Memorie dalla Terra di Mezzo – Andrea Scarabelli

Negli appunti di quella che avrebbe dovuto essere la conclusione de Il monte analogo René Daumal
scrisse: «Non si può restare sulle vette, bisogna ridiscendere… A che pro, allora? Ecco, l’alto
conosce il basso, il basso non conosce l’alto». È il senso iniziatico e spirituale dell’avventura, che alla
fuoriuscita dalla realtà quotidiana coniuga una realizzazione di tipo metafisico… Affrontare un
viaggio significa infatti acquisire una nuova immagine del proprio Io, ricevere un nuovo nome,
essere iniziati a nuova vita. Ma poi c’è il rientro a casa, il reinserimento nella vita di tutti giorni,
nelle consuetudini. È l’ultima prova cui è sottoposto l’eroe, che dopo essersi messo alla prova deve
far ritorno tra i propri simili, come scrisse Joseph Campbell in quel piccolo capolavoro che è L’eroe
dai mille volti. Che fare a questo punto? È sempre Daumal a rispondere: «Si sale, si vede. Si
ridiscende, non si vede più; ma si è visto. Esiste un’arte di dirigersi nelle regioni basse per mezzo del
ricordo di quello che si è visto quando si era più in alto. Quando non è possibile vedere, almeno è
possibile sapere».
Primavera 2011. Giampiero Rubei, da poco direttore della romana Casa del Jazz, chiede a Gianfranco
de Turris e Sebastiano Fusco – nomi che non hanno bisogno di presentazione per gli amanti del
fantastico – un testo teatrale ispirato alle opere di J. R. R. Tolkien, da proporre con
l’accompagnamento di un genere musicale solitamente considerato piuttosto distante dal mondo del
filologo di Oxford. Nasce così Ricordi di un Hobbit tra le note di Keith Jarret, che viene messo in
scena alla Casa del Jazz nel febbraio dell’anno successivo, con la collaborazione della Società
Tolkieniana Italiana. Pubblicata dapprima sul terzo numero della rivista «Antarès» (J. R. R. Tolkien.
Un’epica per il nuovo millennio, Edizioni Bietti, Milano 2012), la pièce esce ora per Tabula Fati.
Oltre al testo, il volumetto contiene una prefazione di Quirino Principe, altro nume tutelare del
Legendarium tolkieniano in Italia, e una postfazione di Stefano Giuliano, autore di J. R. R. Tolkien.
Tradizione e modernità nel Signore degli Anelli (Edizioni Bietti, Milano 2013), insieme a un inserto
fotografico e una copertina realizzata da Dalmazio Frau.
Il dramma si svolge a Hobbiville, quindici anni dopo la partenza di Frodo e Gandalf dai Grey Havens.
La giovanissima figlia di Sam Gangee pone domande a suo padre (personaggio fondamentale
all’interno del Lord of the Rings, anche se spesso dimenticato dai critici, come ricorda Stefano
Giuliano nella postfazione) su quel che accadde. Stimolato da Elanor, Sam ripercorre quel viaggio,
esercitando in questo modo l’arte del ricordo citata in apertura. Lo scenario dell’opera è
crepuscolare, «nobile e forte, che sa di erica verdeggiante in principio e alla fine odora d’incendio»,
scrive Quirino Principe nella sua straordinaria introduzione. Tra le righe intravediamo infatti il
chiudersi di un ciclo, il declinare di un mondo. La Terza Era volge al termine, senza lasciar presagire
Ereticamente
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nulla di quanto accadrà successivamente.
Sam rievoca mondi, gesta eroiche e atmosfere oniriche, consegnando ai lettori una narrazione epica
nella quale la memoria (come, d’altra parte, avviene sempre nel mondo tradizionale) è creatrice.
Assieme a quest’epica, tra i migliori doni di Tolkien all’Occidente, ad emergere nella pièce sono tutti
i temi che costituiscono l’ossatura del Legendarium: dall’incontro con il mostruoso e il diverso alla
necessità di affrontare i fantasmi del passato e le proprie paure, dall’incontro con il Male e i suoi
subalterni al rapporto tra bellezza e dolore, sino al desiderio – antico quanto la nostra civiltà – di
spingersi oltre i propri confini, siano essi le colonne d’Ercole o i verdeggianti campi d’una Contea
immaginata da un professore di Oxford.
C’è una dialettica che percorre interamente il Signore degli Anelli, e non è la bigotta opposizione
Bene-Male, come ha scritto Principe, che in tanti – troppi – hanno ravvisato, ma quella tra bellezza e
orrore, tra luce e buio, tra altezza e fango. Una dialettica che permea per intero anche la pièce in
questione, ambientata nella notte di un’epoca, nella quale tuttavia arde «la luce di una stella sempre
viva / nel golfo della notte, che risplende / quando d’ogni altra fiamma / anche l’ultimo guizzo s’è
consunto». È la fiamma della speranza, che permea i ricordi di Sam e degli altri personaggi, evocati
e materializzati dalle sue parole – nell’ordine: Gandalf, Aragorn, Arwen, Gimli e Frodo.
Spetta a Gandalf, che chiude la narrazione, affidare il terribile scettro all’uomo, al declinare della
Terza Era, con le sue due uniche compagne a scortarne l’incedere: la Spada e la Morte. Questo
modernissimo cavaliere di Dürer, solo dopo l’eclisse di eroi ed elfi, deve affrontare e percorrere sino
in fondo il proprio destino. Un destino di morte ma anche di rinascita, specie in un mondo come
quello moderno, verso cui Tolkien provava orrore, tanto da raffigurarlo a mezzo della terribile
Mordor, nemica della natura e dei popoli liberi. Una sola via ci è data, analoga a quella di Daumal,
per sopravvivere a quell’oscurità che dilaga ovunque: «Ricordiamoci, noi che ancor viviamo / in
queste lande dal buio opprimente, / le stelle chiare del cielo d’Occidente».
Andrea Scarabelli
Gianfranco de Turris, Sebastiano Fusco, Ricordi di un Hobbit, presentazione di Quirino
Ereticamente
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Principe, postfazione di Stefano Giuliano, Tabula Fati, Chieti 2015, pp. 56, € 8,00.
Ereticamente
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