modo coglierlo: alla logica della non contraddizione e della reciproca esclusione degli opposti su- 6 Allora, come dicevo prima, si consolida la svolta che porterà al superamento del riduzionismo e porrà l’esigenza del nuovo approccio complesso al reale: tutto diventa storia, non solo a livello di singoli oggetti, ma a anche a livello dell’Intero. Un primo passo condapevole ed esplicito in questa direzione è quello che coinvolge tutte le specie viventi le quali da fisse ed eterne, diventano, grazie a Darwin, in continua evoluzione. Indipendentemente dalle tesi particolari da lui elaborate, il solo fatto di mettere in movimento ciò che era considerato statico ha costituito una rivoluzione radicale. Da allora ogni essere vivente rivela una sua storia particolare; ogni essere vivente si evolve non solo nella sua fenomenologia di essere 6 Cfr. I. Prigogine- I. Stengers, La nuova alleanza, cit., pp. 111 e ss. 48 7 “sostanza” . 8 Come se non bastasse, indagando l’immensamente piccolo, una serie di fisici rivoluziona l’immagine statica della natura microscopica attribuendole una doppia immagine, quella corpuscolare-materiale e 9 7 Cfr, Ch. Darwin, L’origine dell’uomo, trad. di F. Paparo, Ed. Riuniti, Roma 1983; Id., L’origine della specie, trad. di C. Balducci, Newton Compton, Roma 1981. 8 Cfr. E. Mach, La meccanica esposta nel suo sviluppo storico-critico, Boringhieri, Torino 1977 9 Cfr. A. Einstein, Opere scelte, a cura di E. Bellone, Bollati Boringhieri, Torino 1988; Id., Autobiografia scientifica, trad. di A. Gamba, Bollati Boringhieri, Torino 1979; G. Giordano, Da Einstein a Morin, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006; M. Planck, La conoscenza del mondo fisico, trad. di E. Persico e A. Gamba, Boringhieri, Torino 1993; Id. Scienza, filosofia e religione, trad. di F. Selvaggi, Fabbri, Milano 1973; L. De Broglie, Fisica e microfisica, trad. di G. Crescenzi, Einaudi, Torino 1950; Id., I quanti e la fisica moderna, trad. di U. Richard, Einaudi, Torino 1938; E. Schroedinger, L’immagine del mondo, trad. di A. Verson, Boringhieri, Torino 1987; Id., Mèmoires sur la mècanique ondulatoire, trad. fr. di A. Proca, Gabay, Paris 1988; Complexity Session - Giuseppe Gembillo bentra la logica della complementarità e della 10 giustapposizione tra visioni del reale . Ma la “storia della storicizzazione” dei vari livelli del reale non finisce qui. Nel 1912 Wegener scopre che anche il pianeta terra ha una sua storia che si è dipanata attraverso la deriva dei continenti che la compongono. A completare il quadro nel giro di qualche decennio, dal 1912 (Slipher) al 1929 (Hubble) anche l’Universo intero viene “messo in movimento” e gli astrofisici si mostrano in grado di delinearne la storia evolutiva e di certificar11 ne la continua espansione . La conclusione, a questo punto, diventa conseguente: il sistema universo è un sistema storico. Il concetto che fino a quel momento aveva contrassegnato la staticità ordinata, il concetto di “sistema”, si storicizza anch’esso. 2 . Tra Storicità e Complessità Il sistema è storico sia visto nella sua interezza, sia indagato nelle sue articolazioni interne, nelle sue “parti”. Queste ultime non appaiono più come fisse, rigide e come giustapposte l’una all’altra 10 Cfr. N. Bohr, Teoria dell’atomo e conoscenza umana, trad. di P. Gulmanelli, Boringhieri, Torino 1961; Id., Collected works, voll. 1-9, North-Holland, Amsterdam, Oxford, New York, Tokio 1972-1986; AA. VV., Niels Bohr scienziato e filosofo, a cura di G. Gembillo e G. Giordano, Siciliano, Messina 2004; W. Heisenberg, Indeterminazione e realtà, a cura di G. Gembillo e G. Gregorio, Guida, Napoli 2002; Id., Lo sfondo filosofico della fisica moderna, a cura di G. Gembillo e E. Giannetto, Sellerio, Palermo 1999; AA.VV., Werner Heisenberg scienziato e filosofo, acura di G. Gembillo e C. Altavilla, Siciliano, Messina 2002. 11 Cfr. AA.VV., La natura dell’universo fisico, a cura di D. Huff e O. Prewett, trad. di P. Radicati, Boringhieri, Torino 1981; W. Bonnor, Universo in espansione, trad. di F. Bedarida, Boringhieri, Torino 1967. e dunque facilmente sostituibili. Ognuna di esse, interagendo con le altre, subisce trasformazioni più o meno sensibili e, soprattutto, contribuisce a creare novità, o, come meglio si dice, “emergenze”. Per esempio, due gas infiammabili, l’idrogeno e l’ossigeno, unendosi secondo il noto rapporto, fanno emergere un nuovo prodotto che acquisisce la caratteristica dell’effetto bagnato, che serve a spegnere tutto ciò che è infiammabile. Così, il “tutto” rappresentato dall’acqua acquista caratteristiche completamente diverse rispetto a quelle che posseggono i suoi componenti, le singole parti. Il sistema costituito non è, come prima si diceva, ordinato, ma è “organizzato”; anzi, è autorganizzato. Esso è più della somma delle sue parti, perché, come s’è visto, le parti che lo compongono creano novità e aggiungono qualcosa in più rispetto a ciò che mostravano di possedere singolarmente prese. C’è da aggiungere, però, che esso, come tutto organizzato, è anche meno della somma delle sue parti perché esse, intrappolate in un determinato intero, sviluppano solo le potenzialità funzionali alla costituizione di detto intero, mentre latentizzano e bloccano tutte le al12 tre . Comunque, le parti ineragenti si modificano ed evolvono organizzandosi. Per ovvia estensione anche l’intero organizzato si sviluppa storicamente crescendo su se stesso. Esso attraversa un percorso che dalla genesi 12 Cfr. E. Morin, Il metodo. 1. La natura della natura, cit.; E. Morin e altri, La metafora del circolo nella filosofia del novecento, Siciliano, Messina 2002; A. Anselmo, Edgar Morin dalla sociologia all’epistemologia, Guida, Napoli 2006. 49 Complexity Session - Giuseppe Gembillo lo porta al massimo del suo sviluppo e quindi alla dissoluzione, alla dissipazione. In questo modo anche il tradizionale rapporto tra ordine e disordine non appare di reciproca esclusione ma è segnato da una linea di demarcazione che determina il passaggio dall’uno all’altro con alternanza temporale. L’alternanza è prodotta dal fatto che ogni organismo è caratterizzato da un continuo scambio con ciò che costistuisce l’ambiente esterno rispetto a se stesso, dal suo metabolismo. Grazie ad esso l’organismo mantiene la propria organizzazione, restando in omeostasi, in una condizione di equilibrio mobile, sufficiente a garantirgli la sussistenza. Ma il metabolismo conduce ogni organismo verso un degrado irreversibile; lo sforzo per mantenere l’omeostasi paga il prezzo di uno spreco di energia sia dell’organismo che dell’ambiente circostante. Quando l’organismo supera il limite del proprio “calore” consentito, si dissipa. Dunque il calore crea e distrugge; in ogni caso esso è l’energia che 13 consente la vita . A queste considerazioni si deve aggiungere che ogni organismo, anche quello non vivente, è formato da parti o organismi più piccoli. In questo senso tutti gli esistenti sono ipercomplessi. Essi si sviluppano organizzandosi e associandosi e, da qui, autosviluppandosi, come avviene in tutte le forme di associazione, dalla società civile, alle leggi etc. Da tutto ciò si deduce che tutti gli oggetti, essendo, come detto, strutture dissipative che durano un certo tempo, non sono più “oggetti” immodificabili, ma eventi. 13 Cfr. E. Morin, Il metodo 2. La vita della vita, cit. 50 Gli eventi vengono generati a partire da interazioni caotiche che si autoorganizzano in sistemi storico-organici. In strutture che durano per un certo tempo e poi tornano a scoparire nel caos, per formare materia per una nuova organizzazione. Se è così, il passaggio dal caos al cosmo, all’ordine, non è avvenuto una volta per tutte, nella notte dei tempi, ma si ripete continuamente a livello di singoli eventi che non emergono per causa esterna, per causa efficiente, ma per cause interne, per spinte prodotte dalle interazioni tra le varie parti che entrano in contatto e che finiranno per formare un “nuovo intero”, un nuovo e14 vento organizzato . Ma se tutto è frutto di organizzazione, è ovvio che cercare il semplice nella Natura è inutile. Il semplice non ha esistenza e consistenza reale “oggettiva” esso è, come ha rilevato tra gli altri Gaston Bachelard, frutto del nostro operare, per cui, non esiste il semplice ma il “semplificato” dall’uomo. Allora tutto ciò che abbiamo creduto di individuare come entità semplice nella Natura non è altro che il risultato di una nostra opera di divisione e di astrazione da un contesto. Siamo noi che separiamo e isoliamo ciò che “per natura” è, sempre e a tutti i livelli, concreto, articolato e organizzato. Alla luce di tutto ciò entra definitivamente in crisi uno dei concetti più antichi e più rassicuranti: il concetto di sostanza, che garantiva la stabilità, la certezza e l’eternità degli esistenti. Con esso entra in crisi il princi14 Cfr. I. Prigogine – G. Nicolis, Le strutture dissipative. Auto-organizzazione dei sistemi termodinamici in nonequilibrio, trad. di A. Tripiciano, Sansoni, Firenze 1982; G. Nicolis – I. Prigogine, La complessità. Esplorazioni nei nuovi campi della scienza, trad. di M. Andreatta e di M. S. De Francesco, Einaudi, Torino 1991. Complexity Session - Giuseppe Gembillo pio di identità che imponeva che ogni cosa debba essere sempre identica a se stessa. Ci si rende conto che ogni esistente, pur mantenendo una sua fisionomia particolare, cresce su se stesso, “diviene altro da sé”, si trasforma in funzione delle interazioni con l’esterno e delle sollecitazioni che riceve dall’ambiente circostante; assume una fisionomia particolare in funzione di pluridentità che si intrecciano e si fecondano a vicenda nello stesso soggetto: l’identità di genere, quella religiosa, quella linguistica, quella politica, quella “globalmente” terrestre, e così via. Tutto questo interagire, allargato a livello planetario e all’Universo intero spinge a riconoscere che ogni cosa se è vero che è rivolta verso l’unità è anche orientata verso la diversità è, cioè, universa e pluriversa nello stesso tempo. Alla rivoluzione ontologica segue anche quella logica. Ci si rende conto che aveva ragione Aristotele e non i suoi seguaci “infedeli”: la logica della non contraddizione è uno strumento per comunicare in maniera non ambigua ma non rappresenta la via per conoscere e rispecchiare la realtà. Quest’ultima non risponde alla logica dell’ aut aut, ma a più logiche: a quella della contraddizione, a quella della complementarità, a quella sfumata, a quella circolare, e così via. In questo modo dall’illusione di poter applicare la logica dell’escusione al Reale si passa alla convinzione che alla comprensione di esso ci si deve approssimare con la stessa varietà di modi che esso stesso presenta Dunque, un mondo complesso richiede metodi, logiche e approcci 15 complessi e plurali . 15 Cfr. G. Gembillo, Le polilogiche della complessità, cit. La cosa più spoprendente è che comincia a cambiare anche il linguaggio formale della fisica: agli oggetti non ci si rivolge più con “gli occhi della mente”, cioè con l’intelletto, ma con gli occhi corporali: dal 1967 Benoit Mandelbrot ci invita a guardare il libro della natura non nella sua essenza nascosta, che si pretende strutturata secondo la geometria euclidea, ma secondo “ciò che effettivamente ci appare”. Ci invita a esaminare sia con gli occhi che con l’intelletto la forma delle coste terrestri, quella delle nubi, quella degli alberi, quella del cavolfiore, cioè quella degli oggetti reali, prima che essi vengano formalizzati e 16 “rettificati” dalla geometria tradizionale. Insomma, anche in matematica irrompre l’approccio complesso. Allora, le ragioni della complessità, anche alla luce delle mie rapide e generiche considerazioni, si rivelano davvero legittime. Il problema a questo punto diventa quello di “regolare” i rapporti tra il vecchio metodo e il nuovo e di individuare i reciproci ambiti di competenza. Ma, la necessità di utilizzare l’approccio complesso appare riconosciuta una volta per tutte. Il “perché” riguardo la Complessità appare giustificato e in qualche modo legittimato. 16 Cfr. B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali. Forma caso e dimensione, trad. di R. Pignoni, Einaudi, Torino 1987; Id., How is Long the Coast of Britain?, a cura di G. Gembillo, Siciliano, Messina 2007; Id., La geometria della natura. Sulla teoria dei frattali, a cura di A. Giordano e altri, Theoria, Roma-Napoli 1989; Id., Nel mondo dei frattali, s.i.trad., Di Renzo, Roma 2002; G. Gembillo, Mandelbrot, la geometria frattale e la sua estensione, “Complessità”, 2, 2006. 51 Complexity Session - Gabriele Piana BUDDISMO, SCIENZA E INTERDIPENDENZA Gabriele Piana Gabriele Piana (video) L'argomento 'buddismo, scienza e interdipendenza' è estremamente vasto, per lo meno dal punto di vista della storia delle idee. Quanto vorrei innanzi tutto fare è allora delimitare il quadro del mio intervento, accennando molto rapidamente comunque -e per altro a tale scopo- all'ampio scenario storico. Il discorso su buddismo e scienza è iniziato a partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo: è iniziato con il tentativo da parte buddista di difendersi dagli attacchi dei missionari cristiani e dei secolaristi moderni e spesso ha avuto un intento apologetico. In una prima fase il buddismo in questione è stato il buddismo theravada dello Sri Lanka e del sudest asiatico, poi in una fase successiva il buddismo esoterico della Teosofia e il buddismo etico degli orientalisti, poi, nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, il buddismo zen (specialmente quello propugnato da Suzuki), e Gabriele Piana, monaco buddista, Istituto Lama Tzong Khapa 52 infine, negli ultimi tre decenni il buddismo tibetano. Nel discorso su buddismo e scienza occorre dunque tenere pure conto del fatto che sono in gioco vari buddismi. Anche la scienza con cui questi diversi buddismi si sono confrontati ha per altro assunto fisionomie e significati diversi.1 Il rapporto storico tra buddismo e scienza può poi essere anche indicato ricorrendo a diversi modelli, in particolare tre: conflitto/ambivalenza (piuttosto raro), compatibilità/identità (tra i vari motivi di compatibilità indicati da diversi autori, a volte in una prospettiva di contrapposizione alle altre religioni, l'assenza di dogmi, il riferimento alla legge di causa ed effetto, il fare a meno di Dio e dell'anima) e complementarità (in quest'ultimo caso si sottolineano somiglianze di metodo e differenze nell'oggetto di studio oppure 1 Per quanto riguarda la ricostruzione storica del rapporto tra i diversi buddismi e la scienza si vedano le dettagliate analisi di Donald S. Lopez Jr., Buddhismo e scienza. Storia di un amore, Ubaldini, Roma 2010. Complexity Session - Gabriele Piana differenze metodologiche e somiglianze di contenuto).2 Si può cominciare col ricordare l'interesse costante e profondo del quattordicesimo Dalai Lama per la scienza. Fin da bambino, in un ambiente in cui non era previsto un curriculum di studi scientifici di matematica, fisica, chimica, biologia, ecc., egli si è interessato al funzionamento di diversi oggetti meccanici (un telescopio, un orologio, alcuni proiettori e alcune automobili) appartenuti al precedente Dalai Lama. Più tardi, egli ha avuto modo di recuperare pienamente la mancata educazione scientifica attraverso un approfondito scambio intellettuale con due personaggi del calibro di Carl von Weizsäcker (fisico e filosofo tedesco che è stato negli anni trenta del novecento l'assistente di Werner Heisenberg) e David Bohm. Nel 1987 ha avuto luogo il primo incontro di Mind and Life (istituto fondato dal noto neurobiologo cileno Francisco Varela e dall'uomo d'affari americano Adam Engle) tra il Dalai Lama e diversi scienziati su temi provenienti dalle scienze cognitive. A proposito dell'importanza dell'incontro con il buddismo per la scienza moderna, Varela ha scritto: “Il naturale terreno d'incontro tra la scienza e il buddismo è […] una delle frontiere più attive della ricerca odierna. Si tratta di imparare a unire i dati provenienti dall'esame interiore dell'esperienza umana con la base empirica che la moderna neuroscienza cognitiva e affettiva può fornire. Questi resoconti in prima persona non sono soltanto una 'conferma' di ciò che la scienza può comunque scoprire. Sono un complemento necessario. Per esempio, a meno che negli attuali esperimenti che si servono di 'brain imaging' per studiare i sostrati neuronali delle emozioni o dell'attenzione non si tenga conto di raffinate descrizioni interiori, i dati empirici non possono essere adeguatamente interpretati. […] Benché le scienze della vita e quelle cognitive siano il luogo in cui il buddismo può intimamente toccare la scienza a un livello di ricerca dettagliata, esso può anche avere una grande importanza a un livello più fondamentale o epistemologico. […] La fisica moderna è forse il luogo in cui questo secondo terreno d'incontro è maggiormente visibile”.3 A questo primo incontro di Mind and Life sono in effetti seguiti numerosi altri 2 José Ignacio Cabezon, Buddhism and science: on the nature of the dialogue, in AA. VV., Buddhism and science. Breaking new ground, a cura di A. Wallace, Columbia University Press, New York 2003, pp. 35-68. 3F. J. Varela, The importance of the encounter with Buddhism for moderne science, www.mindandlife.org/about/hhdl-mli/buddhism-andmodern-science/. Ora, quanto intendo prendere in considerazione è il rapporto tra buddismo tibetano e scienza, così come si è delineato nella riflessione del maggiore e più noto rappresentante attuale di tale buddismo, il quattordicesimo Dalai Lama (il quale aderisce al modello della complementarità), e in una serie di incontri tra il Dalai Lama e vari importanti scienziati noti come incontri o dialoghi Mind and Life, dal nome dell'istituto che li organizza. Andando all'essenziale: perché è importante il rapporto tra buddismo e scienza e, più in generale, tra religioni, spiritualità e scienza? Qual è la posta in gioco di tale rapporto? Sono queste le questioni che vorrei prendere in considerazione, tenendo conto anche, implicitamente per lo meno, di alcune idee espresse da Panikkar, e in particolare soffermandomi infine sul concetto buddista d'interdipendenza. 53 Complexity Session - Gabriele Piana incontri sulle neuroscienze (1989), sulle emozioni e la salute (1990), sulla nuova fisica e la cosmologia (1997), sulle questioni epistemologiche nella fisica quantistica e nelle scienze contemplative orientali (1998), sulle emozioni distruttive (2000), sulla neuroplasticità (2004), sulle applicazioni cliniche della meditazione (2005) e sulla consapevolezza, la compassione e la cura della depressione (2007), per citarne solo alcuni. Questi incontri tra il Dalai Lama e gli scienziati hanno ormai una cadenza annuale e sono accompagnati da numerose pubblicazioni. In un libro sul rapporto tra buddismo e scienza il Dalai Lama ha scritto: “la mia fiducia nella scienza poggia sulla convinzione che sia il buddismo sia il pensiero scientifico tentino di comprendere la realtà attraverso un'analisi critica: se la ricerca scientifica dovesse dimostrare senza ombra di dubbio che alcune affermazioni del buddismo sono errate, dovremmo accettare questo fatto e abbandonarle”.4 Questa è una considerazione importante nella misura in cui mette in luce il pericolo del dogmatismo, del fanatismo, che può sempre incombere su una religione che rifiuti il confronto con le scienze, e quindi il beneficio che questa può ricavare da tale confronto. Da tale confronto possono anche nascere nuove idee, spunti e riflessioni interessanti. Come afferma il Dalai Lama qualche pagina dopo: “la spiritualità deve essere arricchita dalla consapevolezza delle scoperte scientifiche. Se ignorassimo i progressi della scienza, la nostra pratica spirituale ne soffrirebbe notevolmente e potremmo perfino diventare preda del 4 L'abbraccio del mondo. Quando scienza e spiritualità si incontrano, Sperling & Kupfer, Milano 2005, p. 3. 54 fondamentalismo”.5 Bisogna tra l'altro ricordare che l'occasione in cui il buddismo tibetano ha potuto confrontarsi con la scienza è incredibilmente recente rispetto al confronto tra cristianesimo e scienza (può facilmente venire in mente l'antica vicenda del contrasto tra Galilei e il cardinale Bellarmino e della condanna di Galilei). Non è allora un caso che il Dalai Lama si sia dato da fare perché venissero introdotti corsi sulla fisica moderna nei collegi monastici tibetani. Il beneficio che il buddhismo può quindi ricavare dal confronto con la scienza è quello di evitare il dogmatismo, il fondamentalismo, e così è il beneficio di un arricchimento conoscitivo. Questo, però, non significa ovviamente accettare tutto ciò che la scienza propone: “se la ricerca scientifica dovesse dimostrare senza ombra di dubbio”. Qui è importante ricordare un principio metodologico della tradizione filosofica del buddismo tibetano secondo cui “esiste una differenza basilare tra quello che 'non è trovato' e quello che 'è trovato non esistere'. Se cerchiamo qualcosa e non riusciamo a trovarlo non significa certo che l'oggetto della nostra ricerca non esista. Non vedere una cosa non è lo stesso che non vederne l'esistenza”.6 Esiste quindi una differenza fondamentale tra il trovare che qualcosa non esiste e il non trovare che qualcosa esiste: occorre distinguere tra ciò che è negato tramite il metodo scientifico e ciò che non è osservato tramite tale metodo. In tale prospettiva, occorre allora ricordare -è quanto fanno il Dalai Lama e anche uno studioso buddista come Alan Wallace che propone un'alleanza tra scienza e spiritualità- i 5 Ivi, p. 12. 6 Ivi, p. 35. Complexity Session - Gabriele Piana limiti del materialismo scientifico radicale, il suo potenziale nichilismo e i suoi orizzonti ristretti, la sua incapacità di rendere conto di se stesso e i suoi pregiudizi metafisici. Con tale prospettiva si possono far convergere certe critiche di Panikkar a una scienza non consapevole dei propri limiti e all'aspetto assolutamente oggettivante della scienza moderna. Da un lato vi sono dunque dei benefici per il buddismo (e più in generale direi per la spiritualità) in un confronto con le scienze (evitare dogmatismi, fondamentalismi, quindi avere nuovi spunti conoscitivi). Dall'altro, vi sono vari benefici che la scienza stessa può ricavare dall'incontro con il buddismo. Nel caso delle neuroscienze, ad esempio, il buddismo può offrire un approccio diretto, 'in prima persona', da integrare con quello 'in terza persona', per avere così un quadro completo di come funziona la mente. Il metodo 'in terza persona' (quello che ricorre alla quantificazione, alle misure oggettive), da solo, è inadeguato per spiegare la coscienza ed esso, quindi, dovrebbe essere integrato con una prospettiva 'in prima persona', ossia con l'esperienza soggettiva di colui che medita.7 Secondo il Dalai Lama la questione che allora si pone è la seguente: si può pensare a una metodologia scientifica per lo studio della coscienza dove il metodo 'in prima persona' sia integrabile con il metodo oggettivo dello studio del cervello? In questo ambito egli ritiene, insieme a diversi scienziati 7 Occorre tra l'altro ricordare che per la psicologia buddista la mente ha più livelli, grossolani (dipendenti strettamente dal fisico) e sottili (indipendenti dal fisico). La mente, nella sua natura convenzionale, è poi definita un chiaro conoscitore. La chiarezza e la conoscenza (l''apertura conoscitiva, l'esperire) sono evidentemente qualcosa che sfugge alle maglie del metodo 'in terza persona'. che partecipano appunto alle iniziative di Mind and Life, che “una stretta collaborazione tra le scienze moderne e le tradizioni contemplative, tra cui il buddismo, sarebbe di grande utilità”.8 Il Buddismo stesso del resto può essere considerato, per certi versi (è quanto fa, ad esempio, Mathieu Ricard) una scienza contemplativa, una scienza della mente.9 In che senso può essere considerato una scienza se non ricorre ai cosiddetti strumenti scientifici, ai classici strumenti di misura? Esso può essere considerato una scienza della mente nella misura in cui, ad esempio, le esperienze meditative sono in effetti verificabili, sia attraverso ripetute esperienze di una persona sia attraverso l'esperienza di altre persone. Attraverso una ripetuta esperienza meditativa si può verificare la validità di tale esperienza meditativa, che non rimane un fatto contingente: si può verificare che certe qualità (concentrazione, amore, pazienza, compassione e così via) sorgono ripetutamente e poi stabilmente nella mente, e ciò sia a livello individuale sia a livello collettivo. Occorre inoltre ricordare come diverse ricerche scientifiche abbiano non solo testato e confermato gli eccezionali effetti di diverse forme di meditazione buddista sulla riduzione dello stress, sul metabolismo e sulla resistenza a condizioni fisiche difficili, ma abbiano anche messo in risalto l'effetto delle esperienze meditative sull'addestrabilità dei processi affettivi e dell'attenzione: in tale ottica è possibile che la letteratura e la pratica 8 L'abbraccio del mondo, cit., p. 138. 9 M. Ricard e T. Xuan Thuan, Dal big bang all'illuminazione, Amrita, Torino 2008, pp. 217-236. Cfr. pure A. Wallace e B. Hodel, Embracing mind. The common ground of science and spirituality, Shambala, Boston 2008, pp. 180-201. 55 Complexity Session - Gabriele Piana dei meditanti buddisti influenzino le scienze cognitive, costringendole a rivedere alcuni dei propri modelli teorici.10 Accenniamo ora all'argomento dell'interdipendenza. Tra l'altro, il pensiero buddista dell'interdipendenza s'incontra, come è stato osservato da più parti, con diversi asserti della fisica quantistica (in particolare con diverse tesi della scuola di Copenaghen).11 Cosa significa interdipendenza per il buddismo? Nulla esiste in modo indipendente, in sé e per sé, e pensare che le cose esistano in modo indipendente (è questa l'ignoranza) è l'origine della sofferenza. Le cose sembrano essere indipendenti, ci appaiono a livello innato, in modo spontaneo, come indipendenti tra loro e rispetto a noi stessi, ma questo non è il loro modo d'essere. Si può parlare di diversi livelli di dipendenza: dipendenza da cause e condizioni, dipendenza da parti, infine -ed è questo il livello più sottile dell'interdipendenza- dipendenza da designazione mentale. Le cose, dicevamo, sembrano esistere dal loro lato, oggettivamente, ma questa è una percezione ingannevole dovuta alla nostra ignoranza. Un esempio che ricorre in diversi testi buddisti è quello della corda e del serpente. Di notte, in una stanza buia, una corda arrotolata può apparire a qualcuno come un serpente e suscitare una reazione di paura, la quale può scomparire non appena si 10 Cfr. H. Benson, L'interazione mente/corpo e gli studi tibetani, in AA. VV., La scienza della mente. Un dialogo Oriente -Occidente, Chiara Luce, Pomaia 1993, pp. 5770; cfr. AA. VV., Il Buddha in laboratorio: dialoghi fra il Dalai Lama e la scienza sulla natura della mente, Amrita, Torino 2008, pp. 254-255; cfr. A. Wallace e B. Hodel, Embracing mind, cit., pp. 164-179. 11 Cfr. Ad esempio Dalai Lama, Nuove immagini dell'universo. Dialoghi con fisici e cosmologi, Cortina, Milano 2006; W. L. Ames, Emptiness and quantum theory, in AA. VV., Buddhism and science, cit., pp. 281-304; M. Ri- 56 accenda la luce e si riconosca che si trattava solo di una designazione mentale completamente erronea. A causa del buio, un serpente sembrava esistere dal suo lato, sembrava essere proprio lì, mentre invece c'era solo una corda -come base di designazione- sulla quale era erroneamente sovrapposta l'immagine mentale del serpente. Allo stesso modo, a causa della nostra ignoranza, percepiamo la nostra identità personale e i fenomeni esteriori come esistenti dal loro lato, oggettivamente, autonomamente, indipendentemente da cause e condizioni e da designazioni mentali, e così sviluppiamo tutta una serie di afflizioni mentali, di emozioni negative, che producono a loro volta azioni negative, fonte di sofferenza. In tale prospettiva, mi considero, apprendo me stesso, come un'identità indipendente, come un io esistente intrinsecamente, e così pure considero gli altri come qualcosa d'indipendente, di separato. Inoltre, le cose che mi appaiono esistenti dal loro lato, proprio per questo loro modo d'apparirmi mi appaiono anche come assolutamente, intrinsecamente, oggettivamente piacevoli, desiderabili, oppure come assolutamente, intrinsecamente, oggettivamente spiacevoli. La mente quindi reagisce o con attaccamento rispetto al piacevole, con il non volersi separare da ciò che viene considerato intrinsecamente piacevole, o con avversione, rabbia rispetto a quanto è vissuto come intrinsecamente spiacevole. Tutto ciò produce inevitabilmente sofferenza. C'è la mia identità che è vissuta come assolutamente separata dal resto, come esistente intrinsecamente, e che è quindi qualcosa da gratificare card e T. Xuan Thuan, Dal big bang all'illuminazione, cit., in particolare pp. 57-93. Complexity Session - Gabriele Piana in modo privilegiato e pure da difendere a denti stretti, con tutto il contorno di tensione, di frustrazioni, insoddisfazioni, presunzione, risentimenti e avversioni che ciò comporta; ci sono gli altri, che sono assolutamente separati, e che si trasformano in amici o in nemici, a seconda che gratifichino o meno il nostro io; ci sono poi gli oggetti i quali, essendo considerati come esistenti dal loro lato, indipendentemente, diventano assolutamente desiderabili o assolutamente non desiderabili, dando così luogo ad attrazione o avversione e quindi alle diverse altre emozioni disturbanti, come invidia, gelosia, risentimento, paura, e così via. Se invece si comprende la natura interdipendente della realtà (la mancanza di esistenza intrinseca dell'io e dei fenomeni), tutte queste emozioni disturbanti non sorgono, e diventa significativo sviluppare amore (il desiderio che tutti gli esseri senzienti siano felici) e compassione (il desiderio che tutti gli esseri senzienti siano liberi dalle sofferenze create da tali emozioni e in primo luogo dall'ignoranza). La nostra felicità dipende dagli altri, così come la felicità degli altri dipende da noi. In tale prospettiva, diventa allora essenziale una collaborazione tra scienza e spiritualità. Non possiamo lasciare separate scienza e spiritualità. Il Dalai Lama ritiene ci sia “bisogno di una bussola morale da usare tutti insieme senza impantanarci in divisioni dottrinali. Necessitiamo dunque di una prospettiva olistica, in grado di riconoscere la natura profondamente interconnessa di tutti gli esseri viventi e del loro habitat. […] Tutto questo deve includere il riconoscimento della preziosità della vita, la comprensione del bisogno di un equilibrio in natura, […] l'uso consapevole della compassione come motivazione fondamentale per tutti i nostri comportamenti. Compassione che deve essere integrata con la capacità di vedere le conseguenze delle azioni anche nel lungo periodo. […] Dal momento che il mondo contemporaneo è profondamente interconnesso, dobbiamo rapportarci a queste sfide come se fossimo tutti membri della medesima famiglia umana piuttosto che esponenti di tante differenti specificità (nazionali, etniche, religiose). In altre parole, è indispensabile uno spirito unitario che ci faccia sentire tutti parte del genere umano”.12 Tocchiamo qui un punto fondamentale. Le differenze sono essenziali ed è essenziale tenerne conto, ma occorre impedire che tali differenze diventino identità chiuse o separate che creano solo conflitto. E' quindi fondamentale rendersi conto che siamo uguali nel voler essere felici e nel non desiderare la sofferenza, e ciò a livello di pratica meditativa tramite la quale instaurare un'autentica e calorosa empatia con gli altri. Anche gli altri vogliono essere felici e non soffrire, proprio come me, e questa constatazione va interiorizzata. In tale prospettiva, occorre prendere atto “dei limiti della conoscenza scientifica. Solo così potremo veramente apprezzare il bisogno di integrare la scienza con la totalità del sapere umano”. Anche qui si può rilevare, nonostante certe differenze, una convergenza con Panikkar.13 In caso contrario, se non si 12 L'abbraccio del mondo, cit., pp. 203-204. 13 In un'intervista che sintetizza bene la sua posizione sulla scienza, Panikkar afferma: “Non si tratta di eliminare la scienza. Non si tratta di decretare che essa è maligna e di voltarle le spalle. Bisogna al contrario operare perché sia reintegrata nell'unità del sapere -nel senso di gnôsis- e riprenda il suo posto senza pretendere quel tipo di dominio che dipende da una vera e propria invasione cancerosa, e che vorrebbe far credere che la cosa più importante dia di specializzarsi” (R. Panikkar, Tra Dio e il cosmo. Una visione non dualista del- 57 Complexity Session - Gabriele Piana riconoscono i limiti della scienza (che molti scienziati, per altro, oggi tendono ormai a riconoscere), si va inevitabilmente incontro a una visione del mondo riduzionista, materialista e nichilista. Per il Dalai Lama “si può prendere sul serio la scienza e accettarne le scoperte senza però cadere nel materialismo scientifico”. E' allora necessario coniugare la “possibilità di una visione del mondo fondata sulla scienza” e la “validità anche di altri modelli di conoscenza che non siano quelli scientifici”: “scienza e spiritualità, malgrado i differenti approcci, condividono il medesimo fine, vale a dire il miglioramento dell'umanità. […] Oggi, nei primi anni del ventunesimo secolo, scienza e spiritualità hanno la possibilità di essere più solidali che mai e di mettere in atto una fruttuosa collaborazione in grado di aiutare l'umanità a superare positivamente le sfide che l'attendono. Dovremmo essere uniti. E ognuno di noi, in quanto membro della stessa famiglia umana, dovrebbe rispondere a questo importante impegno morale e rendere possibile la collaborazione tra scienza e spiritualità”.14 Questa alleanza tra scienza e spiritualità esige quindi una riflessione e un lavoro sulla propria motivazione: “Forse il punto principale è assicurarsi che la scienza non sia mai separata da un sentimento di solidarietà nei confronti di tutti gli esseri viventi […] L'aspetto più importante del problema è la motivazione che sta alla base della scienza e della tecnologia, in cui cuore e mente dovrebbero lavorare all'unisono”.15 E' questo il punto in cui il buddismo e la spiritualità in genere la realtà. Dialogo con Gendoline jarczyk, Laterza, RomaBari 2006, pp. 214-215). 14 L'abbraccio del mondo, cit., p. 209, pp. 209-210, p. 211. 15 Ivi, pp. 9-10. 58 possono dare il contributo più importante alla scienza. Come è stato notato, non bisogna fermarsi alla constatazione dell'interdipendenza. Bisogna sforzarsi di trasformarla in una pratica di vita, bisogna cercare di introdurla nella quotidianità. Occorre quindi chiedersi in che modo si percepisce se stessi e la realtà e rendersi conto che non si percepisce naturalmente, spontaneamente, l'interdipendenza. Si tratta così di educare la mente a cogliere l'interdipendenza e a sviluppare le qualità spirituali che sono a essa collegate. Nell'ambito del buddismo tibetano si parla di lojong, di addestramento mentale (nelle tradizioni contemplative del cristianesimo, dell'ebraismo e delle altre religioni si usano termini diversi, ma la sostanza non cambia): un addestramento in cui si cerca, tramite la meditazione, di familiarizzare la mente con certe qualità. Se è vero che il buon cuore non basta e che richiede, per dare buoni risultati, intelligenza, occorre però ricordare anche i numerosi effetti negativi di un'intelligenza che non sia stabilmente e solidamente accompagnata da equanimità, amore e compassione. Complexity Session - Paolo Calabrò RAIMON PANIKKAR E LA SCIENZA MODERNA Paolo Calabrò Paolo Calabrò Studiando con continuità il pensiero di Raimon Panikkar nel corso degli ultimi dieci anni, mi sono spesso imbattuto in affermazioni sorprendenti come: “la materia è libera”, “la materia è viva”, “il pensiero modifica il pensato”. Mi sono chiesto se – e quanto, e come – tali affermazioni potessero venir conciliate con la visione del mondo tipica della scienza moderna; d’altro canto Panikkar non lasciava dubbi circa la sua posizione al riguardo: «la fisica non offre una visione del mondo, ma ne fornisce il materiale alla metafisica, così che una metafisica che ignori la fisica non sarebbe valida. La metafisica deve “ascoltare” la fisica. [...] Non c'è metafisica senza fisica»1. Nessun dubbio, dunque: l’accordo tra fisica e metafisica è necessario. Tuttavia Panikkar non spiega la compatibilità delle sue affermazioni con quelle della fisica. Da qui la domanda: e se la fisica non fosse d’accordo? Se la scienza reputasse incompatibile la metafisica cosmoteandrica di Panikkar – Paolo Calabrò, (CIRPIT) http://paolocalabro.blogspot.com R. PANIKKAR, La porta stretta della conoscenza, RCS, Milano 2005, pp. 178-182. 1 cornice di quelle affermazioni – con le proprie acquisizioni più recenti? Mi sono messo quindi sulle tracce del pensiero di quegli uomini di scienza – soprattutto del secolo scorso – che si sono interrogati circa i fondamenti filosofici della loro scienza: Heisenberg, Planck, Schrödinger, Bohr, Mach, Einstein e tanti altri. Per scoprire – con nuova sorpresa – che, rispetto alla loro stessa interpretazione della fisica, non solo la filosofia di Panikkar non è incompatibile, ma mostra addirittura una sensibilità comune, spesso un’affinità più spiccata di quell’ontologia dell’oggettività e della cosa in sé maggiormente adatta a una visione del mondo prequantistica. Ho cercato di illustrare e documentare questa compatibilità nel libro Le cose si toccano. Raimon Panikkar e le scienze moderne, in corso di pubblicazione per l’editore Diabasis (la cui uscita è prevista per aprile 2011)2. A partire dalla “reticenza” del Del quale sono stati pubblicati su queste pagine due estratti: “La cosa in sé non esiste. Critica di Raimon Panikkar a due concetti filosofici applicati alla scienza moderna” – n° 1, marzo 2010 – e “Il ruolo della soggettività nella scienza” – supplemento al n° 1, settembre 2010. 2 59 Complexity Session - Paolo Calabrò filosofo su tali questioni3 e dal fatto singolare che la letteratura secondaria sul pensiero di Panikkar ad oggi non si è occupata della tematica scientifica, preferendole l’interculturalità, la pace, la cristologia4. Credo inoltre che il collegamento che cerco di stabilire tra la scienza moderna e la filosofia di Panikkar possa liberare quest’ultima da quell’impressione di esotismo che può dare in superficie la sua originalità, nella quale rischia di arenarsi. Il pensiero occidentale, abituato da millenni alla rigida e mutuamente esclusiva alternativa tra monismo e dualismo, resta spiazzato dalla proposta cosmoteandrica (nonostante il confronto serrato che Panikkar tiene con la filosofia occidentale): così il rischio è che essa venga presa come una sospetta commistione di teologia cristiana e filosofia indiana, e Panikkar come un erudito dai modi orientaleggianti e dalle parole inclini al mistico, che rifiuta la scienza e avversa la tecnologia. È necessario andare oltre questa scorza e scoprire che alcune delle convinzioni più radicate nell’immagine ingenua che la scienza e la tecnologia offrono di sé nella percezione dei non specialisti (come ad esempio la presunta universalità della scienza) non sono né evidenti né scontate5. Senza Pur essendosi occupato di “fare scienza” per parecchi anni (com’egli stesso racconta nella conferenza “Ambiguità della scienza”), PANIKKAR ha dedicato alla scienza moderna – oltre alla citata conferenza e agli interventi più o meno ampi disseminati in quasi tutti i suoi libri – solo i testi Pensare la scienza, l’Altrapagina, Città di Castello (PG) 2004 (che tra l’altro è un testo a più voci) e ID., La porta stretta della conoscenza, cit. L’Opera Omnia prevede un unico volume (in preparazione) dedicato – parzialmente – al tema della scienza. 4 Fa eccezione l’ottimo testo di introduzione alla filosofia di Panikkar di A. ROSSI, Pluralismo e armonia, l’Altrapagina, Città di Castello (PG). 5 Ai fini di una maggiore chiarezza all’interno del singolo contesto, ho utilizzato talvolta il termine 3 alcuna pretesa di fondare scientificamente la filosofia di Panikkar, né tanto meno di giustificarla in tal senso (ciò che il filosofo per primo non ha mai inteso fare); semplicemente cercando di rintracciare la consonanza tra l’immagine del mondo offerta dalla sua filosofia e quella offerta dalle scienze occidentali moderne. Lungo questo percorso, ho dato ampio spazio al pensiero degli uomini di scienza, limitando al massimo l’apporto dei filosofi della scienza. E questo non perché si possa dire che «i maggiori filosofi del ’900 sono stati Einstein e Dirac»6 (che è un’esagerazione; anche se è vero che a volte «le migliori analisi filosofiche di un concetto o di un problema scientifico provengono proprio da 7 scienziati» ); bensì perché ho preferito dare un peso maggiore alla filosofia della scienza nel senso del genitivo soggettivo, anziché oggettivo. Nessun disconoscimento del ruolo e del peso della filosofia della scienza; piuttosto, la scelta fatta mi è sembrata adeguata allo scopo, che non è calare il pensiero di Panikkar all’interno del dibattito filosofico contemporaneo (della filosofia della scienza, in particolare), ma mostrare che esso è tutt’altro che incompatibile con il pensiero scientifico. Null’altro dunque che il tentativo di mostrare il sostanziale accordo tra la “scienza”, talvolta il termine “fisica”. Sperando di essere riuscito ad evitare ogni confusione, sottolineo che le conclusioni possono essere applicate (salvo ove diversamente specificato) all’una come all’altra. 6 Come sostiene E. BELLONE, introduzione a M. PLANCK, La conoscenza del mondo fisico, Bollati Boringhieri, Torino 1993 [ed. orig. Vorträge und Erinnerungen, 5 Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1949 ], p. 4. 7 M. DORATO, Cosa c’entra l’anima con gli atomi?, Introduzione alla filosofia della scienza, Laterza, RomaBari 2007, p. 14. 60 Complexity Session - Paolo Calabrò posizione di Panikkar e quella della scienza moderna su argomenti comunemente ritenuti ovvi e pertanto indiscutibili al pari di tabù: l’oggettività e l’universalità della scienza, l’esistenza della cosa in sé e della materia “inanimata”. Lo sforzo è stato quello di evidenziare come certe convinzioni si radichino in una visione scientifica prequantistica8, che la fisica ha già da tempo superato ma alla quale la percezione comune è rimasta ancorata. Non tanto dunque una “dimostrazione” dell’accordo tra la filosofia di Panikkar e la scienza moderna9; piuttosto, la presentazione del fatto che esiste un’ampia fascia della scienza moderna (intendo: di scienziati, soprattutto fisici) che non troverebbe né scandalosa né inverosimile la concezione metafisica di Panikkar alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, e che anzi la riterrebbe molto più adeguata ad esse di una metafisica fondata sul postulato della “cosa in sé”, che per una disciplina così fortemente basata sulla sperimentazione Spesso ancora precedente, facente capo a Newton e a Laplace. 9 Va da sé che non esiste una opinione ufficiale della fisica moderna, né tanto meno la scienza può venir considerata come un monolite dall’opinione compatta e recisa. All’interno del mondo scientifico (ma, scendendo man mano, all’interno della fisica e della stessa meccanica quantistica) coesistono le posizioni più disparate e le opinioni più distanti, talora perfino opposte. Cfr. ad es. A. TONTINI, “La formula chimica di struttura: un problema per l’epistemologia popperiana?”, «Isonomia», settembre 2008, visibile all’indirizzo internet 8 http://www.uniurb.it/Filosofia/isonomia/2008tontini.p df (pagina visitata il 29 luglio 2009), p. 2: «chi si propone di indagare con i mezzi della filosofia la struttura e il significato della scienza dovrebbe innanzitutto, a mio avviso, tenere in considerazione la diversità delle dimensioni, della struttura e del comportamento degli oggetti di studio di questa e, conseguentemente, dei linguaggi usati per descrivere tali oggetti. Siamo capaci di indicare in maniera schematica il significato di termini come “botanica”, “immunologia”, “teoria della relatività”, eccetera. Rispondere alla domanda: “che cos’è la scienza?” è molto più arduo». rimane una terribile spina nel fianco. Sulla libertà della materia Di seguito riporto lo studio in tal senso – tratto dal libro citato – dell’affermazione di Panikkar per cui “la materia è libera”10: la realtà è costante novità. [...] La natura è meno bizzarra dell'uomo, ma supporre che essa sia solo “materia” inerte che segue leggi deterministiche è un'ipotesi infondata. Anche la materia ha i suoi gradi di libertà11. Dire che la materia è libera può far subito pensare ad una pietra che, d’improvviso, si metta a levitare nel cielo. Siamo abituati a considerare la materia come qualcosa di inanimato, immobile, che se ne sta lì fermo “fino a che non intervenga una forza” (per dirla con il primo principio della dinamica). Panikkar ha spesso sottolineato che la libertà della materia non è la stessa libertà dell’uomo. La materia e l’uomo però, in quanto inseriti nella stessa realtà cosmoteandrica, partecipano entrambi della stessa dimensione di libertà. Il discorso di Panikkar è qualitativo, non quantitativo; in questo senso gli è sufficiente affermare che la materia abbia “un certo” margine di libertà. Egli non pretende di stabilire un margine maggiore di quello che la fisica (quantistica, in particolare) riconosce alla materia. È vero che di rado gli uomini di scienza si esprimono utilizzando la parola “libertà” a proposito della materia, anche se non mancano singole suggestioni, quali ad Le considerazioni che seguono sono state da me succintamente esposte il 2 dicembre 2010 nel corso del I Colloquium CIRPIT, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. 11 R. PANIKKAR, La porta stretta della conoscenza, cit., p. 148. 10 61 Complexity Session - Paolo Calabrò esempio quella di Prigogine, che parla di «creatività della natura»12 o di Feynman, che a sua volta parla di «immaginazione della natura»13, di Laughlin, per il quale la materia può avere «opinioni proprie», oltre alla «capacità di fare delle scelte»14, o di Charpak e Omnés: la libertà, o la moltitudine dei possibili che ne rappresentano la forma radicale, è dunque profondamente inserita nel cuore stesso della meccanica quantistica e delle sue leggi. Dietro al caso assoluto c’è la libertà totale»15. Tuttavia il termine “libertà” non è inadeguato alla situazione, ad esempio, del classico esperimento quantistico delle due fenditure16, dove non è possibile prevedere da che parte andrà la singola particella, né stabilire la causa che l’ha indotta a scegliere un passaggio piuttosto che l’altro. (Ciò non significa che le particelle si comportino in maniera arbitraria: statisticamente esse tenderanno sempre a distribuirsi in maniera omogenea, al 50%)17. I. PRIGOGINE, Le leggi del caos, Laterza, Roma-Bari 2003 (ciclo di lezioni svolto all’Università Statale di Milano, presso la cattedra di filosofia della scienza del prof. Giulio Giorello, nei giorni 12, 13 e 14 febbraio 1992), p. 85. 13 R. P. FEYNMAN, Il senso delle cose, Adelphi, Milano 4 2004 [ed. orig. The Meaning of It All, Michelle Feynman e Carl Feynman, 1998], p. 20. 14 R. LAUGHLIN, Un universo diverso. Reinventare la fisica da cima a fondo, Codice, Torino 2005 [ed. orig. A Different Universe. Reinventing Physics from the Bottom Down, Basic Books, 2005], p. 53. 15 G. CHARPAK-R. OMNÉS, Siate saggi, diventate profeti, Codice, Torino 2004 [ed. orig. Soyez savants, devenez prophétes, Odile Jacob, Paris 2004], p. 81. Che alla stessa pagina rincarano, con tanto di punto esclamativo: «la materia è libera!». 16 Cfr. ad es. R. FEYNMAN, Sei pezzi facili, Adelphi, Milano, 2000 [ed. orig. Six easy pieces, California Institute of Technology, 1963], pp. 173 ss. 17 Si presti attenzione al fatto che in fisica il determinismo, la causalità e la predicibilità sono tre concetti distinti. Per questa distinzione cfr. F. LAUDISA, 12 In definitiva, quella che a tutta prima può sembrare un’affermazione discutibile (o provocatoria, se non addirittura inconcepibile) da parte di Panikkar, circa la libertà della materia (che i profani concepiscono ancora à la Laplace, secondo un meccanicismo che la fisica ha abbandonato da più di un secolo), si rivela perfettamente compatibile con l’attuale assetto della fisica. Il tutto è maggiore della somma delle parti Un discorso simile può esser fatto per un’altra affermazione di Panikkar (e per tante altre): «il tutto non è la somma delle parti»18. Panikkar sostiene l’impossibilità di applicare alla realtà il metodo cartesiano di scomporre i problemi complessi in sottoproblemi più facili da risolvere, onde ricomporre l’intero successivamente, con l’intento di ottenere la soluzione complessiva come somma delle soluzioni parziali: «l’integrale delle conoscenze parziali non è la realtà. La realtà non è uguale alla somma delle sue parti»19. In fisica le opinioni al riguardo sono contrastanti e vedono i riduzionisti (cartesiani, per i quali ogni cosa può essere spiegata a partire dalle sue parti, e al limite ogni sistema macroscopico può essere descritto a partire dal livello di descrizione più basso, quello “La causalita in fisica”, in M. DORATO, V. ALLORI, F. LAUDISA, N. ZANGHÌ, La natura delle cose. Introduzione ai fondamenti e alla filosofia della fisica, Carocci, 2005, pp. 395-428. 18 La pienezza dell’uomo. Una cristofania, Jaca Book, 2 Milano 2000 , p. 38. 19 «L'intégrale des connaissances partielles n'est pas la réalité. La réalité n'est pas la somme de ses parties»: R. PANIKKAR, “Deux personnages en quête de hauteur”, dialogo con Jordi Savall, visibile in internet all’indirizzo http://classique.abeillemusique.com/dossiers/clasav.ph p?nomdossier=clasav&rg=5 (pagina visitata il 21 gennaio 2011). 62 Complexity Session - Paolo Calabrò quantistico) opporsi agli emergentisti (per i quali ogni livello superiore di descrizione contiene caratteristiche emergenti solo a quel livello irriducibili ad altre contenute nei livelli inferiori). Gli emergentisti sembrano avere dalla loro l’evidenza: essi sfidano i riduzionisti a effettuare previsioni su sistemi macroscopici basandosi sulla meccanica quantistica (ciò che è impossibile: anche il più elementare sistema macroscopico è composto da miliardi di particelle in interazione mutua). Per essi «le strutture emergenti non sono aggregati, cioè non sono risultati prevedibili della “somma” delle proprietà delle parti»20. I riduzionisti, per contro, sembrano avere dalla loro il buon senso: se ogni sistema macroscopico è composto da particelle, è impossibile che il funzionamento dell’intero sistema non vada ricondotto a quello delle particelle che lo compongono; la meccanica quantistica potrà essere incompleta (come lo è ogni teoria fisica, perennemente in itinere), ma in nessun caso potrà esserci un “di più” che non sia presente in tutti i livelli di descrizione. Per loro, l’impossibilità di effettuare previsioni su sistemi macroscopici a partire dal livello quantistico è soltanto un limite tecnico, non di principio. Panikkar non entra nel merito di questa disputa: la sua è una critica del metodo cartesiano, volta al recupero di una visione integrale della realtà. Ma sono molti i fisici (tra cui spiccano diversi premi Nobel, come Laughlin e Prigogine), convinti che oggi la visione cartesiana della realtà non sia più sostenibile (e non solo per il fenomeno G. CASINI, “Spiegare la complessità”, in «Humana.Mente», Anno I, vol. 1, pp. 13-23, visibile in internet all’indirizzo 20 http://www.humanamente.eu/PDF/giovanni.casini_pap er2_numero1.pdf (pagina visitata il 21 gennaio 2011), p. 15. dell’entanglement quantistico, cui si è già accennato). Per Margenau nessuna delle descrizioni parziali fornite dalla fisica (e le descrizioni della fisica sono tutte parziali, in quanto fondate sull’isolamento di una parte dal resto al fine di studiarla) può aspirare all’onnicomprensività. Egli porta come esempio il principio di esclusione di Pauli, il quale – se ci si fosse limitati a studiare, per quanto esaustivamente, il comportamento delle particelle singole – non avrebbe mai potuto essere previsto; anzi: «dal punto di vista del problema del corpo singolo il principio non ha significato, e non avrebbe mai potuto essere previsto»21. Ed aggiunge che, a livelli di astrazione diversi, «i nuovi osservabili potrebbero essere privi di significato, inutili o superflui per l’universo fisico, dal quale non possiamo vederli»22. Sugli scogli della meccanica quantistica naufraga quindi, secondo alcuni, la concezione cartesiana della realtà; così per il citato Nobel Robert Laughlin, «la scienza fisica ci dice che considerare l’intero essere come qualcosa di più della somma delle sue parti non è soltanto una teoria ma un fenomeno fisico»23, per D’Espagnat, essa la confuta addirittura: H. MARGENAU, Dio, la scienza, la filosofia. L’incontro fra l’Oriente e l’Occidente, Armando, Roma 1987-2001 [ed. orig. The miracle of existence, Ox Bow Press, 1984], p. 26. 22 Ivi, p. 46. Nel corso del I Colloquium CIRPIT il prof. Gembillo, dell’Università di Messina, ha riportato un celebre esempio, ancora più lampante, quello dell’idrogeno e dell’ossigeno. I quali elementi chimici possiedono ciascuno la proprietà di essere infiammabili (e altamente); messi insieme, tuttavia, essi danno luogo all’acqua, elemento nuovo che ha la qualità non solo di non essere infiammabile, ma addirittura di spegnere il fuoco. Esito che in nessun modo è possibile dedurre dallo studio isolato del singolo elemento. 23 Un universo diverso, cit., p. XV. 21 63 Complexity Session - Paolo Calabrò [la fisica quantistica] confuta una concezione del mondo che ha funzionato per secoli come orientamento generale per gli scienziati. Ci riferiamo alla concezione secondo cui un sistema fisico esteso può – e dovrebbe – essere sempre analizzato nelle sue parti. [...] Più in particolare, si può dire che la regola di ispirazione cartesiana, secondo cui un sistema fisico esteso può, e dovrebbe, essere diviso dal pensiero in elementi più o meno localizzati (connessi da forze) è una delle regole implicite ma 24 fondamentali dell’intera fisica classica . Ma la meccanica quantistica non è l’unico duro colpo inferto al metodo. La teoria del caos ha mostrato che esistono problemi non scomponibili in sottoproblemi semplici (la cui interazione semplice sarebbe la causa dell’apparente complessità del sistema di partenza), la cui complessità è un frutto genuino del comportamento dinamico intrinseco del sistema. Come ha spiegato con grande chiarezza Prigogine, il fatto che taluni sistemi possano divenire caotici non è una novità: l’esempio classico è rappresentato dalla transizione tra moto laminare e turbolento. Ma un liquido è un sistema complesso che corrisponde a un’enorme popolazione di particelle in interazione. Si tratta di un sistema talmente complesso che non possiamo sperare di descrivere in termini di traiettorie individuali. Quindi i fisici potevano pensare di dover procedere per approssimazioni e ancora una volta il caos e l’irreversibilità potevano risultare da queste. Ma la Così B. D’ESPAGNAT, Veiled Reality, An Analysis of Present-day Quantum Mechanical Concepts, Reading Mass, Addison-Wesley, 1995, p. 111 (citato in F. LAUDISA, Le correlazioni pericolose. Tra storia e filosofia della fisica contemporanea, Il Poligrafo, Padova 1998, pp. 105-106). 24 novità è che attualmente disponiamo di sistemi caotici molto semplici e di conseguenza non possiamo più nasconderci dietro lo schermo della complessità. L’instabilità e l’irreversibilità diventano parte integrante della descrizione già a livello fondamentale25. Conclusioni Il confronto tra la filosofia di Panikkar e la scienza moderna mette in luce che non è necessario essere dei mistici o degli amanti del pensiero orientale per vedere la realtà come un tutto. Il battito d’ali di una farfalla può davvero, sul piano fisico come su quello filosofico, provocare un tornado dall’altra parte del mondo. A volte si dipinge la scienza come ottusa e ripiegata su se stessa (abusando del motto heideggeriano per il quale “la scienza non pensa”); similmente, si percepisce la filosofia di Panikkar come una mistica orientaleggiante e new age. A ben vedere, tuttavia, i due saperi convergono su molte cose. Considerazione non secondaria: se è vero – come Panikkar sostiene – che oggi nessuna cultura, nessun sapere, nessuna civiltà può ritenersi autosufficiente al punto da possedere le soluzioni ai problemi globali (in primo luogo quello ambientale). Nel nostro mondo “globalizzato”, in cui la relazione di ognuno con tutti gli altri è ormai esperienza quotidiana, c’è bisogno del contributo di tutti. Poter affermare che la filosofia di Panikkar è effettivamente in grado di tenere insieme diversi frammenti (secondo quello che è stato da sempre l’orientamento fondamentale del pensatore catalano: colligite fragmenta), è motivo di speranza. 25 I. PRIGOGINE, Le leggi del caos, cit., pp. 28-29. 64 Complexity Session - Alessandro Calabrese LA FILOSOFIA TEORETICA TRA INTERCULTURALITA’ E COMPLESSITA’ NEL PENSIERO DI RAIMON PANIKKAR Alessandro Calabrese Alessandro Calabrese Vorrei proporre alcune riflessioni che mirano a indicare una forma di convergenza fra l’approccio interculturale alla filosofia e la prospettiva teoretica della complessità. In altri termini, vorrei parlare del modo in cui la maniera di fare filosofia secondo un’apertura interculturale contribuisca a chiarire i problemi che caratterizzano la prospettiva della complessità e ad evidenziarne l’importanza nel momento in cui ci si pone a ragionare sul reale e sull’uomo. Soprattutto allo scopo generale di comprendere quali siano le possibilità e i limiti cui andiamo incontro nel lavoro di interpretazione, descrizione, chiarificazione della realtà. Queste brevi riflessioni prendono le mosse da una frase contenuta nella premessa dell’opera che Raimon Panikkar ha dedicato allo studio del buddhismo: in italiano, Il silenzio del Buddha1. Quest’opera è estremamente importante perché cerca di ragionare a partire dalle questioni di natura 1 R. Panikkar, El silencio de Dios. Un mensaje del Buddha al mundo actual (1970), trad. it., Il silenzio del Buddha. Un a-teismo religioso, Milano, Mondadori, 2006, p. 8. intrinsecamente filosofiche che si agitano nell’insegnamento buddhista. Inoltre ragionando su simili questioni essa interroga sulle stesse l’uomo contemporaneo. In altre parole, la riflessione su problemi filosofici tradizionali secondo la maniera del buddhismo induce a porre in discussione il modo occidentale di fare filosofia, significa ampliare l’orizzonte al quale attingere per offrire un’interpretazione a tutti quei problemi. La frase in questione è la seguente: «pretendo solo di far posto all’incommensurabilità, dato che non vedo la necessità di misurare tutto». Un simile enunciato ha quantomeno la dote di essere a un tempo sintetico, chiaro e soprattutto evocativo di un intero mondo filosofico, di una maniera di intendere la filosofia e il suo compito nei confronti della realtà. Inoltre, contiene quel velo di ironia che nelle saggezze tradizionali spesso accompagna l’intuizione della vera Alessandro Calabrese, CIRPIT 65 Complexity Session - Alessandro Calabrese essenza, della natura delle cose. Inoltre, il suo interrogarsi sull’essenza è declinato in una chiave interculturale e sotto la provocazione dei problemi posti dalla prospettiva della complessità. Quali sono le caratteristiche di questo modo di fare filosofia? In primo luogo esso ci presenta una ragione ‘disarmata’. Un approccio teoretico che non punta alla vittoria, ma che si scopre aperto e trasformabile per via della sua naturale apertura. Non trova in tale apertura l’indicatore della sua sconfitta, ma la cifra delle sue possibilità di comprendere il reale. Nell’apertura, infatti, tale approccio esercita l’ermeneutica della realtà, l’integrazione fra i punti di vista: conoscere e comprendere per interpretare e costruire un orizzonte di senso, piuttosto che spiegare per oggettivare e possedere. In secondo luogo, di fronte alla complessità del reale il discorso filosofico indicato dall’espressione di Panikkar pone in evidenza la non necessarietà assoluta della scelta. Il pensiero procede attraverso l’ascolto e il confronto, l’incontro e la trasformazione reciproca dei punti di vista, piuttosto che attraverso la scelta e l’esclusione di un punto di vista rispetto ad un altro, secondo una chiave di lettura strettamente dialettica. Non è un caso che Panikkar, a tal proposito, si rivolge all’esempio meno dialettico e paradigmatico: il Buddha e il suo silenzio di fronte alle domande riguardanti le questioni capitali sull’essere dell’uomo e del mondo2. Posto di fronte all’enunciazione di 2 Panikkar affronta la questione in sede di analisi ermeneutica di alcuni testi della tradizione buddhista relativi alla avyākṛtavestūni del Buddha, vale a dire il 66 proposizioni relative all’essere del mondo e all’essere dell’uomo, egli non le conferma né le nega, ma si limita ad affermare che esse non corrispondono alla sua opinione, sostenendo in questo modo l’idea che nessuna di esse contiene la verità. In altre parole, la verità non corrisponde alle pretese di validità che ciascuna proposizione avanza su di essa. Ciò perché la verità mal si adegua al «gioco della mera dialettica», per il quale la sua definizione è formulata in senso affermativo o negativo, inclusivo o esclusivo. L’ispirazione di Panikkar al silenzio del Buddha e il suo studio della natura di tale silenzio sono la via che egli sceglie per elaborare la sua critica al primato razionalistico del principio di non contraddizione. Aggiungendo immediatamente il necessario corollario per cui tale principio non ha solo un valore gnoseologico, ma anche ontologico: esso è l’espressione dell’identità fra Pensare ed Essere. Giungiamo in tal modo al terzo aspetto del modo di fare filosofia proposto nella frase di Panikkar su cui abbiamo scelto di riflettere: esso afferma l’irriducibilità totale dell’Essere al Pensiero. Non si può affermare che il Pensiero dica tutto ciò che l’Essere è, né che esaurisca l’Essere. Ed è da una simile visione riduzionistica che bisogna liberare la filosofia. In altre parole, ciò contro cui questa visione della filosofia si rivolge criticamente è l’idea – tutta occidentale – che il principio di non contraddizione possa essere applicato esaustivamente a tutta la realtà, in virtù del suo rifiuto di rispondere a quattordici quesiti relativi a quattro problemi fondamentali: l’eternità del mondo, la finitezza del mondo, l’esistenza dopo la morte, l’identità tra anima e corpo. Cfr. R. Panikkar, Il silenzio del Buddha, cit., p. 123-137. Complexity Session - Alessandro Calabrese suo essere espressione sul piano logico dell’identità affermata sul piano ontologico fra Pensiero ed Essere. Quindi il silenzio del Buddha è per Panikkar una delle vie possibili per avanzare la critica al principio fondamentale su cui si basa la visione metafisica dominante dell’Occidente moderno: visione centrata sull’identità fra Pensiero ed Essere. Da qui parte una possibile ‘terza via’ nella descrizione dell’Essere, quella via che Panikkar ha chiamato non duale. Tutto ciò che è pensato ‘è’, ma non tutto ciò che è può essere pensato. Quest’intuizione apre la strada alla ridefinizione del rapporto fra Pensiero ed Essere in una chiave non duale. Non si può parlare di identità fra Pensiero ed Essere, perché il primo non esaurisce il secondo. Ora, l’eccedenza dell’Essere rispetto al Pensiero è descritta da Panikkar in termini di ‘libertà’. Non è necessario che Pensiero ed Essere coincidano; la realtà non è necessariamente intelligibile. La «ragion d’essere» di ogni cosa reale non è quella di essere razionale, bensì semplicemente quella di essere reale. Tale assunto conferma l’idea volta a ridimensionare le possibilità del Pensiero nei confronti dell’Essere. Tutto ciò che è reale ‘è’, ma non è necessariamente razionale. Conseguentemente tutto ciò che è, non è necessariamente oggetto delle categorie del pensiero logico razionale. Quindi la realtà eccede la razionalità così come l’Essere è eccedente rispetto al Pensiero. In ciò consiste la libertà.3 Bisogna liberare la filosofia dall’idea per cui il suo unico punto di partenza sia la coppia ‘Pensare ed Essere’. Se tale coppia è stata il punto di partenza di tutta la storia della filosofia occidentale, non è detto che esso sia l’unico possibile punto dal quale può avere origine il discorso filosofico. Esso corrisponde a una concezione della filosofia, ma nel momento in cui si sostenga una concezione diversa, allora emerge anche un percorso teoretico differente attraverso cui tracciare il discorso filosofico. Panikkar non pone in discussione l’idea che il Pensiero pensi l’Essere e che in qualche modo anche lo dica. Ciò che egli discute e cerca di superare è l’idea secondo cui l’Essere si riduce al Pensare: non si può affermare che il Pensiero dica tutto ciò che l’Essere è né che esaurisca l’Essere. L’argomento principale utilizzato da Panikkar per sostenere la sua idea è semplice e tradizionale: «dire che il pensiero esaurisce quello che l’essere è, equivale ad affermare che tutto l’essere è pensabile».4 Ora, il motivo per cui questo punto di vista non può essere sostenuto è principalmente logico. Infatti, la sola ipotesi del darsi di una porzione impensabile dell’Essere nega l’affermazione della totale pensabilità dell’Essere stesso. Al contrario Panikkar sostiene che il Pensiero può dire qualcosa solo sul versante pensabile dell’Essere. Sulla possibilità di un essere impensabile il Pensiero può solo tacere. Quindi, ciò che si può affermare senza contraddizione è che solo l’essere che si pensa è pensabile. Ma è evidente che tutto ciò che 4 3 Cfr. ivi, p. 37. R. PANIKKAR, La torre di Babele. Pace e pluralismo, S. Domenico di Fiesole, Edizioni Cultura della Pace, 1990, p. 53. 67 Complexity Session - Alessandro Calabrese dell’Essere è impensabile o non ancora pensato rimane fuori dal dominio del Pensare. La via d’uscita da tale situazione contraddittoria è nel «riconoscere almeno, una possibile libertà dell’essere rispetto al pensare».5 La possibilità di cui il Pensiero dispone per dire l’Essere si limita alla realtà pensabile o al modo in cui l’Essere è pensabile. Al contrario, ogni singolo essere ‘è’, indipendentemente dalla capacità di spiegazione del Pensiero. Pertanto la libertà costitutiva dell’Essere si manifesta nella possibilità di ogni singolo ente di essere in un modo proprio, indipendente dal Pensiero. «In ogni ente esiste un nucleo di libertà che coincide con il proprio essere».6 Nella prospettiva di Panikkar, il riconoscimento della libertà dell’Essere rispetto al pensiero rientra nella natura propria della filosofia. È l’‘amore’ contenuto nel suo nome e nella sua essenza ad assegnare alla filosofia questo compito. L’amore è la disponibilità ad accogliere l’Essere nella sua immediatezza e imprevedibilità, nel suo essere impensabile ed ingiustificabile. L’amore è il riconoscimento che «l’essere non ha ragione di seguire sempre il pensiero». Infine l’irriducibilità dell’Essere al Pensare emerge anche da una ulteriore considerazione. «Essere» è un verbo che si può ridurre a sostantivo solo tramite una forzatura. Tutto ciò che è, è tale ‘essendo’, non in virtù di qualcosa che è posto al di fuori e che lo sostiene. eliminate o risolte. Devono essere, in primo luogo, riconosciute nella loro imprescindibilità esistenziale e nel loro valore positivo. La visione non dualista si esprime nella comprensione della realtà; muove dalla presa di coscienza che «la realtà non è una né molteplice, non è quantificabile e nemmeno totalmente intelligibile, la polarità è costitutiva e non va eliminata ma riconosciuta».7 La diversità è riconosciuta ed accettata nel suo valore positivo. Della polarità fra i diversi aspetti o modi d’interpretazione del reale è accolta la costitutiva tensione esistenziale, rivolta verso il compimento piuttosto che verso il primato di una delle parti. Al non-dualismo è impossibile attribuire sia la «vittoria finale», cui aspira il monismo, sia l’esasperazione della dialettica, caratteristica del dualismo. Esso, però, conserva il valore positivo insito in entrambi i punti di vista: dal monismo trae l’aspirazione verso l’unità del reale, del dualismo conserva il movimento finalizzato alla sintesi.8 In qualche modo, il non-dualismo segna una via alla comprensione del reale che salva le differenze e sostiene la tendenza naturale dell’uomo verso l’unità. Ma, se il non-dualismo segna una via per la comprensione, ciò vuol dire che non centra del tutto il problema e non ne offre la soluzione definitiva. Dev’essere riconosciuto e attraversato sul piano esistenziale e condotto a compimento concettualmente, per introdurci a una nozione che Panikkar coglie nel suo valore filosofico: l’armonia. La pluralità e la polarità nel rapporto fra le parti non devono essere necessariamente 7 5 Ibidem 6 R. Panikkar, Il silenzio del Buddha, cit., p. 37. 68 R. Panikkar, La torre di Babele, cit., p. 87. Ivi, p. 88: «È sensibile sia al diritto del potere che alla saggezza della tensione». 8 Complexity Session - Marcello Ghilardi APPUNTI PER UN INTERVENTO IN CHIUSURA DELLA PRIMA GIORNATA DEL CONVEGNO IN ONORE DI RAIMON PANIKKAR Napoli, 2-3 dicembre 2010 Marcello Ghilardi Marcello Ghilardi La realtà cosmo-teandrica Per un incontro tra scienza, religione e filosofia Le differenti tradizioni dell’Asia orientale hanno fatto spesso ricorso ad immagini, metafore, analogie nel tentativo di spiegare gli aspetti più complessi degli insegnamenti, aspetti che spesso sfuggono a una possibilità di trattazione puramente concettuale e formalizzata. Un’analogia che tenta di spiegare attraverso immagini fisiche cosa si intenda con “interrelazione” o “mutua inclusività” è quella, ben nota nella letteratura buddhista, dell’oceano e delle onde: È come la metafora dell’acqua e delle onde: le forme, che sono alte o basse, sono le onde; l’umidità, che è identica, è l’acqua. Le onde sono onde e non sono altro dall’acqua – le onde stesse manifestano l’acqua. L’acqua è acqua che non differisce dalle onde – è l’acqua a formare le onde. Le onde e l’acqua sono una cosa sola, eppure questo non cela la loro differenza. L’acqua e le onde sono differenti, eppure Marcello Ghilardi, Università di Padova questo non cela la loro unità. In virtù della loro manifesta unità, essere l’acqua è essere nelle onde; in virtù della loro manifesta differenza, porre attenzione alle onde non è porre attenzione all’acqua. Come mai? Perché l’acqua e le onde sono differenti eppure non sono differenti. (Tu Shun, Cessation and Contemplation, in T.Cleary, Entry the Inconceivable, p. 58) Le onde stanno a significare le forme molteplici, i fenomeni empirici che “accadono”, mutano, si danno alla percezione dei nostri sensi nella loro impermanenza e varietà di modalità espressive. Sono gli “oggetti” esperiti normalmente, che danno corpo alla “apparente concretezza” del mondo e permettono alle nostre azioni quotidiane di compiersi facendo affidamento sulle strategie ermeneutiche convenzionali, in base alle quali cogliamo tali azioni e manifestazioni come se fossero dotate di un’essenza propria, indipendente. Ma le onde non sono se non in virtù dell’acqua, da cui traggono la loro forma, da cui hanno origine e verso cui ritornano: non esistono le 69 Complexity Session - Marcello Ghilardi onde se non all’interno dell’acqua, che costituisce il loro “orizzonte di possibilità”, la loro condizione d’essere. E non esistono nemmeno in quanto singolarità, perché un’onda è tale solo in relazione alle altre onde, che in base a quella si conformano, e che nelle stesso tempo quella stessa esse formano. Il nocciolo della riflessione sta tutto qui: la dialettica dell’uscita dall’originaria condizione del Vuoto, dal regno “noumenico” in cui ciò che è, senza discriminazione, e del ritorno ad essa attraverso la negazione e la mediazione nel mondo fenomenico, trova la sua soluzione nella comprensione dell’identità che è insita nella differenza, poiché tutto ciò che possiamo esperire o pensare è solo in quanto è in relazione con tutto ciò che ad esso è esterno, estraneo, diverso. Le onde non “sono” l’acqua, ma esse senza l’acqua non sarebbero; esse rappresentano una particolare determinazione dell’acqua, che svela se stessa, si dimostra alle nostre capacità percettive, in quanto onde: e per questo è lecito dire che l’acqua non sarebbe senza le onde, poiché è solo per mezzo delle onde che essa è in grado di manifestarsi, di agire. Di nuovo appare in tutta la sua forza e la sua pregnanza di significato per il pensiero cinese più genuino, fin dalle sue origini, quell’idea di movimento, di processualità, come unica ed autentica condizione d’essere delle cose: per darsi effettivamente, tanto un fenomeno quanto il principio che ne sta alla base deve essere in divenire, in “processo” appunto. Il concetto di sistema Un sistema è una relazione tra elementi. In un sistema lo stato di un elemento determina ed è determinato dallo stato di 70 tutti gli altri elementi: non serve a molto conoscere il componente senza conoscere: a) le sue relazioni; b) il livello di integrazione delle relazioni; c) la storia delle sue relazioni passate e possibili. Il tutto, in un sistema, non si riduce mai alla somma delle parti. Ogni elemento del sistema può essere considerato a sua volta un sistema, di livello inferiore, e ogni sistema può essere considerato elemento di un sistema di livello superiore. Un sistema è sempre frutto di una scelta operata dall’osservatore, che ritaglia in un ambiente processi specifici, cioè un sistema con la sua organizzazione e le sue possibili dinamiche, e nel far ciò riduce a rumore di sfondo ogni altra relazione che pure interviene nella interazione tra sistemi. Emergentismo Un comportamento emergente o proprietà emergente può comparire quando un numero di entità semplici (agenti) operano in un ambiente, dando origine a comportamenti più complessi in quanto collettività. La proprietà stessa non è prevedibile e non ha precedenti, e rappresenta un nuovo livello di evoluzione del sistema. I comportamenti complessi non sono proprietà delle singole entità e non possono essere facilmente riconosciuti o dedotti dal comportamento di entità del livello più basso. La vita costituisce una inesauribile miniera di esempi da cui l’emergentismo attinge. Il caso più semplice di emergenza è rappresentato dalla relazione tra un organismo vivente e le molecole di cui è composto a un dato momento. Se prendessimo tutte queste molecole, che sono Complexity Session - Marcello Ghilardi tutto ciò che costituisce quell’organismo, e ne cambiassimo drasticamente l’organizzazione esse non costituirebbero più un organismo. Dunque, l’essere vivente emerge dalle molecole. Raimon Panikkar: la crisi del mondo moderno In diverse opere Panikkar si è rivolto alle questioni della scienza e del progresso, da un punto di vista religioso ed ecologico o meglio, come amava ripetere, ecosofico (è la sophia, più del logos, che può permetterci di prestare ascolto all’oikos, alla casa, all’ambiente nel quale viviamo e che ci nutre). Qui di seguito si cerca di riassumere alcune delle sue idee in proposito, in particolare in rapporto al suo testo La nuova innocenza. Anche alla luce delle considerazioni precedenti, si vorrebbero dunque avanzare alcune proposte di trasformazione, di “conversione” dello sguardo, per modificare la attuale mentalità tecnologica in una più adatta ad avvertire le esigenze dell’ambiente, nel quale siamo integrati – e non soggetti esterni che possono permettersi semplicemente di sfruttarne le risorse. Queste proposte si possono, almeno provvisoriamente, riassumere nei seguenti punti a) Perdita di centralità del soggetto psicologico; d) Correlazione tra la dimensione morale e quella fisica; rapporto tra scienza, politica e morale (tra cosmologia, politica e antropologia); e) Integrazione (e non scissione) tra io e mondo. Le radici teologiche della crisi moderna Si è riflettuto relativamente poco sulle radici teologiche della crisi spirituale e materiale che attanaglia l’uomo moderno, producendo infiniti conflitti di ogni genere e facendogli percepire in modo sempre più crescente di vivere in un universo alienante ed alienato. Queste radici rimandano, secondo Panikkar, ad epoche lontane, allo stesso fondarsi di molte tradizioni culturali sul principio di proprietà, cioè sul dualismo, sulla contrapposizione. Lo stesso decalogo può essere inteso come la sacralizzazione del principio di proprietà: ama il tuo Dio, ama la tua donna, ecc. La distinzione più radicale, poi, è quella fra l’uomo e la natura: l’uomo è eccezione e padrone del creato. Non è un caso che proprio in Occidente sia nata la tecnologia, vero cancro del mondo moderno, cioè una concezione dualistica della realtà, dove ciò che conta è separare, isolare, oggettivare, per poter meglio quantificare e, quindi, manipolare delle “cose”. La tecnologia non è che l’ultimo risultato di una mentalità che aveva già portato il mondo semitico a “privatizzare” Dio, la religione, la cultura. b) Diversa collocazione dell’uomo nel cosmo; La scienza moderna c) Attenzione alla regolazione invece di un’ossessione per la predizione in vista di un “rendimento”; La crisi che l’uomo contemporaneo sta attraversando è, per Panikkar, una crisi di “frantumazione” scaturita, in primo luogo, da quella frantumazione della conoscenza 71 Complexity Session - Marcello Ghilardi realizzatasi con la nascita della scienza moderna. La scienza, nel mondo moderno, perde il suo valore salvifico e si riduce a conoscenza (presunta) oggettiva. Non è più, come nell'antichità, e ancor oggi nelle autentiche vie spirituali, comunione con la realtà e realizzazione di se stessi. Nell’antichità, progredire nella conoscenza della realtà voleva dire progredire nella conoscenza di se stessi; la “nuova scienza” nata con Galilei, invece, non ha più il fine di capire, bensì solo di calcolare, prevedere e dominare la realtà (cfr. F. Bacon, Novum Organum 1, 70). Tecnica e tecnologia Non bisogna però confondere tecnologia e tecnica: la tecnica è un’arte (poietikê technê), nella quale l’intelligenza umana si integra nella materia per produrre un artefatto (ceramica, musica, poesia, un edificio, ecc.) che migliori il benessere e la bellezza della vita umana. Si deve essere ispirati per produrre qualsiasi tipo di attività tecnica, è necessario il pneuma (spirito). La tecnologia sorge quando allo spirito si sostituisce la ratio, cioè il logos, nel suo senso più ristretto di razionalità discorsiva. A questo punto nella technê si introduce l’aritmetica, cioè un ritmo (il risultato di una mens, mensura), e allora il risultato della tecnica può essere riprodotto indefinitamente quando se ne conosca la sigla numerica. Ogni artefatto ha il suo stile e, in un certo senso, è unico, anche quando se ne producano più esemplari. Però c’è un momento in cui il cambiamento quantitativo introduce un mutamento qualitativo. Questo mutamento avviene attraverso l’utilizzo di macchine, cioè strumenti di secondo grado, che finiscono poi per imporre all’uomo le 72 proprie regole. La tecnologia, da strumento, giunge a trasformarsi in fine. Il tecnocentrismo La tecnologia non è universalizzabile come se fosse un universale culturale, non è neutra. Può germinare soltanto in un terreno moderno e può crescere solo in un clima occidentalizzato. L’universalizzazione della tecnologia implica l’occidentalizzazione del mondo e la distruzione delle altre culture, che si basano su visioni della realtà incompatibili con i moderni presupposti della tecnologia. Il fatto che questa incompatibilità non sia stata notata e che si sia pensato che la tecnologia potesse adattarsi allo stile di vita di diverse culture, dimostra come non si sia realizzato un vero dialogo interculturale. Ha prevalso la credenza in una evoluzione lineare della specie umana. La tecnocrazia: l’ontonomia impossibile Secondo Panikkar, che in questo assume una posizione simile a quella di Heidegger, la tecnologia è autonoma, sia dall’uomo sia dalla natura. Ma l’uomo si sta svegliando dal sogno di poter dominare il sistema tecnologico, a tal punto che oramai non crede più possibile liberarsi da esso. È questo che detta lo stile di vita, i valori dominanti e i ritmi della collettività, e perfino una gran parte delle forme di pensiero, per non parlare della corsa agli armamenti, della crescita delle multinazionali e della proliferazione delle macchine, che nessuno sembra poter fermare. La macchina di secondo grado ha le proprie regolarità, che non dipendono né dalle leggi della natura né da quelle dell’uomo. È l’uomo che deve adattarsi alle leggi della macchina, Complexity Session - Marcello Ghilardi diventando così prigioniero di un tempo e di uno spazio che sono pure astrazioni scientifiche. L’interdipendenza fra uomo e cosmo, l’equilibrio armonioso, “ontonomo” (il nomos dell’on – l’ordine intrinseco dell’essere), non è più possibile nell'epoca della tecnologia. Omocentrismo e interventismo La tecnologia presuppone che l’uomo sia essenzialmente differente e superiore alla natura. Non è un caso che la tecnologia sia sorta in un mondo governato dalla concezione semitica dell'universo, dove l'uomo è padrone della natura, una eccezione nella creazione. Non è un caso che si usi comunemente il termine "sfruttamento": agricolo, minerario, ecc. Ciò rimanda anche all'origine della scienza moderna, finalizzata non al sapere, ma al potere, non alla conoscenza, ma al dominio della natura. Il metodo proprio della tecnologia è la sperimentazione, l’intervento sulla realtà. L’esperimento consiste nel modificare almeno una delle variabili di un sistema osservato per poi accertare una variazione dell’intero sistema. L'esperimento rende possibile il calcolo della variazione e delle variabili e si basa nello stesso tempo su questo calcolo. L’esperimento è principalmente una possibilità di dominio, di calcolo, di previsione, ma non esprime molto sulla natura delle cose, sulla realtà, sulla nostra propria natura. L’attività umana, non è considerata una collaborazione con i ritmi della natura per lo sviluppo personale e per l’armonia dell’universo, ma come un lavoro visto come una produzione, modificazione, dominazione. L’oggettivismo La tecnologia presuppone che la realtà sia oggettivabile e dunque sottoposta al pensiero. La tecnologia è la cristallizzazione e l’oggettivazione dei concetti. I concetti possono essere fissati in macchine, le quali garantiscono poi un funzionamento costante e preciso, come la macchina del nostro cervello. Questa oggettivazione rende la realtà immutabile e costante, in modo tale che la conoscenza scientifica sia sempre più stabile. La scienza moderna è la guardiana dell’essere, l’essere non può scappare. Così si possono costruire macchine che funzionino e l’uomo se ne può fidare. Che la scienza contemporanea abbia superato grossolani paradigmi di oggettività non dice niente sul piano della tecnologia. Sarebbe possibile la tecnologia se i processi reali non seguissero le leggi della logica o addirittura quelle della probabilità? Il criterio di verità, o meglio di precisione, su cui si basa la sperimentazione scientifica è la ripetibilità e la ripetibilità presuppone un tempo costante e omogeneo. Senza di esso nessuna macchina potrebbe funzionare, nessuna grande città moderna potrebbe esistere. Lo spazio ed il tempo nel quale si muovono le macchine sono, a differenza di quelli umani, neutri e universali. Quantificabilità, controllo e strumentalizzazione Il regno della scienza moderna è ciò che è quantificabile, essa agisce misurando, cioè dividendo. Non pretende nemmeno di spiegare il mondo, semplicemente misura dei comportamenti e, scoprendo alcune costanti, prevede vari avvenimenti. La tecnologia fa qualcosa di più che calcolare: moltiplica. È il 73 Complexity Session - Marcello Ghilardi mondo della quantità e dell'accelerazione, il mondo del più quantitativo. Senza accelerazione la tecnologia è impossibile. Il tempo è soltanto un fattore quantitativo che è piegabile all’accelerazione. Quello che non può essere misurato, che non può essere contato, non “conta”. La tecnologia è il mondo dei mezzi, degli strumenti. Essa produce in continuazione strumenti, sempre nuovi, sempre migliori. Non importa a cosa servano, se siano realmente utili, l'importante è usarli. Noi stessi siamo strumenti. La cultura moderna La cultura moderna ha reso tutto monetizzabile e dipendente dall’economia: il tempo, l’educazione, il matrimonio, il nutrimento, la mia salute, le mie credenze, la mia felicità. Tutto ha un coefficiente economico, ossia, in altre parole, quantificabile. Ciò che accomuna tecnocrazia ed economicismo estremo è la visione quantitativa della vita. Se gli si offrono i mezzi per soddisfarli, l’uomo è felice. Questo tipo di mentalità e di cultura non è universale né universalizzabile. E non lo è né da un punto di vista qualitativo, per i motivi sopra esposti, né da un punto di vista quantitativo: il 6% della popolazione mondiale consuma il 40% delle risorse disponibili e ne controlla il 60%. Le possibilità e le risorse del pianeta sono limitate. Nella prima metà del secolo il sistema economico mondiale era relativamente aperto. Ora il sistema è chiuso e in un sistema chiuso ogni aumento in una regione comporta una diminuzione in un'altra. Viviamo un aumento costante di entropia. Il nostro stile di vita non può essere mantenuto su scala mondiale. Nel complesso 74 tecnocratico ogni progresso implica un regresso in un altro ambito. Alternative alla cultura moderna Vi sono tre modi per affrontare il problema della modernità, secondo Panikkar: 1. Riforma Consiste nel pensare che questa cultura si possa riformare, magari utilizzando una tecnologia più adeguata. Panikkar stesso aveva in un primo tempo aderito a questa prospettiva, coniando addirittura il termine tecnicultura. Ancora nel 1970, quando pubblicò Il Silenzio di Dio, era di questa opinione. Pensava che la macchina potesse essere coltivata, nel senso della cultura. Ma la macchina di secondo grado ha un’autonomia che l'uomo non è più in grado di controllare e dirigere. Ci si dice: solo momentaneamente la tecnologia crea fame, sfrutta e distrugge le culture non industrializzate, fa numerose vittime dappertutto, ma ritroverà il suo equilibrio una volta che sarà più perfezionata. Non esiste un’omeostasi tecnologica di questo tipo e non è solo l’argomento morale che vi si potrebbe opporre: gli uomini non sono semplici elementi di una posta storica più alta. Vi si oppone anche l’esistenza di altre culture che si rifiutano di avere una simile concezione dell’uomo e della realtà. 2. Deformazione Vuol dire fare una critica totale, anatemizzare, non salvare niente, distruggere tutto. Anche questo tipo di critica, come il precedente, rimane ancora all'interno della mentalità moderna, tecnologica. Anche questa è ragione armata, è violenza. Complexity Session - Marcello Ghilardi 3. Trasformazione È una metamorfosi, una mutazione radicale della forma (morphê). Non vuol dire riformare un po’, cambiare questo o quello, ma realizzare un cambiamento radicale, una metànoia, una vera rivoluzione della mente, del cuore e dello spirito. Voler fare soltanto qualche aggiustamento e riformare il sistema significa solo prolungare l’agonia. Emanciparsi veramente dalla tecnologia vuol dire saltare al di là di questa cultura che l’ha creata. L’Occidente da solo non può fare tutto questo, e l’Oriente nemmeno: c’è bisogno di un incontro di culture. È qui che si rende indispensabile il dialogo “intrareligioso” come condizione per la salvezza dell’umanità. La mutua fecondazione delle culture è l'unica cosa che ancora potrà salvarci. Non esiste infatti un’alternativa globale, così come non esistono, né forse sarebbero desiderabili, una cultura globale, una prospettiva globale, una lingua ed una religione universali, un unico ordine mondiale perfetto, politico o economico. Ci sono solamente alternative provvisorie, secolari e pluraliste. ben noto alle varie tradizioni spirituali e che egli stesso ritrova, ad esempio, nella concezione cristiana della Trinità o in quella buddhista della pratityasamutpada. La realtà mostra questa triplice dimensione: un aspetto metafisico (trascendente o apofatico), un fattore noetico (o cosciente, pensante) e un elemento empirico (fisico o materiale). A livello umano, poi, questo principio si esplica nei tre fondamentali modi di percepire la realtà: l’esperienza sensibile (aisthêsis), l’esperienza intellettuale (noêsis) e l’esperienza sovraconoscitiva e globale che trascende il pensiero (mystika). La visione cosmoteandrica o relazionale della realtà supera sia il monismo sia il dualismo, tanto che potrebbe essere definita non-dualista, ed è il frutto, in ultima analisi, di un’esperienza mistica, e come tale ineffabile, che rimanda ad un dimensione contemplativa venuta meno con la cultura moderna. L’intuizione cosmoteandrica Il divino, l’umano e il terrestre sono le tre dimensioni irriducibili che costituiscono il reale, cioè qualsiasi realtà in quanto tale. Tutto ciò che esiste presenta questa struttura, triplice e unica, espressa in queste tre dimensioni che si generano reciprocamente ma non sono riducibili l’una all’altra. Vi è un’unica relazione, benché intrinsecamente triplice, che esprime la costituzione ultima della realtà: è questa l’intuizione cosmoteandrica. Panikkar è consapevole di riformulare, in questi termini, un principio 75 Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr A SECULAR AGE? REFLECTIONS ON TAYLOR AND PANIKKAR Fred Dallmayr Fred Dallmayr (video) At least in the Western context, our age is commonly referred to as that of “modernity”—a term sometimes qualified as “late modernity” or “postmodernity.” Taken by itself, the term is nondescript; in its literal sense, it simply means a time of novelty or innovation. Hence, something needs to be added to capture the kind of novelty involved. To pinpoint this innovation, modernity is also referred to as the “age of reason” or the age of enlightenment and science—in order to demarcate the period from a prior age presumably characterized by unreason, metaphysical speculation, and intellectual obscurantism or darkness. Seen in this light, modernity for a large number of people— including supporters of scientific and social progress—is a cause for rejoicing, celebration, and unrelenting promotion. As is well known, however, this chorus of support has for some time been accompanied by discordant voices pointing to the dark underside of modernity, evident in what Max Weber called the “disenchantment” of the world and others (more dramatically) the “death of God” or the “flight of the gods.” More recently, discontent Fred Dallmayr, Notre Dame University, USA 76 has given rise to claims regarding an inherent “crisis” of modernity manifest in the slide toward materialism, consumerism, irreligion, and a general “loss of meaning.”1 For present purposes I want to lift up for consideration two highly nuanced and philosophically challenging assessments of our modern condition: Charles Taylor’s A Secular Age (of 2007) and Raimon Panikkar’s The Rhythm of Being (of 2010). As it happens, both texts are strongly revised versions of earlier Gifford Lectures (presented respectively in 1999 and 1989). Before proceeding, a word of caution: neither of the two thinkers belongs to one of the polarized camps—which means that neither is an uncritical “booster” or else a mindless 1 . Concerning the “crisis of modernity” compare, e.g., Oswald Spengler, The Decline of the West (1918; New York: Knopf, 1939); René Guénon, La crise du monde moderne (1928), trans. M. Pallis and R. Nicholson, The Crisis of the Modern World (London: Luzac, 1962); Romano Guardini, Das Ende der Neuzeit (1950), trans. The End of the Modern World (New York: Sheed & Ward, 1956); and Leo Strauss, “The Crisis of Our Time,” in The Predicament of Modern Politics, ed. Harold J. Spaeth (Detroit, MI: University of Destroit Press, 1964), pp. 4154. Compare in this context the chapter “Global Modernization: Toward Different Modernities,” in my Dialogue Among Civilizations: Some Exemplary Voices (New York: Palgrave Macmillan, 2002), pp. 85-104. Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr “knocker” of the modern age.2 Both thinkers share many things in common. Both complain about certain glaring blemishes of the modern, especially the contemporary period; both deplore above all a certain deficit of religiosity or spirituality. The differences between the two authors have to do mainly with the details of their diagnosis and proposed remedies. In Taylor’s view, the modern age—styled as “secular age”— appears marked by a slide into worldly agnosticism, into “exclusive humanism” and above all into an “immanent fame” excluding or marginalizing theistic “transcendence.” Although sharing the concern about “loss of meaning,” Panikkar does not find its source in the abandonment of (mono)theistic transcendence; nor does he locate this source in secularism or “secularity” per se—seeing that, in view of its temporality, faith is necessarily linked with a given age (or “saeculum”). Instead of stressing the dichotomy between immanence and transcendence, Panikkar focuses on the pervasive “oblivion of being” in our time, an oblivion which can only be overcome through a renewed remembrance of the divine as a holistic happening in a “cosmotheandric” mode. people; and “secularity 3” involving the erosion of the very conditions of possibility of shared faith. While in the first type, public spaces are assumed to be “emptied of God, or of any reference to ultimate reality,” and whereas in the second type secularity consists “in the falling off of religious belief and practice, in people turning away from God,” the third type involves a more pervasive change: namely, “a move from a society where belief in God is unchallenged and indeed, unproblematic, to one in which it is understood to be one option among others, and frequently not the easiest to embrace.” Taken in the third sense, secularity means more than the evacuation of public life or else the loss of a personal willingness to believe; rather, it affects “the whole context of understanding in which our moral, spiritual or religious experience and search takes place.” Viewed on this level, an age or a society would be secular or not “in virtue of the conditions of experience of and search for the spiritual.” As Taylor emphasizes, the focus of his study is on the last kind of secularity. In his words: So I want to examine our society as secular in this third sense, which I could perhaps encapsulate in this way: the change I want to define and trace is one which takes us from a society in which it was virtually impossible not to believe in God, to one in which faith, even for the staunchest believer, is one human possibility among others. . . . Belief in God is no longer axiomatic.3 A Secular Age At the very beginning of his massive study, Taylor distinguishes between three kinds of secularity or “the secular”: “secularity 1” involving the retreat of faith from public life; “secularity 2” denoting a diminution or vanishing of faith among certain 2 . In one of his previous writings, Taylor had distinguished between the “boosters” and the “knockers” of modernity. See his The Ethics of Authenticity (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1992), pp. 11, 2223. In seeking to flesh out the meaning of secularity as a mode of modern experience, 3 . Charles Taylor, A Secular Age (Cambridge, MA: Harvard University Press, 2007), pp. 2-3. 77 Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr Taylor’s text very quickly introduces the notion of “exclusive humanism” or “selfsufficient humanism” characterized by a neglect of transcendence. An important criterion here is the notion of a “fullness of life” and whether this fullness can be reached by human resources alone or requires a step “beyond” or “outside.” “The big obvious contrast here,” we read, “is that for believers the account of the place of fullness requires reference to God, that is, something beyond human life and/or nature; where for unbelievers this is not the case.” Typically, for believers fullness or completion is received as a gift whereas for unbelievers the source of completion resides “within.” Appeal to internal resources can take many forms. In modernity, the appeal is frequently to the power of reason and rational knowledge. However, self-sufficiency can also be predicated on a “rigorous naturalism.” In that case, the sources of fullness are not transcendent, but are to be “found in Nature, or in our own inner depths, or in both.” Examples of such naturalism are provided by “the Romantic critique of disengaged reason, and most notably certain ecological ethics of our day, particularly deep ecology.” Other forms of self-sufficiency or internal selfreliance can be found in versions of Nietscheanism and existentialism which draw empowerment “from the sense of our courage and greatness in being able to face the irremediable, and carry on nonetheless.” A further modality can be detected in recent modes of post-modernism which, while dismissive of claims of self-sufficient reason, yet “offer no outside source for the reception of power.”4 4 . Ibid., pp. 8-10. The comment on existentialism o- 78 In subsequent remarks the distinction between inside and outside (“withinwithout”) is further sharpened by the invocation of the binaries of immanence/transcendence and natural/supranatural. “The shift in background, or better the disruption of the earlier background,” Taylor writes, “comes best to light when we focus on certain distinctions we make today: for instance, that between the immanent and the transcendent, the natural and the supernatural. . . . It is this shift in background, in the whole context in which we experience and search for fullness, that I am calling the coming of a secular age, in my third sense . . . [and] that I want to describe, and perhaps also (very partially) explain.” In general terms, modernity for Taylor assumes the character of a “secular age” once priority is granted to immanence over transcendence and to a selfsufficient humanism over divine interventions. “The great invention of the [modern] West,” he writes, “was that of an immanent order of Nature whose working could be systematically understood and explained on its own terms.” This notion of immanence involves denying, or at least questioning, “any form of interpenetration between the things of Nature, on the one hand, and the ‘supernatural,’ on the other.” Seen from this angle, he adds, “defining religion in terms of the distinction immanent/transcendent is a more tailor-made for our culture.” From a humanist perspective, the basic question becomes “whether people recognize bviously is tailored to the writings of Albert Camus. Regarding deep ecology, the judgment is modified a few pages later (p. 19) where we read that “there are attempts to reconstruct a non-exclusive humanism on a non-religious basis, which one sees in various forms of deep ecology. Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr something beyond or transcendent to their lives.”5 birth and death; our lives extend beyond ‘this life’.”6 At the core of the modern secular shift, for Taylor, is the issue of human fulfillment or “flourishing,” that is, the question “what constitutes a fulfilled life?” At this point, an intriguing radicalism comes to the fore: in the sense that not only the secular goals of fulfillment are chastised, but the very idea of human flourishing is called into question. In earlier periods, he comments, it was still possible to assume that the best life involved our seeking “a good which is beyond, in the sense of being independent of human flourishing.” In that case, the highest, most adequate human striving could include our aiming “at something other than human flourishing.” Under the aegis of an exclusive or self-sufficient humanism, the possibility of such higher striving has atrophied and even vanished. Differently phrased: “secularity 3” in Taylor’s sense came along together with the possibility and even probability of exclusive humanism. In fact, he states, one could offer this “one-line description” of the difference between earlier times and the secular age: “a secular age is one in which the eclipse of all goals beyond human flourishing becomes conceivable.” Here is the crucial link “between secularity and a self-sufficing humanism.” In traditional religion, especially in Christianity, a different path was offered: namely, “the possibility of transformation . . . which takes us beyond merely human perfection.” To follow this path, it was needful to rely on “a higher power, the transcendent God.” Seen in this light, Christian faith requires “that we see our life as going beyond the bounds of its ‘natural’ scope between It cannot be my ambition here to recapitulate Taylor’s complex and lengthy tome; suffice it for present purposes to draw attention briefly to a central chapter dealing with the noted binary tension: the chapter titled “The Immanent Frame.” At this point, the notion of an exclusive humanism is reformulated in terms of a “buffered self.” According to Taylor, what modern secularity chiefly entails is “the replacement of a porous self by the buffered self,” a self that begins to find “the idea of spirits, moral forces, causal powers with a purposive bent, close to incomprehensible.” Buffering here involves “interiorization,” that is, a withdrawal into “an inner realm of thought and feeling to be explored.” Examples of this inward turn are said to be Romanticism, the “ethic of authenticity,” and similar moves prompting us to “conceive ourselves as having inner depths.” A corollary of this turn is “the atrophy of earlier ideas of cosmic order” and the rise of individual self-reliance and selfdevelopment, especially of an “instrumental individualism” exploiting worldly resources to its own exclusive benefit. Aggregating the various changes or mutations occurring in secular modernity, Taylor arrives at this succinct formulation: “So, the buffered identity of the disciplined [self-reliant] individual moves in a constructed social space, where instrumental rationality is a key value and time is pervasively secular [as clock time]. All of this makes up what I want to call ‘the immanent frame’.” There is one important background feature which also needs to be taken into account: namely, that 5 6 . Ibid., pp. 13-16. . Ibid., pp. 16, 19-20. 79 Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr “this frame constitutes a ‘natural’ order, to be contrasted to a ‘supernatural’ one, an ‘immanent’ world, over against a possible ‘transcendent’ one.”7 As Taylor recognizes, the boundary between the two “worlds” is not always sharply demarcated. Although ready to “slough off the transcendent,” the immanent order occasionally makes concessions to the former. This happens in various forms of “civil region,” and also in vaguely spiritual movements or expressions like Pentecostalism or “Romantic forms of art.” However, such concessions are at best halfhearted, and do not basically challenge or impede the “moral attraction” of immanence, of this-worldiness, of materialism and naturalism. As Taylor remarks with regard to the latter: “We can see in the naturalistic rejection of the transcendent . . . the ethical outlook which pushes to closure” in immanence, especially when the rejection is coupled with wholesale trust in modern natural science and associated technologies. Undergirded by this trust, the entire growth of modern civilization can be seen “as synonymous with the laying out of a closed immanent frame.” To be sure, the text insists, the “moral attraction” of immanence is not absolutely compelling or pre-ordained; it only prevails as a dominant pull or possibility, leaving room for other recessed alternatives. Resisting the dominant frame, some individuals find themselves placed in the cauldron of competing pulls—a cauldron giving rise sometimes to the striving for a radical exodus, accomplished through a stark (Kierkegaardian) “leap of faith.” However, this personal experience of cross-pressures does not call into question the basic structure of secular modernity. What his study is trying to bring to the fore, Taylor concludes, is the “constitution of [secular] modernity” in terms of the emphasis on “‘closed’ or ‘horizontal’ worlds” which leave little or no place for “the ‘vertical’ or ‘transcendent’.”8 Without doubt, Taylor’s A Secular Age is an intellectual tour de force as well as a spirited defense of religious faith (seen as openness to a transcendent realm). In an age submerged in the maelstrom of materialism, consumerism, and mindless self-indulgence, his book has the quality of a wake-up call, of a stirring plea for transformation and “metanoia.” Nevertheless, even while appreciating the cogency of this plea, the reader cannot quite escape the impression of a certain one-dimensionality. Despite repeated rejections of a “subtraction story” (treating modernity simply as a culture minus faith), the overall account presented in the book is one of diminution or impoverishment: leading from a holistic framework hospitable to transcendence to an “immanent frame” hostile to it. Surely, this is not the only story that can be told—and probably not the most persuasive one. In Taylor’s presentation, 8 7 . Ibid., pp. 539-542. In another succinct formulation he states (p. 566): “Modern science, along with the many other facets described—the buffered identity, with its disciplines, modern individualism, with its reliance on instrumental reason and action in secular time—make up the immanent frame. . . . Science, modern individualism, instrumental reason, secular time, all seem proofs of the truth of immanence.” 80 . Ibid., pp. 543, 547-549, 555-556. Taylor’s discussion of the different “frames” or “worlds” is often quite ambiguous—to the point of jeopardizing the distinction itself. Thus, with regard to naturalism we read at one point (p. 548): “Belonging to the earth, the sense of our dark genesis, can also be part of Christian faith, but only when it has broken with certain features of the immanent frame, especially the distinction nature/supernature.” Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr immanence and transcendence, this world and the world “beyond,” seem to be immutable binary categories exempt from change. Clearly, there is the possibility of another (more compelling) narrative: a story where immanence and transcendence, the human and the divine, encounter each other in ever new ways, leading to profound transformations on both (or all) sides. Curiously, Taylor’s own earlier writings had been leaning more in that direction. One of his best-known earlier works, Sources of the Self, narrated the development of human selfhood from antiquity to modernity in a nuanced manner not reducible to a slide from porousness to buffered closure. Very little of this story remains in A Secular Age. In a similar manner, the “ethics of authenticity” (highlighted in one of his earlier books) now seems the be just another synonym for modern buffering and self-sufficiency. Even the move toward personal religiosity— celebrated earlier in the case of William James—now seems to be relegated to a marginal gloss on the “immanent frame.” Hardly an echo seems to be left of the “thanks to Voltaric and others”—extended in his “Marianist Lecture”—for “allowing us to live the gospel in a purer way,” free of the “often bloody forcing of conscience” marking previous centuries.9 As it seems to me, one of the more curious and troubling aspects of the book is the determined privileging of the “vertical” or “transcendent” dimension over the lateral or 9 . See Taylor, A Catholic Modernity?, ed. James L. Heft, S. M. (New York: Oxford University Press, 1999), pp. 16-19. Compare also his Sources of the Self: The Making of the Modern Identity (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1989), and The Ethics of Authenticity (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1992). “horizontal worlds.” Even if one were to grant the atrophy of transcendence, modernity styled as a “secular age” surely has witnessed important “horizontal,” social-political developments by no means alien to a religious register: the demolition of ancient caste structures, the struggles against imperialism, the emancipation of slaves, the steady process of democratization promising equal treatment for people without regard for gender, race, and religion. Strangely, in a book seeking to distill the essence of Western modernity, these and similar developments occupy a minor or shadowy place, being eclipsed by the accent on verticality (heavily indebted to certain monotheistic creeds). The accent is all the more surprising in the context of a largely Christian narrative, given the traditional linkage of that faith with embodiment and “incarnation.”10 The downgrading or relative dismissal of the horizontal has clear repercussions with regard to “humanism” and the divine-human relationship. The conception of an “exclusive humanism” seems to leave ample room for a more open and non-exclusive type. Yet, despite an occasional acknowledgment of the possibility of non-exclusiveness, the point is not further developed or explored. Equally bypassed or sidelined is the possibility of a symbiosis of the divine, the human, and “nature”—a triadic structure requiring resolute openness on all sides. At one point, Taylor ponders the deleterious impact of a 10 . At one point, Taylor complains that we have moved “from an era in which religious life was more ‘embodied’, where the presence of the sacred could be enacted in ritual . . . into one which is more ‘in the mind’.” As a corollary of this move, “official Christianity has gone through what we can call an ‘excarnation’, a transfer of embodied, ‘enfleshed’ forms of religious life, to those which are more ‘in the head’.” See A Secular Age, p. 554. 81 Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr certain “non-religious anti-humanism” (associated mainly with Nietzsche and his followers). However, his own privileging of verticality conjures up the specter of a radically religious anti-humanism—a specter bound to be disturbing in the context of the current vague of fundamentalist rhetoric.11 The Rhythm of Being To some extent, the preceding paragraph can serve as gateway to the work of Raimon Panikkar, the renowned SpanishIndian philosopher and sage (who passed away on August 26, 2010). Among many other intellectual initiatives, Panikkar is known for his endorsement of a triadic structure of Being—the so-called “cosmotheandric” conception—in which God (or the divine), human beings, and nature (or cosmos) are linked in indissoluble correlation or symbiosis. Seen from the angle of this conception, the radical separation or opposition between transcendence and an “immanent frame” seems far-fetched if not simply unintelligible. It is fairly clear that Panikkar could not or would not have written a book titled A Secular Age with a focus on immanentization. For one thing, the two terms of the title for him are synonymous— seeing that “age” is equivalent to the Latin “saeculum.” More importantly, the divine (or 11 . Ibid., p. 19. In his stress on verticality, Taylor seems to have been influenced by a certain “transcendentalist” strand in French postmodernism, manifest especially in the writings of the later Jacques Derrida (under the influence of Emmanuel Levinas and his notion of the radically “Other”). For a different, more “open” conception of humanism compare, e.g., Jacques Maritain, Integral Humanism: Temporal and Spiritual Problems of a New Christendom, trans. Joseph W. Evans (Notre Dame, IN: University of Notre Dame Press, 1973); and Martin Heidegger, “Letter on Humanism,” in David F. Krell, ed., Martin Heidegger: Basic Writings (New York: Harper & Row, 1977), pp. 189-242. 82 transcendent) in Panikkar’s view cannot be divorced from the temporal (or “secular”) without jeopardizing or destroying the intimate divine-human relation and thereby the mentioned triadic structure. The distinctive and unconventional meaning of secularism or secularity is manifest in a number of his early writings which remain important in the present context. Thus, his book Worship and Secular Man (of 1973) put forward this provocative thesis: “Only worship can prevent secularization from becoming inhuman, and only secularization can save worship from being meaningless.” To which he added this equally startling comment: “Now, what is emerging in our days, and what may be a ‘hapax phenomenon’, a unique occurrence in the history of humankind, is— paradoxically—not secularism, but the sacred quality of secularism.”12 Panikkar has never abandoned this provocative thesis; it still pervades powerfully his later writings, including The Rhythm of Being. As he notes in the Preface to that book (written on Pentecost 2009), the original title of his Gifford Lectures was “The Dwelling of the Divine in the Contemporary World”—a phrase surely not far removed from the notion of sacred secularity. Although for various reasons the original title was changed, the “leading thread” of the book—he adds— “continues to be the same.” What characterizes this “leading thread,” despite textual revisions, is the idea of a radical “relationality” or “relativity” involving the 12 . Raimon Panikkar, Worship and Secular Man (Maryknoll, NY: Orbis Books, 1973), pp. 1-2, 10-13. Compare also the chapter “Rethinking Secularism—With Raimon Panikkar,” in my Dialogue Among Civilizations: Some Exemplary Voices (New York: Palgrave Macmillan 2002), pp. 185-200. Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr three basic dimensions of reality: cosmos (nature), human beings, and God (or the divine)—where each of these dimensions is seen not as a static essence but as an active and dynamic participant in the ongoing transformation of reality or “Being.” As Panikkar states, what he intends to convey in his book is a new sense of “creatio continua” in which each one of us, in St. Bonaventure’s phrase, is a “co-creator.” A crucial feature of the intended relationality is the close linkage between the “temporal” and the “eternal,” or between time and Being. “Time,” we read, “is not an accident to life, or to Being . . . Each existence is tempiternal . . . and with this observation we have already reached our topic of the ‘Rhythm of Being’, which is ever old and ever new.” Instead of bogging down in irremediable ruptures and dichotomies, this rhythm proceeds in the modility of mediation (utrum, both, as well as) and thus in “the advaitic language.”13 Along with other ruptures and dichotomies, The Rhythm of Being also refuses to accept the split between the “vertical” and “horizontal” dimensions of reality. In fact, despite its basically philosophical and meditative character, the book elaborates more explicitly on presentday social-political ills than does the Canadian political thinker. For Panikkar, dealing with the “rhythm of Being” cannot be a mode of escapism but involves a struggle about “the very meaning” of life and reality—a struggle which has to be attentive to all dimensions of reality, even the least appealing. “In a world of crisis, upheaval, and injustice,” he asks, “can we disdainfully distance ourselves from 13 . Panikkar, The Rhythm of Being: The Gifford Lectures (Maryknoll, NY: Orbis Books 2010), pp. xxvi-xxx, xxxii. the plight of the immense majority of the peoples of the world and dedicate ourselves to ‘speculative’ and/or ‘theoretical’ issues? Do we not thereby fall prey to the powers of the status quo?” In language which becomes ever more urgent and pleading, he continues: Can we really do “business as usual” in a world in which half of our fellow-beings suffer from man-made causes? Is our theory not already flawed by the praxis from which it proceeds? Are we not puppets in the hands of an oppressive system, lackeys to the powers that be, hypocrites who succumb to the allure and flattery of money, prestige, and honors? Is it not escapism to talk about the Trinity while the world falls to pieces and its people suffer all around us? . . . Have we seen the constant terror under which the “natives” and the “poor” are forced to live? What do we really know about the hundreds of thousands killed, starved, tortured, and desapericidos, or about the millions of displaced and homeless people who have become the statistical commonplace of the mass media?14 For Panikkar, we cannot remain bystanders in the affairs of the world, but have to become involved—without engaging in mindless or self-promoting activism. In a disjointed and disoriented world, what is needed above all is a genuine search for the truth of Being and the meaning of life—which basically involves a search for justice and the 14 . Ibid., pp. 3-4. As he adds somberly (p. 4): “Today’s powers, though more anonymous and more diffused, are quite as cruel and terrible as the worst monsters of history. What good is a merely intellectual denunciation in countries where we can say anything we like because it is bound to remain ineffectual. . . . There is little risk in denouncing provided we do not move a finger.” 83 Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr “good life” (or the goodness of life). “We are all co-responsible for the state of the world,” Panikkar affirms. In the case of intellectuals or philosophers, this responsibility entails that they “ought to be incarnated in their own times and have an exemplary function,” which in turn means the obligation “to search for truth (something that has saving power) and not to chase after irrelevant verities.” Genuine search truth or life, however, proceeds from a lack or a perceived need which provides the compelling motivation for the quest: “Without this thirst for ‘living waters’,” Panikkar writes, “there is no human life, no dynamism, no change. Thirst comes from lack of water.” On this level, we are not dealing with epistemological, logical, or purely academic questions. Quest for life and its truth derives ultimately from “our existential thirst for the reign of justice,” not from a passing interest or curiosity: “We are dealing with something that is more than an academic challenge. It is a spiritual endeavor to live the life that has been given us.”15 The quest for life and its meaning, in Panikkar’s presentation, is not simply a human initiative or an individual “project” (in Sartre’s sense); nor is it an external destiny or a fate imposed from on high. The reason is that, in the pursuit of the quest, the human seeker is steadily transformed, just as the goal of the search is constantly reformulated or refined. This is where Panikkar’s “holistic” or non-dualistic approach comes into play, his notion of a constantly evolving and interacting 15 . Ibid., pp. 4-5. In this context, Panikkar offers some very instructive asides (p. 5): “Now the foremost way to communicate life is to live it; but this life is neither an exclusively public domain, nor merely private property. Neither withdrawing from the world nor submerging ourselves in it is the responsible human attitude.” 84 triadic structure. As he writes: “I would like to help awaken the dignity and responsibility of the individual by providing a holistic vision,” and this can only happen if, in addition to our human freedom, we remain attentive to the “freedom of Being on which our human and cosmic dignity is grounded.” From a holistic angle, the different elements of reality are not isolated fragments but interrelated partners in a symphony or symbiosis where they are neither identical nor divorced. “Each entity,” Panikkar states, “is not just a part, but an image or icon of the Whole, or minimal and imperfect as that image may be.” Holism thus stands opposed to the Cartesian dualistic (subject/object) epistemology, without subscribing to a dialectical synthesis where differences are “sublated” in a universal (Hegelian) system. Importantly, holism does not and cannot equal “totalism” or “totalitarianism” because no one can have a grasp or overview of the totality or the “Whole.” “No single person,” we read, “can reasonably claim to master a global point of departure. No individual exhausts the totality of possible approaches to the real.” For Panikkar, the most adequate idiom in which to articulate such holism is the Indian language of Advaita Vedanta: “Advaita offers the adequate approach . . . [because it] entails a cordial order of intelligibility, of an intellectus that does not proceed dialectically.” Different from rationalistic demonstration, the advaitic order is “intrinsically pluralistic.”16 16 . Ibid., pp. 6-7, 17, 23-24. As he adds (p. 24): One must “constantly be on guard against one of the most insidious dangers that bedevils such endeavors: the totalitarian temptation. My attempt is holistic, not global; I am no offering a system.” Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr By overcoming Cartesian epistemology, advaitic holism inaugurates a close relation between human mind and reality, or (in different language) between “thinking” and “Being.” In this relation, thought not only thinks about Being (as an external object), but Being penetrates thinking as its animating ground. As Panikkar states pointedly: “The underlying problem is that of thinking and Being.” What is conjured up by this problem is the Vedantic conception of “atman-braham” or else the Thomistic formula “anima quodammodo omnia.” Another, more general idiom is that of ontology. In Panikkar’s words: “The consecrated word for what we were pondering about the Whole is precisely ‘Being”—and we shall not avoid this word any longer.” At this point, the text offers a passage which is not only evocative of, but directly congruent with Heideggerian formulations. “Thinking ‘thinks Being’,” we read. “Being begets thinking; one might even risk saying: Being ‘beings thinking’” (in line with Heidegger’s phrase that Being “calls forth” thinking). “Thinking is such only,” the passage continues, “if it is permeated by Being. Thinking is an activity of Being. Being thinks; otherwise thinking would be nothing.” This does not mean, of course, that human thinking can ever exhaust Being—which would result in “totalism” or totalization. Rather, thinking and Being are responsive to each other in a rhythmic “complementarity” or a spirited embrace: The vision of the concrete in the Whole and the Whole in the concrete is, in fact, another way of saying that the relationship is rhythmic. Rhythm is not an ‘eternal return’ in a static repetition . . . [but] rather the vital circle in the dance between the concrete and the Whole in which the concrete takes an era-new form of the Whole.17 For human beings, participation in this dance means not only light-hearted entertainment, but involvement in a transformative struggle to overcome selfishness or possessive self-centeredness. Panikkar speaks in this context of a “purification of the heart” which is needed in order to join the dance. He quotes at this point the words of Hugo of St. Victor: “The way to ascend to God is to descend into oneself”; and also the parallel statement by Richard of St. Victor: “Let man ascend through himself above himself.” What is involved here is not merely an epistemic principle, nor a purely deontological duty, but “an ontological requirement.” As Panikkar stresses, the issue here is not esoteric nor a private whim but simply this: that we shall not discover our real situation, collectively as well as individually, “if our hearts are not pure, if our lives are not in harmony within ourselves, with our surroundings, and ultimately with the universe [Being] at large.” The text here adds a passage that can serve as the passkey to Panikkar’s entire vision: “Only when the heart is pure are we in harmony with the real, in tune with reality, able to hear its voice, detect its dynamism, and truly ‘speak’ its truth, having become adequate to the movement of Being, the Rhythm of Being.” The passage refers to the Chinese Chung Yung (in Ezra Pound’s translation) saying: “Only the most 17 . Ibid., pp. 22, 32-33. As the text adds a bit later (p. 51): “Being is not a thing. There is nothing ‘outside’ Being. Hence, the Rhythm of Being can only express the rhythm that Being itself is.” For Heidegger’s formulations see his “Letter on Humanism,” in David F. Koell, ed., Martin Heidegger: Basic Writings (New York: Harper & Row, 1977), esp. pp. 235-236; and What is Called Thinking? [rather: What Calls for Thinking?], trans. Fred D. Wieck and J. Gleen Gray (New York: Harper & Row, 1968). 85 Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr absolute sincerity under heaven can effect any change,” and adds: “The spiritual masters of every age agree that only when the waters of our spirit are tranquil can they reflect reality without deforming it.”18 gods, men, and nature.” In more traditional language, one might say that rhythm is “the cosmotheandric order of the universe, the perichoresis (circuminsessio, mutual indwelling) of the radical Trinity.”19 What becomes clear in this context is that some of Panikkar’s key notions—like the “cosmotheandric” vision or “sacred secularity”—are not simply neutraldescriptive devices but are imbued with a dynamic, transformative potency. As one should note, however—and this is crucial—his notions do not reflect a bland optimism or trust in a “better future,” but are based on “hope”: which is a hope “of the invisible,” a hope for a promised possibility. With regard to “sacred secularity,” this possibility is not an empty pipe dream but is supported by a novel phenomenon (a novum) in our time: “This novum does not take refuge in the highest by neglecting the lowest; it does not make a separation by favoring the spiritual and ignoring the material; it does not search out eternity at the expense of temporality.” Differently phrased: the novum consists in a growing attentiveness to holism in lieu of the customary polarities (of this world and the other world, the inner and the outer, the secular and the divine). A still further way to express the novum is the growing awareness of the “Rhythm of Being” and the growing willingness to participate in that rhythm. What is becoming manifest, we read, is that “we all participate in Rhythm,” and that “Rhythm is another name for Being and Being is Trinity.” The last formulation refers again to the triadic or “cosmotheandric” structure of reality. For, Panikkar states, “rhythm is intrinsically connected with any activity of the As in the case of Taylor’s A Secular Age, it cannot be my aim here to submit Panikkar’s entire volume to reflective review and scrutiny. A few additional points must suffice. One point concerns the traditional conception of monotheism. The notion of “perichoresis”—coupled with the accent on the “meta-transcendental” status of Being— does not seem to accord well with monotheistic “transcendence.” In fact, Panikkar’s text subjects the conception to strong critique. As he writes at one point: “I suspect that the days of unqualified theisms are not going to be bright.” What troubles Panikkar, apart from philosophical considerations, is the implicit connection of monotheism with a heteronomous command structure (“God, King, President, Police”). “The titles of King and Lord,” we read, “fit the monotheistic God quite well, and conversely, the human king could easily be the representative of God, and his retinue a copy of the heavenly hierarchies.” This is the gist of “political theology” (so-called). To be sure, traditional hierarchies no longer prevail— despite recurrent attempts at constructing “theocracies.” What is required in the context 18 . Ibid., pp. 34-35. 86 19 . Ibid., pp. 10, 36, 38-39, 42. Somewhat later (p. 52) the text adds: “Rhythm is a meta-transcendental quality—that is, a property that belongs to every being as Being. Rhythm adds nothing to Being, but only expresses a property of Being qua Being. If truth is considered a transcendental because it expresses Being as intelligible, that is, in relation to the intellect, rhythm belongs to Being considered not in relation to the intelligence or the will, but in relation to its totality [or Whole].” This view is said to be also in accord with “the advaitic vision of the Rhythm of Being.” Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr of modern democracy is a radical rethinking of the monotheistic command structure. In Panikkar’s words: “Regardless of certain forms of fundamentalism, both Christianity and Judaism clearly show that human freedom and love of neighbor belong to the kernel of their message.” This means that any “revealed” monotheism must ultimately acknowledge its intrinsic reference to its “human reception” (and hence to “circuminsessio”). Differently phrased: Divine revelation “has to fall on human grounds in order to be a belief for humans.” This belief is “a human experience, humanly interpreted, and humanly received into the collective consciousness of a culture at a given time.” Summarizing his view, Panikkar writes: My position . . . is neither naively iconoclastic nor satisfied with a reformed monotheism. It recognizes the valid insight of belief in God, but at the same time it acknowledges that God is not the only symbol for that third dimension we call the Divine, and it attempts to deepen the human experience of the Divine by formulating it more convincingly for our times.20 In a central chapter of the book, titled “The Dwelling of the Divine” (capturing the originally intended title of the Gifford Lectures), Panikkar returns to the central meaning of the triadic structure understood 20 . Ibid., pp. 110, 128, 133-135. In an intriguing aside he adds (p. 135): “The hypothesis I would advance is that Western, mainly Christian and later Muslim monotheism, is a blend of biblical monotheism and the Hellenic mind represented mainly by Plotinus . . . Neither Plato nor Aristotle . . . was a strict monothist.” For a critique of (imperial-style) political theology see the chapter “The Secular and the Sacred: Whither Political Theology?,” in my Integral Pluralism: Beyond Culture Wars (Lexington, KY: University of Kentucky Press, 2010) pp. 45-66. as mutual in-dwelling. As he reaffirms, onesided theisms “no longer seem to be able to satisfy the most profound urges of the contemporary sensibilities.” What is coming into view instead is “perichoresis” seen as radical relationality where “everything is permeated by everything else.” Seen from this angle, “man is ‘more’ than just an individual being, the Divine ‘different’ from a Supreme Lord, and the world ‘other’ than raw material to be plundered for utility or profit.” This view can be grasped neither in the language of transcendence nor that of immanence, because “we cannot even think” one without the other. Thus, where does the Divine dwell? “I would say,” Panikkar states, “that the space of man is in God in much the same way as the space of God is in man.” From this perspective, man and God are not two separable, independent substances: “There is no real two encompassing man and God . . ., but they are not one either. Man and God are neither one nor two.” This, again, is the language of “adviatic intuition” (perhaps of Heideggerian “Unterschied”). Advaita, we are told here, does not simply mean “monism,” but rather “the overcoming of dualistic dialectics by means of introducing love [or wisdom] at the ultimate level of reality.” Regarding the trinitarian structure, Panikkar takes pains to broaden the conception beyond traditional Christian theology. Both “esoteric Judaism and esoteric Islam,” he notes, are familiar with the threefold structure of the Divine. Thus, Philo of Alexandria interpreted the vision of Abraham and his three “visitors” in a trinitarian fashion. The Muslim mystic Ibn Arabi was even more explicit when he wrote: “My beloved is three/-three yet only one;/many things appear as three/which are no more than one.” And the Chinese Taoist 87 Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr Yang Hsuing explained the “great mystery” as constituting simultaneously “the way of Heaven, the way of Earth, and the way of Man.”21 Toward the end of his book, Panikkar returns to the relation of meditation and praxis; of thinking and doing in a transformative process. As he writes: “The task of transforming the cosmos is not achieved by a merely passive attitude nor by sheer activism.” What is needed is a “synergy” in which human beings are seen neither as designing engineers nor as victims: “The world does not ‘go’ independently from us. We are also active factors in the destiny of the cosmos. Otherwise, discourse about the dignity of man, his ‘divinization’ or divine character is an illusion.” Seen from an advaitic angle, “man” is a “microcosmos” and even a “microtheos.” Hence, human participation in the rhythm of the cosmos means “a sharing in the divine dimension” or what is sometimes called “salvation history.” Participation in this dynamism is indeed a striving for a “better world”—but a striving where the latter is “neither the dream of an earthly paradise nor [a retreat into] the inner self alone,” but rather a struggle for “a world with less hatred and more love, with less violence and more justice.” Fro Panikkar, this struggle is urgent because the situation of our world today is “tragic” and “serious enough to call for radical measures.” Ultimately, the struggle involves a quest for the “meaning of Life” which will never be found through selfish exploits or violent conquest, but only “in reaching that fullness of Life to which [advaitic] contemplation is the way.” As Panikkar finally 21 . The Rhythm of Being, pp. 171-172, 174, 179 216, 230. 88 pleads: “Plenitude, happiness, creativity, freedom, well-being, achievement etc. should not be given up but, on the contrary, should be enhanced by this transformative passage” from man-made history to a triadic redemptive story.22 Concluding Comments The passage just cited highlights an important difference between Taylor and Panikkar. Basically, The Rhythm of Being is an affirmation and celebration of “life” in its deeper advaitic meaning. Panikkar uses as equivalents the terms “plenitude, happiness, creativity, freedom, well-being”; another customary term is “flourishing” (often used to translate Aristotle’s endaimonia). At another point, he introduces the word “life” “at the level of Being, as a human experience of the Whole”; the term here means “not only anima, animal life, but physis, natura, prakriti” referring to “reality as a Whole.” On this issue, A Secular Age appears astonishingly (and unduly) dismissive. As Taylor notes in his Introduction, in modernity “we have moved from a world in which the place of fullness was understood as unproblemtically outside or ‘beyond’ human life, to a conflicted age in which this construal is challenged by others which place it . . . ‘within’ human life.” For Taylor (as mentioned before), the basic question raised by the modern secular age is “whether people [still] recognize something beyond or transcendent to their lives,” that is, whether their highest aim is “serving a good which is beyond, in the sense of independent 22 . Ibid., pp. 350-351, 359. As he asks dramatically (p. 358): “Who or what will put a halt to the lethal course of technocracy? More concretely: who will control armaments, polluting industries, cancerous consumerism, and the like? Who will put an end to the unbridled tyranny of money?” Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr of human flourishing” or involving “something other than human flourishing?” The truly believing or devout person is said to be marked by readiness “to make a profound inner break with the goals of flourishing in their own case”; unwillingness to do so is claimed to be the hallmark of “self-sufficient humanism.” In sum: “A secular age is one in which the eclipse of all goals beyond human flourish becomes conceivable.”23 Taylor’s comments here are puzzling— and also disturbing. They are disturbing in a time when many, presumably religious people are ready to throw away their lives in the hope of gaining quick access to the “beyond.” They are puzzling by jeopardizing the very meaning of faith. For most believers, salvation (or “moksha”) signifies precisely the highest level of flourishing and the ultimate fulfillment of life. What, then, does it mean for believers to seeks something “outside or ‘beyond’ human life,” or something “transcendent to their lives”? Commonly, the antithesis of life is said to be death. Is God (the monotheistic God) then a God of death or of the dead? Clearly, this cannot be the case if we listen to Isaiah’s words: “The dead shall live, their bodies shall rise” (Isaiah 26:19). It becomes even less plausible if we recall Jesus’s provocative saying: “Follow me, and leave the dead to bury their dead” (Matthew 8:22), or his admonition that “the Father raises the dead and gives them life” (John 5:21). As it happens, Taylor himself waivers on this point and has to resort to ambivalent language. “There remains a fundamental tension in Christianity,” he writes. “Flourishing is good, nevertheless seeking it is not our ultimate goal. But even when we renounce it, we re-affirm it.” And he adds: “The injunction ‘Thy will be done’ is not equivalent to ‘Let humans flourish’, even though we know that God wills human flourishing.”24 Rather than pursuing the contrast between the two thinkers, however, I want to emphasize here a commonality. While differing in many ways, neither Taylor nor Panikkar shows sympathy for theocracy or for any kind of religious triumphalism. Being turned off by the megalomania and massive power plays of our world, both thinkers are sensitive to new modes of religiosity—quite outside impressive spectacles and miraculous events. As it seems to me, one of the distinctive features of are age is not so much the “death of God” or the lack of faith, but rather the withdrawal and sheltering of the divine in recessed, inconspicuous phenomena of ordinary life. The Indian novelist Arundhati Roy has caught this aspect in her book The God of Small Things. Inspired by the Indian text, I tried to capture the sense of (what I called) “small wonder” in one of my earlier writings. Here are some lines: For too long, I fear, the divine has been usurped and co-opted by powerful elites for there own purposes. . . . For too long in human history the divine has been nailed to the cross of worldly power. However, in recent times, there are signs that the old alliance may be ending and that religious faith may begin to liberate itself from the chains of worldly manipulation. Exiting from the palaces and mansions of the powerful, faith— joined by philosophical wisdom—is 24 23 . Ibid., pp. 270-271; A Secular Age, pp. 15-17, 19. . A Secular Age, pp. 17-18. In the same context, Taylor makes some references to Buddhism—which, likewise, remain ambivalent and deeply contestable. 89 Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr beginning to take shelter in inconspicuous smallness, in those recesses of ordinary life unavailable to co-optation.25 “But where there is danger, a saving grace also grows.”26 The change in religious sensibility is vividly displayed in modern art, especially in modern and contemporary painting. As we know, in medieval art the presence of the divine or the sacred was expressed symbolically by a golden background and the haloes surrounding sacred figures. Modern art cannot honestly, or without caricature, imitate or replicate this mode of expression. This does not mean that the sense of sacredness has been lost or abandoned. As it seems to me, that sense resurfaces in less obvious, more subdued ways: for example, in the miniature paintings of Paul Klee or else in a still life by Paul Cezanne. Viewed from this angle, modern secularism has a recessed meaning which is actually the very reverse of the popular “secularization thesis” (meaning the triumph of this-worldiness). he French philosopher Maurice Merleau-Ponty—a strong admirier of Cezanne—had a phrase for it: “the invisible of the visible.” Seen against this background, the relation between the two books reviewed here—A Secular Age and The Rhythm of Being—acquires a new meaning. Perhaps, one might conjecture, the “secular age,” as portrayed by Taylor, functioned and functions as wholesome conduit, a clearing agent, to guide a more mature and sober humanity to the appreciation of the “rhythm of Being.” If this is so (at least in approximation), then it may be propitious to remember Hölderlin’s lines: Q1): Professor Dallmayr, could you please tell me which is, in your opinion, the best translation of the vedantic term “advaita”, which is at the basis of Panikkar’s philosophy: “non-duality” or “a-duality”? Perhaps the meaning is the same? 25 . Fred Dallmayr, Small Wonder: Global Power and Its Discontents (Lanham, MD: Rowman & Littlefield, 2005), p. 4. See also Arundhati Roy, The God of Small Things (New York: Random House, 1997). 90 QUESTIONS to Fred Dallmayr Q2): Vorrei dare un piccolo contributo consapevole che mi pongo nell’ottica del e/e , come dire, un’altra finestra che si può aprire rispetto a quelle che stiamo ascoltando, ed è questa: quando si parla dell’autonomia del soggetto, questo soggetto occidentale che sembra nascere dal nulla e quando si sottolinea questo concetto dell’interdipendenza come condizione reale di tutti noi, a me sembra e questa è la mia finestra, che si possa aggiungere un altro anello di questa catena e che è quello che ci riconduce alla negazione della nostra origine. Tutti nasciamo da madre, da corpo di madre. Questo soggetto occidentale che pretende invece di nascere dal nulla dimenticando la sua origine da corpo di madre e dunque comportando conseguentemente questo “slegame” con la madre terra, per cui la terra diventa una macchina e non più un organismo che ci nutre e ci consente te di vivere come un’ ennesima 26 . This is a free translation of Hölderlin’s lines: “Wo aber Gefahr ist, wächst das Rettende auch.” See Friedrich Hölderlin, “Patmos,” in Poems and Fragments, trans. Michael Hamburger (Ann Arbor: University of Michigan Press, 1966), pp. 462-463. Compare in this context Maurice Merleau-Ponty, The Visible and the Invisible, Followed by Working Notes, ed. Claude Lefort, trans. Alphonso Lingis (Evanston, IL: Northwestern University Press, 1968); also his “Cezanne’s Doubt,” in Sense and Non-Sense, trans. Hubert L. and Patricia A. Dreyfus (Evanston: IL: Northwestern University Press, 1964), pp. 9-25. Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr risorsa alla quale si è fatto riferimento fino ad oggi in maniera indiscriminata, mi sembra che questo contributo del pensiero femminile …(sono stata contenta di queste citazioni di un pensiero femminile che esiste e che è ricchissimo ma che purtroppo sembra camminare su percorsi separati, anche questo credo volesse dire Panikkar quando richiama all’importanza ed alla fecondità di una integrazione anche naturalmente nei luoghi maschili di questo pensiero e quindi andare anche fino in fondo… Quando si dice non è uno né due: ho pensato alla gravidanza All’esperienza della gravidanza in cui c’è un altro essere che non è separato ma nemmeno è insieme, la stessa cosa della madre . Analizzare questa fenomenologia oppure ancora analizzare quel rapporto che sappiamo solo definire con la parola dipendenza della madre che educa un bambino. Ma non è così , perché una madre educa ad essere autonomi e quindi una dipendenza che crea un’autonomia che dovrebbe creare realizzazione di sé. Non esiste una parola in italiano che esprima quella particolare forma di dipendenza che non è solo dipendenza del bambino/a dalla madre. Poiché manca la parola significa che è un’impensabile della nostra cultura, qualcosa che non si vuole vedere. (Maria Esther Mastrogiovanni) Q3): Al Prof.Dallmayr chiederei di tornare sulla relazione Heidegger-Panikkar, che mi sembra molto interessante e che potrebbe portare effettivamente anche a delle nuove piste da tracciare. In che senso, diceva prima, che non si può capire Panikkar in tutto o in parte, senza passare attraverso le esperienze di Heidegger? Questo è un tema secondo me molto importante perché Heidegger è presente implicitamente o esplicitamente in molti grandi pensatori contemporanei, morti da poco come Deridda o viventi come Nancy e che comunque ha segnato sia per i suoi detrattori che per i suoi estimatori un punto decisivo. (Prof. Marcello Ghilardi) A1): I am not sure I can “answer” all your questions. I just offer reflections on them. Regarding “advaita”: It is very difficult to render the notion in a Western language. Sometimes it is translated as “non-duality”. The later Panikkar preferred “a-duality”. Nonduality might imply that there is no difference at all. A-duality has the advantage of being closer to the Sanskrit “a-dvaita” which does not simply mean negation. But a-duality in English also might suggest negation. For example, an a-theist is one who negates theism. I have found it helpful to speak in terms of “difference,” in the sense that “advaita” implies difference but not separation or negation. “Difference” here suggests a kind of relationship which is not a unity or synthesis, but also not a dichotomy or polarity. Hence, neither unity nor duality. There are famous Indian schools of philosophy, all related to Vedanta (the interpretation of the Vedas). There is Advaita Vedanta associated with Shankara. But there is also a Dvaita Vedanta associated with Madva Acharya; and there is a “modified Advaita” associated with Ramanuja. These versions all deal with the relation between God and humans, God and the world. So, “advaita” is hard to translate. One should just keep in mind what it means: not sameness or identity, but also not radical division. This is why I say it is similar to what Derrida called “différance”, or Heidegger “Unterschied.” Just a few words also on “space”: there is a misleading view that space means a 91 Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr “container”. Thus, one might think that we are in this room like in a container box. Thus, “space” might seem to be something outside us or containing us. Here, it is good to come back to Heidegger. When he says that human Dasein means “being-in-the-world”, he does not mean that we are in a container called “world”. Rather, world is constitutive of our being as humans. Hence, in a sense, world is also “inside” us. World here also means “space”. In the very first pages of Being and Time, there is a radical departure from Cartesian philosophy, the separation between cogito and external world. This is also a departure from the notion of “space” that continues from Descartes to Kant. For Heidegger, world and space are constitutive of us. (Space in Sanskirt is akasha; Panikkar uses that term in the Heideggerian sense.) A2): With regard to the question of the “mother”: I think the question of “mater” and the “maternal” is crucial. And “maternal” is related to “material” and thus to “matter.” We know that Panikkar puts great emphasis on “incarnation”, on the indwelling of spirit in matter. In this sense, matter definitely “matters.” The maternal-material here is not something external or alien to us, but something that we are: we are also maternal. We are not only of paternal, but of maternal origin. Clearly, this is a crucial feature of The Rhythm of Being: the maternal aspect. Being is not a masculine concept. Panikkar links the masculine aspect to the idea of monotheism where the Father God dominates everything. In a provocative way, he compares the omnipotence of the Father God with the “leader”, the Duce, the “Führer” (maybe George W. Bush etc.). So the maternal emphasis implies a rebellion against 92 machismo, against imperialism and global hegemony. A3): The question “Why Heidegger?” is quite appropriate. To be sure, one can approach Panikkar in many different ways. You can approach him as a literary figure; you can also approach him as a somewhat exotic religious teacher, perhaps as a “guru”. But if you really want to understand him and grasp what he says or writes, you have to follow his thought philosophically. And here, the philosophy of Heidegger can serve as a good gateway or entry wedge. One might perhaps also use other thinkers, like Wittgenstein or Paul Tillich or Paul Ricoeur. But Panikkar himself very often refers to Heidegger; of course, he also reformulates, revises and rethinks the letter’s thought. A good example is the “rhythm of Being” which is evocative of Being and Time. Also the assertion that “Being thinks thinking” (or prompts thinking to think). The statement sounds strange, perhaps even mystical. If one wishes, one can us it as a mantra or incantation. But if one really wishes to understand it, the one might want to look at the place where Panikkar himself looked. And this is one of Heidegger’s texts titled Was keisst Denken? The title is often translated as “What is Called Thinking?”—a trite question. But actually what the text wants to interrogate is this: What calls upon thinking? To what does thinking respond? And this leads us to Heidegger’s suggestion that thinking responds to Being which calls upon it to think. This is surely more than a mantra. (Unfortunately today, many people shy away from Heidegger’s work out of “political correctness”. In this respect, Panikkar was surely not politically correct. Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara LA FILOSOFIA “INTERCULTURALE”. Note e riflessioni Fulvio C. Manara Fulvio C. Manara (video) L'epoca delle riforme è già passata. Ora ci vuole una trasformazione, una metamorfosi. (…) realizzare in modo nuovo * l'esperienza umana . Vi ringrazio prima di tutto per la possibilità concessami di prendere parte a questo evento, che l'Associazione Interculturale ha saggiamente ed efficacemente sollecitato e messo in opera, e poter così incontrare amici e continuare un dialogo che ha radici ormai lontane. Radici lontane — radici sulle quali ancora viviamo e poggiamo, per fortuna, nel senso che sono divenute un vissuto e una storia che abbiamo in parte condiviso. In questo intervento1, dopo una breve premessa, vorrei muovermi attorno a tre direttrici, che sono le seguenti: a) una ricomprensione esperienziale della filosofia; b) un oltrepassamento della idea della filosofia comparativa, nell'esercizio del “colligite fragmenta” e nel contempo nella scoperta del pluralismo della verità; c) la * Raimon Panikkar, L'esperienza filosofica dell'India, Assisi, Cittadella, 2000, p. 21. 1 Conservo qui il registro, e, con poche modifiche e alcune aggiunte e integrazioni, la struttura e la sequenza dell'esposizione orale. riscoperta della natura “interculturale” di alcune pratiche filosofiche (se non di tutte), e il richiamo alla pratica del dialogo dialogale, che ricomprendo e considero a partire dalla pratica della “comunità di ricerca filosofica”. Parlo ovviamente dando per acquisita una lettura, se non un ascolto complesso e critico dell'opera di Raimon Panikkar, che ci ha detto: «La filosofia interculturale appare come una epifania di speranza» 2. Se così si può dire, affidiamoci a questa epifania, prendiamola sul serio, mettiamoci anche in gioco nel cercare di comprendere di che opera si tratta e che cosa ci chiede, non tanto in termini di “fare”, e men che meno di quel fare che è semplice “teorizzare”, quanto in termini di un'opera, di una pratica, letteralmente, di una esperienza umana integrale, quindi nei termini di un essere, di un “esserci”. 2 Raimon Panikkar, Pace e interculturalità. Una riflessione filosofica, Milano, Jaca Book, 2001, p. 139. 93 Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara Prendendo le mosse da un ascolto di Panikkar stesso, vorrei proporvi di ascoltare insieme un brano di una intervista a Panikkar, l'unico che per ora appare nel sito ufficiale: l'intervista in cui egli ci suggerisce la ben nota “metafora della finestra”. «Una delle metafore cui spesso ricorro è quella della finestra. Noi tutti vediamo il mondo dal nostro particolare punto di vista: vediamo il mondo attraverso una finestra. Due osservazioni. Prima: più pulita è la finestra meno vedo la finestra e il vetro e più sono in sintonia e amo ciò che vedo. Io non vedo la mia finestra: vedo attraverso la finestra. Ho bisogno di qualcuno che mi dica: “vedi attraverso una finestra”, ma allora anch'io posso dire: “anche tu vedi attraverso una finestra” e allora possiamo scambiarci le nostre osservazioni. Va bene. Abbiamo bisogno l'uno dell'altro. Ma c'è un'altra cosa circa la metafora della finestra. Io vedo attraverso la finestra e non posso dire che non vedo ciò che vedo attraverso la mia finestra. Io non vedo attraverso la finestra del mio vicino, ma se amo il mio prossimo — il che penso non sia male — allora ascolterò la descrizione di ciò che egli vede, e dirò: io non vedo la stessa cosa perché vedo attraverso la mia finestra ma sento che tu mi dici che c'è dell'altro. Scopro allora due cose: che l'altro, il mio vicino, non vede lo stesso mondo che vedo io. Ma scopro che anch'io non vedo tutto il mondo perché a meno che lui sia pazzo e io un fanatico, sento — e ricordiamo che san Paolo dice che la fede viene dall'ascolto — sento l'altro che mi dice qualcosa sul mondo o sulla realtà che lui vede che io non so. Allora scopro che il mondo è molto più bello di quanto pensassi. Credevo che la mia vista abbracciasse tutto ma ora tu mi dici che c'è 94 dell'altro, che può piacermi o meno, ma che è un arricchimento, una sfida. E qui comincia il dialogo intrareligioso: tu dici ciò che vedi, ciò che credi, ciò che sperimenti e nello stesso tempo ascolti l'altro che ti racconta altre storie, altre credenze, altre esperienze. E così, dialoghiamo» 3. In realtà, vorrei suggerirvi come in queste parole non si comprende ed esemplifica solo l'inizio del dialogo 3 «One of the metaphors I use is that we are all seeing the world from our particular point of view. We see the world through a window. And here I say two things: first, the more cleaner the window is, the less I see the window, and the glass, and the more I am in touch and in love with what I see. So, I don't see my window, I see through the window. And I need my fellow, who tells me: Look here, you're looking through the window! But than I have to tell him: Sorry, you're looking too through the window! And then we compare notes... And in great part we see the same landscape, but perhaps we see different way also. And If I say, no no I don't like to see that... All right... So, we need each other. But there is another thing, about the matter of the window. I see through my window, and I cannot say that I do not see what I see through my window. I dont's see through the window of my neighbour. But, if I love my neighbour — which I think is not bad — then I will have to hear the description of what my neighbour see, and I would tell, Sorry, I don't see that, cause I see through my window, but I hear you telling me something else. Well. What do I discover? I discover two things: I discover that the other, my neighbour, doesn't see the same world as I see. But I would also discover I don't see the whole world, because, unless he is a fool and I'm a fanatic, or I haven't heard him, I hear — and you remember that Saint Paul says that faith comes from hearing — I hear the other telling me something about the world or reality about what he or she sees through the window, that I don't. And then what I say? Well, than the world is much nicer than I thought! I thought I was seeing the whole film picture, and you are telling me there are other things as well. Well I don't like more, I like better, is enrichment, is a challenge. And here begins the interreligious dialogue. You say what you hear, you say what you believe, you say your experience, and arrange in the same time to hear the other telling other narratives, other believes, other experiences. And than, we dialogue». Raimon Panikkar, Estratto di una intervista visibile in http://www.raimon-panikkar.org/italiano/filmati.html. Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara intrareligioso/interreligioso, o di qualsiasi dialogo inter/intra-umano. Con queste parole si mostra altrettanto bene come comincia anche la ricerca filosofica stessa. E, in ultima analisi, sosterrei che la filosofia, se praticata in questo senso, è essa stessa intrinsecamente interculturale (o inter-intra-culturale) Una ricomprensione della filosofia Non penso sia utile interrogarsi tanto sul rapporto tra la filosofia interculturale e l'ecosofia, prese come se fossero due realtà distinguibili. Pensando a queste questioni in questi giorni mi è venuto in mente un neologismo. Direi che potremmo comprendere di che cosa si parla se utilizziamo la parola (anzi, tre), che invento, “econoia”, “econoesis”, “econoetica”. Raimon Panikkar spesso ci ha condotto a riflettere sulla connessione intima tra l'esperienza della filosofia e la metanoia. Suggerirei di non dimenticare che questa metanoia non consiste univocamente in un “oltrepassamento” del “nous”. Deve infatti contemporaneamente consistere in un “trascendimento” nel senso dell'andare-al-dilà e in un “trascendimento” nel senso dello “scendere tra” — tra-scendere 4. Spesso abbiamo parlato di un “attraversamento” del logos: qui proporrei, in aggiunta, questo esercizio del pensare come un “abitare” il nous (o lasciare che il nous ci attraversi, che è lo stesso). Ecco quindi l'espressione “econoia”, sorella gemella e advaiticamente 4 E questo, evidentemente, complica il nostro intendere, perché mostra che esso inevitabilmente è anche un fra-intendere. inseparabile dalla espressione “metanoia”. La filosofia “interculturale”, se qualcosa di corrispondente a questa espressione si può dare, potrebbe essere intesa proprio come questa stessa pratica advaitica. La filosofia stessa in sé e per sé, potrebbe essere questa pratica radicale. Da questo punto di vista, si può dire che essa è ancora tutta da comprendere. E non penso dobbiamo illuderci che si possa realizzare. Spesso nei suoi scritti Panikkar ci suggerisce che non possiamo pensare ad una “transculturalità” 5. Ci è richiesto piuttosto di imparare ad abitare altrimenti le culture (le nostre e le altre), la nostra dimensione culturale in modo nuovo, trasformando il nostro vivere la cultura. La filosofia “interculturale” è una attività paradossale, come qualcosa che si deve imparare sempre da capo. È noto che Panikkar inventa e spesso richiama, per definirla, l'espressione “filosofia imparativa” 6. Una vera e propria e permanente “dinamica del provvisorio” 7. 5 «Nessuno può scavalcare la propria ombra. Non c'è una prospettiva umana a 360 gradi, e possiamo renderci conto che vediamo il mondo dalla nostra finestra e che proprio il relativizzare i nostri punti di vista costituisce la via per poter accogliere i racconti di coloro che guardano il mondo da altre finestre», R. Panikkar, L'esperienza..., cit., p. 41. 6 Ivi, p. 66. 7 Una pratica semplicemente comparativa, afferma sempre Panikkar, incappa in un circolo ermeneutico “vizioso” dal quale si può uscire se non con un dialogo dialogale, cfr. ivi, pp.65-66. Sul tema “filosofia interculturale” tra filosofia comparata e altre nuove direzioni proposte, in questi ultimi anni, si possono vedere anche: Fritz G. Wallner – Florian Schmidsberger – Franz Martin Wimmer, Intercultural Philosophy. New Aspects and Methods, Peter Lang, 2010; A. Campodonico – M. S. Vaccarezza, Gli altri in noi. Filosofia dell'interculturalità, Rubbettino, SoveriaMannelli, 2009; Per una filosofia interculturale, a c. di 95 Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara Nella nostra tradizione occidentale, spesso la filosofia ingenuamente ha pensato di poter realizzare in qualche modo un “prodotto” schiettamente transculturale, ha pensato quindi di poter definire, di poter identificare un orizzonte che uscisse, come dire, dalla dimensione culturale e relativa e attingesse all'universale, all'assoluto, e lo potesse sistematizzare, lo potesse anche dominare, controllare. Una ingenuità: non può esistere una transculturalità, quindi una filosofia “transculturale”. «Non c'è», dice Panikkar, «una terra di nessuno in questa terra di tutti» 8. L'auspicio allora può essere che in questa “terra di tutti” possiamo riscoprire una pratica forse antica quanto l'essere umano stesso ma non sempre portata alla coscienza ed alla consapevolezza. Il mio intento è quello di riflettere sulla pratica, sulle pratiche, perché penso che non sia tanto il contenuto il problema della filosofia interculturale, quanto il processo, che dobbiamo incominciare a comprendere. Ciò dipende, ovviamente, da una ricomprensione della filosofia. Abbiamo scoperto in effetti che G. Pasqualotto, Mimesis, Milano, 2008; Vie per un'estetica interculturale, a cura di M. Ghilardi, Mimesis, Milano, 2008; Raoul Fornet-Betancourt, Trasformazione interculturale della filosofia, Dehoniana- Pardes Edizioni, Bologna, 2006; Giangiorgio Pasqualotto, East & West. Identità e dialogo interculturale, Marsilio, Venezia, 2003; Ram Adhar Mall, Intercultural Philosophy, Rowman & Littlefield Pub., Lanham-Boulder-NewYork- Boston, 2000; Angelo Campodonico, Etica della ragione. La filosofia dell'uomo tra nichilismo e confronto interculturale, Jaca Book, Milano, 2000. Si tenga presente inoltre la rivista InterCulture, versione italiana della pubblicazione dell'Istituto Interculturale di Montreal, edita da Città Aperta. 8 R. Panikkar, L'esperienza filosofica..., cit., p. 10. 96 neanche la ragione è transculturale. Ci ripetiamo, quasi ossessivamente, che non è possibile trascendere i punti di vista, e trovare un punto di vista di tutti i punti di vista, o il sistema dei sistemi, come pensava Hegel. Ma la pratica filosofica, intesa nella sua nuda essenzialità, può essere forse scoperta (o riscoperta) come un invariante culturale? In un testo di Panikkar che è la Prefazione all'opera L'esperienza filosofica dell'India, che lui intitola “Karma-gnosis” 9, ci provoca a cogliere questa relazione advaita tra due prospettive, quella pratica, che sarebbe identificata dall'espressione “karma”, e quella teoretica, che sarebbe identificata nell'espressione “gnosis”. In questo testo viene ripreso l'etimo della parola “filosofia”, perché questa parola non ha un etimo univoco e monistico, mentre nella nostra tradizione abbiamo ricordato e tramandato, in grande prevalenza, solo uno dei significati dell'etimo della parola “filosofia”, che è invece parola non solo composta, ma complessa, plurale, o almeno duale. Normalmente, per tradizione, diciamo tutti che la filosofia è “l'amore della sapienza”: così facendo in realtà ci muoviamo in una direzione esattamente opposta rispetto a quello che avviene per altri termini analoghi, come ad esempio “biologia”, che vuol dire “discorso sul bios”. Quando diciamo “filosofia” dovremmo intendere piuttosto “saggezza dell'amore”, che è l'etimo “dimenticato” (e ripreso oggi nel mondo delle pratiche filosofiche) 10. 9 R. Panikkar, L'esperienza..., cit. pp. 9-22. 10 A proposito, tra altri autori che hanno sottolineato Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara «Con filosofia intendo ciò che dovremo ancora dire, infatti probabilmente non abbiamo un altro e migliore nome in Occidente per esprimere non solo l'amore verso la sapienza, ma pure la sapienza dell'amore e quella attività mediante cui l'uomo cerca di dare senso alla propria vita e all'intero universo» 11. In realtà nella tradizione filosofica occidentale questa maniera di intendere la filosofia è ben presente, anche se tendenzialmente marginalizzata o anche rimossa. Si pensi ad esempio al testo celeberrimo della Lettera VII di Platone, in cui si legge: «Non è, questa mia, una scienza come le altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s'accende da fuoco che balza; nasce d'improvviso nell'anima dopo un lungo periodo di discussioni sull'argomento e una vita vissuta in comune» 12. Questa “scienza” non nasce solo dal lavorare faticosamente sullo scontro dei concetti, in un dialogo dialettico, ma esige il vivere insieme e insieme “esercitare” dialogo e pensiero, 13. È determinante anche quel la “riscoperta” di questo “etimo dimenticato” nel corso del novecento (Lanza del Vasto, Levinas, ecc.), il rinvio d'obbligo è ora a Luce Irigaray, La via dell'amore, Torino, Bollati Boringhieri, 2008: passim, ma si v. soprattutto l'Introduzione, pp. 7-14. 11 R. Panikkar, L'esperienza..., cit. p. 17. 12 Platone, Lettera VII, 341c-d, in Opere complete, vol. VIII, Bari, Laterza, 1984, p. 44. Corsivo mio, ovviamente. 13 A proposito della presenza “originaria” in Socrate di un atteggiamento simile, centrato sul “mettere alla prova” il logos (manthanein ta legomena, o exetazein ton logon), che è tutt'altro rispetto al fare «della conoscenza e del possesso assoluto della verità la meta della critica e dell'uso della ragione» si v. il bel saggio di Gabriele Giannantoni, Socrate, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1993, in part. Il cap. VI, pp. 62-63 “suzen” spesso dimenticato, quel “vivere insieme” e dal praticare insieme nella vita le pratiche dialogiche, da cui scaturisce una saggezza, da cui scaturisce una comprensione di sé e dell'altro, del mondo. Anche quando si menziona e si enfatizza il sumphilosophein, non sempre viene debitamente tenuto conto di questa dimensione di integrale esperienza di vita comune e quindi di costituzione di “comunità” come condizione determinante (e complessa) della pratica filosofica stessa, la quale viene quasi sempre intesa come un “confilosofare”, ma pensato (e agito) come semplice pratica particolare della dialettica del gioco sulle idee, sul mondo puramente centrato sull'oggetto su cui si parla 14. Nella intervista che abbiamo sentito, la raccomandazione panikkariana, in un inciso, è molto significativa, quando, a proposito dell'amore dell'altro, soggiunge “penso che non sia poi una cosa malvagia”. Direi di più: è la condizione costitutiva dell'esperienza della comunità filosofica. E Panikkar stesso mostra che si tratta di una trasformazione, quando dice che il sapere è più del conoscere e il conoscere è più che calcolare 15. Questo sapere, che nasce dalla pratica della relazione, della relazione amicale, della relazione amorosa, da un contagio amoroso, questa sapienza che nasce in questo modo consiste in un “assaporare”: e 66. 14 Si v. ad esempio Enrico Berti, Sumphilosophein. La vita nell'accademia di Platone, Laterza, Bari, 2010, in part. alle pp. VII-IX, dove si vede appunto che dal suzen, pur esplicitamente richiamato, l'accento si sposta subito sulla prospettiva tradizionale. 15 Cfr. R. Panikkar, L'esperienza..., cit., p. 13. 97 Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara questo “contagio” è esso stesso una nuova forma dell'amore. La conoscenza autentica, in questo senso, è un continuo nascere 16, ed è evidente la connessione interessantissima e profonda con l'idea di Maria Zambrano del “desnacer”. Voi sapete che uno dei maestri di Maria Zambrano, Xavier Zubiri, è anche venuto in diretto e stretto contatto con Raimon Panikkar. In ogni caso, un “desnacer”, un “disnascere” che non è un nuovo nascere, il quale sarebbe impossibile, perché non si nasce una seconda volta, ma è un rimettere al mondo il mondo che noi stessi siamo, e di cui siamo parte costitutiva, con un'opera ed un processo continui. «Il mondo del pensiero non cessa di appartenere alla vita», il «luogo in cui si nasce e si disnasce (…) è il più proprio al pensiero filosofico» 17, scrive la Zambrano, e: «Tutto il vissuto, la vita intera, sarebbe un semplice passare senza rinascere, e, senza rinascere, niente è del tutto vivo. Tornare a vedere nuovamente le cose e gli esseri, afferrati sempre a metà dall'intelletto, o captati violentemente dalla percezione, o lasciati passare senza reagire e precipitati tutti negli inferi, dove giace e geme quanto è stato visto solo a metà, sottratto violentemente al suo ambiente. Si direbbe dunque che tutto il vivente — sia il soggetto di una vita, sia quello che si dà all'interno della vita di un soggetto — aneli e sia irresistibilmente mosso per completarsi: germe, embrione che tenta di nascere completamente in un'atmosfera più ampia 16 Ibidem. 17 Maria Zambrano, Verso un sapere dell'anima, Milano, Cortina, 1996. risp., p. 183, 7. 98 e luminosa, dove la sua totale apparizione sia possibile, la sua totalità interminabile. Un'atmosfera in cui il tempo venga fecondato dalla luce». 18 Un pensiero vivente, dunque. Al centro l'esperienza della vita: «proprio quel contatto immediato con la realtà che nell'uomo si realizza attraverso i sensi, siano essi sensuali, intellettuali o mistici» 19. Ecco cosa significa sostenere che la pratica filosofica, è in se stessa attiva e pratica, «La filosofia, cosa esclusivamente in atto e pratica» 20, come fa Simone Weil nei Cahiers. Il theorein è qualcosa che si gioca dentro l'esperienza della vita, del mondo. Come per la Zambrano e Zubiri, per Panikkar la filosofia è attenersi alla realtà vivente che si culla nelle nostre vite, e consiste in una intellezione profonda del mistero delle nostre stesse vite. Cercheremo qui di mettere attenzione a dov'è che si da questa esperienza, e sulle sue dinamiche costitutive, ecc. Il contesto del suzen, il suo modo di realizzarsi, non è evidente a tutti 21, anche se la sua espressione più generale, ossia il dialogo, è generalmente riconosciuta da molti. Per comprendere meglio e meno riduttivamente ciò che avviene, però, occorre che consideriamo con maggiore attenzione la dinamica complessa e 18 Maria Zambrano, Note di un metodo, Napoli, Filema, 2003, pp. 89-90. 19 R. Panikkar, L'esperienza..., cit., p. 17. 20 Simone Weil, Oeuvres Completes, Cahiers, vol. VI, p. 392; tr. it. Quaderni, IV vol., Adelphi, Milano, 1993, p. 396. p. 21 Anche perché nelle nostre scuole di ogni ordine e grado spesso la pratica del dialogo non è la dimensione originale e strutturante dell'esperienza di apprendimento... Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara pluridimensionale dell'esperienza di cui ci ha parlato Panikkar nella sua intervista sulla metafora della finestra. Dobbiamo vedere di “mettere a fuoco” meglio il luogo di questo operare, la sua “architettura”. Più che essere una “architettura dell'anima”, come avrebbe detto Simone Weil, potremmo dire che questo “luogo” è, per Panikkar, l'ordo / dharma teantropocosmico. La tradizione filosofica (abbiamo insistito parecchio anche in questi giorni su questa distinzione più profonda) non può chiudersi e limitarsi solo sulla pratica dialettica, che è poi descritta abbastanza analiticamente anche nel passo della Lettera VII che abbiamo riletto, noto a tutta la tradizione. Ma quest'ultima ha la tendenza ad intendere in modo “obiettivante” la pratica della “fatica del concetto”. La filosofia così sarebbe solo l'attività del mettere a confronto, elaborare, raffinare idee e concetti, per costruire una grande classificazione del mondo, un sistema che ci permette di “ingabbiare” il mondo. Invece, la filosofia, oltre che condizione di chi ama la sapienza, ed ama e cerca la verità (sapendo che non può impadronirsene ed è quindi in cammino in una ricerca mosso dal desiderio), è anche contemporaneamente un'esperienza della relazione con l'altro che mi provoca e mi interpella direttamente, mettendo in attività quello stesso contatto integrale dei sensi (sensuali, intellettuali e mistici). L'altro che mi parla, mentre io sono intento a perdermi nella mia visione del mondo, è un elemento determinante dell'esperienza filosofica, o dell'esperienza di una vivencia che si disponga a desnacer. L'altro in carne ed ossa, con i suoi colori, sapori ed odori, ecc. In questo senso la filosofia non è solo una visione del mondo, o “concezione del mondo”. La filosofia necessita, in primis, ovvero come dimensione costitutiva, di quel momento, quella pratica in cui prima di tutto due persone, o più, si incontrano e si ascoltano, comunicando con una parola viva, non solo con una parola scritta 22. Solo da questo incontro/ascolto nasce poi l'interrogare. La parola scritta, in sé e per sé, fa compiere al nostro pensiero uno scivolamento (dal processo al prodotto concettuale) che ci può portare a pensare che poi noi in qualche modo “dominiamo il concetto”: e alla fine può essere un ostacolo all'attraversamento del logos. E il logos, lo dobbiamo sentito anche ieri, è là per essere attraversato, in più direzioni, almeno due: l'una verso il mito e l'altra verso l'impensabile. Ma non lo attraverso, il logos, solipsisticamente, standomene per conto mio, nella mia cameretta, a speculare. Lo posso fare solo mediante una esperienza 23, quando un altro vivente, un altro essere umano, accanto a me, mi interpella. Ed è capace di farmi ascoltare quello che io non vedo, non sento. D'altra parte è certo che nel nostro campo visivo noi non vediamo i nostri occhi, quindi non vediamo e non ci rendiamo conto del nostro “punto di vista”: questo lo 22 In questo dialogo vivo si compie una esperienza complessa, non univocamente “mentale” quanto integrale ed olistica, di questa relazione, che ha almeno tre poli: il tu che mi interpella – io che vedo – il mondo “tra” noi due o “in” cui siamo entrambi. 23 R. Panikkar, L'esperienza filosofica..., cit., p. 16. 99 Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara sappiamo tutti — forse dovremmo imparare a comprenderlo meglio. Questa filosofia, esercizio della sapienza stessa dell'amore, nasce da questa relazione dialogale entro cui si sposta l'accento oltre l'univoco e astratto “parlare su” qualcosa tra noi. Ciò vuol dire rendere l'oggetto del discorso — e il discorso stesso, in ultima analisi — qualcosa che “sta tra noi”, e su cui noi possiamo anche concentrarci prestando attenzione — ma che non possiamo “comprendere” se non ascoltando il “tu” con cui parliamo. Non è solo un “parlare su” è un “parlare con”. E l'oggetto (non più letteralmente, gegenstand) diventa come un “mediatore” tra noi, che si costituisce grazie all'attraversamento delle reciproche “visioni”... Come ci ricorda il già menzionato libro di Luce Irigaray, in cui si riprende questa esplorazione, e si mostra in che cosa possa consistere ciò che porta alla sapienza dell'amore, alla saggezza dell'amore. “Dialogo con” e quel “con” è esattamente il movimento che abbiamo sentito descrivere e che ci permette di raccogliere i frammenti dell'esperienza, che è sempre molteplice rispetto a quanto noi non immaginiamo, in una pluralità, ma ci permette anche di ridare valore a ciascuna propria visione. Il “contagio amoroso” e l'interrogare radicale Quest'idea del contagio amoroso, della relazione amicale come origine di una comprensione sapienziale, di una sabiduria — come ripeteva Panikkar — un sapere che mi permette di entrare in relazione empatica 100 profonda con l'altro e anche di sentire, “sapere”, gustare il mondo... Ha mostrato la radice di questa esperienza sempre Platone, nel Gorgia, quando usa un termine che può essere tradotto molto male in italiano, tradizionalmente, senza anche discuterne troppo, il termine “eunoia”, che viene tradotto normalmente con “benevolenza” ed è un impoverimento abbastanza significativo. Si sposta l'accento dalla “buona disposizione del nous” entro la relazione, alla “buona volontà” di accento solo morale, e non più invece costitutivamente teoretica. Il pensiero filosofico che si dà nella relazione viene ignorato. Forse potremmo mettere tutto questo in relazione (se ne potrebbe ragionare) con quella che noi chiamiamo un po' psicologisticamente l'empatia. Cito invece un altro filosofo, Levinas, che in un suo testo — commentando la domanda di Polemarco all'inizio della Repubblica di Platone (che si chiede se possiamo convincere chi non ascolta) — mostra questo “circolo originario” dell'etica come disponibilità originaria al dialogo nella fiducia costitutiva nella quale mi affido al dialogo stesso, ascoltando. Circolo originario, perché l'atteggiamento di disponibilità all'ascolto da parte degli interlocutori, sembra un momento “fondativo”, nel senso che sta a monte di qualsiasi parola che io dico, di qualsiasi atteggiamento che interagisce tra noi. E Levinas la chiama “ragione prima della ragione”, persuasione originaria «che rende umani il discorso coerente e la ragione Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara impersonale» 24. treccia 26... Ci sarebbe ben da fare per esplorare questa “via” tra le testimonianze delle diverse vie filosofiche in occidente. Ma, è sicuro, anche oltre l'occidente. Potremmo, ad es., risalire anche al Rig Veda, che provoca il nostro pensare dicendo: «In principio è scaturito l'amore, / il primo germe della mente» (e ad altri passi paralleli) 25. Ciò comporterebbe sviluppare seriamente e per gioco la vera e propria dimensione interintraculturale della pratica filosofica... Con la pratica filosofica ci viene chiesta o suggerita un'opera, come possibile scoperta. Metterci-in-gioco fidandoci, affidandosi a questa buona disposizione della mente, dell'intelletto o dell'intelligenza (del nous) che Platone chiama eunoia, e che è la radice profonda del dialogo: si può esprimere solo in un'opera, in un esserci-agendo, e questa fiducia profonda non può essere oggettivata. La fiducia profonda nell'altro è qualche cosa di problematico, chiaramente, ma anche reale ed effettivo. E quali sono le caratteristiche di questo “stile” di questo modo di essere che è la filosofia? È una filosofia non intesa come una teoria, come una dottrina, non intesa come una costruzione di un “discorso su” qualcosa. Da questo punto di vista sono straordinarie le connessioni con 27 l'insegnamento di Pierre Hadot , mancato pure lui quest'anno, filosofo, non solo storico della filosofia, che ci ha fatto riscoprire la filosofia come maniera di vivere, e la filosofia come esercizio spirituale, o insieme di esercizi spirituali che noi possiamo compiere. Ma quello che voglio sottolineare qui con forza è che questa non è una questione “speculativa”. Sarebbe riduttivo conoscere senza amare, e amare senza agire (come ci ripetiamo con insistenza in questi giorni tra noi, testimoniando un messaggio determinante di Panikkar) — in termini indici, c'è un'unicità ma non una unità di queste tre dimensioni: i tre cammini, ossia jnana-marga, karma-marga e bhakti-marga, sono come una 24 Emmanuel Levinas, Libertà e comando, in E. Levinas – A. Peperzak, Etica come filosofia prima, Milano, Guerini e Associati, 1989, pp. 20-21. Cfr. anche, nello stesso volume, Fabio Ciaramelli, L'anacronismo, p.166. Levinas stesso, in Altrimenti che essere o al di là dell'essenza, illustra e riflette sul “secondo etimo” della parola “filosofia” di cui ho parlato più sopra, quando afferma: «La filosofia è questa misura recata all'infinito dell'essere-per-l'altro della prossimità e come la saggezza dell'amore», e ancora: «La filosofia: saggezza dell'amore al servizio dell'amore», Milano, Jaca Book, 1995, pp. 202-203. 25 Raimon Panikkar, L'esperienza..., cit, p. 5: ma si v. piuttosto le due diverse traduzioni che egli stesso presenta in The Vedic Experience. Mantramanjari. Anthology of the Vedas for Modern Man and Contemporary Celebration, edited and Translated with Introduction and Notes by Raimundo Panikkar, with the Collaboration of N. Shanta, M. Rogers, B. Baumer, M. Bidoli, Delhi, Motilal Banarsidass Publ., 1977, p. 52 e 58, nella tr. it. I Veda. Mantramanjari, Milano, Rizzoli, 2001, vol. I, pp. 69 e 76. Ecco il luogo in cui noi pratichiamo questo filosofare che richiede la vita comune e si genera da essa. È ovviamente un contesto diverso da quello sviluppato tradizionalmente nella scuola. In realtà la filosofia nell'età moderna in molti casi e nell'età contemporanea quasi universalmente è una attività di professori che parlano ad altri 26 Cfr. Raimon Panikkar, Il dharma dell'induismo, Milano, Rizzoli, 2006, pp. 97-175, in part. pp. 154-175. 27 Di Pierre Hadot si può vedere con frutto tutto quanto ha prodotto, ma qui va menzionato per precisione il suo capolavoro dal titolo Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino, 1986. 101 Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara professori, o una attività di professori che formano altri professori. È abbastanza inquietante quella filosofia che finisce per “specializzarsi” ed è evidentemente un paradosso, o forse un suo vero e proprio pervertimento. Aveva ben compreso questa tensione verso la totalità Enzo Melandri, che a proposito afferma: «La filosofia appartiene al genere degli amori o filie non corrisposti per principio. Il suo senso è la pretesa di un sapere totale, non meno. Degrada se stesso, non la filosofia, chi si rifiuti di riconoscere in sé la presenza di questo senso. Tuttavia non c’è bisogno di uscir fuori di sé, per capire che la totalità del sapere non si lascia racchiudere in una pretesa. La crisi attuale della filosofia non può essere la crisi della pretesa di un sapere totale, per la semplice ragione che questa crisi c’è sempre stata da quando esiste la filosofia. Lasciamo stare la metafisica: la filosofia si è sempre saputa quale amore non corrisposto. La crisi della pretesa di un sapere totale è lo specifico modo d’essere della filosofia. (...) La filosofia non può costituirsi in sapere parziale, disciplina o scienza speciale. Essa non può ritagliare entro il mondo il suo oggetto, perché il suo oggetto è la totalità. Esser filosofi significa esser specialisti in fatto di totalità» 28 . Ed è proprio nella scuola, nella pratica della scuola (sebbene non solo in essa) che forse può sopravvivere quella possibilità dialogale profonda, questo atto, questa pratica, che è un'esperienza. Come uno “stile 28 Enzo Melandri, Sulla crisi attuale della filosofia, in «Il Mulino», n.223, settembre-ottobre 1972, p. 877. 102 di vita” che ci permetta di imparare a “scrivere la nostra vita”. Come con uno stilo, come con una penna: scriviamo la scrittura della vita. E nello stesso tempo la scrittura può divenire un vero e proprio esercizio spirituale... Ora, alcune pratiche possono essere anche descritte, se volete, ma è chiaro, si tratterebbe di un discorso che si avvita un po' su se stesso: son cose che si dovrebbero esercitare, mettere in opera, svolgere sul piano esperienziale, fuori dal setting della conferenza. Provare insieme: mettersi in cerchio e giocare il gioco del dialogo, dove è chiaro in primis che l'ascoltare (più che il parlare esprimendosi) è determinante. Nell'intervista si coglie molto bene questo spostamento dell'asse dal vedere all'ascoltare (che non cancella il primo, ma, come dire, lo “relativizza”). Un invito a passare dalla fiducia nella vista come senso cui viene attribuito il massimo valore all'ascolto, e l'ascolto attivo. Quest'ultimo, come ormai sappiamo anche da contributi semplicemente psicologici, è costituito strutturalmente dall'atto dell'interrogare. Questo interrogare è un domandare volto a rimandare all'altro, in ogni senso, quello che a noi sembra di lui, quello che ci pare di aver compreso, quello che sentiamo di lui, dal nostro punto di vista, per chiedergli una conferma, o per ascoltare meglio, appunto, da lui, la sua esperienza esposta dal suo punto di vista, e per vedere se l'altro/a si riconosce nell'interpretazione che noi diamo di lui/lei. Ed, entro questo orizzonte dialogale, si disvela e si mette in opera l'atto filosofico per eccellenza, che è appunto l'atto Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara dell'interrogare radicale 29. convergenza di differenti approcci. Dal colligite fragmenta alla fenomenologia esperienziale, all'ermeneutica diatopica Ma di fronte all'emergere della radicale incommensurabilità delle differenti filosofie nessuna filosofia si accontenta di essere semplicemente “una prospettiva” e il relativismo ingenuo è poveramente insufficiente. Se spostiamo però l'accento dalla “natura del prodotto” alla “forma della pratica”, vediamo che forse il carattere metafilosofico, o più radicalmente filosofico, è proprio questo stile-registro di dialogo e interinterrogazione continua e aperta. Noi siamo diventati in occidente abbastanza sfiduciati rispetto a quello che vediamo. Abbiamo la cultura del sospetto, se ne potrebbe ben discutere, o anche la cultura del disincanto del mondo: non ci fidiamo più della nostra visione, di quello che vediamo. E qui si potrebbe richiamare il racconto che anche Raimon Panikkar cita spesso, ed è quello dei sei saggi ciechi e dell'elefante. Una storia che sembra risalire ad un antico racconto buddhista 30. In sostanza questa storia dice che sei ciechi, magari filosofi, si incontrano con un elefante e ciascuno dice la sua su quello che riesce a toccare... «È come un muro» dice chi sente la pancia. «È come una muraglia». «È come un tronco» dice chi sente le gambe. «È come una corda»: chi tocca la proboscide. «È come una spada appuntita» dice chi tocca le punte delle zanne. I filosofi litigano tra loro. Di solito questa storiella viene interpretata come una allegoria della “trascendenza” dell'oggetto rispetto a chi lo percepisce. La prima delle due più diffuse interpretazioni della parabola dell'elefante è notoriamente quella che ne trae l'insegnamento che invita a “comporre” a “mettere insieme” i frammenti per ottenere una “visione di insieme” che al singolo non è possibile ma si costituisce appunto con questa 29 Dell'interrogare radicale dà una brillante e abbastanza condivisibile descrizione Wilhelm Weischedel, nella sua opera Il Dio dei filosofi, vol. I, Genova, Il Melangolo. 1988, p. 50-58. 30 R. Panikkar, L'esperienza..., cit. p. 65-66. C'è poi una seconda maniera, a parer mio altrettanto importante, di intendere e interpretare la parabola dell'elefante, che la tradizione fenomenologica del novecento ci ha invitato a riscoprire, ponendo attenzione a come entro in relazione con quell'elefante: e ci dice che dobbiamo porre miglior attenzione a quel che accade quando “sentiamo”, quando tocchiamo: «Giudichi bene quando tu, toccando la pancia, la paragoni a un muro? Quell'analogia non è un po' sbrigativa, non potresti stare un po' attento, prestare attenzione a quello che accade in te quando c'è questo incontro?». E via dicendo per tutte le altre prospettive. Come si vede, occorre muoversi in due direzioni, anche se tra loro opposte e contradditorie, occorre approfondire in due direzioni di pensiero: da una parte, riconoscere che la comprensione dell'elefante non può essere relativa solo al proprio punto di vista. E, dall'altra parte, nello stesso tempo, raffinare la nostra capacità di entrare in relazione col mondo e fidarci di quello che appare, affinando sempre di più e sempre di nuovo questa esperienza. E qui abbiamo la connessione diretta con la metafora della 103 Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara finestra che ci dice “vedo solo quel poco che posso vedere” ma quel poco che posso vedere lo posso “vedere” e posso avere una relazione col mondo. Mi viene in mente a proposito una espressione di Paulo Freire, che dice «nessuno educa nessuno, nessuno educa gli altri, tutti ci educhiamo reciprocamente» 31. Di solito ci si ferma qui nella citazione mentre invece c'è un altro pezzo: «ci educhiamo reciprocamente con la mediazione del mondo» (la mediatisacion del mundo) Cos'è questa mediatisacion? Quale mondo? Non può più essere evidentemente il “mio” mondo... La spinta che è tipica della pratica filosofica verso la totalità non può essere dimenticata in questo. Forse la si può riconsiderare a partire appunto dalla attenta considerazione di queste attività, di queste pratiche, più che da una idea, o dalla spinta ingenua a “visioni del mondo” univoche, a “concezioni del mondo” unitarie. Conviene fare molta attenzione a questo. Non costruiremo con la filosofia interculturale una nuova “visione del mondo”. L'interculturalità è un mito, un nuovo mito, se vogliamo (magari vecchio quanto le colline: spesso noi diciamo che le cose sono nuove perché è nuova la nostra “scoperta”, così come accadde al “nuovo mondo” nell'età del rinascimento...). Occorre che lo abitiamo, o esploriamo integralmente, con consapevolezza. Propongo tutto questo per integrare e sviluppare, se così si può dire, quanto Panikkar suggerisce nel paragrafo dedicato a sottolineare che la filosofia “comporta ed 31 Paulo Freire, Pedagogia degli oppressi, Torino, EGA, 2001, p. 69. 104 esige una prassi”32. Appunto, nella esplorazione di questa natura interculturale della filosofia. Una miglior pratica fenomenologica Abitare i propri miti sviluppando ricerca di consapevolezza comprende ed esige soprattutto l'esercizio della capacità di “uscire dalle proprie cornici”. Non è possibile alcuna ermeneutica diatopica senza che si metta in atto questa trasformazione (insieme metanoia ed econoia). E qui credo che la principale illuminazione, o se volete, il risveglio che ho connesso inmediatamente con l'esperienza del pensiero a cui mi ha invitato e guidato Raimon Panikkar è quella di un fenomenologo statunitense che si chiama Don Ihde, il quale, nel libro Experimental Phenomenology ci fa comprendere mediante esercizi o giochi che ciascuno di noi può imparare a fare esperienza dell'uscire dalle proprie cornici, sviluppando una “coscienza fenomenologica” 33 . La fenomenologia in realtà appunto non è nient'altro che la comprensione della plurivocità dell'esperienza del mondo. Detto in termini non tecnici: di fronte a un fenomeno, non posso giudicare in modo univoco: vedo una cosa, dico “è questo”, ma posso anche scoprire di poter sentire e quindi esprimere, che quella stessa apparenza “può essere anche quest'altro”, e “può essere anche tante altre cose”: posso compiere in questo modo almeno tre passaggi di stati di coscienza. Oltre una “interpretazione” univoca, a cui corrisponderebbe poi univoca- 32 Cfr. R. Panikkar, L'esperienza.., cit., pp. 57-58. 33 Cfr. Don Ihde, Experimental Phenomenology. An Introduction, G. P. Putnam's Sons, New York, 1977. Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara mente il segno: i termini (e quindi i concetti) sono costruiti su questa pretesa di dare univocità alla parola. Nell'esperienza fenomenologica la parola invece torna libera e mi permette di entrare in una relazione aperta con il fenomeno, con i fenomeni. Possiamo chiamare questa “competenza” mentale o intellettuale “exotopia”: ossia la capacità di uscire fuori dai nostri luoghi mentali. È ancora, un'altra volta, lo stesso esercizio che Raimon illustra in questa breve metafora della finestra. Ed è come se ci dicesse, semplicemente: «Uscite fuori, ma non per stare fuori perché non si può uscire dalle proprie finestre, ci si deve stare, ma rendersene conto»... Da questo punto di vista credo che sia proprio da qui che emerge anche la sua aperta rivalutazione del prospettivismo (che però non resta la sua ultima parola sul tema del pluralismo). E da qui viene la consapevolezza di quello che egli chiama “il pluralismo della verità” 34: come si può comprendere, è abbastanza importante, 34 R. Panikkar, “The Pluralism of Truth”, in «World Faiths Insight», New-York-London 1990, XXVI, ott., pp. 7-16; tr. it.: “Il pluralismo della verità”. «Dialegesthai.Rivista telematica di filosofia» [in linea], anno 10 (2008), disponibile su www:<http://mondodomani.org/dialegesthai/>, ISSN 1128-5478; e inserito infine con alcune revisioni come Introduzione al Vol. VI/1 dell'Opera Omnia, dal titolo Culture e religioni in dialogo, Jaca Book, Milano, 2008. Cfr. anche “Identità religiosa e pluralismo”, in «InterCulture», Rivista dell’Istituto Interculturale di Montreal, edizione italiana, n. 9, Città Aperta, settembre-dicembre 2007, pp. 23-55. Si v. inoltre “Die existentielle Phänomenologie der Wahrheit”, in «Philosophisches Jahrbuch del Görres-Gesellschaft», 64/1956, pp. 27-54. Mi permetto anche di rimandare a Fulvio C. Manara, Il dialogo come rischio esistenziale e responsabilità intellettuale. L'interculturalità secondo Raimon Panikkar, in Identità, cultura, intercultura, a cura di G. Cannarozzo, Rubbettino, Soveria-Mannelli, 2009, pp.71-95. ma ancora una volta si potrebbe correre il rischio di trasformare in oggetti quelli che invece sono degli “sfondi”, delle esperienze, delle possibilità. Per questo ritengo che sia necessario chiedersi sempre: cosa rende possibile in me questa attività? Cosa faccio quando filosofo? Quando l'esperienza originale mi permette di comprendere, di esercitare questo lavoro, questo processo infinito del raccogliere i frammenti, i frammenti dell'esperienza, della vita, del mondo (dei mondi) e delle interrelazioni in cui sono? Agire e praticare la filosofia: il sangama Panikkar, sempre ne L'esperienza filosofica dell'India 35, afferma che la filosofia contemporanea manifesta una paura radicale, viscerale di due cose: una è l'amore, perché ci si dimentica che è sorgente e origine della saggezza, e l'altra, l'azione 36. È molto facile incontrare queste paure tra i professori, quando si riflette sulla natura e le conseguenze della propria pratica nell'insegnamento filosofico, sull'agire che viene dopo il filosofare, o meglio, che viene insieme al filosofare. Mentre è impossibile tenerli separati, secondo l'insegnamento di Panikkar. Nel testo che sto prendendo come riferimento Panikkar riassume così le tre dimensioni della prassi nell'attività filosofica: (ante rem), 1) la preparazione al buon filosofare, unita alla situazione esistenziale di chi la mette in opera; (in re) 2) l'attività del pensare nella ricerca del retto logos; (post 35 R. Panikkar, L'esperienza.., cit., p.17. 36 Ibidem. 105 Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara rem) 3) il pensiero trasforma chi pensa 37. Gettiamo però meglio lo sguardo su queste “prassi” inerenti la filosofia stessa, ossia, come richiama Panikkar stesso, su questa epimeleia dell'anima (epimeleia sou). Ci viene incontro per questo proprio la sua stessa testimonianza ed esperienza: il luogo di queste prassi, il loro ambiente — o se vogliamo dire, un po' riduttivamente, il “setting” — per lui è la comunità, il sangama. Come sappiamo, egli chiama così le “convocazioni” degli amici e questa dimensione amicale è sempre per lui così importante. Questa sua apertura radicale all'amicalità era anche inquietante per chi vi prendeva parte, per alcuni aspetti, nel senso che provocava radicalmente ciascuno ad uscire dai suoi schemi, mettendo sostanzialmente in moto una trasformazione. Pensate per esempio a quanto può essere illuminante, per chi è filosofo, la scoperta cui lui sapeva guidarci, non solo sul piano intellettuale ma in modo olistico, a compiere autenticamente l'atto contemplativo, di sentire e vivere l'atto della contemplazione, oltre ogni riduzionismo tipico della nostra tradizione, per cui abbiamo reso la contemplazione sinonimo di teoria, di costruzione di un modello… Quindi pensare, e pensare insieme vivendo, che appunto è pratica, non astrazione: lo si è detto molte volte in questi giorni, esplorare e persino scoprire mondi nuovi (e quindi agire in essi consapevolmente creativamente e liberamente — nel senso dell'esserci e del “rimettere al mondo il mondo che siamo”). 37 Ivi, pp. 57-58. 106 Ciascuno di noi quando si incontra non mette a confronto solo delle cosmologie, ma dei mondi diversi, non solo delle “cosmovisioni” diverse, grazie a finestre che vengono messe a confronto, ma veri e propri mondi diversi, se mette se stesso integralmente in questo gioco. Se in questi “mondi” diversi che incontriamo evidentemente non possiamo entrare integralmente, per la radicale incompatibilità delle visioni ultime e anche delle filosofie, questa opera contemplativa può però permetterci di trasformarci, di lasciarci trasformare. Ecco che qui torna l'accento sulla metanoia che spesso è appunto uno dei termini con cui noi esprimiamo la pratica filosofica: non tanto cambiare punto di vista, o andare “oltre” il proprio punto di vista (perché non è possibile), ma attraversarlo, scoprirne la porosità, la radicale porosità, e sapersi giocare di nuovo creativamente in esso (eunoia). Le tre dimensioni della pratica filosofica, che sono, se volete, per tradizione, il logos, il rapporto con il mito e le credenze (ermeneutica) e infine il rapporto con la dimensione spirituale (fede) sono nel loro complesso un corrispettivo processuale della intuizione cosmoteandrica. Qui per chi ha la mia età il principale shock era la scoperta dello spazio che nella pratica filosofica deve avere il mito, che viene dall'impensato, e quindi la spinta ad uscire dal dualismo profondo che è tipico della nostra tradizione occidentale. Mi spiego meglio: quando studiavo filosofia all'Università mi dicevano, sia pure un po' stancamente, che la filosofia consiste nella emancipazione dal mito. Una liberazione dal mito! Liberarsi da questa emancipazione, poi, è stato interessante... Ma anche nello stesso tempo riscoprire la fiducia Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara come dimensione a monte e a valle dell'esperienza filosofica. Ed anche scoprire che la filosofia, la pratica filosofica, ha a che fare con la fede. Come, evidentemente, ha a che fare con le credenze, ma per saper trascendere con piglio libero l'esperienza della pluralità delle filosofie, quando facilmente ci si rassegnava ad un sostanziale indifferentismo, parlandone troppo tranquillamente al plurale. Come se ciascuno avesse solo la sua... Muoversi in questa dinamica trasformativa, che è pratica filosofica tout court, può quindi essere una grande esperienza. E la comunità di ricerca è esattamente il luogo in cui penso che questa piccola pratica possa essere scoperta per ciascuno di noi e che permetta così di ritrovarci e respirare liberamente, per disnascere. CdRF: la pratica filosofica intrinsecamente inter-intraculturale La vita del sangama per me può essere connessa e messa in relazione ad un'altra esperienza che ho potuto incontrare e compiere nel corso di questi ultimi vent'anni: quella della comunità di ricerca filosofica, che, se vogliamo, non è altro che un differente nome di quello che Panikkar chiama appunto “sangama”. La comunità di ricerca non ha nessuna pretesa, è una pratica poverissima, che non ha bisogno di grandi risorse: è il semplice mettersi insieme, e scoprire che il pensiero e la pratica filosofica nascono così, in questa complessa interazione con un tu e nel logos, e sono parola viva che mette in gioco tutto, nella pratica del domandare e dell'ascoltarsi reciprocamente, nell'apprendere ed esercitare insieme l'esperienza della ricerca. Possiamo in essa raccogliere i frammenti per cercare di armonizzarli, ma senza voler per forza tenerli insieme, e men che meno con un disegno più o meno prestabilito. Di solito, la prima origine della comunità di ricerca viene identificata nel pensiero di un rappresentante del pragmatismo americano, Peirce, e poi in Dewey, ed è guidata dalla pratica dialettica: secondo questo approccio pragmatista si deve dialogare secondo un modello dialettico, per trovare la giusta posizione ed arrivare ad una decisione comune. Ma poi l'esperienza concreta e l'esplorazione di questa pratica ha portato chi l'ha compiuta a comprenderne le dimensioni plurali dell'esercizio del pensare, che non è evidentemente solo logos ma anche creatività, intelligenza emotiva, pensiero simbolico, ragione poetica ecc. 38. Una bella sfida, per la filosofia, e anche l'apertura speranze). di grandi possibilità (e In particolare riguardo alla riduzione della prassi filosofica a sola dialettica, la prospettiva che scopriamo con Raimon è che questa è solo una delle possibilità dello sviluppo dell'esercizio del pensare insieme: quella che come tutti sappiamo consiste nel costruire un consenso di idee, visioni, e quant'altro. Occorre sempre ricordare infatti 38 Si v. lo sviluppo riflessivo compiuto dentro (e oltre) il movimento della P4C (Philosophy for Children) nelle opere di Matthew Lipman, Ann Margareth Sharp, Gareth Matthews, Walter Omar Kohan, Catherine McCall, ecc. 107 Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara che quando questo avviene otteniamo certo un consenso fra più persone (in direzione del mito del “consensus omnium”), ma che queste persone restano però differenti tra loro alla radice. La pratica della comunità di ricerca filosofica può divenire quindi un cercare insieme l'armonia della differenza nella convivenza delle differenze, perché le differenze sono le persone; non sono le culture che si incontrano facendo filosofia, quanto le persone che vivono dimensioni culturali. Non sono le religioni, e men che meno le filosofie, ad incontrarsi: sono le persone che si incontrano. L'esercizio del dialogo “dialogale” è esattamente questo tentativo di provocare radicalmente la pratica filosofica che è rimasta ancorata alla dialettica (senza dimenticare la dialettica, senza buttarla a mare, chiaro). La capacità di fare della dialettica un'esperienza che non si chiuda su se stessa, e resti aperta in direzione di altre possibili dimensioni del dialogo. Il che ci libera anche in direzione di altre elaborazioni dell'immagine del pensare che noi abbiamo nella nostra testa: pensiamo quando ruminiamo e quando meditiamo o pensiamo quando parliamo tra noi? Ecco, sono tutte domande che in qualche modo ci permettono di entrare dentro l'idea della filosofia (interculturale) come una pratica, come un processo aperto, che non ha mai fine. “Cosa io penso”, il “prodotto” del pensare — che pure è importantissimo — non è proprio al centro. Lo è la capacità di comporre frammenti, che in questo contesto 108 abbiamo compreso essere inevitabilmente paradossale. sempre, Per rendere questo evidente, in conclusione, (e per far comprendere bene cosa comporta questo “colligite fragmenta” che punta all'armonia pluralistica) richiamo un'altra storiella che Raimon racconta 39. La storiella di quel rabbino saggio (o di quel saggio rabbino) a cui una comunità, divisa da profonde dispute, si rivolge. Una delle parti in causa va dal rabbino e gli dice: «Eh, noi pensiamo questa cosa e quest'altra e non va bene, e insomma, noi vogliamo che tu ci ascolti attentamente», e lui risponde dando loro ragione. Il giorno dopo gli altri contendenti vanno dal rabbino, pensando: «Come, ha dato ragione agli altri, ora andiamo noi a dirgli come la pensiamo!» e gli raccontano il loro punto di vista, gli raccontano le loro esigenze e le loro questioni, le loro posizioni. Il rabbino risponde a questo secondo gruppo: avete ragione. Allora i saggi della comunità dicono: «Come, il rabbino non capisce più nulla!». Vanno da lui il terzo giorno e gli dicono: «Ma cosa stai facendo: vengono i primi e ti dicono il loro punto di vista, e tu gli dai ragione. Vengono i secondi, con il loro punto di vista contradditorio e tu dici avete ragione pure voi... Questo non può essere!». Il rabbino risponde agli scribi e ai maestri: «Avete ragione!». Questo rabbino non è uno stupido, come molti potrebbero sbrigativamente pensare. Le affermazioni proposte dalle diverse parti che confliggono sono tra loro 39 V. ad es., R. Panikkar, Pluralismo e interculturalità, Milano, Jaca Book, 2009, p.5. Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara evidentemente dialettiche, sono contradditorie, sono visioni del mondo incompatibili, che non possono essere rese compatibili. Quel rabbino si rende conto del gioco delle posizioni in questo conflitto, che è dialettico, ma egli non si affida solo alla dialettica nel leggere questa situazione. Dice Panikkar: «La relazione tra le tre affermazioni è naturalmente dialettica. Ma la relazione fra i due gruppi contendenti di persone non è dialettica. Il rabbino vide la completezza relativa di ciascuna posizione, benché implicasse la mutua contraddizione delle affermazioni intellettuali, così come vide il terzo gruppo esistenzialmente coinvolto» 40. Il “compito” o la “scoperta” del terzo gruppo, ossia il gruppo dei saggi, che si accorgono che il gioco delle “ragioni” non è pacifico, è anzi, appunto, scoperta dell'incompatibilità delle posizioni, prese come affermazioni intellettuali e posizioni di interesse. Il terzo gruppo è però un gruppo che vorrebbe compiere un po' la funzione del giudice, ancora è chiuso nella sua idea che la ragione stia da una sola parte. Il compito della pratica filosofica invece non è quello del giudice che deve stabilire la verità, come se la potesse stabilire sua sponte: il gioco della pratica filosofica nella comunità di ricerca è piuttosto permettere a ciascuno di compiere la sua esperienza e di relativizzare questa esperienza, di scoprire la relatività di questa esperienza senza perdere l'amore e la passione per la verità, ossia senza cancellare l'orizzonte della ricerca come orizzonte comune. rabilità delle posizioni umane e anche l'incompatibilità dei credo definitivi, ciò non comporta che la convivenza e la coesistenza non siano possibili: questa è la sfida. Anche questo farsi carico della reciproca coesistenza (costruendo comunità) è parte del gioco filosofico, ossia farsi carico di “mantenere viva la polarità delle realtà umane” ecc. Conclude Panikkar: «Credo che la nostra situazione attuale richieda a tutti noi di essere capaci di dire: “Non ti capisco troppo bene, anche se penso tu sia in errore, ma il fatto che tu ti sbagli non mi dice granché circa il mio essere nel giusto o il mio essere forse a mia volta in errore”. Abbiamo bisogno di questo tipo di relazione gli uni con gli altri» 41. Rinnoviamo quindi a noi stessi l'invito alla filosofia propostoci da Panikkar. È un invito che «Vuole risvegliare in noi la brama o la “volontà” di partecipare a qualcosa, cioè invitarci (se pensiamo in latino), o suscitare un piacere (se pensiamo in sanscrito), al riparo di sapienze antiche e attuali da cui tutti possiamo apprendere, per gustare l'esperienza umana nel suo sforzo di trovare un senso alla Vita di cui tutti fruiamo» 42. In questo gioco filosofico scopriremo la radicale precarietà delle nostre parole, e anche la povertà della filosofia, tanto quanto la ricchezza e la gioia dell'esperienza e del cammino di ricerca Se scopriamo la reciproca incommensu40 Ibidem. 41 Cfr. ivi, pp. 5-6. 42 R. Panikkar, L'esperienza..., cit., p. 20. 109 Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa ECOSOPHY, RAIMON PANIKKAR, AND BASHŌ’S NATURE-AESTHETICS Michiko Yusa Michiko Yusa (video) Our mentor and friend Raimon Panikkar endorsed the idea of ecosophy—the posture of listening to the “wisdom of the earth.” Ecosophy is different from “ecology,” maintained Panikkar, because although “ecological consciousness is a step in the right direction, it does not bring us in touch with the divine dimension.”1 Instead, he advocated the ecosophical awareness, which finds the divine dimension as integrated “within ourselves.”2 For Panikkar, contemporary “ecological” consciousness appeared to rest on the worldview, in which nature, or environment, is considered to be separate from us and stands in opposition to us as a kind of “thing out there,”— as an object of scientific investigations, of adventurous explorations, or even of exploitations. “Ecosophy,” in contrast, resonates with the “cosmotheanthropic” appreciation of the unity of the world (cosmos), the sacred (or the divine, theos), and human beings (anthoroMichiko Yusa Washington University 1 Raimon Panikkar, The Rhythm of Being (Maryknoll, New York: Orbis Books, 2010), p. 353. 2 Ibid., p. 352. 110 Marcello Ghilardi poi). We are an integral part of the universe and everything is “inter-independently” related to everything else.3 In the traditional worldview of Japan that was familiar to our poet Bashō, the cosmotheanthropic unity was an unspoken premise, in which the dimension of “theos” was highly attenuated into sacred and awe-inspiring qualities typically found in nature. The Japanese master haikai-poet Matsuo Bashō (1644-1694) embodied the “ecosophical” awareness through and through. He may even be called an “ecosophist” par excellence, with the caveat that such appellation be not confounded with the ancient Greek “sophists.” Bashō viewed not only his existence but also the entire universe to be on an incessant journey (viaggio). He called the sun and the moon “eternal travelers.”4 On a personal level, going on a journey 3 Ibid., p. 404. Panikkar often quoted his favorite Sanskrit saying: “All is inherent in all.” 4 Bashō, Oku no hosomichi 『奥の細道』 [An narrow road to Oku], 月日は百代の過客にして、行かう年も又旅人也。A sō Isoji 麻生磯次, ed., Oku no hosomichi, ta yonhen Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa gave him the opportunity to come closer to nature, which heightened his aesthetic sensitivity and enlivened his creative perception, and in that setting he was able to explore the limits of his artistic creativity. Going on a journey also forced him to practice his ideal of detachment from material comfort. While in the bosom of nature, he tapped into the wisdom (sophia) of nature (oikos), as he came close to the heartbeat of nature. Bashō was most successful in leading the way to transforming the art of haikai (commonly known as “haiku” today5—the seventeen syllable poetry), from a literary pastime to a path of serious art, to the pursuit of which one could dedicate one’s entire life. In his younger years, he sported in the witty “Teimon school” style of verse-making, from which he moved on to the “Danrin school” of versifying, which aimed at more refined expressions, which, nevertheless, were often aimed at impressing the public. Still dissatisfied with the Danrin school, his quest for authenticity and poetic integrity drove him away from any of the established schools. The focus of his poetizing shifted to the unchartered territories. In around 1680, his singular style of haikai came to be recognized as the “Shōfū style,” or the “style after Bashō,” and dedicated disciples gathered around him. Although Bashō was a seeker of solitude, he most gladly received disciples and enjoyed their company. I. Nature and Art The more Bashō pursued his art with sincerity, the more bottomlessly the creative mystery of haikai revealed itself to him. He studied with a Rinzai Zen master, Bucchō (1642-1716), for a couple of years in the early 1680s, which helped him hone his awareness of the oneness of all sentient and nonsentient beings. It became progressively clear to him that nature, of which human beings are part, was the source of life and spiritual illumination, and as such the source of artistic inspiration. Among the many things “nature” exemplified for Bashō, it presented the manner of being beyond the world infused with petty assertions and pride of the individualego, and he found in nature a model for an art that was void of artificiality and contrived expressions. Unlike the dominant European traditions that tended to set apart art and nature, or culture and nature, in East Asian religious traditions nature has been understood as the life-giving force that permeates the entire human activities, and the role of art was to capture nature. Nature gives human beings daily and seasonal rhythms of life, and unfolds a full panorama of constantly changing vistas. The modern Japanese word for “nature” (“shizen” 自然) was not in Bashō’s lexicon. Instead, he employed a word, zōka 造化,6 “creation-transformation,” and kenkon no hen 乾坤の変,7 “the mutation of yang and yin 6 『奥の細道、他四編』[The Narrow Road to Oku and four other essays], (Tokyo: Ōbunsha, 1970), p. 10. 5 “Haikai” is the same as “haiku”; “haiku” is a modern th word that became common around the turn of the 20 century. “Zōka” is pronounced “zaohua” in Chinese. This expression is found in The Zhuangzi. In today’s Chinese this word designates “Heaven (tian),” which creates and nurtures everything, as well as “happiness.” 7 “Kenkon” is pronounced “qiankun” in Chinese. “Ken” is the first hexagram of The Yijing, representing the dry 111 Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa principles”—both words he adopted from the ancient Chinese Daoist philosophy. Beckoned by the “wind” that stirred the core of his being, Bashō first set out on an ambulatory journey in 1684, accompanied by Chiri, one of his disciples. This trip culminated in a travel journal, “Nozarashi kikō” (“the record of exposure to the weather,” or The Records of a Weather-Exposed Skeleton8). He went on other major journeys in 1687 (a short excursion to Kashima), in 1687-88 (a half-a year visit to the western part of Japan, and a return to his abode in Edo, today’s Tokyo, by way of Sarashina), and in 1689 (a long extended trip to northern Japan), which he extended into his stay in 1690 and 1691 in the Kyoto area. He returned to Edo in 1691, only to set out again on his final journey in 1694, during which time he succumbed to illness and died “on the road.” He left his partinghaikai: “Stricken by illness on a journey, my dreams still run wild in the withered fields” tabi ni yande yume wa kareno o kakemeguru.9 land, and the male principle of strength and sturdiness, while “kon” is the second hexagram, representing the wet dark land, and the female principle of softness and yielding. 8 See Nobuyuki Yuasa, trans. & intro., Bashō, The Narrow Road to the Deep North and Other Travel Sketches (Harmondsworth: Penguin Books, 1983). 9 The original reads: 旅に病で、夢は枯野をかけ廻る. See Imoto Nōichi 井本農一 & Hori Nobuo 堀信夫, ed., Matsuo Bashō shū 『松尾芭蕉集』[Collected works of Matsuo Bashō] vol. 1 (Tokyo: Shōgakukan, 1995), p. 502. 112 The writings that came out of his journey of 1687-1688 were posthumously published in around 1703, with the title that he had given them—“A small bundle of essays in the backpack” of “Oi no kobumi” 笈の小文 (also The Records of a Travel-Worn Satchel10). This work, whose existence had only been known to a select few disciples during his lifetime, contains important passages that summarize Bashō’s reflections on art in general and the path of haikai in particular. Finding a personal affinity with iconic Japanese artists of the past, Bashō declares that the mind that obeys “nature” is shared in common by all these great artists; that “nature” is their constant companion; and that nature is the abode to which they return. The names, Saigyō,11 Sōgi,12 Sesshū,13 and Rikyū,14 to whom Bashō pays tribute, are all celebrated Japanese poets and artists, and may very roughly be comparable in importance (but not in their particular individual achievements) to such Italian master artists as Petrarca, Botticelli, Michelangelo, and Leonardo da Vinci. Bashō’s text reads: There is one common thread that runs through the thirty-one syllable poetry (waka) of Saigyō, the linked verse (renga) of Sōgi, the paintings of Sesshū, and the art of tea ceremony (cha) by Rikyū. Moreover, those who engage in the path of art (fūga) 10 Ibid. 1118-1190; he was a waka poet, known for his extensive travels and superb nature poetry. 12 1425-1502; he was an accomplished renga poet. 13 1420-1506; he was a splendid monochrome landscape painter. 14 1522-91; he was the celebrated tea master, who perfected "wabi-cha," a style of tea ceremony, which stripped anything superfluous from the opulent style of tea ceremony to distill the essential feature of the “way of tea.” 11 Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa follow nature (zōka) and take the four seasons as their friends. Wherever artists look, there is no place where they do not see flowers [i.e., beauty]; whatever they contemplate, no moon [i.e., clarity and truth] is absent. If they do not find flowers in what they see, their mind is that of uncivilized creatures and not of human beings. When their contemplation is not on the moon, their mind is that of wild beasts. Moving out of the uncivilized state and leaving behind the beastly state, artists must follow, and return to, nature (zōka).15 Bashō calls the arts as “fūga ” 風雅— “fū” meaning “wind,” and “ga” meaning “elegance,” and therefore “fūga” literally means “wind[like]-elegance.” An art as an elegant rendition of the invisible “wind” is the “art” that is truly worthy of its name. “Wind” was a fond symbol Bashō adopted often, and he even occasionally likened his inner self to an amorphous restless creature that was easily blown away and tattered by the wind—fūrabō 風羅坊. “An art defined as fūga” is inexhaustible by conceptual descriptions, since one cannot pinpoint a substantive referent in terms of a conceptual object. As such, it defies mental categorization and reductionism. Like a breath of fresh air, the moment one thinks 15 The original Japanese text and the interpretation in modern Japanese language of the Oi no kobumi『笈の小文』 is taken from Asō Isoji 麻生磯次, ed., Bashō, Oku no hosomichi, ta yonhen, op. cit., pp. 126127.西行の和歌における、宗祇の連歌における、雪 舟の絵における、利休が茶における、其貫道する物 は一なり。しかも風雅におけるもの、造化にしたが いて四時を友とする。見る処、花にあらずという事 なし。おもう所、月にあらじという事なし。像花に あらざる時は、夷狄にひとし。心花にあらざる時は 鳥獣に類す。夷狄を出、鳥獣を離れて、造化にした がい造化にかえれとなり。The English translation is by the author, unless otherwise indicated. one has got it, it is nowhere to be found in one’s hand. This kind of use of words eludes today’s post-Enlightenment scientific mentality that is not satisfied until we conceptualize and apprehend the “objects” and sort them out according to our prescribed mental scheme. Bashō’s use of words moves away from a “conceptualizing” use of words, and in that process words regain their “poetic” power, not only in haikai poetry but also in his prose. Panikkar would call this a “symbolic” use, as opposed to a “conceptual” use, of language. As mentioned earlier, the word “zōka” 造化 is equivalent to what we today mean by “nature.” Bashō adopted it from the ancient Chinese Daoist philosopher, Zhuangzi. Bashō also used an expression, “zōka no tenkō” 造化の天工, “the ingenuous heavenly creator,” a work by some ancient Shinto deity such as Ōyamazumi (deity of “piling up mountains”).16 In a naturalistic world without a monotheistic creator god, “nature natures,” as it were, and that fact of incessant creation itself is marveled with most reverence. This acknowledgement of the creative aspect of nature may be similar to what Panikkar called “creatio continua”—an idea evolved out of his cosmotheanthropic vision.17 The modern Japanese word for nature “shizen”18 was used at the time of Bashō to mean “of itself,” “spontaneously,” and hence, “naturally”—this 16 Bashō, “Oku no hosomichi,” in Asō Isoji, ed., op. cit., p. 44. 17 R. Panikkar, op. cit., pp. 2-3: “I mentioned the idea of a creatio continua, as the radical newness of each ‘moment’—not only of time but also of space, and ultimately of reality.” 18 The word自然, when pronounced “jinen,” still means in modern Japanese “from of itself,” or “out of itself,” and in that sense, “naturally” without external forces. 113 Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa meaning is close to Latin “naturaliter.” In short, “nature” for Bashō was the source of life and the font of arts. Therefore, it is easy to see why he asserted that authentic artists listen to it, follow it, and return to it in order to draw their creative energies from it. Bashō’s ecosophical appreciation of the path of art includes the warm camaraderie among those who share this appreciation of nature and art. The poet’s mind that engages in haikai as “fūga” is a convivial mind that cherishes not only nature but the company of like-minded friends. Bashō, being convinced that the path of poetry-composition had a humanizing effect on the poet, highly recommended it. He even entrusted a word to a former disciple, who had left him out of disagreement, not to give up his haikai art, for it would keep him in touch with his colleagues, and would prevent him from becoming a coarse person.19 It should be mentioned here that, taking after the tradition of the thirty-six poetry-composition (waka), which cherished the gatherings of poets at special occasions of the season or even a competition of poetrycomposition (known as “utaawase”), the haikai artists held similar gatherings at various occasions, and more formal gatherings were known as “kuawase.” For the art of haikai, no topic is off-limit, insofar as it does not hurt the feelings of the people present at the poetry gatherings. It is said that Bashō never mentioned the word “deaf,” in consideration of the fact that one of his dear disciples Sampū was hard of hearing. This is yet another ex- 19 Nose Asaji 能勢朝次, Sanzōshi hyōshaku 『三冊子評釈』[Sanzōshi & commentary] (Tokyo: Sanseidō, 1955), section 186, pp 376-378. Hereafter, this work will be cited simply as Sanzōshi. 114 ample of how a path of art for Bashō was that of humanity and not of the uncivilized creatures. II. Nature as the Source of Art We saw thus far that for Bashō the artists’ task was to render the knowledge possessed by the earth (eco-sophy) into their arts. He was neither a pedagogue nor a theoretician, and therefore he did not leave a handbook on “how to compose a good poem.” But his profound knowledge and precious advice fortunately come down to us thanks to the pen of such distinguished disciples as Mukai Kyorai (1651-1704) and Hattori Dohō (16571730). One of the important works on Bashō’s haikai poetics is a booklet compiled by Dohō, called the Sanzōshi (Three Notebooks, published in 1776, years after Dohō’s death). Therein, we find Bashō’s words as well as Dohō’s insightful commentary on the master’s philosophy of haikai composition. We read therein how Bashō, the ecosophist, approached and engaged in his poetry composition. In the following, by closely reading some weighty passages from the Sanzoshi, we shall come to touch on the essential teachings of the master. (a) Tempiternity of poetry Bashō was convinced that good haikai poems must have “refreshing” and “new” elements, by moving away from hackneyed expressions and conventional locutions. Moreover, if this quality of freshness is genuine, it should emanate from within the artist’s own being and have the power to withstand the passage of time. Towards the last years of his life, he came to speak about the quality of the unchanging and the new in his art, or Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa “fueki ryūkō” 不易流行. A poetic expression may be current and contemporary and yet can have an “eternal quality” that can transcend the “fashion” of the day. We can fathom this idea somewhat easier if we resort to a concrete example. Let us take the music by the Beatles. Some of their “hits” in the 1960s are today’s “classics,” never having become old or stale. The reason seems that those tunes that captured the audience in those days as new and exciting managed to have the universal quality that continues to impart pleasure to the listeners even today, half a century later. Bashō came to hold this conviction about the tempiternal quality in the art of haikai. He tirelessly nurtured his inner artist to express his art in a new way, while trying to reach the quality of tempiternity. In order to achieve that end, the mind had to be flexible and free of conceptual biases. How does one attain such a universal quality? Bashō’s answer was simple: “By assiduous practice,” which consisted of developing one’s overarching awareness of any given moment, and capturing what hits one’s senses by way of words. On the question of the relationship between “the old and the new” or the traditional and contemporary expressions in art, Bashō found the Japanese Buddhist master Kūkai’s (774-835) words on calligraphy to have captured this point brilliantly. His words to his beloved disciple Kyoroku reveals this fact: “Do not seek to follow in the footsteps of the artists of old; seek what they sought—just as Master Kūkai commented on the art of calligraphy.”20 These words, dating from 1693— 20 “Farewell words to Kyoroku, or Saimon no ji,” only a year before Bashō’s death—can be considered to summarize his final view on this matter. (b) Keep your mind high, and return to the daily activities Bashō advises that for the composition of a good poem, it is essential to keep one’s mind above trivial affairs of the daily life. When we can maintain equanimity and selfdisinterestedness, our mind is free from worries and mundane burdens, and can become flexible and responsive to the artistic stimuli. If we return to the midst of one’s daily activities, while retaining this kind of transcendental mental attitude, we will be able to stay in touch with the deep source of authentic creativity. This kind of mental attitude may be compared to the awareness of “sacred secularity,” of which Panikkar spoke. Bashō’s words recorded by Dohō read: Keep your mind high in the world of true understanding, and return to the world of daily experience. If you doggedly pursue artistic (“fūga”) sincerity and understand it, whatever attempt you will make will be turned into your haikai poem. If you constantly dwell in the artistic path (“fūga”), the impression (iro)21 of your 許六離別の詞、柴門の辞, 1693. For an English translation, see “The Rustic Gate,” Ryūsaku Tsunoda, et al., ed., Sources of Japanese Tradition, (New York & London: Columbia University Press, 1971) pp. 458-459. The Japanese text consulted is in Murata Haruo 村田治夫, Bashō haibun nikki kikō hairon yōkai 『芭蕉俳文・日記・紀行・俳論要解』[Selection from Bashō’s prose, travel diary, and on the poetics of haikai], (Tokyo: Yūseidō, 1967), p. 81. 古人の跡をもとめず、古人の求めたる所をもとめよ 。と、南山大師の筆の道にも見えたり。 21 The Japanese word “iro,” means color or hue, and it may have a resonance with the Sanskrit “rūpa” of “nā- 115 Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa contemplating mind will take on a tangible form (mono), and your verse will take its own shape. When you are in this state, things come to you naturally, and nothing is amiss.22 Bashō also said, “The merit of haikai is to raise the ordinary words to its rightful place. Never trivialize anything.”23 Bashō’s haikai, such as “Deep in the autumn, I wonder, my neighbor, what does he do for living?” (Aki fukaki, tonari wa nani o, suru hito zo) shows how ordinary words, such as “neighbor” and “what does he do for living” are elevated to a new height, as the whole poem is imbued with a sense of stillness and loneliness that Bashō deeply felt in one late quiet autumn night. This elevation of the ordinary to a poetic “depth” was a very unique contribution Bashō was able to make in his art. He was certainly not an iconoclast, however, and set a certain parameter. Not all words were appropriate under certain circumstances, as briefly mentioned above. Moreover, because haikai poetry was often composed at a gathering of several poets where each would come up with a new verse to follow the earlier verse in promptu (which was done in the fashion of “renku” or connecting verses), there were certain protocols Bashō felt were essential. For instance, on the occasion of the celebration of a newly built ma rūpa”—which generally means “appearance.” It is translated as “impression” here. 22 Sanzōshi, Nose Asaji, op. cit., p. 97. 高く心をさとりて俗に帰るべし。常に風雅の誠を せめさとりて、今なす処俳諧に帰るべし。常風雅 にいるものは思う心の色、物となりて、句姿定る ものなれば、取物自然にして仔細なし。 23 Sanzōshi, section 177, Nose Asaji, op. cit., pp. 365366. 俳諧の益は俗語を正す也。つねに物をおろそかに すべからず。 116 house, words related to fire that could destroy the house—fire was quite common during the Edo period and thus was feared—were to be avoided by way of considerate etiquette.24 He also advised that such words be discarded as “killing (a person),” “killing with a sword,” and “tying up (a person) with a rope”—not because of the words themselves but because of the “baseness” of the mind that would even conceive such actions.25 (c) Go to a Pine Tree-remove your private preconceptions How do poets gain the knowledge of the “subject” of their poetry? Bashō had the following famous advice on this point: “As for a pine tree, learn it from a pine tree; as for a bamboo, learn it from a bamboo.” Dohō recorded these words, followed by a reflection of his own: “About a pine tree, learn from a pine tree. About a bamboo, learn from a bamboo.” That is to say, we must leave our subjective preoccupations (shii) behind when composing poetry. If we misunderstand what the master meant by “learn,” we end up going greatly astray. What the master said “to learn” is this: when we enter into the object and glimpse its hidden glimmering, poetry issues forth of its own accord. However nicely phrased our poetry may be, if it does not flow out of the thing naturally (shizen), the thing and the self remain separate, and the feeling falls 24 Ibid., section 21, pp. 65-66. 新宅の会に、燃る、焼など火の噂、...いむべ き心遣いと也。 25 Ibid., section 17, pp. 58-59. 人を殺す、切る、しばるなどの類は用捨すべし。 Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa short of sincerity. Such poetry is nothing but a product of artificial fabrication.26 deed require commitment, self-discipline, and proper guidance of a master. Bashō’s words—“About a pine tree, learn it from a pine tree; about a bamboo, learn it from a bamboo”—seem deceptively simple and convincing. And yet, how are we to understand this teaching? Dohō explains: we must remove our subjective preconceptions or private arbitrariness (“shii” 私意), i.e., dogmatism. “Shii” also includes our worldly ambitions, such as the thought of producing a fine poem in order to earn fame. Bashō’s words echo the Zen master Dōgen’s famous saying: “To ‘learn’ Buddhism is to learn about oneself. To learn about oneself is to forget oneself. To forget oneself is to be illuminated (and enlightened) by all things” (“Genjō kōan,” Shōbōgenzō).27 “Learning” in the Zen Buddhist context has to take place in the form of “practice.” Likewise, the practice of haikai composition begins with “getting rid of” preconceptions and ego-centric dogmatism. It is because of the importance of the practice, which the path of traditional arts in Japan requires, artistic pursuits have often been compared to a religious practice—both paths in- The verb “to learn” (narau) here means not so much as to “study” as to “practice the skill until one acquires it by embodying it.” This meaning is clear in English when we say: “I want to learn piano.” It means I want to learn to play the piano, which begins with the practice of basic skills over and over again, until I get it. Likewise, what is meant by “to learn” here by Bashō is to “practice” with our body and mind to acquire the needed skills. It is to embody the knowledge of what we are trying to express through the art form. What does it mean then to “learn about a pine tree”? How do we “acquire and embody a pine tree”? How are we to “practice a pine tree”? 26 Sanzōshi, section 31m Nose Asaji, op. cit, pp. 97-98. Emphasis added. 松の事は松に習え、竹の事は竹に習え。私意をはな れよという事なり。この習えという所を、おのがま まにとりて、終に習わざる也。習えと云うは、物に 入てその微の顕て情感るや、句となる所也。たとえ 物あらわらに云出ても、そのものより自然に出る情 にあらざれば、物と我二つになりて其情誠にいたら ず。私意のなす作意也。 27 Masutani Fumio 増谷文雄, trans. into modern Japanese, Gendaigo-yaku, Shōbōgenzō 『現代語訳 正法眼蔵』[Shōbōgenzō, accompanied by a modern Japanese reading] , vol. 1, Genjō kōan 現成公案(Tokyo: Kadokawa Shoten, 1973), p. 27. 仏道をならふといふは、自己をならふ也。自己を ならふといふは、自己をわするるなり。自己をわ するるといふは、万法に証せらるるなり。 Dohō’s next line looms significant, as it sheds light on this question. Dohō wrote: “What the master said ‘to learn’ is this: when we enter into the object and glimpse its hidden glimmering, poetry issues forth of its own accord.” Here, a philosophical analysis of “action-intuition (kōiteki chokkan 行為的直観), developed by the Japanese thinker Nishida Kitarō (1870-1945), helps us understand better what Bashō meant. Nishida describes the “action-intuition” in many different ways: “We see a thing by our action; while the thing determines me, I determine the thing. That is action-intuition.”28 And again: “Technique (gijutsu, techne) means that I become the thing and work. I become the thing and the thing 28 Nishida Kitarō, “Kōiteki chokkan no tachiba,” [The stand point of action-intuition] (1935) Shimomura Toratarō et al., ed., Nishida Kitarō Zenshū [Collected works of Nishida Kitarō] (hereafter NKZ) (Tokyo: Iwanami Shoten, 1979), vol. 8, p. 131. 117 Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa becomes the I. I work by seeing, and I see by acting. It is active-intuitive.”29 He came to paraphrase this insight in shorthand formula as: “We think, having become a thing, and we act, having become a thing” (mono to natte kangae, mono to natte okonau).30 “Actionintuition” points to the mode in which our action and intuition are mutually integral to each other. This idea is nicely illustrated by a concrete example of playing soccer.31 When a ball comes to him, he intuitively knows exactly where to kick it to pass it to the other member of the team, or which part of the goal to shoot it with what angle to score a point. The ball and the kinetic body-movement of the player, the rule of the game (knowledge), and the concrete perception of where the ball is on the field—all form a seamless present moment in a total picture. Instantaneously, the player plays the ball without taking a moment to reflect on it in order to analyze the situation. If he hesitates even a split second, he would lose the ball to the opponent. The position of the ball, the position of his opponents and team members, and his physical skills are all intertwined in an interpenetrating way, and his perfect pass or kick would contribute to the satisfying unfolding of the game. 29 Nishida Kitarō, “Poieshisu to purakushisu” [Poiesis and Praxis] (1940), NKZ vol. 10, p. 158. 30 Nishida Kitarō, “Chishiki no kyakkansei ni tsuite” [On the objectivity of knowledge] (1943), NKZ vol. 10, p. 404. Sometimes he paraphrases this as: “mono to natte mi, mono to natte hataraku” (Becoming a thing I see, becoming a thing I work.” These varying expressions mean essentially the same phenomenon. 31 This example arose out of a class discussion with a student of mine, who is a semi-professional soccer player. 118 If we can apply this Nishidan insight here to what Bashō is saying, we may paraphrase the inner dynamism of “learning from a pine tree” as follows. When I become one with the pine tree, I, in direct contact with the pine tree, am incited to come up with certain expressions. A poem writes itself, as it were, out of this close encounter. How do I know what I “glimpse” in the pine tree is not my personal illusion or some sort of subjective fabrication? Dohō’s next line addresses this question: “However nicely phrased our poetry may be, if it does not flow out of the thing naturally (shizen), the thing and the self remain separate, and the feeling falls short of sincerity. Such poetry is nothing but a product of artificial fabrication.” If there is even a smidge of ego-assertion, the verse will result in an over-wrought expression. To become one with the thing is to understand it—or to “stand under it,” as Panikkar so fondly used to say. To embrace a pine tree is to shed my boundaries and expand my consciousness to embrace the other, and at that moment, the other is no longer the other but a me. By “embracing” the pine tree, I am in fact “being embraced” by the pine tree. This selflessness as the necessary requirement for writing a fine piece of haikai may also be illustrated by a story from the Zhuangzi, the ancient Chinese Daoist text attributed to the philosopher by the same name. Bashō loved Zhuangzian naturalistic attitude. Here is a story of the “Woodcarver Qing.” Woodworker Qing of Lu, carved a piece of wood and made a bell stand, and when it was finished, everyone who saw it marveled, for it seemed to be the work of Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa gods or spirits. When the marquis of Lu saw it, he asked, “What art is it you have?” Qing replied, “I am only a craftsman— how would I have any art? There is one thing, however. When I am going to make a bell stand, I never let it wear out my energy. I always fast in order to still my mind. When I have fasted for three days, I no longer have any thought of congratulations or rewards, of titles or stipends. When I have fasted for five days, I no longer have any thought of praise or blame, of skill or clumsiness. And when I have fasted for seven days, I am so still that I forget I have four limbs and a form and body. By that time, the ruler and his court no longer exist for me. My skill is concentrated and all outside distractions fade away. After that, I go into the mountain forest and examine the heavenly nature of the trees. If I find one of the superlative forms, and I can see a bell stand there, I put my hand to the job of carving; if not, I let it go. This way I am simply matching up ‘heaven’ with ‘heaven’ [that is, matching up my own innate nature with that of the tree]. That’s probably the reason that people wonder if the results were not made by spirits.”32 (d) A fundamental difference between “letting it be” and “forcing it to be” For Bashō, there was a clear distinction between forcing a verse to form itself and letting it take its own form. Bashō often spoke about the fundamental difference between two verbs “[a situation] comes to pass” or “it becomes” (naru) and “I do” (suru). These are 32 Burton Watson, trans. Chuang Tzu Basic Writings, (New York & London: Columbia University Press, 1964), pp. 126-127. The spelling in the original was Ch’ing, which is changed to pinyin, Qing. two opposite directions associated with human creative activities. One is to force a form to take its shape, and the other is to let a form take its own shape. Bashō, deeply resonating with the Zhuangzian spirit of “wuwei 無為” (riddance of unnecessary artificial actions), used to say: The constant interplay of the positive and the negative elements (i.e., yang and yin elements in nature) can be described as the “seeds” of art (fūga). What is quiet and unmoving is the appearance of the immutable. What is dynamic and moving belongs to the mutable. If you do not capture (tomeru) the moment, it will not remain (todomaru) in your memory. “To capture” means to commit it to your visual memory and write it down. Even the splendid scattering of spring flowers or falling of autumnal foliages, if you are not in the midst of it to commit it to your mental image and write it down, how can such scenes be retained in your memory? Living things disappear without a trace. Dohō continues and cites the master’s words: You must capture a thing by way of words, before the glimmer of the thing disappears from your mind. Also, there is a technique to start a verse with the words that best captures the wonder of the thing. That is to say, while the impression of the thing is still warm in your mind, write it down, and later revisit it in order to polish it. In verse-making, there are two approaches: “to become” (naru) and “to do” (suru), If you constantly cultivate your inner awareness to meet a thing, the impression (iro) of your mind will take on a verse. If you do not constantly cultivate 119 Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa your inner awareness, it will not lead to a good verse, and therefore you end up “making” a verse with the help of your subjective will (shii).33 Bashō emphasized just to jot down any impression, in order to capture the image of a subject. So long as you have a rough sketch of the scenery, you have something to remember it by, and it will enable you to compose a satisfying poem about it later. Any poet must capture a moment with words, and put the impression and observation into some key words so as not to let the fleeting moments pass.34 Also, any poet must cultivate a power to observe any scenery in a penetrating manner, with utmost clarity and accuracy into the details. A vague memory of the setting would not do. This ability to have a mental snapshot of a scenery is gained only after years of intense practice of training the mind to observe in detail.35 33 Sanzōshi, section 33, Nose Asaji, op. cit., p. 115. 師の曰、乾坤の変は風雅のたね也といえり。静な るものは不変の姿也。動るものは変也。時として とめざればとどまらず。止るというは、見とめ聞 とむる也。飛花落葉の散乱るも、その中にして見 とめ聞とめざれば、おさまることなし。その活た るものだに消て跡なし。又、句作りに師の詞有。 物の見えたるひかり、いまだ心にきえざる中にい いとむべし。又、趣向を句のふりに振出すという ことあり。是その境に入て物のさめざるうちに取 て、姿を究る教也。句作になるとするとあり。内 をつねに勤て物に応ずれば、その心のいろ句とな る。内をつねに勤ざるものは、ならざる故に私意 にかけてする也。 34 Sanzōshi, section 171, p. 356, and section 176, pp. 363-364. 35 Nose Asaji’s comment on section 33 of Sanzōshi, op. cit., pp. 120-121. 120 III. Concluding Remarks, Ecosophy, Panikkar, and Bashō As we saw above, because of his “ecosophical” bend, Bashō progressively felt choked by his city dwelling and began to make extended journeys into nature. Journey for him was not an act of exploration or adventure, but the way to tune his being and perception with nature. His sensibility towards nature is informed by the native Japanese attitude towards nature, namely, nature is something that nurtures, gives a bounty of blessings, is ever new and ever fresh, but occasionally reminds us of our frail and precarious place within it. Bashō also seems to have considered his journey to have a religious aspect, as Zen monks of olden days used to travel—known as “angya” 行脚—from monastery to monastery, in search of a master under whom each could best practice to pursue the path of awakening. Travel occasionally exposed Bashō to the untamed elements, which were at times truly terrifying. He had to overcome the fear of falling off a cliff or being drowned by whitewater rapids. No doubt, such experiences came to him as an acute antidote to human hubris. Bashō was not a pure “nature” poet, in that his attention always embraced everyday human activities, as well as the historical events of the past. The legacies of the ancients came to Bashō as a kind of affirmation in the everchanging world. He would be deeply moved by the enduring human artifacts whenever he would come upon them. During his trip of 1689 to the northern part of Japan, when he came across a forgotten stone monument, which he discovered from the inscription was dating from the eighth century at the ancient Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa fortress of Tagajō, the sense of encounter with the ancients overwhelmed him. He wrote: different or distant, after all, “sub specie ecosophiae.” Many place names have been preserved for us in poetry from ancient times, but mountains crumble and rivers disappear, new roads replace the old, stones are buried and vanish in the earth, trees grow old and give way to saplings. Time passes, the generation changes, and the remains of the past are often shrouded. And yet here before my eyes was the monument, a memory of the ancients of a thousand years ago. I felt as if I had a privileged look into the heart of the ancient people. This is one of the rewards of travel and the joy of living to an old age. Forgetting the weariness of my travel, I was moved to tears.36 Asō Isoji 麻生磯次, ed. Bashō, Oku no hosomichi, ta yonhen [The Narrow Road to Oku and four other essays], (Tokyo: Ōbunsha, 1970). We may conclude this essay by making a bold assertion that consciousness that permeates the world and nature (cosmos) is larger than human consciousness. It cuts through the matter, and bridges the sentient and non-sentient beings, as well as the past and the present. This was perhaps at the core of the “cosmotheanthropic” vision that Raimon Panikkar savored and lived. A similar intuition also kindled Bashō’s life and energized his creativity in so different a century in so distant a culture—and yet, perhaps, not so References: Imoto Nōichi 井本農一 & Hori Nobuo 堀信夫, ed. Matsuo Bashō shū 『松尾芭蕉集』[Collected works of Matsuo Bashō] vol. 1 (Tokyo: Shōgakukan, 1995). Masutani Fumio 増谷文雄, trans. into modern Japanese. Gendaigo-yaku, Shōbōgenzō 『現代語訳 正法眼蔵』[Shōbōgenzō, accompanied by a modern Japanese reading], vol. 1 (Tokyo: Kadokawa Shoten, 1973). Murata Haruo 村田治夫. Bashō haibun nikki kikō hairon yōkai 『芭蕉俳文・日記・紀行・俳論要解』[Selection from Bashō’s prose, travel diary, and on the poetics of haikai], (Tokyo: Yūseidō, 1967). Nishida Kitarō 西田幾多郎. “Kōiteki chokkan no tachiba” 行為的直観の立場 [The standpoint of the action-intuition] (1935), in Shimomura Toratarō 下村寅太郎, et al., ed., Nishida Kitarō Zenshū 『西田幾多郎全集』[Collected works of Nishida Kitarō] vol. 8 (Tokyo: Iwanami 1979), pp. 107-218. __________. “Poieshisu to purakushisu” ポイエシスとプラクシス [Poiesis and Praxis] (1940), Nishida Kitarō Zenshū, vol. 10, pp. 124-176. __________. no kyakkansei ni tsuite” 知識の客観性について [On the objectivity of knowledge] (1943), Nishida Kitarō Zenshū, vol. 10, pp. 343476. Nose Asaji “Chishiki 能勢朝次. Sanzōshi hyōshaku 『三冊子評釈』[Sanzōshi & commentary] (Tokyo: Sanseidō, 1955). Panikkar, Raimon. The Rhythm of Being (Maryknoll, New York: Orbis Books, 2010). 36 Oku no hosomichi in Asō Isoji, Oku no hosomichi, op. cit., pp. 38-40. むかしよりよみ置ける歌枕、多く語り伝うといえ ども、山崩れ、川流れて道あらたまり、石は埋も れて土にかくれ、木は老いて若木にかわれば、時 移り代変じて、其跡たしかならぬ事のみを、爰に 至りて疑いなき千歳の記念、今眼前に古人の心を 閲す。行脚の一徳、存命の悦び、羇旅の労をわす れて泪も落つるばかり也。 Tsunoda, Ryūsaku, et al. ed. Sources of Japanese Tradition, (New York & London: Columbia University Press, 1971). Yuasa, Nobuyuki, trans. & intro. Bashō, The Narrow Road to the Deep North and Other Travel Sketches (Harmondsworth: Penguin Books, 1983). Watson, Burton, trans. Chuang Tzu Basic Writings, (New York & London: Columbia University Press, 1964). 121 Raimon Panikkar Session - Victorino Pérez Prieto THE COSMOTHEANDRIC STRUCTURE OF REALITY: THE PART AND THE WHOLE. INVISIBLE HARMONY AND ECOSOPHY Victorino Pérez Prieto Victorino Pérez Prieto (video) “We no longer can live into isolated compartments and narcissisticaly installed in a detachment that lacks to be splendid to become miserable... The way is the interconnection of everything with everything, as practically all mystics underline”1. Good morning, Let me start with a greeting to the panikkarian colleagues and other scholars present at this meeting. I would like to express my gratitude to the organization of this First CIRPIT International Colloquium “Between Intercultural Philosophy and Complexity”, dedicated to the great teacher, colleague and unforgettable friend who was Raimon Panikkar. I have had the privilege of sharing life and thought with him and with him I have learnt to position myself better in my relation with God and the world. I have titled my talk “The cosmotheandric structure of reality. The part and the whole. Invisible harmony and ecosophy”. I want to start this talk with some significant words from Raimon Panikkar, which express the reason for this title: Victorino Pérez Prieto, Doctor of Theology Università Santiago de Compostela, Spagna. 122 1st point. The part and the whole. Particularism and universality. Ontonomy versus heteronomy and autonomy. “Colligite quae superaverunt fragmenta, ne pereant” (Jn 6, 12). This sentence from Jesus of Nazareth – sentence which Raimon Panikkar really liked2– puts an end to the story of the multiplication and sums up the foundations of Panikkar's thought. That is to say, the need to integrate the whole reality in all its dimensions; to 1 R. Panikkar,“¿Mística comparada?”, en VV AA, La mística en el siglo XXI, Madrid 2002, 228. 2 “Colligite Fragmenta: For an Integration of Reality”, From Alienation to At-Oneness, ed. F. A. Eigo, The Villanova University Press, 1977. Raimon Panikkar Session - Victorino Pérez Prieto collect scattered fragments, even the smallest ones, even if they are just bits; to reconstruct the harmonic whole from which they have been split: “Nothing is rejected, nothing is left aside. All is comprehensive, assumed, transfigured... It is a question of thinking about all the fragments of our current world to gather them in a non monolithic but harmonic set” 3. Compared to reductionism –“a usual philosophic sin” which Panikkar calls microdoxia–, his thought has a distinctive feature: his obsession for the whole, for a harmony between the various particular realities and the different cultural conceptions of the modern Western world and the Eastern world. It is a question of how to reach an authentic “vision of the whole”: “My great aspiration was, and still is, to include, or rather to become, the reality in all its fullness”. Without any doubt –in a position inspired in both Buddhism and Saint John of the Cross– Panikkar states: “To which place do I want to go?... I want to go nowhere. This would mean to still be in the strong-willed stage... that sets up the post Platonic-aristotelian-Kantian culture, that is to say, the Western culture... It is not a question of going nowhere. It is not a question of parts. It is not a question of partialities... It is a question of the totality” 4. As Jordi Pigem has observed, Panikkar states that the fundamental feature of reality is that “there is no structure in it”, only “interrelationships” 5. Panikkar himself has corroborated this by saying that “the reality does not have any structure”; there is an “interconnection of everything with 6 everything” . With this statement he reaches a new historical age of the human conscience, which is emerging in the thought of the latest years. The integral conscience is being born against the dictatorship of the logical thought, which vindicated an exclusive “explanation” of the world and men, a dictatorship that has already failed. It is a conscience of the entirety and the unity in which men and the cosmos are merging, for the multiple human realms do work as a comprehensive conscience. This is the reason why particularism and universality are inextricably joined in Panikkar's reflection and life, in a search for the interrelationship of everything with everything. The sole way to reach the whole reality is to start with particular things, but jumping again from the particular thing to the whole. Panikkar knows that it is not possible to be really universal without being radically particular. The particular thing makes us specific, allows us to take root in a specific culture and in a particular place so as not to live isolated. You only can be really universal if you maturely take on your uniqueness: to be genuinely universal you need to be radically specific. The interconnection, or interde- 3 La intuición cosmoteándrica. Las tres dimensiones de la realidad, Madrid 1999, 19-20; The Cosmotheandric Experience. Emerging Religious Consciousness, New York 1993. 4 Prologue of El silencio del Buddha. Una introducción al ateismo religioso, Madrid 1999; The silence of God. The Answer of the Budha, NewYork 1989. 5 Jordi Pigem, El pensament de Raimon Panikkar. Interdepèndencia, pluralisme, interculturalitat, Barcelona 2007. 6 “Epíleg. Diàleg a diverses veus”, I. Boada (ed.), La filosofia intercultural de Raimon Panikkar, Barcelona 2004, 156. 123 Raimon Panikkar Session - Victorino Pérez Prieto pendence, is a crucial factor in the environmentalist thought as well as in Buddhism and other traditions. Jesus of Nazareth, accepting his spatial and temporal limits, accepts those Galilean limits in order to be “a universal man” (“all in everyone”); he will always be “Jesus of Nazareth”, until being recognised as the universal Christ. From his small and individual Galilean reality, Jesus Christ could get to all men and women “of all race, language, people and nation” (Rev 5.9) to carry out his universal salvation project. the particular realms of the being (autonomy) as well as the domination of every realm over the others (heteronomy) so to get to a harmonious integration in the whole (ontonomy). “The relationship between God and the creature is not heteronomous nor autonomous... The creature is not God, certainly, but is not true that God is not the creature... [for] everything that is has to be, in some way, God... The creature is not God, but is of God, in God and by God... is with God... The ontic structure that ontonomy seeks is not an intrinsic tie nor an extrinsic relationship. God is not the Eterós as the creature is not a autós. We are rather seautós, even better, seautón (of you) and Him, God, a Eautós (Himself)… There is an ontonomic order that we have to discover, because it is the only thing capable of showing us the real structure of the world”9. This relationship between particularism and universality was an early achievement in Panikkar's thought through his concept of ontonomy, which opposes heteronomy and autonomy. The nómos toû óntos is the internal nomos constituent of each being, that allows “growth” (ontonomic) without breaking harmony” 7. “I call ontonomy the recognition or the development of the specific laws of every realm of human beings or of the human activity, distinguishing superior and inferior realms, but without separation or unjustified interferences. Ontonomy is sensitive to the peculiarities specific to every being or kind of beings, without making these regularities absolutes as though there were not other beings, nor to enslave them at the service of higher entities8. It is a question of the exclusion of the separate or disconnected independence of 7 “Autobiografía intelectual. La filosofía como estilo de vida”, Anthropos, Barcelona, 53-54 (1985) 14; “Philosophy as life-style”, en A. Mercier-M. Svilar (ed.) Philosophes critiques d’eux mêmes, Berna 1978. 8 Ontonomía de la ciencia. Sobre el sentido de la ciencia y sus relaciones con la filosofía, Madrid 1961, 10. 124 2ndpoint. Radical reality and total reciprocity, invisible harmony and ecosophy. For this harmonic conjunction between the parts and the whole, Panikkar, very much in accordance with Hindu thought, insists in the relativity of all those parts, against the prevailing absolutism of one of them. But, as he constantly repeats, relativity is not the same thing as relativism. Each part has got its particular value: “The dilemma is not relativism or absolutism, but the recognition of the radical relativity of the whole Reality”10. Panikkar repeatedly insists in 9 Misterio y revelación. Hinduismo y cristianismo, encuentro entre dos culturas, Madrid 1971, 86-89; Mayá e Apocalisse. L’incontro dell’induismo e del cristianesimo, Roma 1966. 10 La Trinidad. Una experiencia humana primordial, Madrid 1998, 18; The Trinity and the Religious Raimon Panikkar Session - Victorino Pérez Prieto this radical relativity, which has an equivalent in the valuable Hinduist concept of pratítyasamutpáda. This relativity should apply to our human relationships, to our relationship with the world, to the relationship of God with that world, and even to the divine reality itself: “God is radical relativity or total reciprocity. This statement emphasizes the fundamentality of the relationship of everything with everything, which is very different from a pure relativism defending the non existence of valid statements and so denying its aspiration of validity. Relativism is pessimistic and destroys any real criterion of truth; relativity, on the contrary, leaves the criteria of truth intact, but without absolutizing it”11. Panikkar turns this radical relativity, total reciprocity or relationship in something that constitutes the whole reality, also the Divinity: “Everything is related to everything”, he states, following a maxim of Shivaism also present in all the Eastern thought. That is why he states that God is pure relationship: “the genitive relationship fundamental to reality”, “the constituent and creating genitive of all things”12. This is the foundation of his conception of the divine Trinity, that he thinks deeply Christian: “God does not have 'himself', given that 'he is' an I, a You and a Him, that are exchanged in the Trinitarian perichôrêsis” (Ibidem) and of a harmonic and unitary expression of the whole Reality, which is the cosmotheandric perspective. This perspective means the invisible Experience of Man. Icon, Person, Mystery, New York 1975. 11 El silencio del Buddha, 234. 12 Ibid. 234-35. harmony of the whole Reality. The same harmony which should exist between every human being and the others; between all religions and between all cultures. This invisible harmony opposes dualism, which confronts some religions against the others, as well as monism, which would mean a plain ecumenism, an “ecumenical esperanto” that would kill the richness that lies in differences13. On the contrary, we should open our minds to the others and believe and trust the human experience as a whole, the harmony of the human beings and the cosmos. For “religion is the symphony, not the sole musician”. This perspective leads to an ecosophy as well; a wisdom-spirituality of the earth, more than a simple ecology (“science of the earth”). This wisdom is a “new balance” not merely between men and the earth, but between matter and spirit, between the spatial-temporality and conscience. A wisdom that states a cosmic confidence and faith14. Panikkar integrates this ecosophy in Cristophany: the cosmic Christ and the scatological Christ tell us something about the physical future of the earth as well. “Athens may not be related with Jerusalem –in the words of Tertulian–, but Christ is related with both of them and also with the mother earth”. For “our faithfulness to Christ and our love towards him do not separate us from our fellow men, included animals and plants, the earth...” 15. 13 Invisible Harmony. Essays on Contemplation Responsibility, ed. by H.J. Cargas, Minneapolis 1995. 14 Ecosofía. Para una espiritualidad de la tierra, Madrid 1994,114-115. 15 La plenitud del hombre. Una cristofanía, Madrid 1999, 204-205; The Fullness of Man. A Christophany, 125 Raimon Panikkar Session - Victorino Pérez Prieto 3rd point. The cosmotheandric/theantropocosmic intuition. Radical Trinity and advaita a) The cosmotheandric or theantropocosmic intuition is “the entire knowledge of the whole”. It is a question of living open to this triple dimension of reality, open to the others, open to the world and to God, so as to get to a harmonic communion with the whole, that is to say, the cosmotheandric reconciliation. “What counts is the whole reality, matter as well as spirit, good as well as evil, science as much as mysticism, the soul as much as the body”16. The metaphor “dimension” –Panikkar explains– wants to exceed “the monist temptation of building a modalistic super simplified universe, where all things are no more than variations and modes of a substance..., [and] the dualist temptation of establishing two or more incommunicable elements”17. It is more of a mystic and ineffable experience than philosophic experience in the traditional meaning; but –as it is known– Panikkar breaks philosophictheological moulds generally in use. “There are not three realities: God, Man and the World; there is not a single one either (God, Man or the World). The reality is cosmotheandric. It is our way of watching which makes the reality appear to us in different modes. God, Man and the World are, so to speak, in an intimate and constitutive collaboration to build the Reality, to move history forward, to continue the creation... There is dynamism and growth in what Christians call the mystic Body of Christ and Buddhists call dharamakaya. God, Man and the World are committed to a sole adventure and this commitment constitutes the actual Reality”18. The cosmotheandric intuition is the same thing as the “radical” conception of Trinity. This Panikkarian concept is in close connection with the Hindu concepts of advaita a-dualism and the ŗta principle, of which I am going to talk briefly. This triadic and radical-Trinitarian structure is present not only in Panikkar's thought –his conception of reality– but in his own methodology as well. As Scott Eastham has pointed out, the “three worlds” omnipresent in Panikkar's thought, are not unrelated with his triple doctorate in sciences, philosophy and theology: ánthrôpostheós-kósmos, man-God-world. They match the triplet humanity-religion-science, noumenon-mysterion-phainomenon, lógospneûma-mýtos, etc. Jordi Pigem refers how Raimon Panikkar organises his written thoughts on the basis of triadic structures and their multiples, like his famous “novenarios” (three times three)19. b) Radical Trinity. Although he assumes the Christian trinitarian perspective, Panikkar does not consider the Trinity as exclusive of the Christian revelation, but as a fundamental human experience, as the subtitle of the 20th Spanish edition of hiss book on the Trinity 18 La Trinidad, 90. The Trinity... S. Eastham, “Una visita guiada pels tres mons de Raimon Panikkar”, J. Pigem, “L’ estructura trinitària de la realitat i la intuició cosmoteàndrica”, in Ignasi Boada, La filosofia intercultural de Raimon Panikkar, 29-46 y 52-53. 19 New York 2006. 16 “The Cosmotheandric Intuition”, in La nueva inocencia, Estella 1993, 54. 17 Ibid. 126 Raimon Panikkar Session - Victorino Pérez Prieto religions. This surmounting ... implies the opening to the great intuition of the Trinity, a fundamental human experience and a meeting point for the human traditions”23. remembers. “In this essay I try to go deeply in the Christian mystery and I encounter an astonishing confluence with the traditional world of religions and the secular world of modernity. At this depth a fecund dialogue is possible...”20. We encounter this idea of the Trinity versus a royalist-imperial regime in the book of Jürgen Moltmann Trinitat und Reich Gottes; and most notably in Leonardo Boff's book A Trindade, a sociedade e a libertação. Both are indebted to a short classical essay which made a name for its author: Eric Peterson's The monotheism as a political problem 21. If the “Trinitarian” scandal – that cost his life to Jesus of Nazareth according to the theology of the first centuries – achieved a wide spread was, according to Panikkar, decause “a strict monotheism is a lot more congruous with the royalist-imperial 22 Christendom regime” . This is why Panikkar considers that the real challenge of contemporary Christianity is recovering its Trinitarian dimension. The thing is not denying monotheism but “giving way to the Trinity”, conceiving God in its real Christian originality: the Father-Son-Spirit from the trinitarian monotheism. “At the Christianity kairos in the third millennium is the surmounting of the Abrahamic monotheism while keeping the legitimacy and validity of the monotheistic 20 La Trinidad, 46. st “Monotheismus als politisches Problem”, 1 edition 1935, spanish traslation Madrid 1999. Cf. Jürgen Moltmann Trinidad y Reino de Dios, Salamanca 1983; Leonardo Boff La Trinidad, la sociedad y la liberación, Madrid 1987). 22 La Trinidad, 47. 21 Panikkar questions a monotheist God that were the whole reality too –for He would not leave ontological room for the creature – as well as he questioning pantheism, which would get to the same point: “We can state that all is divine, but we should add that the divine thing does not run out in any whole”24. For Panikkar, deep down is the conception of God as pure relationship, compared to the God as Absolute, invariable and unmoving substance, independent from the world, that appears in the old monotheism and some religions. So he speaks about a radical Trinity, which integrates all the Reality in a nondualist way (the divine, the human, the cosmic) avoiding to fall both in dualism and in a pantheist monism. “When one has experienced that God is in everything, that everything is in God however. God is nothing of what really exists, then one has nearly reached the realization, the authentic advaita experience which, as every real experience, can neither be communicated nor expressed through concepts”25. The entire Reality has a Trinitarian structure. Everything is closely related to it. They are not only in a constitutive relation God Father-God Son-God Holy Ghost, the ad intra of the divine reality, but also God-ManCosmos, Heaven-EarthMan, ThingsConcepts-Words. Father-Son-Holy Ghost would correspond to what Christian theology 23 La plenitud del hombre, 15. The Fullness of Man. La Trinidad, 13-14. 25 Ibid. 60. 24 127 Raimon Panikkar Session - Victorino Pérez Prieto calls immanent Trinity, the divine interior. God-Man- Cosmos would correspond to which Christian theology calls economic Trinity, the relationship of God with man and the world. Radical Trinity – Raimon Panikkar repeats over and over again– means that the Reality is neither monist nor dualist, neither one nor multiple; it is polarity, it is trinity. In other words, we have to reject monotheism as well as triteism to get to a trinitarian harmony. Radical Trinity means that the Trinity is the Reality. The whole Reality is a trinitarian relationship. This way, the radical Trinity is not, in Panikkar's thought, something different from the cosmotheandric vision of Reality. c) This Panikkarian conception (trinitarian and cosmotheandric) has a particularly direct relationship with two Hindu concepts: the advaita a-dualism and the ŗta principle. “The central message of the Upanisad – interpreted in its fullness (sensus plenior)– is neither monism nor dualism (nor the theism some of them show) but advaita, that is, the non dual character of the Reality, the impossibility of adding God to the world or vice versa, the impossibility of placing God and the World in dvandva, like members of a couple. For the Upanisad, the ‘Absolute’ is not just transcendent, but transcendent and immanent at the same time, all in one”26. It is well known, advaita (“not two”) is the Hindu doctrine of the non-duality of all beings, God and the world included. Panikkar prefers translating advaita as “a-duality”: the Divinity “is not separated from the rest of the 26 La Trinidad, 59. 128 reality, but is not completely identical to it too”, as in dualism and monism. Advaita cannot be confused with monism, as stated by many Western commentators, and a common view among Western theologists. It is considered the culminating point of all religions and philosophies if they introduce the “supreme” experience of non-duality, non-separability between Oneself (Atman) and God (Brahman). For advaita the truth is discovering that “Atman (the I) is Brahman (the Absolute)” – in other words (“Tat tvam asi” = “You are This-or Him”, the Absolute) – but still being different from one another. In advaita, God and the world are neither juxtaposed nor one is absorbed by the other; on the contrary, there is reciprocity between them: the Absolute is transcendent and immanent at the same time. So Panikkar writes: “God is neither Himself (monism) nor the Other (dualism). God is a pole of the Reality, a constitutive pole; quiet and therefore ineffable… transcendent, but immanent in the world; infinity, but limited in the things. This pole is nothing in itself. It only exists in his polarity, in his relationships. God is relationship... with everything”27. According to this conception nothing is unsacred, but nothing is absolutely sacred too, nothing is separated from the rest, everything has a sacred dimension: “The sacred dimension is an aspect of all things derived from the fact that things are real”. And in this respect, the Revelation itself is “not revelation 27 Iconos del misterio. La experiencia de Dios, Barcelona 2001, 86; The Experience of God: Icons of the Mystery, Minneapolis 2006. Raimon Panikkar Session - Victorino Pérez Prieto of the sacred” for “conferring reality to the sacred”, but just because “unveils what is already there”28. The concept of advaita is fundamental in Panikkar's cosmotheandric thought. This is in accordance with the aforementioned concept of ontonomy and applicable to the Trinitarian dynamism, to the divine interior as well as to all the reality. As Francis X. D’Sa has rightly stated, “Advaita and ontonomy are the two faces of the same coin”29. Anyway, advaita is directly related to another concept from Hinduism: the ŗta principle, or the principle of the harmony of all beings. No being is identified with another, but it is neither separated from the others; is the principle that governs the cosmic and sacred order. Neither dualism, nor monism, nor pantheism: the Reality is a-dualist and it is set up as a radical the-antropo-cosmic trinity. Raimon Panikkar helped us to understand that Christian belief cannot be understood neither as dualist nor as monist, but only as Trinitarian-advaita; God as Relationship in a polyphonic vision of Divinity. 28 El mundanal silencio, 50. Francis X. D’Sa, “Der trinitarische Ansatz von Raimon Panikkar”, B. Nitsche (Hg.), Gottesdenken in interreligiöser Perspektive. Raimon Panikkars Trinitätstheologie in der Diskussion, Frankfurt/M.Paderborn, 2005. 29 129