astronomia La prima luce cosmica S di Adriano Fontana e Andrea Ferrara e ci capita di alzare gli occhi al cielo in una notte buia o di osservarlo con un telescopio è impossibile non rimanere affascinati dalla complessità e dalla bellezza degli innumerevoli corpi celesti che si presentano alla nostra vista. Di fronte a uno spettacolo del genere è difficile immaginare che un tempo pianeti, stelle e galassie non esistevano. In realtà, per circa 100 milioni di anni dopo il big bang tutta la materia ordinaria si è trovata sotto forma di un gas freddo, composto esclusivamente da idrogeno ed elio, con trascurabili percentuali di litio, e molto più rarefatto del vuoto più spinto che possiamo raggiungere nei laboratori. Ma non c’erano pianeti, comete, polveri o altri elementi chimici. Nessuna stella o altra sorgente illuminava questa nebbia primordiale. L’unica radiazione presente era la debole luminosità diffusa del fondo cosmico a microonde, lontana eco del big bang, rilevabile solo nell’infrarosso. Di lì a poco, da questo tenue gas sarebbero nate le prime sorgenti di radiazione dell’universo. La loro luce si sarebbe diffusa nel resto del cosmo, riscaldando e ionizzando il gas primordiale. I nostri telescopi non sono ancora in grado di osservare direttamente le prime sorgenti. Negli ultimi anni però gli astronomi hanno tentato di rispondere a domande fondamentali su questi corpi luminosi. Per esempio, qual era la loro natura? Quali sono stati i loro effetti sull’universo? Prima o poi potremo osservarle? Quali oggetti celesti hanno emesso la prima radiazione che ha illuminato l’universo e ne ha influenzato l’evoluzione? European Southern Observatory/M. Kornmesser Giovane universo Oggi la cosmologia è in grado di disegnare il quadro della formazione delle prime strutture cosmiche a partire dal gas freddo lasciato dal big bang. All’inizio la distribuzione della materia era quasi omogenea: densità e temperatura erano essenzialmente le stesse in ogni punto del cosmo (mentre oggi questo non è più vero). Tuttavia c’erano piccole disomogeneità, probabilmente prodotte durante una fase iniziale di espansione accelerata, l’inflazione. Le zone poco più dense della media tendevano ad attirare materia da quelle meno dense e si addensavano ulteriormente grazie alla loro maggiore forza di gravità; per lo stesso motivo, le regioni meno dense si svuotavano. Questo processo, conosciuto come «instabilità gravitazionale», ha permesso a «regioni fortunate» di continuare ad accumulare materia. Quando la loro densità ha superato un valore critico si è verificato un collasso: queste regioni più fortunate sono entrate in una fase di contrazione accelerata, durante la quale la densità centrale è aumentata fino a valori tanto elevati da permettere la formazione di stelle e, forse, buchi neri. Questo processo è descritto bene da modelli matematici relativamente semplici fino a una scala dell’ordine di qualche parsec (un parsec equivale a circa tre anni luce). Una stella però è da 105 a 107 volte più piccola rispetto a queste dimensioni, e seguire il processo Il più grande spettacolo dopo il big bang. Questa illustrazione mostra come poteva apparire l’universo nelle prime fasi della sua evoluzione, circa 500 milioni di anni dopo il big bang. Le prime galassie erano di dimensioni assai più piccole e non avevano sviluppato le forme tipiche delle galassie attuali. La loro luce non aveva dissolto la nebbia intergalattica, che in parte oscurava alcune zone dell’universo. 48 Le Scienze 526 giugno 2012 www.lescienze.it Le Scienze 49 tre ipotesi La formazione delle prime sorgenti Adriano Fontana è astronomo all’INAF-Osservatorio di Roma e docente di fisica delle galassie alla «Sapienza» Università di Roma. Svolge ricerca di tipo osservativo e interpretativo sulla nascita e formazione delle galassie. a Andrea Ferrara è docente di cosmologia alla Scuola normale superiore di Pisa. Svolge ricerca di tipo teorico e numerico sulla formazione delle prime strutture nell’universo. di frammentazione del gas che porta alla formazione delle singole stelle è complicato. A queste scale, infatti, diventano importanti fenomeni dinamici e termodinamici che devono essere descritti con sofisticate e costose simulazioni numeriche. Secondo le stime più recenti, condensazioni adatte a formare stelle sarebbero apparse già dopo soli 100 milioni di anni dal big bang, ovvero quando l’età dell’universo era meno dell’uno per cento dell’età attuale. Le prime stelle Negli ultimi anni, grazie al contributo del gruppo di ricerca coordinato da uno di noi (Ferrara), sono stati fatti grandi progressi nella comprensione della formazione delle prime stelle. Anzitutto è diventato chiaro che uno dei parametri cruciali che determinano le proprietà di queste prime sorgenti luminose è la «metallicità» del gas, cioè la frazione di massa costituita da tutti gli elementi che non siano idrogeno o elio e che quindi sono stati sintetizzati dalle stelle invece che nel big bang. Anche piccole tracce di carbonio, ossigeno e azoto influenzano profondamente l’esito del processo di formazione stellare. Questi elementi sono particolarmente efficienti nel convertire in radiazione l’energia termica di un gas, facendo così raffreddare e frammentare la nube originale in aggregati gassosi di massa più piccola che poi condensano fino a formare stelle. La presenza di carbonio, ossigeno e azoto nelle nubi molecolari delle galassie ordinarie (tra cui la nostra) fa sì che si formino prevalentemente stelle di massa intermedia (come il Sole) o più piccola, di cui sono in gran parte composte le galassie attuali. Questi elementi erano però assenti nel gas di composizione primordiale, costituito solo da idrogeno, elio e litio prodotti dal big bang. Purtroppo nella nostra galassia, la Via Lattea, non ci sono più nubi di composizione primordiale e quindi non è possibile verificare sperimentalmente questo scenario. Gli scienziati, dunque, si sono affidati a simulazioni numeriche, scoprendo che, a causa del raffreddamento inefficiente, il gas non si frammenta in nubi più piccole. Questo risultato suggerisce che le prime stelle dell’universo erano molto più grandi del Sole. Se questi modelli sono corretti, l’universo giovane era popolato da stelle giganti, tipicamente 100 volte (ma anche fino a 600 volte) la massa del Sole. Queste stelle non erano necessariamente isolate, ma probabilmente sono nate all’interno di ammassi stellari 105 volte più piccoli della Via Lattea: gli embrioni delle prime galassie. Proprietà e destino di queste stelle giganti sono scritti nelle loro dimensioni (si veda Il sistema periodico del cosmo, di Ken Croswell, in «Le Scienze» n. 517, settembre 2011): sono molto luminose (circa due milioni di volte il Sole) e hanno vita molto breve (pochi milioni di anni). E questo secondo aspetto è cruciale. Al termine della loro esistenza, le stelle di grande massa esplodono come supernove: l’esplosione libera nel mezzo interstellare grandi quantità di elementi sintetizzati nel corso della vita della stella o durante l’esplosione stessa. Sono elementi che compongono gli esseri umani e la Terra. Quelli pesanti liberati nell’esplosione aumentano la metallicità media del gas. I calcoli dimostrano che è sufficiente una piccola percentuale di questi elementi pesanti (lo 0,00001 di quella del Sole) per inibire la formazione di stelle giganti e avviare la formazione di stelle di massa ordinaria. Quindi, la fase in cui le stelle giganti hanno popolato l’universo potrebbe essere stata molto breve (sempre in termini cosmologici): la prima generazione è stata rapidamente sostituita da una seconda generazione di stelle «normali» che contenevano una quantità non trascurabile di elementi pesanti. Queste stelle potevano essere abbastanza piccole da sopravvivere fino a oggi e alcune di esse sono probabilmente già state osservate nella nostra galassia. Lo scenario precedente spiega anche perché finora nella Via Lattea non si sono potute osservare stelle con composizione analoga a quella iniziale dell’universo. b c I modelli teorici indicano che le prime sorgenti dell’universo nascono dalle rare condensazioni di gas che, nel cosmo primordiale, sono abbastanza dense e massicce da collassare sotto la spinta della propria forza di gravità. Secondo questi modelli, potrebbero esserci stati almeno tre possibili meccanismi per la formazione delle sorgenti primordiali. Nel primo (a), il gas cade con geometrie complicate verso il centro dell’addensamento e, attraverso cicli di riscaldamento e raffreddamento, finisce per formare una stella gigante, di massa almeno pari a 100 volte quella del Sole. Queste stelle sono molto luminose, e producono direttamente foto- Una fonte alternativa Non è detto però che le uniche sorgenti di radiazione nell’universo giovane debbano essere state le prime stelle massicce: un’alternativa considerata sempre più spesso è legata alla formazione di buchi neri. La materia che circonda un buco nero è inevitabilmente attratta in una specie di gorgo cosmico dal suo campo gravitazionale. Durante la caduta in un buco nero lungo una traiettoria a spirale, la materia si scalda ed emette radiazione ad alta energia, in particolare i raggi X che osserviamo in modo diretto. Ci sono diverse modalità possibili per la formazione di buchi neri ai primordi del cosmo. La più ovvia è l’esplosione finale delle prime stelle: la teoria dell’evoluzione stellare afferma che alla fine della loro vita le stelle massicce collassano in un buco nero dopo avere espulso gli strati più esterni. Il buco nero può diventare un centro di attrazione per la materia circostante, e in un ambiente ricco di gas, come quello in cui si formano le stelle, può continuare a crescere inghiottendo materia ed emettendo radiazione X. Uno dei problemi più importanti nello studio dell’universo riguarda la natura della prime sorgenti di luce. Queste sorgenti, secondo i modelli, potrebbero essere state di tre tipi: 50 Le Scienze stelle giganti, buchi neri, quasar. È fondamentale capire quale sia stato quello dominante, perché la radiazione delle prime sorgenti ha cambiato l’evoluzione dell’universo, influenzando il tasso di formazione di nuove stelle e strutture, attraverso il fenomeno della reionizzazione. Oggi i telescopi spaziali e a terra iniziano a esplorare l’epoca della reionizzazione, suggerendo che le prime sorgenti siano state stelle massicce e che il passaggio da un universo neutro a uno ionizzato sia stato più rapido di quanto ipotizzato. 526 giugno 2012 Elisa Botton In breve Alcuni modelli indicano anche che il processo di formazione delle prime stelle potrebbe produrre un certo numero di sistemi binari, formati da una stella gigante e da una meno massiccia. In questo caso il buco nero che rimane dopo l’esplosione della stella più grande potrebbe cannibalizzare la stella compagna, emettendo di nuovo grandi quantità di raggi X. Altri studi indicano però che potrebbe esserci un’ulteriore meccanismo per la formazione di buchi neri. In particolari condizioni, questi oggetti celesti potrebbero formarsi direttamente dal rapido collasso di una nube di gas saltando la fase stellare intermedia. In questo caso i buchi neri potrebbero avere una massa iniziale molto più grande di quella dei buchi neri prodotti nell’esplosione delle supernove, e sarebbero quindi in grado di attrarre e inghiottire grandi quantità di materia. Qualunque sia il meccanismo di formazione iniziale (si veda il box in questa pagina), di certo nell’universo giovane c’era una popolazione numerosa di buchi neri. Continuando ad accumulare massa, infatti, una parte di questi buchi neri sono diventati tanto luminosi da essere visibili a distanze enormi, confrontabili con www.lescienze.it ni ionizzanti prima di esplodere in supernove. In un secondo meccanismo (b), dal gas si forma una coppia di stelle binarie, e la più massiccia delle due forma rapidamente un buco nero che attrae la materia della compagna. La radiazione prodotta in questo processo può ionizzare il mezzo intergalattico, anche a distanze maggiori rispetto alle singole stelle. Alcuni modelli suggeriscono che ci possa essere un terzo meccanismo (c), in cui dal gas si forma direttamente un buco nero di massa pari a oltre 10.000 volte quella del Sole. Questi buchi neri possono diventare i «semi» per la formazione dei primi quasar. il raggio dell’universo. Queste sorgenti sono dette quasar. Oggi i quasar sono gli oggetti più brillanti del cosmo, e grazie a questa proprietà li possiamo rilevare fino a epoche molto remote. Il più lontano quasar conosciuto ha uno spostamento verso il rosso – o redshift, indicato con la lettera z – di 7,08, pari a 760 milioni di anni dopo il big bang (si veda il box a p. 52). L’influenza delle prime sorgenti La radiazione emessa dalle prime sorgenti ha cambiato l’evoluzione dell’universo perché ha innescato meccanismi di riscaldamento del gas primordiale, che a loro volta hanno modificato il tasso di formazione di nuove stelle e strutture. Anche in questo caso gli astrofisici devono immaginare le possibili relazioni tra questi fenomeni e usare complesse simulazioni che sfruttano i supercomputer più potenti per verificare le ipotesi. Le sorgenti appena descritte emettono grandi quantità di radiazione ultravioletta, che ha energia sufficiente a rompere il legame elettromagnetico tra nucleo (protone) ed elettrone dell’atomo d’i- Le Scienze 51 e q ua z i o n e e p o c a l e Redshift ed età dell’universo I cosmologi preferiscono riferirsi alle epoche cosmiche non con il tempo trascorso dal big bang, ma con il redshift, indicato con z. Questa grandezza, che ha il vantaggio di poter essere misurata sperimentalmente dallo spettro delle sorgenti, esprime il rapporto tra raggio dell’universo all’epoca attuale, R0, e quello a un’epoca precedente, R: z = (R0/R)–1. Un redshift z = 1 corrisponde all’epoca in cui il raggio dell’universo era la metà di quello attuale. Per fissare le idee, l’età dell’universo oggi (z = 0) è di 13,73 miliardi di anni; a z = 7 era di 0,9 miliardi di anni, a z = 10 era di 0,48, mentre a z = 30 era di 0,1, cioè 100 milioni di anni. Questa è l’epoca in cui pensiamo siano apparse le prime sorgenti luminose. 52 Le Scienze La distribuzione spaziale della reionizzazione Via via che le prime sorgenti si accendono nell’universo primordiale, la loro radiazione si diffonde nel mezzo intergalattico e ionizza l’idrogeno neutro di cui è composto. Intorno alle prime sorgenti si formano quindi «bolle» di gas ionizzato che si espandono nel tempo e finiscono per sovrapporsi. Dato che la distribuzione iniziale delle galassie è irregolare, e che le più brillanti sono più efficaci nel creare bolle di ionizzazione, la struttura spaziale delle zone ionizzate nel mezzo intergalattico in questa fase ricorda quella di un formaggio con i buchi. Questa illustrazione è tratta dalle simulazioni numeriche realizzate su un supercomputer da uno di noi (Ferrara) che riproducono gli effetti delle prime sorgenti sul mezzo intergalattico nell’universo 650 milioni di anni dopo il big bang. La scala di colori è proporzionale alla percentuale di gas primordiale non ionizzato: le zone nere sono completamente ionizzate grazie alle sorgenti al loro interno (non mostrate in figura). Le zone bianche sono ancora neutre, perché non sono state raggiunte dai fotoni delle prime sorgenti. Il volume della simulazione è di 400 milioni di parsec (1,3 miliardi di anni luce). È chiaro quindi che la storia di formazione stellare e galattica nel cosmo è intimamente legata alla sua storia di reionizzazione. Capire l’evoluzione fisica e la struttura spaziale della reionizzazione è dunque uno dei problemi più urgenti e affascinanti della cosmologia: non a caso è stato oggetto di molte campagne osservative. altri tipi di sorgenti (quasar o altre ancora). La ragione principale di questa incertezza è dovuta al fatto che al momento siamo in grado di rilevare solo le minigalassie più brillanti e rare, e da queste dobbiamo estrapolare il loro numero totale. Su questo punto le conclusioni dei gruppi di ricerca divergono, e tutti aspettano il James Webb Space Telescope per dirimere la questione. C’è anche un altro problema: contare le galassie e le loro stelle non basta a garantire che le stelle siano le fonti della reionizzazione. A questo scopo è anche necessario che la maggior parte della radiazione ionizzante emessa dalle prime stelle sia in grado di uscire dalle galassie, senza essere assorbita dal gas al loro interno. Questa ipotesi non è verificabile con i dati attuali; anzi, è in contrasto con quanto sappiamo delle galassie più vicine a noi, dove solo una piccola percentuale della radiazione ionizzante prodotta riesce a emergere. Ora la palla passa alla teoria, che deve chiarire se questo fenomeno si verifica anche nelle minigalassie. Osservare le prime galassie 526 giugno 2012 Quando è avvenuta la reionizzazione? Cortesia Center for Computational Chemistry and Cosmology, Scuola normale superiore, Pisa Lo scenario descritto è stato ricostruito con simulazioni e modelli teorici, ma deve essere ancora confermato dalle osservazioni. Se le prime sorgenti sono state davvero stelle giganti isolate, la loro rilevazione diretta resterà per molti anni ancora oltre la portata dei telescopi. Più probabilmente, le prime stelle si sono formate in gran numero all’interno di mini-galassie, che sono o saranno a breve alla portata dei nostri strumenti. A causa dell’espansione dovuta alla legge di Hubble, la radiazione ultravioletta prodotta dalle prime sorgenti è osservabile nella banda spettrale del vicino infrarosso. La rilevazione di queste prime sorgenti è uno degli obiettivi principali del James Webb Space Telescope, successore di Hubble, se sopravvivrà ai tagli del programma spaziale statunitense. Già oggi, però, il progresso della strumentazione installata su Hubble e sui più grandi telescopi terrestri – quali il Very Large Telescope (VLT) dello European Southern Observatory (ESO) o il Subaru Telescope del Mauna Kea Observatory, alle Hawaii – ci sta portando a esplorare l’epoca della reionizzazione. Le straordinarie immagini ultraprofonde ottenute con questi strumenti da alcuni gruppi di ricerca (tra cui quello di Adriano Fontana, quello di Garth Illingworth e Rychard Bouwens all’Università della California a Santa Cruz e quello di Jim Dunlop e Ross McLure dell’Università di Edimburgo) hanno permesso di individuare le prime mini-galassie a redshift 7 e 8, e forse oltre. Ci appaiono come piccoli grumi quasi informi di stelle; la loro luminosità indica che addirittura le più massicce contenevano solo 100 milioni di stelle, un millesimo delle stelle che ci sono oggi nella Via Lattea. Da questo dato, e dal numero di minigalassie, si può stimare il numero totale di stelle che ci sono nell’universo e confrontarlo con il numero necessario per reionizzarlo. La risposta è spiacevolmente ambigua. Il numero di stelle è circa quello necessario, ma le incertezze sono abbastanza grandi da non escludere che siano necessari Cortesia European Southern Observatory/L. Pentericci drogeno, separandoli in modo definitivo. Questo processo è detto di ionizzazione. (In termini cosmologici si parla di reionizzazione, dato che anche in epoche molto vicine al big bang, z > 1000, protoni ed elettroni erano separati). Il plasma elettrone-protone è sostanzialmente trasparente alla radiazione ultravioletta, quindi, se il numero delle prime sorgenti è stato sufficientemente elevato, la radiazione si è propagata al resto dell’universo. L’azione combinata della radiazione emessa dalle prime stelle e dai quasar ha provocato la transizione di fase detta «reionizzazione dell’idrogeno» (e dell’elio). Questo processo non è avvenuto simultaneamente in tutte le regioni del cosmo, dato che le sorgenti erano concentrate nelle rare e dense regioni fortunate, descritte in prima. Le simulazioni hanno mostrato che all’inizio le sorgenti hanno scavato bolle ionizzate nel mare d’idrogeno neutro lasciato dal big bang; successivamente queste bolle sono cresciute fino a toccarsi e fondersi, lasciando solo alcune «zone cuscinetto» con gas ancora neutro. Il tipo di sorgente dominante (stelle o quasar) influenza l’evoluzione e la struttura spaziale della reionizzazione. Se le prime sorgenti sono state soprattutto stelle giganti, la maggior parte dell’energia radiativa è stata confinata nella banda ultravioletta. Questa energia è stata assorbita immediatamente nel gas circostante e solo quando lo ha ionizzato ha potuto percorrere distanze più grandi. In questo caso, durante la fase di ionizzazione il gas doveva somigliare a un formaggio pieno di buchi (si veda box nella pagina a fronte). Se invece le sorgenti primordiali sono state soprattutto buchi neri, la maggior parte dell’energia radiativa è stata confinata nella banda dei raggi X, che sono più penetranti e quindi hanno percorso distanze ancora più grandi rispetto alla radiazione ultravioletta, producendo una reionizzazione più omogenea e diffusa. L’aspetto cruciale è che, durante la reionizzazione, l’energia in eccesso rispetto a quella di legame tra protone ed elettrone è stata trasferita al gas circostante, aumentandone la temperatura. Dato che un gas troppo caldo non è più in grado di formare stelle, il risultato netto (in un certo senso paradossale) è che le prime sorgenti si sono autoinibite, innescando un meccanismo di feedback che ha bloccato l’ulteriore formazione di stelle nella regione immediatamente circostante. Il processo di formazione è ripreso in seguito, dopo il periodo necessario a un raffreddamento. s i m u l a z i o n e i n t e r g a l at t i c a Galassia di miliardi di anni fa. L’immagine ottenuta dal VLT dell’ESO di una delle galassie più lontane la cui distanza sia stata misurata con precisione. Il debole oggetto rosso al centro è una galassia giovanissima fotografata quando l’universo era in una fase iniziale, circa 700 milioni di anni dopo il big bang. L’analisi del suo spettro realizzata da uno di noi (Fontana) ha dimostrato che il mezzo intergalattico circostante è ancora parzialmente neutro. La scoperta forse più inattesa dello studio delle prime minigalassie riguarda il «quando» è avvenuta la reionizzazione. La chiave è nelle regioni circostanti le sorgenti, che sono le più complicate da descrivere ma anche le più ricche di potenziali informazioni. Oltre ai fotoni ionizzanti, le prime stelle producono fotoni di energia più bassa, corrispondenti alla transizione dallo stato quantico fondamentale al primo livello eccitato dell’atomo d’idrogeno neutro. Questa radiazione è visibile come una riga ultravioletta (la cosiddetta riga Lyman-alfa) a 0,1216 micrometri nello spettro delle sorgenti e ci permette di identificarle e di determinarne il redshift. Tuttavia, durante il viaggio verso la Terra i fotoni Lyman-alfa possono incontrare un altro atomo d’idrogeno ed eccitarlo al primo livello; in questo modo verrà emesso un nuovo fotone Lyman-alfa con direzione diversa rispetto al primo e quindi non osservabile. In pratica possiamo pensare a questo processo come a un assorbimento del gas neutro che si trova tra noi e la sorgente. Una parte dei fotoni emessi dalla sorgente può dunque essere assorbita, in funzione della densità (e velocità) del gas intorno alla minigalassia. Se l’universo non è ancora completamente reionizzato, la riga diventa meno intensa o addirittura scompare. www.lescienze.it Negli anni passati, l’analisi degli spettri delle sorgenti più distanti ha dimostrato che dopo circa un miliardo di anni dal big bang (z = 6) l’universo era completamente ionizzato. Sorgenti ancora più distanti scoperte di recente hanno riservato una sorpresa importante. Il gruppo di Stephen Warren dell’Università di Cambridge ha osservato il quasar più distante conosciuto (età cosmica circa 800 milioni di anni, a redshift z = 7,1). Lo spettro mostra chiaramente la presenza di una significativa quantità di idrogeno non ionizzato nelle sue immediate vicinanze. Nei primi campioni di galassie osservate a epoche simili (ottenuti dal gruppo di Fontana e da quello di Richard Ellis del California Institute of Technology) l’emissione nella riga Lyman-alfa è significativamente ridotta: quello che ci si aspetta di trovare se il mezzo intergalattico contiene idrogeno neutro. Queste osservazioni indicano che il gas che circondava galassie e quasar non era del tutto trasparente, e che la loro luce ci arriva in parte assorbita dalla «nebbia primordiale», ancora non dissolta del tutto. Sebbene non fossero inattesi, questi risultati sembrano indicare che la transizione di fase da un universo neutro a uno ionizzato è avvenuta più rapidamente di quanto si sospettasse. Se l’interpretazione di queste osservazioni è corretta, in circa 200 milioni di anni – tempo relativamente breve su scala cosmologica – l’universo ha completato una profonda trasformazione. Ciò non implica necessariamente che l’intero processo di reionizzazione sia stato così rapido. La storia dei primi 800 milioni di anni dell’universo, e delle strane sorgenti che lo hanno illuminato, deve ancora essere raccontata. Nei prossimi anni, la caccia alle prime stelle del cosmo riserverà ancora molte sorprese intriganti. n per approfondire The First Cosmic Structures. Ciardi B. e Ferrara A., in «Space Science Reviews», Vol. 116, nn. 3-4, pp. 625-705, 2005. Analytical Models of the Intergalactic Medium and Reionization. Choudhury T. R., in «Current Science», Vol. 97, p. 841, 2009. The First Galaxies. Bromm, V. e Yoshida, N., in «Annual Review of Astronomy and Astrophysics», Vol. 49, n. 1, pp. 373-407, 2011. Early star-forming galaxies and the reionization of the Universe. Robertson B. e altri, in «Nature», Vol. 468, pp. 49-55, 2010. Le Scienze 53