La crisi dell'Europa e la nascita dei fascismi 0001000100 ‣ La frattura della guerra. Qualunque ne sia l'esito, questa guerra è grande e meravigliosa. (Max Weber, 1914) ... un'epoca in cui deve accadere ciò che non si può più immaginare, poiché se lo si potesse immaginare non accadrebbe. (Karl Kraus, 1914) “Dobbiamo smettere di pensare a queste cose assurde per realizzare il deplorevole medievalismo di una gran parte dell'Europa e per comprendere perché la follia criminale e il suicidio economico della guerra non hanno più effetto su di essa: russi, tedeschi e perfino francesi sono ancora, d'altra parte, in quello stadio dell'evoluzione in cui la ``gloria'' di guerra esercita un forte fascino su di loro”1. Queste riflessioni dell'ambasciatore americano a Londra, la notte della dichiarazione di guerra della Germania alla Francia, suggerivano “a caldo” di guardare all'evento che stava iniziando con un occhio attento più alla mentalità e alle emozioni collettive che agli interessi economici e territoriali più volte indicati nei precedenti dispacci alla Casa Bianca. La “follia” della guerra, d'altro canto, aveva ormai contagiato la maggior parte della cultura europea del tempo: intellettuali di ogni sponda, dai più tradizionalisti agli esponenti dell'avanguardia, sembravano avere abbandonato il cosmopolitismo degli anni precedenti per allinearsi dietro un nazionalismo che era in prevalenza segnato, malgrado i tentativi di distinguersi, dai piani strategici degli alti comandi militari. Perfino Gandhi, bloccato su una nave in Inghilterra, incoraggiava gli indiani di Gran Bretagna a “take their share in the war”. Il poeta Julian Grenfell, educato a Eton e Cambridge, è già sotto le armi, in India, quando scoppia il conflitto mondiale. Scrive alla famiglia: “Adoro la guerra. È come un grande picnic senza la mancanza di scopo di un picnic. Non sono mai stato così bene e così felice... Qui siamo nel centro incandescente di tutto questo. E non vorrei essere da nessun'altra parte neppure per un milione di sterline e la Regina di Saba”2. Il 13 maggio 1915, mentre “The Times” pubblicava il suo poema Into Battle, Grenfell veniva ferito alla testa vicino a Ypres, e moriva due settimane più tardi. Il suo compatriota, William Noel Hodgson, alla vigilia della battaglia della Somme, dove avrebbe trovato la morte il 1° luglio 1916, aveva terminato la poesia Before Action, scritta due giorni prima, con i versi “By all delights that I shall miss,/ Help me to die, O Lord”. E il ben più noto ed acclamato Rudyard Kipling, il primo premio Nobel britannico per la letteratura, in una poesia pubblicata il 2 settembre 1914 sempre su “The Times” invitava a essere consapevoli del necessario sacrificio e del prezzo da pagare per la vittoria (“No easy hope or lies / Shall bring us to our goal. / But iron sacrifice / of Body, will and soul”), che presto avrebbe sperimentato personalmente con la morte del figlio. Non erano solo gli intellettuali britannici a mostrare simili sentimenti. Il pittore tedesco Otto Dix, che avrebbe condiviso presto le esperienze pittoriche del dadaismo, doveva ammettere più tardi: “Dovevo avere quella esperienza... Sono un uomo di realtà. Devo vedere ogni cosa. Ho bisogno di sperimentare l'abisso della vita. Per questo andai volontario”3. E il suo compatriota e collega Max Beckmann: “Quando la morte è ovunque, si vive più intensamente... Oscillo continuamente tra la grande gioia per ogni cosa nuova che vedo, e la depressione per la perdita della mia individualità, e un profondo senso ironico di me stesso e del mondo”4. Analoga e ancora più intensa la reazione di Giuseppe Prezzolini: “Il mistero della generazione di un nuovo mondo si compie. Forze oscure scaturite dalla profondità dell'essere sono al travaglio ed il parto avviene tra rivi mostruosi di sangue e gemiti che fanno fremere. Noi non guarderemo soltanto al dolore. Salute al nuovo mondo! Ci darà la guerra quello che molti delle nostre generazioni hanno atteso da una rivoluzione? L'animo è colmo di fronte alla totalità del fatto che si compie e non possiamo dubitare del domani. La civiltà non muore! Indietreggia per prendere un nuovo slancio. Si tuffa nella barbarie per rinvigorirsi”5. Lo stesso percorso e discorso si ritrova presso scrittori e poeti francesi, perfino tra coloro che dettero vita al surrealismo. Jacques Vaché, che sarebbe morto suicida poco dopo l'armistizio, scriveva a Jean Sarment dal fronte: “In ognuno di questi momenti ho avuto rivelazioni di umanità, rivelazioni che mi stordiscono positivamente, sì è questa la parola, questo vuoto mi ha sconcertato – questa carneficina – questo straordinario momento per coloro che sanno come vedere – tutto questo mi ha dato momenti di stupore che ho tenuto per me stesso”6. E Aragon, giovane aiutante medico, doveva scrivere subito dopo la guerra: “Amammo la guerra come una negra. E con quale emozione... Non abbiamo mai sufficientemente rimpianto questo stato eccezionale. Sacrifico volentieri l'umanità allo spaventoso. Il sole della paura è un infuso incomparabaile. La guerra, malgrado i suoi piccoli veleni, ha la grandezza del vento”7. “Per me – avrebbe sintetizzato con estrema efficacia il poeta inglese Siegfried Sassoon – la Guerra fu inevitabile e giustificabile. Il coraggio rimaneva una virtù. E questo sfruttamento del coraggio, se posso permettermi di dire una cosa tanto ovvia, fu la tragedia fondamentale della Guerra, che, come adesso tutti concordano, fu un crimine contro l'umanità”8. Sassoon aveva cambiato idea, come molti, probabilmente la maggioranza, nel corso del conflitto e a contatto con l'orrore della guerra di trincea. La sua “Dichiarazione di un soldato”, una protesta letta di fronte alla Camera dei Comuni il 30 luglio 1917, diceva tra l'altro: “Ho visto e sopportato le sofferenze delle truppe e non posso più a lungo essere partecipe di questa sofferenza per fini che ritengo malvagi e ingiusti. Non sto protestando contro la condotta militare della guerra, ma contro gli errori politici e le menzogne per le quali sono sacrificati gli uomini che combattono”9. Lo aveva capito, in modo analogo, Edmund Blunden, riflettendo su quanto aveva visto la prima giornata della battaglia della Somme: “sul finire del giorno, entrambe le parti avevano letto nell'atroce realtà della terra dilaniata e degli uomini assassinati la risposta al quesito. Chiuso. Divieto di transito. Nessuno dei due popoli aveva vinto, né poteva vincere la guerra. Era la guerra ad aver vinto, e avrebbe continuato a vincere”10. Era quanto, in modo diverso, aveva scritto Renato Serra nel suo Esame di coscienza di un letterato : “Crediamo pure, per un momento, che gli oppressi saranno vendicati e gli oppressori saranno abbassati; l'esito finale sarà tutta la giustizia e tutto il maggior bene possibile su questa terra. Ma non c'è bene che paghi la lagrima pianta invano, il lamento del ferito che è rimasto solo, il dolore del tormentato di cui nessuno ha avuto notizia, il sangue e lo strazio umano che non ha servito a niente. Il bene degli altri, di quelli che restano, non compensa il male, abbandonato senza rimedio all'eternità”11. La perdita dell'innocenza, cantata più tardi da Philip Larkin nel suo poema MCMXIV 12, trova la sua radice proprio nell'autoinganno di una partecipazione entusiasta trasformata in pochi mesi o qualche anno in disillusione cocente e totale. La metafora dadaista della follia come forma di resistenza e opposizione alla guerra, e che il giovane studente di medicina André Breton aveva verificato nei molti casi di malattia mentale vera o simulata osservati all'ospedale militare di St. Dizier, gettava luce postuma su quella che, a conflitto terminato, sembrava a molti una pazzia collettiva di cui non si riusciva a stabilire l'origine, ma che avrebbe segnato gli anni della pace in maniera profonda e indelebile. Le nevrosi da guerra, soprattutto gli shock da granata – i shell-shock, come vennero immediatamente chiamati in campo medico e psichiatrico – divennero il simbolo di una realtà nuova e terribile, incomprensibile a chi non aveva sperimentato la crudezza del fronte, ma anche lo schermo dietro cui confondere l'orrore soggettivo suscitato da quella stessa realtà. “Francamente non sono preparato a tracciare una distinzione tra codardia e shock da granata – scriveva un ufficiale medico britannico sul fronte francese – per codardia intendo l'azione sotto l'influsso della paura e il tipo normale di shell-shock per me ha sempre voluto dire paura cronica e persistente”13. L'intreccio tra terminologia medica e morale, tra valori e comportamenti, per quanto negata dai comandi militari segnala l'esistenza di un trauma collettivo che viene vissuto individualmente in modo drammatico dai soldati al fronte; e che si trasforma nel tempo in un conflitto d'identità che capovolge l'entusiasmo con cui la guerra era stata accolta dovunque: “Dopo un violento shock emotivo, accompagnato o no da commozione fisica e ferite, il soldato coraggioso diventa un codardo. È amputato del suo coraggio guerriero. Quando sente i cannoni ha paura, trema e non può nascondere né controllare il proprio turbamento. È stato preso da una sorta di anofilassi emotiva; non può più resistere vittoriosamente all'agonia del campo di battaglia. È un invalido morale, mancante di coraggio”14. È l'ideale maschile di eroismo, disciplina e sacrifico che viene qui messo in discussione, se è vero che alla fine del 1915 il 40% dei feriti britannici in zone di combattimento venne diagnosticato di origine psicologica. Se con la guerra la nazione aveva cooptato l'ideale della mascolinità come propria (Mosse), aiutando a fare diventare i maschi uomini e gli uomini cittadini in un intreccio crescente di mascolinità e patriottismo, le nevrosi psicologiche indotte dalla guerra lasciano un segno di tutt'altro tipo. Gli shell shock segnalarono la devastazione psicologica prodotta dalla guerra, una devastazione che la vecchia psichiatria era incapace di comprendere. Come scrisse un soldato, “chiunque è stato in trincea a lungo come la nostra fanteria, deve almeno avere perso la sensibilità per un sacco di cose. Troppo orrore, troppa incredulità sono stati gettati addosso ai nostri poveri fanti. Il nostro piccolo cervello non ce la fa a sopportarlo”. Ernst Simmel, un giovane tedesco studente di Freud elaborò in questo modo: “Non è solo la guerra sanguinosa che lascia queste tracce devastanti... è anche il conflitto difficile in cui si dibatte la personalità stessa...Qualsiasi cosa nell'esperienza di una persona è troppo potente od orribile per essere afferrata dalla mente conscia, si muove attraverso dei filtri fino ai livelli inconsci della sua psiche. Lì giace come una mina, pronta ad esplodere15. La crisi che conduce allo scoppio del conflitto mondiale enfatizza e radicalizza immaginari nazionali contrapposti e stereotipi culturali di sé e del nemico che avevano trovato sempre più spazio a partire dall'inizio del secolo. Un simbolismo identitario crescente si era imposto con modalità proprie in ognuna delle grandi potenze europee, accompagnando il processo di costruzione della cittadinanza comune con una nazionalizzazione delle masse che proseguirà con nuovo slancio e forme nuove anche dopo la guerra16. L'educazione scolastica e l'enfasi posta sullo studio della storia e sull'immaginazione patriottica, il culto pubblico della memoria nazionale, il ruolo della letteratura colta e popolare nel fornire modelli comuni d'identificazione collettiva, l'immaginazione scatenata e incanalata dal cinema, la celebrazione di ricorrenze e la costruzione mediatica e pubblica di eroi, creano una lealtà e un senso di appartenenza nazionale che superano i conflitti sociali e le contrapposizioni di classe. Questo simbolismo identitario non si sviluppa astrattamente ma si radica nelle dinamiche sociali di ogni paese: “È il prodotto, storicamente e politicamente costruito all'interno dello spazio nazionale, dell'inserimento progressivo di ciascun individuo, famiglia, comunità rurale o cittadina, di ogni gruppo, in un reticolo di punti di riferimento esterni definiti dalle élites e dalle istituzioni (educative, amministrative, religiose, professionali, ecc.) che canalizzano le loro linee di reazione comune in circostanze in cui la sopravvivenza oltrepassa i processi d'adattamento quotidiani o le strategie di breve portata”17. L'interiorizzazione dell'autorità nazionale, del dovere nei confronti della comunità, del legame patriottico trasversale alle divisioni sociali sono alla base del carattere profondamente nazionale e anticosmopolita della nuova cultura di massa. Ma anche del fallimento dell'internazionalismo socialista che si scioglie in poche settimane di crisi e che neppure l'assassinio di Jaurès, in Francia, per quanta commozione susciti, riesce a frenare o interrompere. I voti unanimi dei parlamenti sui crediti di guerra e l'adesione dei socialisti alle “unioni sacre” che si costituiscono in molti paesi non sono tanto la vittoria del nazionalismo politico, ma delle profonde e ormai radicate rappresentazioni identitarie, i cui riflessi culturali stereotipati sono alla base dell'entusiasmo bellicista e dell'intossicazione sciovinista dell'estate 1914. La guerra spinge a vedere nella nazione il riflesso degli ideali sociali e a farne il collettore e promotore di un sistema di valori in cui fedeltà, disciplina e coraggio sembrano venire prima di ogni altra cosa. A molti – i futuristi per primi: “Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”, recitava il nono paragrafo del Manifesto futurista del 1909 – il conflitto mondiale appare l'ipostasi del progresso, una sua accelerazione e sintesi estrema, capace di affrettare e selezionare le trasformazioni sperate. L'opposto della percezione che di quegli anni ebbe il pittore dadaista Max Ernst: “Una guerra terribile e stupida frustrò la nostra esistenza per cinque anni. Facemmo il nostro dovere in questo collasso generale ridicolizzando e disonorando ogni cosa che avevamo creduto giusta, bella e vera. Il mio lavoro in questo periodo non fu indirizzato a sedurre, ma a urlare”18. 0001000100 ‣ Modernizzazione e mondializzazione. Dobbiamo o creare una capacità politica o andare in malora con la Democrazia, che ci è stata imposta dal fallimento dei sistemi precedenti. (George B. Shaw, Uomo e Superuomo, 1903) Nel momento del passaggio dal XIX al XX secolo, la visione del mondo che prevale non è omogenea, ma è caratterizzata da tendenze divergenti, da ideologie contrapposte, da atteggiamenti contraddittori, da analisi differenziate. Non esiste un zeitgeist [spirito del tempo] unico, anche se nella percezione della maggioranza prevale senza dubbio l'idea di un progresso continuo e inarrestabile, la fiducia che le trasformazioni in atto riescano a unificare il mondo non solo materialmente – con la rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni – ma anche culturalmente, trascinati dalle forze innovatrici che l'Occidente ha dispiegato in ogni campo negli ultimi venti o trent'anni. La nascita delle Olimpiadi moderne si affianca alla istituzione dei premi Nobel, le convenzioni dell'Aja sulle leggi “umanitarie” di guerra si sovrappongono ai trattati commerciali internazionali, l'adozione del Greenwich Meridian Time fa da ponte al passaggio dal telegrafo al telefono che simboleggiano la possibilità di comunicare ormai su scala planetaria. Tra i caratteri fondamentali della coscienza di inizio secolo vi è quella – per l'Occidente, naturalmente – di appartenere a una civiltà imperiale che, sia pure in modo non unitario ma diviso per entità geopolitiche spesso contrapposte, ha conquistato il mondo, puntando adesso alla sua unificazione e modernizzazione. Questa penetrazione ha da una parte un carattere materiale, fondamentalmente economico e tecnologico; dall'altra una manifestazione culturale che si fonda sulla convinzione e l'orgoglio di appartenere a una civiltà unica per dinamismo, forza, capacità di modellare a propria immagine il mondo intero. Questa coscienza della superiorità dell'Occidente è largamente condivisa anche dalle forze che criticano la limitatezza della democrazia liberale o le disuguaglianze sociali del capitalismo. Sia per chi pensa ancora in termini di religione e tradizione, sia per chi ragiona influenzato dalle idee di progresso o di selezione naturale, di successo del più adatto o di chi è destinato a prevalere in futuro, questa superiorità materiale e culturale acquista un connotato di egemonia “naturale” inevitabile. Pur diverse e in alcuni momenti contrapposte e antagoniste, l'idea della civilizzazione del mondo come “fardello dell'uomo bianco” o come “mission civilisatrice ” e quella della conquista sistematica, brutale, annientatrice, coesistono e s'intrecciano nella coscienza popolare dell'Occidente. In imperi di più lunga tradizione, come quello britannico o francese, sembra prevalere culturalmente il carattere di civilizzazione e modernizzazione dell'intervento occidentale, anche se questo si manifesta spesso con la brutalità della conquista francese dell'Algeria o delle campagne di Lord Kitchener in Sudan e altrove. Nel caso della Germania, e in misura più ridotta dell'Italia, con una politica coloniale tarda e fortemente segnata dal militarismo, la conquista con ogni mezzo del territorio prescelto è il risultato di una teorizzazione geopolitica influenzata da un'idea di Lebensraum [spazio vitale] come area geograficamente necessaria alla crescita della popolazione, che s'intreccia con l'ossessione della Weltpolitik. Il tentativo, prevalentemente tedesco – attraverso Otto Peschel e soprattutto Friedrich Ratzel –, di dare un fondamento scientifico e antropologico alla geografia politica, porta all'identificazione dello stato nazione con lo spazio vitale necessario a un popolo. L'espansione territoriale diventa un bisogno fisiologico, legittimato dal suo carattere naturale e condiviso (almeno dalle nazioni e dai popoli occidentali): “Nel concetto di Lebensraum il darwinismo e la tradizione tedesca del Völkskunde [tradizione etnica] si fusero assieme”19. Se lo spazio coloniale è l'orizzonte “mondiale” comune a tutti gli stati-nazione imperiali (mentre gli imperi multinazionali soffrono, al contrario, per la perdita di territori e la difficoltà a tenere insieme quelli su cui esercitano il dominio), vi è un altro spazio in cui s'incarna la sensibilità e s'identifica la coscienza della modernizzazione novecentesca: la città. È nella città che si appunta l'immaginazione sociale dell'epoca, l'eccitazione e le speranze di un progresso dinamico e travolgente e l'angoscia e l'orrore di una minaccia all'equilibrio e alla tradizione. A Londra, che era stata la precorritrice, si affianca adesso Parigi, che nel corso della Belle Epoque si configura come archetipo della città moderna, e Berlino, che ne diverrà il paradigma nel corso degli anni Venti. La città è la struttura fisica in cui sono visibili lo sviluppo demografico e tecnologico che caratterizzano la modernità, è il modello delle nuove relazioni sociali, è il terreno di sperimentazione dei nuovi comportamenti collettivi e del nuovo controllo sociale. È nella città che si radica spazialmente ogni idea di modernità, che si svolge lo scontro tra i suoi fautori e i suoi denigratori, che ha luogo la frattura di una coscienza spazio-temporale secolare e si anticipa un futuro incentrato sulla trasformazione e l'innovazione. La natura impersonale e precaria dell'esperienza urbana, dove la società si costituisce attraverso una moltitudine di legami transitori ed effimeri, intreccia tecnologia e burocrazia ma separa aspetti della cultura (scienza, morale, arte) un tempo unificati dalla religione e dalla metafisica. La città rende visibile la crisi d'identità e di controllo su cui la modernità s'interroga ambiguamente, si rende terreno disponibile e privilegiato per le avventure rivoluzionarie (urbane per eccellenza). Anche dove è maggiormente consolidata, in Inghilterra, con la fine dell'età vittoriana la città diventa il luogo di nascita di miti parzialmente apocalittici che sfidano il dogma del progresso evolutivo: la campagna femminista delle suffragette, la lotta di classe dei sindacati e degli operai, il nazionalismo irlandese, la percezione di una minaccia tedesca, che s'ingrossa con l'avanzare del secolo, si mescolano alla rappresentazione del mito imperiale che nei music-hall, nei pub, nei teatri e nei cinema cerca di uniformare nella cultura quotidiana una società attraversata da divisioni crescenti. “La base psicologica del tipo metropolitano di individualità – scrive George Simmel nel 1903 – consiste nella intensificazione delle stimolazioni nervose che sono il risultato del mutamento rapido e ininterrotto di stimoli interni ed esterni”20. Nella città, emblema di modernità, l'isolamento dell'individuo si manifesta in tutta la sua pienezza, insieme alla sua debolezza, precarietà, alienazione. L'instabilità urbana, che è un elemento oggettivo, viene percepita soggettivamente come insicurezza, evidenziando la richiesta di un “bisogno” comunitario che saranno i miti patriottici, le ideologie, la demagogia, le religioni politiche a cercare di soddisfare con la guerra e nel dopoguerra. La cultura liberale, che cerca inutilmente di combattere queste aspirazioni comunitarie in nome della libertà individuale, resiste solo, nel medio periodo, dove la modernizzazione è stata più lenta e radicata, dove si sono create istituzioni capaci di mitigare l'isolamento e l'alienazione individuale; soccombe invece dove le strutture sociali tradizionali sono travolte da una modernizzazione più rapida e accelerata. “Dissolversi nel numero incalcolabile – scrive lo scrittore Robert Musil nel 1912 – è quello che costituisce la differenza culturale fondamentale tra questa e ogni altra epoca, la solitudine e l'anonimato dell'individuo in una moltitudine sempre più affollata, e questo porta con sé una nuova disposizione intellettuale le cui conseguenze sono ancora impenetrabili”21. Si trattava di un'analisi accurata che era, all'epoca, affiancata da un ottimismo radicato nella dinamica di mondializzazione che la modernità portava con sé. Dopo il 1914 questo ottimismo viene certo meno, anche se lo sforzo di Musil di ricomporre la realtà del mondo dei sentimenti, di non contrapporre scienza e letteratura e soprattutto coscienza emotiva e conoscenza scientifica, deve fare i conti con una crisi di vitalità della cultura occidentale, accolta come sfida e non considerata definitiva e inevitabile; anche se le esperienze più intime e personali – l'amore, l'introspezione, l'umiltà – sembrano difficili da trasmettere e mantengono un connotato “abbastanza personale e quasi antisociale”22. Ancor più drastica l'idea di degrado culturale e morale che caratterizza, per Spengler, “l'abitante delle grandi città”: “un parassita, il puro uomo pratico senza tradizione, ripreso in una massa informe e fluttuante”23. L'ascesa del capitalismo – proprio nell'epoca della seconda rivoluzione industriale in cui si generalizza e mondializza – si accompagna con la crisi della modernità, che è difficoltà a sostituire una forte e univoca identità collettiva radicata e convincente come le poche esistenti nelle società di antico regime. La complessità del mondo moderno – di cui la vita urbana è uno specchio fedele oltre che una metafora – parcellizza e scompone gli individui attribuendo loro tante e diverse, e sempre nuove, identità. Anche se all'epoca non sono in molti a rendersene conto, perché l'equazione progresso uguale ragione sembra avere il sopravvento, le componenti irrazionali, emotive e affettive del mondo moderno sono decisive nel permettere di resistere e fare i conti con quella crisi “spirituale” di cui parlava anche uno scrittore tutt'altro che apocalittico come Musil. Ed è quindi dentro la crisi della modernità che sorgono i primi miti moderni, “credenze cariche di emotività, che esprimono il modo in cui i popoli sperimentano i periodi formativi della loro storia... rappresentazioni simboliche della realtà ma anche autentiche risposte al mutamento sociale”24. I miti dell'ascesa del capitalismo e della potenza degli stati-nazione sono i due pilastri, uno economico e l'altro politico, del mito più diffuso dell'epoca, quello del progresso. Esso stesso, tuttavia, si declina in forme nazionali differenziate, che sono modi diversi di fare i conti in contesti diversi con la crisi della modernità. Quello che in Gran Bretagna è il mito del progresso per eccellenza, si trasforma in Germania nel mito della volontà di potenza, in Francia nel mito della Repubblica dei cittadini e negli Stati Uniti in quello del destino della nazione. Questi miti, radicati in una realtà oggettivamente diversa (negli Stati Uniti l'ascesa capitalistica ha luogo in una democrazia consolidata e negli anni dell'ottimismo della frontiera e dell'egemonia sul continente americano; in Germania in un contesto nazionale appena unificato e guidato da élites economiche e militari fortemente legate nell'aristocrazia e ostili alla democrazia) si divaricheranno ancora di più con la guerra mondiale e negli anni successivi. L'ottimismo interventista di Wilson non riuscirà a prevalere su una mitologia ancora fortemente economica, che spingerà gli Stati Uniti a puntare sul potere industriale e tralasciare momentaneamente di svolgere un ruolo attivo nella politica mondiale, imboccando la strada di una crescita produttiva improntata al consumo, di cui il fordismo e il sistema manageriale sono gli aspetti più noti e distintivi insieme alla creazione di una estesa classe media. In Germania sarà invece la politica alla base della mitologia pubblica, in una società dominata dal senso di umiliazione e sconfitta e dalla contrapposizione sociale che la crisi economica accentuerà oltre misura. Il mito della volontà di potenza si declina in negativo attorno alla scelta politica vincente, quella fondata sull'odio razziale e sulla promessa di dominare il mondo. Se le mitologie nazionali trovano strade differenziate e si manifestano in modi diversi e contrapposti, perché sono le risposte emotivo-culturali a condizioni strutturali disomogenee, e se le ideologie che accompagnano la modernità e la sua crisi sono difficilmente assimilabili una all'altra (il nazionalismo al socialismo, l'american way of life al Lebensraum, la rivoluzione al patriottismo), pure vi è un elemento della cultura della modernità e della crisi che è presente, sia pure in forme diverse, in ognuna delle ideologie e dei miti cui esse danno luogo. Questo tratto comune è il socialdarwinismo, le cui eredità legittime sono l'idea americana di ricchezza e di espansione capitalista ma anche il primato della razza su cui la Germania costruirà la sua volontà di potenza, la convinzione britannica della superiorità del proprio modello imperiale e quella francese della propria forma di stato e di amministrazione, la dinamica rivoluzionaria perseguita dalla Russia e la ricerca di un posto al sole tardo-coloniale rivendicata dall'Italia. 0001000100 ‣ Cultura e cultura di massa. Ho una teoria secondo cui l'individuo rappresenta nel suo sviluppo l'intera schiera dei propri avi, e l'improvviso volgersi al bene o al male nasce da una forte influenza che proviene dal suo albero genealogico. (Arthur Conan Doyle, 1905) L'eredità culturale del socialdarwinismo si manifesterà in vario modo e con diversa intensità lungo tutto il XX secolo. Frutto di una stagione intellettuale in cui la cultura alta tende a unificare sotto la spinta delle scienze esatte ogni elaborazione del pensiero, il socialdarwinismo diventa, popolarizzato e semplificato, uno dei cardini della cultura popolare e degli stereotipi e pregiudizi che la sorreggono. La “sopravvivenza del più adatto”, la “lotta per l'esistenza”, la “minaccia d'estinzione”, il “prevalere del più forte”, sono alcuni dei concetti attribuiti a Darwin, anche se in realtà farina del sacco di Spencer; ma servono a utilizzare l'idea rivoluzionaria e innovativa della selezione naturale e la geniale teoria dell'evoluzione applicandole meccanicamente al contesto sociale. La potenza dell'uso della metafora, soprattutto nella società di massa, tradisce spesso il pensiero da cui si origina: se in ambito biologico parlare di riproduzione e variazione, adattabilità e sopravvivenza era stato un momento fondamentale per mettere in crisi le diffuse credenze creazioniste, nella vita sociale la teoria della selezione ambientale può solo suggerire che le innovazioni si affacciano quando le circostanze sono propizie. E Darwin sarà infatti usato da chi difende i principi gerarchici e da chi li combatte, da chi giustifica l'individualismo e da chi lo condanna. I socialdarwinisti discutono quali forme di competizione sociale siano desiderabili e utili per il progresso, e indicano – a differenza degli scienziati e biologi per i quali ogni specie ha un valore – quelle che potrebbero invece venire isolate, controllate o finanche soppresse (i criminali, i pazzi, i malati...). Alla competizione (selezione) naturale subentra l'intervento dello stato a favore della specie e degli individui che la morale sociale ha deciso essere i vincitori nella lotta per la sopravvivenza, i “normali” o “migliori”. La retorica socialdarwinista crea nella coscienza pubblica un senso permanente di crisi, e suggerisce che politiche differenti possono condurre la società verso il trionfo della propria identità culturale e superiorità nazionale o, al contrario, verso la mera sopravvivenza o addirittura verso l'estinzione. L'ammonizione di scienziati come Edwin Ray Lankester25 o i suggerimenti della nuova criminologia positiva26, in un contesto di competizione economica mondiale e di crescita dei partiti socialisti, possono manifestarsi al tempo stesso in angoscia sociale o in spinte imperialiste, frantumando le illusioni liberali di progresso continuo. La superiorità nei confronti degli altri popoli, non occidentali, si presenta legittimata dalla scienza, appare come naturale, allo stesso modo della supermazia maschile sulla donna, che viene riproposta con ossessiva paura proprio mentre la nuova donna moderna rivendica diritti politici e uguaglianza culturale. Ciò che è comune alle spiegazioni socialdarwiniste di stampo soprattutto europeo, è la visione organica delle malattie che accompagnano la modernità e minano la solidità dell'Occidente. Nel mezzo della guerra, al termine della sua lunga lunga carriera, lo psichiatra vittoriano Henry Maudsley vedeva nella guerra il risultato delle sue decennali previsioni: “la degenerazione organica è la continuazione dello sviluppo organico, nessuna organizzazione sociale può sentirsi del tutto esente dalla legge dello sviluppo e della decadenza”. E prevedeva il momento in cui “un gruppetto di autoesaltati e illusi demagoghi” (da lui identificati nei socialisti) sarebbe stato capace di sfruttare “le egoistiche passioni e gli ignoranti pregiudizi delle masse che li hanno portati al potere”27. Non diversa è la deriva pessimista di filosofi come Spengler e Ortega y Gasset, che classificano come tramonto e crisi della civiltà occidentale l'incapacità di comprendere l'ingresso delle masse nell'arena pubblica e i loro bisogni sorti sull'onda delle grandi trasformazioni tecnologiche, sociali e culturali della modernizzazione. Nella cultura di derivazione socialdarwinista, tuttavia, le reazioni ambigue, o addirittura “degenerative”, all'urbanizzazione e all'industrialismo, alla mondializzazione e all'espansione coloniale, all'irruzione delle masse nella politica e allo spettro di nuove rivoluzioni, si focalizzano e “si spiegano” scientificamente col richiamo al sangue, che diventa sempre più elemento riassuntivo per connotare l'identità nazionale, razziale, culturale. L'antagonismo tra individuo e massa, l'irriducibilità del primo alla seconda ma al tempo stesso la sua trasformazione psicologica quando vi si trova dentro, sono elementi centrali nel dibattito culturale e nella sua trasmissione. La folla studiata a fine secolo da Le Bon, con un socialdarwinismo elitario e antisocialista ma con un'attenzione profonda ai comportamenti irrazionali delle masse, critica la democrazia perché essa rappresenta l'istituzionalizzazione della regressione, delle risposte riflesse e imitative dove coscienza e critica sono sospese. La folla, infatti, è la parte più arretrata e irrazionale del popolo, di cui le donne sono ovviamente componente fondamentale. L'anima della folla – con forti analogie con l'anima delle razze “arretrate” – è modellata e analizzata sulla base del concetto di follia, che priva l'identità individuale della propria coscienza e favorisce quei comportamenti emotivi utilizzati (o suggeriti) dal “prestigio” del leader attraverso un “contagio mentale”. La folla diventa una categoria non più sociale ma psicopatologica; e le masse trovano in emozioni disordinate e in passioni pericolose la propria identità: per non cadere vittima di allucinazioni collettive (com'era accaduto con la Comune, su cui si basa la prima analisi di Le Bon) deve trovare una guida autoritaria cui potersi affidare. Il conflitto e l'intreccio tra individuo e folla sarà una costante di molte delle prime narrazioni prodotte dal cinema, strumento tipico della società di massa e della nuova cultura comunicativa su cui si fonda: Metropolis di Fritz Lang (1926) e La folla di King Vidor (1928) riassumeranno alla fine degli anni Venti la doppia faccia della massa, pericolosa e alienante, irrazionale e rassegnata, caotica e passiva. L'idea della scienza come consapevole controllo della società da parte di élites si esprime con forza attraverso l'eugenetica, una sorta di darwinismo capovolto: attraverso una selezione sociale controllata, lo stato deve supplire a quello che la selezione naturale non può più attuare, la soppressione dei meno adatti e degli ostacoli alla evoluzione. La preoccupazione per il livello della salute mostrata dai soldati britannici nel corso della guerra anglo-boera aveva spinto a creare il Comitato Parlamentare sul Deterioramento Fisico, mentre in Germania viene fondata nel 1905 la Società d'Igiene Razziale. Non dovunque l'eugenetica si presenta con gli stessi caratteri: alle proposte di sterilizzare e segregare i malati o addirittura gli “undeserving poor ” – come li chiama la English Charity Organisation Society – si affiancano i fautori di un'eugenetica egualitaria, capace di frantumare le barriere di classe, o femministe spinte a favorire il controllo delle nascite con un'eugenetica “positiva”. Non ha senso riassumere sotto un unico comune denominatore le politiche razziali del nazionalsocialismo e quelle della socialdemocrazia scandinava o di alcuni degli stati degli USA, così come le teorie di Galton o le aspirazioni eugeniste e socialiste di H. G.Wells. Che sia stato un ginecologo di Heidelberg, nel 1897, a realizzare il primo intervento – illegale – di sterilizzazione su un essere ritenuto “inferiore”, non deve indurre a un determinismo che rintracci nella sola cultura tedesca le origini e le tare del successivo razzismo genocidiario. Al tempo stesso, però, è importante riconoscere la crescente trasversalità di idee e culture rispetto alle appartenenze ideologiche e ai regimi politici, che è un tratto distintivo della modernità e che produrrà non pochi corto-circuiti nella cultura e nella politica tra le due guerre. È l'idea stessa di razza che crea i presupposti per considerarne una sua possibile adulterazione (e quindi per l'eliminazione o emarginazione degli “adulterati”); e questa trova la sua origine nelle classificazioni tassonomiche delle scienze naturali, nelle gerarchie culturali stabilite dall'antropologia, nelle ambigue formulazioni del socialdarwinismo. In una parola nell'uso politico che della scienza fanno gli avversari della democrazia e dei diritti naturali dell'uomo e nell'avallo che la scienza fornisce – indirettamente ma più spesso direttamente – alla legittimazione, popolarizzazione e semplificazione di pregiudizi culturali artificialmente accentuati dall'educazione patriottica e dalla istituzionalizzazione delle appartenenze nazionali. La confluenza dell'individuo nella massa è percepita in modo ambiguo: come regressione a una indistinta pre-individualità ma anche come possibilità di sopravvivere e integrarsi nella modernità, nella nuova realtà urbana e industriale. Democrazia e socialismo sono una minaccia per le élites liberali e conservatrici, ma una speranza di affrancamento e libertà per lavoratori, donne, giovani. La cultura dominante, tanto nelle sue versioni colte quanto nelle sue espressioni più popolari, individua nella partecipazione di massa alla vita pubblica il germe della degenerazione, e cerca di trovare una nuova sintesi identitaria capace di legare le masse al vecchio ordine, per quanto precario e indebolito. È la Nazione a costituire la risposta a questa ricerca, che avviene in realtà sul terreno culturale prima ancora che su quello politico, ideologico, della mobilitazione elettorale ed extraparlamentare. Il patriottismo – di cui gli inglesi danno prova in una versione “imperiale” durante gli anni della conquista africana e della guerra anglo-boera, e gli stati continentali in forme ognuna diversa dall'altra – rappresenta una potente ideologia interclassista, un antidoto al timore dell'eclisse della civiltà o del suo inquinamento. In nome della Nazione ci si può opporre al tempo stesso al pericolo esterno – degli stati-nazione avversari e delle razze inferiori – e a quello interno – delle masse operaie pronte a trasformarsi in plebaglia ribelle. Una pratica congiunta di assimilazione ed esclusione, condotta attraverso mobilitazioni emotive e gratificazioni narcisistiche, grazie a un discorso “scientifico” tradotto in un'ideologia fatta di passioni e simboli, giuramenti d'appartenenza e demonizzazione non solo dei nemici ma anche degli estranei, trova nell'idea di sicurezza nazionale il pendant dell'essere (o divenire, o restare) grande potenza. Ed è questo elemento di irrazionalità, di richiamo alle passioni e alle emozioni, a permettere all'interclassismo di acquisire una forza che le ideologie razionali e le spiegazioni materialistiche non riescono a comprendere. Il senso di crisi che accompagna la modernità si manifesta nella ricerca di valori e progetti morali capaci di riempire il vuoto creato dal tramonto dell'egemonia cristiana. Le due risposte che si radicano con maggiore rapidità sono il solidarismo del cattolicesimo sociale e il socialismo internazionale umanitario, che si manifesta anch'esso con forti connotati religiosi. A cavallo del secolo si affaccia con prepotenza il nazionalismo popolare, capace di riempire attorno alla religione della patria, in una dimensione nazional-egoistica differenziata, il vuoto che le tradizioni confessionali hanno lasciato in tutti i paesi europei. Si rafforza la convinzione che le culture nazionali sono uniche e irripetibili, dotate di caratteri originali scarsamente condivisi, avversarie una dell'altra per fatalità territoriale e storica. È sempre più il timore del declino razziale e la paura dell'incombere dell'altro, dell'alien, dello straniero che si coniugano in una concezione biomedica della massa, in “una scienza positiva (un distillato di psicologia, biologia e antropologia razziale) delle precipue, tradizionali caratteristiche della folla (punto di coagulo delle differenze di classe) e del suo rapporto con la ``civiltà''”28. La Grande guerra sembra porre fine ai ragionamenti sulla degenerazione, che rimane soltanto una caratteristica biologica del nemico di turno, sia esso nazionale, o razziale, o di classe. “Sembriamo minacciati da una nuova epoca di invasioni barbariche”, scrive Thomas Hardy nel 1922, riconducibile alla “sinistra follia dell'ultima guerra, all'implacabile diffondersi dell'egoismo in tutte le classi, alla pletorica crescita della conoscenza cui si accompagna un arresto della saggezza”29. L'immagine d'inizio secolo della modernità – l'individuo solo di fronte a una minacciosa società di massa, come la racconta Strindberg nel romanzo Ensam (“Solo”) del 1903 – è stata travolta, trasformata, radicalizzata dal trauma collettivo del conflitto mondiale. La ricerca di un nuovo universale, di un nuovo assoluto, caratterizza gli anni Venti e si protrae nel corso del successivo decennio. Ed è questa mancanza, tuttavia, analizzata o rimpianta nel corso del primo scorcio del secolo, che ha favorito la nascita di nuovi movimenti che hanno trovato nel “sangue”, e nella sua purezza, il simbolo della consonanza tra corpo, anima e mente di una comunità nazionale. All'indomani di un evento collettivo in cui il sangue effettivamente versato ha portato la violenza a irrompere nella politica e nella vita collettiva in forme inaspettate e durature. “La comunità tedesca – scrive nel 1933 Eric Voegelin – è diventata un terreno eccellente per il fiorire di nuovi elementi politici – per il liberalismo e il socialismo al loro tempo così come per il nazionalismo dittatoriale di oggi – perché i nuovi movimenti non sono stati contrastati da un'idea politica costituita che informi l'intera comunità”30. 0001000100 ‣ Masse, politica, nazionalismo. custode di tutto ciò che è comune, comune valore umano, non è l'umanità come somma di tutti gli individui, bensì la nazione. (Thomas Mann, 1918) È soprattutto attraverso la crescita dei partiti socialisti e degli altri partiti popolari di massa che si diffonde la percezione che il destino dello stato moderno vada sempre più a coincidere con la sovranità popolare, con l'estensione del suffragio, per quanto l'idea di democrazia porti con sé – soprattutto tra le classi medie – un connotato di ansia e pessimismo sul proprio futuro. È il popolo, infatti, che ci si sforza di presentare come corpo politico unitario benché sia diviso e frammentato al suo interno, fondando la sovranità popolare sull'illusione che il soggetto del potere politico sia il medesimo su cui si esercita il governo, lo sfruttamento economico e la soggezione socio-culturale. La massa – cioè la maggioranza del popolo esclusa dalla politica – diventa la fonte proprio della legittimazione della politica, anche se a fatica e contro gli ostacoli frapposti dall'elitismo di proprietà, censo e cultura che era stato l'incarnazione del liberalismo ottocentesco. Le due grandi tappe dell'ingresso “politico” delle masse nella storia sono quelle del suffragio universale maschile (che avviene quasi ovunque entro il primo quindicennio del XX secolo) e della concessione del voto alle donne (che avviene in molti paesi all'indomani del primo conflitto mondiale), collegate tra loro dal coinvolgimento traumatico, violento e totale del popolo nell'arena pubblica che avviene con l'ingresso in guerra sia sul terreno sociale ed economico, sia su quello culturale e istituzionale. Nell'insieme del corpo sociale coesistono livelli di conflittualità differenti: quello economico tra possidenti e contadini, borghesia e classe operaia, si manifesta con maggiore evidenza e aggiunge così una connotazione sempre più politicizzata alla nozione di massa. Ma perfino il sempre più esteso coinvolgimento in una organizzazione a carattere sindacale o politico non riesce a risolvere l'antinomia individuo-massa propria della fase storica della modernizzazione. Di fronte al potere le masse adottano – collettivamente e individualmente – strategie differenziate di adattamento e integrazione. Reagiscono alla repressione eventualmente violenta delle proprie rivendicazioni e dei propri comportamenti attraverso i partiti e i sindacati, ma sembrano impreparate a contrastare la rete diffusa e disciplinante dei poteri su cui si articola lo stato moderno. La crescente rappresentazione simbolica di cui si dota l'autorità statale per orientare gli attori sociali, porta i singoli individui a interiorizzare le relazioni di forza e i discorsi di sapere su cui si fonda il dominio indiretto sulla società. Le istituzioni politiche non sono più solo gli strumenti attraverso cui soggiogare la società o la manifestazione e materializzazione del potere; sono il risultato di una battaglia in cui i diversi attori sociali, cercando di imporre i propri valori e stili di vita contribuiscono alla creazione di un ordine simbolico che costituisce la visione legittima e condivisa del mondo, il modo comune in cui esso viene percepito dalle diverse classi sociali e dagli individui atomizzati. I modelli interpretativi per comprendere il potere nell'epoca della modernità (da quello di Weber a quello di Arendt, da Foucault a Bourdieu) sono tutti utili per individuare aspetti diversi di una realtà che si è fatta complessa e articolata. Il processo di istituzionalizzazione che accompagna il potere nel suo percorso di modernizzazione rappresenta la nuova cornice in cui le masse e i singoli individuo-massa tendono a identificarsi – in modi spesso conflittuali e contraddittori – in una comunità nazionale. Il potere, pur senza una precisa e coerente strategia, offre un “orientamento” che, nella sua normatività, intreccia conoscenza ed emotività. La costruzione del cittadino è un percorso tutt'altro che lineare, e il suo risultato è tutt'altro che omogeneo. Eppure ci sono elementi di fondo che, pur declinati differentemente, si ritrovano – come modalità di una “integrazione normativa”31 – in ognuno dei paesi europei, siano essi grandi o piccoli, nell'ovest o all'est, al nord o al sud. Tra questi elementi comuni e riassuntivi spicca senz'altro il nazionalismo, capace di essere al tempo stesso modernamente occidentale (tanto nella versione “imperiale” britannica quanto in quella “repubblicana” francese) e di costituire il punto d'incontro delle risposte modernizzatrici antioccidentali (in Russia e in quasi tutta l'Europa centro-orientale); di rappresentare la cornice dell'assimilazione e dell'assorbimento delle minoranze o lo strumento per la loro radicalizzazione e richiesta di autonomia e indipendenza. Nel corso dell'Ottocento si era assistito a una progressiva essenzializzazione dei caratteri nazionali nelle culture colte e popolari dei diversi stati occidentali. La Gran Bretagna celebrava il proprio contributo al progresso civilizzatore incardinato nei valori liberali e costituzionali; la Francia si proponeva come profeta e alfiere degli immortali principi dell'89 tramandandoli attorno a una pedagogia nazionale liberale; la Germania rivendicava la superiorità filosofica e letteraria della cultura tedesca; l'Italia celebrava la civiltà romana e la tradizione delle città-stato medievali. La spinta a trovare caratteri “eterni” alla propria nazione e lo zelo nel dimostrarne l'unicità storica oscurava gli aspetti comuni dell'eredità europea e al tempo stesso ipostatizzava alcuni momenti come riassuntivi dell'intera storia nazionale. All'unicità “parlamentare” dell'Inghilterra si contrapponeva quella “rivoluzionaria” della Francia, all'unicità di stato-forte della Germania quella della missione civilizzatrice di Roma per l'Italia. La continuità nazionale viene artificialmente costruita e radicata “naturalmente” nel passato in una dimensione che coniuga, necessariamente, l'unicità con il senso di superiorità, la propria identità con la sconfitta e la negazione di una realtà ritenuta inferiore. La missione civilizzatrice britannica contrappone il progresso all'arretratezza (del mondo coloniale, India per prima, ma anche dell'Europa orientale, Russia compresa); lo spirito rivoluzionario francese sbeffeggia le imitazioni repubblicane riscattate soltanto dai codici napoleonici; la giustapposizione tedesca di Kultur versus Zivilisation si accompagna alla denigrazione della barbarie slava; l'esaltazione dell'eredità comunale, e in alcuni casi anche etrusca, rivolge la romanità contro la minore rilevanza delle culture celtiche e germaniche. Il passato è fermato e immobilizzato, perché queste sono nuove “teologie nazionali designate a legittimare il presente e a prevenire mutamenti futuri”32. La tradizione parlamentare inglese si fonda sulla Magna Charta del 1215, la Rivoluzione del 1789 segna geneticamente la Francia repubblicana, il Reich tedesco è il successore del Sacro Romano Impero e l'Impero romano è il precursore dello Stato nazionale italiano. La competizione di discorsi nazionali storici contrapposti tende a unificare le società mentre cresce l'antagonismo e la differenziazione sociale al loro interno. I conflitti sia per la prevalenza europea sia nel corso della conquista coloniale, soprattutto durante lo scramble for Africa di fine Ottocento e inizio Novecento, rafforzano la convinzione di una diversità di lunga durata e lontana origine. Se il nazionalismo tedesco sembra essere maggiormente particolaristico ed esclusivo, con un richiamo costante all'ethos politico dello stato, in realtà al suo interno la componente militarista aristocratica convive con la pulsione imperialistica di stampo liberale. È sul terreno della politica internazionale, almeno fino al 1914, che il nazionalismo manifesta la sua aggressività verbale e la sua capacità di mobilitazione e consenso, anche da parte di molti pensatori appartenenti al progressismo europeo. Sul versante interno prevalgono politiche liberali o conservatrici, tutte orientate – pur se in modi diversi – a sviluppare la sfera pubblica, il welfare, la parlamentarizzazione della politica. La nazione – realtà, concetto e mito al tempo stesso – è il luogo in cui più forte è l'intreccio tra discorso razionale e coinvoglimento emotivo, tanto nella narrazione della storia e delle origini quanto nella difesa di una politica estera espansiva e nell'esaltazione del particolare ruolo da ricoprire nel mondo. Nella nazione s'incardina una trilogia di passioni primordiali (avidità, potere, speranza) che vengono razionalizzate con il richiamo alla necessità del possesso (o espansione) territoriale, del dominio su altri popoli e nazioni, dell'autostima (per il proprio destino e ruolo). La Gran Bretagna è la più equilibrata e coerente a dare luogo a una comunità nuova fondata sull'idea di progresso e di ordine: nell'appartenenza all'impero, infatti s'incontrano e mescolano l'identità sociale (caratterizzata dall'imborghesimento della classe operaia), l'identità nazionale (riaffermata con o senza l'Irlanda) e l'identità politica (un sistema elettorale e di libertà politiche più avanzato di chiunque altro). È lo splendido isolamento che caratterizzerà superficialmente il paese fino allo scoppio della guerra ma sarà invece segnato dalle stesse dinamiche che porteranno a una diffusa ed esaltata volontà di morire per la patria, che le giovani generazioni sembrano rivendicare per accentuare e rendere più realistico il committment nazionalistico dei loro padri. Quello britannico, tuttavia, resterà un modello poco applicabile agli stati continentali: in Francia la pedagogia centralistica di costruzione del cittadino francese avverrà con un sincretismo ideologico capace di tenere insieme gli ideali rivoluzionari e l'espansionismo imperiale napoleonico, la cultura di ordine e affari del Secondo impero con le tensioni laiche della Terza Repubblica e i tentativi di contrastarli; in Germania e Italia, giunte tardi all'unificazione politica e territoriale, la costruzione del cittadino e della stessa coesione patriottica sembrerà obiettivo delle successive generazioni e avverrà in un'epoca di crescenti divisioni sociali. Con il Novecento, ormai, la nazione non è più il romantico “plebiscito di tutti i giorni” vagheggiato da Renan, fondata su un principio spirituale, una storia comune e un consenso condiviso e indifferente, in fondo, alla razza, alla lingua e alla religione; è invece una realtà organica, unica e originale, che lega i propri cittadini in un rapporto totalizzante ed esclusivo, basato sul sangue e sulla cultura, con una missione particolare e un destino che si deve conquistare con coraggio e sacrificio. Il nazionalismo organico che si affaccia nel Novecento – e che trova alcune tra le voci più chiare in Francia (Barrès e Maurras) e in Italia (Corradini e Rocco) – con la sua idea integrata, unica e indivisibile di popolo e stato, offre risposte che il nazionalismo “civico” liberale non è più in grado di dare alle masse immerse nel processo di modernizzazione. La scelta “istituzionale” compiuta dai governi liberali e conservatori, di procedere all'acculturazione delle masse, alla loro trasformazione in cittadini, alla nazionalizzazione delle coscienze attraverso una rete di agenzie pubbliche e di processi guidati o incoraggiati di socializzazione (la scuola, le comunicazioni e i trasporti, la cultura popolare, il servizio militare, le ricorrenze e le celebrazioni), viene riempita in modo crescente da una cultura antiliberale, imbevuta di socialdarwinismo e antilluminismo, che cerca di rispondere emotivamente e semplicisticamente (con generici e astratti richiami alla razza, alla classe, alla nazione, allo stato) al bisogno di comunità e d'identità che le profonde trasformazioni socioeconomiche hanno creato soprattutto tra le giovani generazioni. L'idea di nazione – come per altro verso quella di rivoluzione – trascende i conflitti sociali e mobilita senza compromessi (è per questo che in questo nuovo nazionalismo giocheranno un ruolo fondamentale i sindacalisti rivoluzionari), nella direzione più consona al contesto in cui si vive: come nazionalismo di minoranza all'insegna dell'irredentismo (nell'impero austro-ungarico e ottomano, e in parte anche russo) ma soprattutto come nazionalismo della maggioranza, che ha il diritto di escludere chi ritiene possa indebolire o infettare la nazione. La militarizzazione degli statinazione, concausa e conseguenza della guerra mondiale, è il risultato di una radicalizzazione culturale che trova la confluenza di settori spesso agli antipodi della società (la burocrazia militare e l'avanguardia artistica, il sindacalismo dell'azione diretta e i grandi cartelli industriali) e il consenso di quelle classi medie che costituiscono l'ossatura fondamentale della nuova politica di massa. 0001000100 ‣ Guerra e rivoluzione. Ma come è potuta scoppiare una guerra in un'epoca storica decisamente pacifista? (Robert Musil, 1922) “Ci pare che mai un evento storico abbia distrutto in tal misura il così prezioso patrimonio comune dell'umanità, turbato tante delle più lucide intelligenze, inabissato così profondamente tutto quanto ci è di elevato”33. Non sono, queste, né le uniche né le più forti parole che Freud scrisse contro la Prima guerra mondiale, ma certo non furono molti gli intellettuali di inizio secolo che seppero esprimere fin dai primi mesi di guerra un giudizio così drastico e preoccupato sulle sorti comuni dell'umanità. La maggior parte di loro, come si è ricordato in precedenza, reagì con entusiasmo alle dichiarazioni di guerra dei propri governi. Tra questi, in realtà, non mancò chi vide nel conflitto il crollo necessario e inevitabile di un mondo osservato già prima con critico disappunto, come ebbe modo di fare notare Thomas Mann: “Perché l'artista, il soldato nell'artista, non avrebbe dovuto lodare Dio per il crollo di un mondo di pace che egli non riusciva più, proprio più, a sopportare? Guerra! Era una sacra purificazione, ciò che sentivamo, una liberazione e un'enorme speranza”34. La guerra degli “appelli” che scrittori, artisti, scienziati e intellettuali dei diversi paesi appartenenti ai due schieramenti produssero in modo parallelo a quella in corso più tragicamente sui campi di battaglia e nelle trincee, non fu solamente la verifica che il mondo della cultura condivideva in pieno i pregiudizi, le semplificazioni e l'indottrinamento dei loro meno acculturati concittadini; permise, anche, di cogliere con quanta articolata sofisticatezza si potesse giustificare e auspicare la loro morte in battaglia. Nel Aufruf an die Kulturwelt del 4 ottobre 1914, firmato da 93 personalità, e dodici giorni più tardi in un nuovo manifesto redatto dal filologo classico Ulrich von Wilamowitz Moellendorf e sottoscritto, questa volta, da ben quattromila cattedratici e accademici della Germania, il militarismo tedesco era difeso come l'unica possibile garanzia contro l'annientamento della cultura: “L'esercito e il popolo tedesco sono animati dallo stesso spirito, poiché sono un'unica cosa. [...] Noi crediamo che il destino dell'intera cultura europea dipenda dalla vittoria che sta per essere conquistata dal militarismo tedesco, il quale altro non è che l'espressione della disciplina, della fedeltà al dovere e dello spirito di sacrificio del popolo tedesco, parte della sua unità e della sua libertà”35. Inglesi, francesi e russi reagirono con manifesti altrettanto eloquenti, in cui la barbara condotta delle operazioni militari da parte degli Imperi centrali faceva tutt'uno con i caratteri della loro civiltà. Era stato Kipling, del resto, a gettare il peso del suo recente premio Nobel nell'arena nazionalista scrivendo a guerra appena scoppiata, nel 1914: “For all we have and are / For all our childrens' fate / Stand up and take the war / The Hun is at the gate”. In questa guerra letteraria sembra stupefacente, quindi, che già nell'aprile 1915, al terzo intervento collettivo, un gruppo di oltre settanta scrittori russi – tra cui Gor'kij, Blok, Sologub, A. Tolstoj, Bunin, Gippius – potessero dirsi certi che “la malvagità abbandonerà il cuore degli uomini e il reciproco risentimento scomparirà senza lasciare amarezza. Quando le pannocchie di granturco ondeggeranno sui campi che sono stati scavati di trincee e innaffiati di sangue umano e i fiori copriranno i tumuli di terra, arriverà il momento in cui i popoli divisi si riuniranno di nuovo sulla comune, ampia strada dell'umanità, quando ritorneranno alle grandi parole universali”36. Quell'ingenua fiducia dovette fare i conti, due anni dopo, con l'entusiasmo della “rivoluzione di febbraio” e poi con l'angoscia e l'eccitazione che accompagnarono la presa bolscevica del potere. La guerra iniziata in nome della Nazione si era trasformata in Rivoluzione, per adesso in un solo paese, ma col rischio di contagiare e trascinarvi presto anche gli altri. È il connubio guerra-rivoluzione che rende ancora più traumatica, nell'esperienza del XX secolo, la cesura della Prima guerra mondiale. Quanto scrive Stefan Zweig (“D'un sol colpo la generazione del dopoguerra si era brutalmente emancipata da tutto quanto fino ad allora era stato considerato autorevole, e gettata dietro alle spalle ogni tradizione, aveva preso decisamente nelle sue mani il proprio destino, abbandonando il passato e incamminandosi verso l'avvenire”37) e quanto ricorda Viktor Sklovskij (“L'aria della rivoluzione era l'aria della nostra giovinezza. [...] Nascemmo in un'epoca borghese, ma fummo liberati dal disinteresse della rivoluzione, fummo innalzati dal suo slancio e pensammo in modo nuovo”38) fanno parte della stessa percezione dell'epoca, di uno stesso universo mentale che la guerra ha diffuso superando i confini e le differenze nazionali. La rivoluzione, che venga vista come la sconfitta e il capovolgimento del sacrificio nazionale o come l'avverarsi sia pure inatteso di una palingenesi sociale e culturale auspicata, condivide con la guerra l'essere un momento di azzeramento e di rottura con l'era precedente. Tranne che in Russia, tuttavia, essa non ha successo perché le manca quella capacità di mobilitazione unitaria, oltre che totalizzante, che aveva accompagnato la guerra. Dove potrebbe coinvolgere maggioritariamente le masse – come in Germania – si divide sui metodi e sulle finalità e degenera in una guerra fratricida; altrove, come in Italia, la retorica massimalista e la radicalizzazione degli obiettivi favorisce e surroga un isolamento sociale che non era necessariamente scontato. Per poter avere successo, e cioè raccogliere dietro di sé un largo fronte unitario, la rivoluzione avrebbe dovuto – paradossalmente – essere democratica: ma non vi erano forze adeguate, all'epoca, convinte culturalmente che fosse davvero la democrazia la priorità storica e capaci socialmente e politicamente di agire di conseguenza. Solo a Weimar, in modi parziali e ambigui, si cercherà di muoversi sulla strada della Costituzione e delle istituzioni democratiche, ma accanto a fallimenti ripetuti di tentativi insurrezionali e putschisti mascherati o scambiati per ondate rivoluzionarie. Non è un caso, e non solo per motivi di collocamento internazionale, che il wilsonismo non trovi in Europa una sponda decisa in alcun schieramento politico. Il paradosso della rivoluzione è che essa tende a dividere società frammentate e scollate dalla guerra che hanno bisogno di ritrovare coesione, ma al tempo stesso sembra l'unica proposta capace di infondere nuovo slancio e speranza. Anche il principio di autodeterminazione – una delle spine nel fianco del Trattato di Parigi insieme alle riparazioni – accresce insicurezza e insoddisfazione per i confini, e verrà infatti abbandonato anche da Wilson sotto la spinta di Robert Lansing che teme possa “creare problemi in diversi territori”39. L'influenza delle grandi potenze, per quanto ridimensionata dalle nuove nazioni sorte sulle spoglie degli imperi asburgico e ottomano, rimane fondamentale nel nuovo equilibrio europeo: ma nessuna di esse è capace di dotarsi di un “progetto” che possa lasciare il segno nell'epoca. Le più solide democrazie liberali – Gran Bretagna e Francia – non vogliono rinunciare al loro impero coloniale e cercano di sfruttare il ruolo di vincitori difendendosi all'interno dalle richieste di trasformazioni sociali e all'esterno chiudendosi, soprattutto la prima, in un sostanziale isolamento. La rivoluzione, pur se per poco – meno di un biennio – rappresenta l'unica proposta dirompente che può apparire adeguata alle attese e alle ansie della generazione uscita dalla guerra. L'universo simbolico che l'accompagna affascina settori più ampi di quelli direttamente coinvolti dagli obiettivi sociali che essa rivendica. La classe operaia rimane maggioritariamente ostile a un'avventura che si presenta – la Russia insegna – come una dittatura giacobina non certo adatta alle esigenze di paesi moderni e di istituzioni articolate e rappresentative. Come riassumerà uno degli interpreti più lucidi del dopoguerra – John Maynard Keynes – il bolscevismo si presentava come “una religione e non solamente un partito, e difatti Lenin è un Maometto, non un Bismarck”; era quindi difficile “per un figlio colto e passabilmente intelligente dell'Europa trovare qui i suoi ideali, a meno che non abbia sofferto qualche orrendo e strano processo di conversione che ha mutato tutti i suoi valori”40 e lo ha indotto ad accettare il dottrinarismo e l'autoritarismo di quella esperienza. Secondo l'economista che aveva messo inutilmente in guardia a Versailles sulle conseguenze catastrofiche che il Trattato di Pace avrebbe avuto per l'Europa, “se il comunismo raggiungerà un certo successo economico non lo raggiungerà per un miglioramento della tecnica economica, ma come religione. [...] Odiamo tanto il comunismo come religione da esagerare la sua inefficienza economica; siamo così colpiti dalla sua inefficienza economica che lo sottovalutiamo come religione”41. La “religione” bolscevica continuerà a diffondersi, con crescente successo, nei successivi decenni; ma non riuscirà mai, in Europa, a costruire un potenziale che potesse – nel suo insieme o in singoli stati – portare alla conquista del potere. La solidità e l'ulteriore diffondersi dello stato-nazione, infatti, “modellarono gli effetti economici e sociali della guerra in modo tale da bloccare ogni movimento verso la rivoluzione politica”42. Con il fallimento dell'ipotesi rivoluzionaria, riemerge nel dopoguerra il modello autoritario come risposta generale alla modernizzazione: tanto negli stati appena costituitisi in modo indipendente quanto nei paesi usciti sconfitti dalla guerra. La gestione nazionale, egoistica e particolaristica, delle crisi economiche e finanziarie che si sovrappongono fino a quella assai più esplosiva del 1929, rafforza la tendenza dirigista dei governi e l'intreccio degli apparati statali con settori rilevanti del mondo industriale ed agrario. Lo sviluppo riprende con contraccolpi e lentezze in una logica di progresso da cui è sostanzialmente esclusa la partecipazione democratica di massa. Questa, agli occhi delle élites agrarie e dei comandi militari, di gran parte degli industriali e delle classi medie impaurite per il conflitto sociale e la mancanza d'ordine, è percepita come una possibile anticamera a una vittoria della rivoluzione che è ormai antistorico ipotizzare. Quasi tutti i paesi, e in modo particolare quelli del sud e dell'est dell'Europa, vivono una crisi politica di transizione che è resa più precaria dalla crisi militare che riemerge tra le due grandi potenze continentali sulla revisione degli accordi di pace; ma che è esacerbata soprattutto da una crisi ideologica che fa emergere ripetutamente la necessità o possibilità di una “terza via”, capace di governare la modernizzazione eliminandone gli aspetti ritenuti meno desiderabili e più pericolosi. Sono le condizioni storiche complessive dell'entre-deux-guerres e quelle particolari dei singoli paesi a modellare le forme dei nuovi regimi politici, costretti in ogni caso ad assorbire elementi diversi e a mantenere una fluidità più o meno lunga. L'Italia fascista e la Germania di Weimar sono le risposte che emergono nel corso degli anni Venti, cui si affianca il contraddittorio esperimento della Nuova Politica Economica in Russia. Negli anni Trenta queste esperienze sembreranno trovare maggiori punti in comune, pur se tra le prime due e la terza si acuirà il contrasto internazionale e la contrapposizione ideologica. Si è cercato, soprattutto da parte dei testimoni dell'epoca, di individuare una sorta di legge comune capace di spiegare il perché dell'avvento in alcuni paesi di regimi autoritari e dittatoriali di tipo nuovo: “Che Italia, Germania e Russia rappresentino, in questo ordine, casi di rivoluzione totalitarie sempre più complete, è strettamente determinato dalla struttura del tempo dei loro periodi democratici. Il fascismo è favorito dal fatto che l'unificazione nazionale seguì di decenni il suo periodo di repubblicanesimo liberale rivoluzionario, ed è ostacolato dal fatto che questo periodo era strumentale a produrre l'unificazione nazionale. Il totalitarismo in Germania è più corposo del fascismo in Italia perché l'unificazione nazionale arrivò come conseguenza della guerra prussiana mentre il movimento liberal-repubblicano degli anni Quaranta non ebbe praticamente nessuna influenza su questo evento. E la rivoluzione totalitaria in Russia è probabilmente la più completa perché l'effettiva rivoluzione liberale ha preceduto quella comunista solo di pochi mesi”43. Pur se ricca di suggestioni, questa interpretazione tende a sottovalutare il ruolo fondamentale che svolse il contesto – internazionale e nazionale – entro cui si svilupparono vittoriosamente le esperienze dei nuovi regimi dispotici di massa. 0001000100 ‣ I caratteri del dopoguerra. La tolleranza della democrazia verso la completa libertà per lo sviluppo dell'opinione pubblica non implica l'approvazione di movimenti che mirano all'oppressione dell'opinione e quindi della democrazia stessa. (Emil Lederer, 1934) Gli anni Venti e Trenta, l'epoca dell'entre-deux-guerres, sembrano irriducibili a una definizione comune soddisfacente, valida per le esperienze totalitarie come per le società democratiche, per i regimi fascisti come per quelli parlamentari. Proprio il contesto generale della crisi – una crisi internazionale con risposte nazionali profondamente differenziate – sembra rappresentare l'unico punto di riferimento ragionevole per comprendere un periodo in cui la crisi del liberalismo e la nascita dei fascismi sono, comunque, l'elemento di primaria importanza. L'entre-deux-guerres si consuma tra la vittoria della Rivoluzione russa con i suoi effetti internazionali e lo scatenamento della guerra da parte del nazismo. Parlare di “età dei totalitarismi”, come è stato fatto più volte, è quindi certamente legittimo, anche se rischia di oscurare il carattere prolungato di una crisi che, con la vittoria del nazismo, cambia direzione e velocità ma continua a suscitare in Europa tensioni disomogenee, risposte contraddittorie, strategie differenziate. Il culto della violenza e il ricorso alla guerra, anche se contrastati con intensità e passione, rappresentano un lascito ineliminabile del primo conflitto mondiale e degli intrecci rivoluzionari che seguono, e tale lascito segnerà l'intera epoca tanto nelle sue formulazioni aggressive quanto nelle sue risposte difensive o impotenti. Il mito della nazione, malgrado la nazione sia uscita a pezzi dalle trincee di tutta Europa, troverà una nuova e più radicale stagione di diffusione continentale sotto forma di progetti universalistici ambiziosi e folli o di chiusure provinciali e narcisistiche attorno a una tradizione (liberale o repubblicana) mai coerentemente e compiutamente democratica. La contrapposizione di stati-nazione aveva condotto alla guerra europea; la divisione in statinazione (ancora più numerosi) dopo la pace rende difficile un esito rivoluzionario della crisi, che viene percepita come “nazionale” quasi in ogni stato, soprattutto per la diversa scansione temporale degli effetti economici e sociali della guerra. Sono i fattori politici ad essere sempre più decisivi, perché le diverse politiche nazionali offrono una soluzione diversificata della crisi. Nel corso degli anni Venti sono i regimi capitalistici più periferici o meno stabilmente modernizzati a essere soggetti a crisi di regime (e l'Italia rappresenta il più “avanzato” tra questi paesi periferici). Con la crisi del 1929-32 – più “normale” per molti aspetti, ma assai più profonda e destabilizzante per la sua intensità e ramificazione internazionale – anche la Germania seguirà quel modello, manifestando una sorta di “eccezionalismo” che verrà visto, successivamente, come componente decisiva e prevalente dell'intero periodo. Il terreno su cui si misura la crisi è, prevalentemente, quello delle istituzioni: delle risposte che danno e delle trasformazioni che subiscono, sotto la spinta di contrapposizioni ideologiche crescenti e di frammentazioni politiche che colpiscono soprattutto l'appartenenza elettorale delle classi medie. La perdita di centralità dei parlamenti gioca sempre più a favore di interessi organizzati attorno a forme politiche extraparlamentari, sottratte a regole e trasparenza che inquinano complessivamente la moralità della sfera pubblica44. Un capitalismo ormai ampiamente mondializzato – pur con la brusca frenata della guerra e la ripresa ambigua e differenziata del dopoguerra – viene gestito negli stati-nazione europei con una forte connotazione locale; le istituzioni pubbliche (le agenzie dello stato, le burocrazie, i partiti e sindacati) circoscrivono la loro azione nell'ambito della sovranità statale, contribuendo a spostare l'attenzione e l'interesse collettivo sugli antagonismi, anche economici, a carattere nazionale. È proprio la diversità della risposta e della tenuta istituzionale a segnare il terreno dove la crisi politica si può trasformare o no in spazi per nuovi regimi e nuove organizzazioni dello stato. L'Europa liberal-democratica, dove il liberalismo non è tanto un'ideologia ma l'istituzionalizzazione di norme e valori condivisi e dove la democrazia si articola in agenzie politiche di partecipazione, si dimostra capace di controllare la mobilitazione sociale e gli ondeggiamenti elettorali del dopoguerra. Sono le istituzioni parlamentari – legittimate dalla tradizione e da un consenso messo in discussione solo da piccole minoranze – a governare il conflitto; e i partiti di massa sono gli eredi (per confluenza o per rinnovamento) delle élites che avevano in mano gli stati anche precedentemente alla guerra. Che di questa Europa facciano parte i due maggiori paesi vincitori del conflitto, la Gran Bretagna e la Francia, sembra una garanzia per il futuro che rimane ambigua e irrisolta. Un'altra metà dell'Europa, infatti, si caratterizza per una deriva autoritaria che, in forme diverse, racchiuderà nell'entre-deux-guerres la maggioranza dei “nuovi” stati, le regioni centroorientale e meridionale del continente, la penisola iberica. Cosa divide queste due Europe diverse, soggette allo stesso contesto internazionale? Risposte differenti alla medesima crisi o una crisi che si articola e si declina per aree e per stati? La crisi – o, meglio, la combinazione delle crisi (economica, politica, ideologica, sociale, militare) – appare necessaria per produrre una radicale trasformazione istituzionale, ma si dimostra sufficiente soltanto nelle aree regionali indicate, che rappresentano, con alcune eccezioni, i paesi sviluppatisi più tardi sia sul terreno economico del capitalismo sia su quello politico del parlamentarismo, sia sul piano della creazione dello stato-nazione. È in questi che potremmo chiamare, con una terminologia di fine Novecento, stati di transizione, che i partiti trovano maggiore difficoltà a proporsi come collettori di istanze unitarie e universali; che le istituzioni non riescono a superare il loro carattere duale e antagonista (ad esempio tra parlamento ed esecutivo, tra forze armate e parlamento, tra notabili e partiti); che lo stato non riesce a controllare e incanalare le ideologie di mobilitazione e conflitto che accompagnano l'allargamento del suffragio. Il fascino dell'autoritarismo, intrecciato strettamente col nazionalismo, non si manifesta tanto sul versante economico e sociale ma su quello politico e ideologico. Le risposte concrete alla crisi sono generiche, interclassiste, demagogiche e fondate su valori più che su politiche. Ci si rivolge con particolare attenzione (blandendoli o favorendone la nascita) ai movimenti giovanili, spesso paramilitari e aggressivi, capaci di rappresentare agenzie di socializzazione tanto per chi è fornito di un'educazione medio-superiore (e cerca il connubio tra i valori della modernità e la morale della tradizione) quanto per i declassati, gli sbandati, coloro che sono soggetti a una rapida proletarizzazione o emarginazione socio-culturale. La violenza è l'eredità più forte e traumatica che la guerra ha lasciato, un connotato al tempo stesso culturale e comportamentale che viene sempre più vissuto come naturale e necessario. È l'esperienza terribile e in parte incomunicabile della guerra al fronte che può rappresentare il punto di partenza per la rifondazione morale della società: legando in un patto non esplicitato la generazione delle trincee che ha stabilito in qualche modo – sotto le “tempeste d'acciaio” di cui parla Ernst Jünger45 – di non accettare più dopo la guerra il ritorno della società prebellica. Il rifiuto di una concezione di classe spinge a tralasciare il cuore del conflitto tra capitale e lavoro in un'ottica di suo superamento che trova il consenso soprattutto delle classi medie, di chi guarda con paura o fastidio alle lotte sociali, dei marginali e degli sradicati ma anche degli opportunisti, dei carrieristi, di chi intende muoversi in modo dinamico sul terreno della promozione sociale. Il richiamo costante alla sacralità dello stato-nazione – e il contemporaneo etichettare i suoi avversari come nemici e traditori – trova un fecondo ascolto tra i veterani e gli impiegati, i maestri e i lavoratori del settore pubblico. I movimenti fascisti saranno quelli maggiormente capaci – in Italia all'inizio degli anni Venti e in Germania all'inizio degli anni Trenta – a rivolgersi a queste moderne constituencies e a coinvolgere così, accanto ai militanti, ampi strati di popolazione irrequieta e impaurita pronta a dare fiducia a un qualsivoglia progetto autoritario vincente. La retorica nazionalista, radicalizzata e modernizzata, differenziata per gruppi sociali e unificata attorno al richiamo all'orgoglio di una nuova identità collettiva, si presenta con un connotato generale che manca, paradossalmente, ai movimenti socialisti e comunisti che proprio sui valori universali si fondano, ma rivolgono solo alla classe operaia la loro azione di penetrazione e propaganda sulla soluzione socio-economica della crisi, dopo avere fallito l'assalto rivoluzionario al potere politico. La deriva autoritaria dell'entre-deux-guerres è stata spesso vista come un risultato della crisi della democrazia liberale. Se si escludono l'Italia fascista e la Germania nazionalsocialista – su cui si tornerà più avanti – sarebbe più giusto, in realtà, parlare di crisi di stati semiliberali o semiautoritari, in transizione verso una pienezza di democrazia parlamentare e di stato-nazione spesso ai suoi albori. L'eredità della guerra e il contesto presente della crisi economica spingono questi stati di transizione a mantenere sul terreno del nazionalismo, dopo la mobilitazione per l'indipendenza e l'unità della patria, anche la dialettica del periodo di costruzione parlamentare, con grave detrimento per il livello di democrazia delle nuove istituzioni. La nuova Europa centro-orientale, che emerge dal vuoto lasciato dalla fine degli imperi, sembra indecisa se seguire la strada della modernizzazione occidentale (il modello prescelto almeno fino alla guerra mondiale) o se mettere sotto accusa i valori su cui essa era cresciuta, in particolar modo la democrazia politica e il liberismo economico. Resta solo, tra i cardini del modello europeo, lo stato-nazione, impoverito però dallo svuotamento politico ed economico e legittimato da una forte accentuazione della sua identità ideologico-culturale. Quest'ultima si caratterizza con un atteggiamento (psicologico e legislativo, normativo e istituzionale) di contenimento o emarginazione delle robuste minoranze nazionali (circa il 30%) che sono presenti in Cecoslovacchia e Romania, Jugoslavia e Polonia come eredità degli imperi multinazionali. Dove la modernizzazione era avvenuta più lentamente, lo stato nazionale aveva una storia lontana e le istituzioni parlamentari si erano radicate e intrecciate con le nuove agenzie di socializzazione e costruzione della cittadinanza cui avevano dato luogo tra Ottocento e Novecento, la crisi dello stato liberale si risolve con una trasformazione di cui esso stesso è il protagonista, senza crollare e offrire spazio a regimi di tipo fascista o autoritario. È quanto accade con maggiore stabilità in Gran Bretagna, nei Paesi Bassi e nelle regioni scandinave, ma anche in Francia, seppure con maggiori ostacoli e tentennamenti. Manca, in generale, la percezione di quel bisogno “comunitario” su cui fanno leva le nuove ideologie nazionaliste radicali, ed è ambigua la capacità di rispondere in modo positivo e dinamico alle richieste di partecipazione politica delle masse. Sono le istituzioni, infatti, che si dimostrano capaci di mitigare l'alienazione e atomizzazione individuale e di neutralizzare le sirene di nuove utopie comunitarie di stampo nazionalista o razzista. Non è certo una saldezza apparente, anche se l'educazione imperiale britannica e la pedagogia repubblicana francese, per fare un solo esempio istituzionale, non sembrano mantenere lo stesso fascino e capacità di mobilitazione che avevano nell'anteguerra. La “visione della società” delle democrazie parlamentari tra le due guerre, pur sottoposta a tensioni molteplici perché incapace di riassumere le nuove dimensioni della realtà postbellica e le nuove richieste e bisogni dei cittadini, sembra reggere all'interno; ma è incapace di svolgere un ruolo di propagazione sul terreno internazionale, di proporre un'alternativa o di frapporre ostacoli alla demolizione delle istituzioni liberali nei paesi vicini. Dove il consumo di esperienze sembra andare di pari passo, o ancora più rapidamente, del consumo delle nuove merci e dei beni disponibili sul mercato, è senza dubbio la Germania di Weimar e le aree limitrofe della Mitteleuropa. Qui lo stato sembra impossibilitato a divenire l'effettivo garante di un compromesso sociale tra le classi, che si trascina ambiguamente per oltre un decennio; e risulta impotente a rispondere alle diverse esigenze di sicurezza (economica, sociale, politica, culturale) e di ordine che i diversi segmenti della società avanzano e rivendicano. Nella concezione dei padri della Costituzione di Weimar, lo stato rappresenta una forma democratica di potere, l'unità organizzativa per dare efficacia pubblica alle decisioni prese; e la politica è l'uso di questa efficacia per fini comuni, per attuare la concezione di valori condivisi all'interno di un ordine istituzionale. Legittimazione e consenso, nella cornice weimariana, si rincorrono e intrecciano; la prima non ha luogo senza il secondo, ma se si fonda solo su esso (inteso come indicatore di successo) rischia di accantonare quella parte di legittimazione fondata sulla contrattazione e sul compromesso, sulle intese e sui risultati delle battaglie sociali e delle lotte economiche, quel processo di integrazione popolare che si svolge sul lungo periodo. La legittimazione del potere, che si fonda su una legalità impersonale, viene erosa a vantaggio della credenza in valori nuovi o tradizionali e della fiducia crescente in un'autorità carismatica, su cui si gioca la battaglia ideologica nella Germania di Weimar. L'ideologia, così, diventa il surrogato e il sostituto della legittimazione; e la politica perde progressivamente le sue funzioni di regolazione (che permette ad attori diversi di proporre opzioni e soluzioni differenti entro la cornice unitaria sancita dalla costituzione) e di integrazione (intesa come l'insieme delle agenzie, dei provvedimenti e della cultura capace di rendere coesa la società). La capacità di svolgere un ruolo di guida per l'integrazione dei cittadini, non si può manifestare solo nelle procedure per individuare la volontà razionale e i processi decisionali, ma deve concretizzarsi in una rappresentazione simbolica dei valori condivisi della comunità. Per quanto articolata e moderna, la Costituzione di Weimar non riesce a svolgere questo compito, che le forze politiche repubblicane tendono a sottovalutare, come fanno con la ricerca di un programma unitario sul terreno sociale e di una sintesi di valori comuni sul versante simbolico. Il semplice richiamo alla democrazia e alle sue regole – senza che essa stessa diventi, in qualche modo, la spinta emotiva alla propria affermazione come collante valoriale e simbolico della comunità – non funziona soprattutto perché i partiti di Weimar la usano, strumentalmente e proceduralmente, per affermare la propria forza e presenza in un sistema politico ritenuto solido, che non a caso criticano senza timore di delegittimarlo. L'intreccio che i movimenti fascisti compiono tra l'azione (la forma primaria di identità e organizzazione che offrono ai propri militanti) e la nazione (il contenitore dei valori comuni su cui si cerca il consenso astratto ed emotivo dei cittadini), permette di stabilire – in forme certo rozze ma efficaci – una sorta di Weltanschauung capace di dare un senso generale all'epoca, ai suoi problemi e alle richieste di superarli, di offrire consolazione e riscatto come era compito in passato delle religioni. Il diffuso paramilitarismo di stampo nazionalista che il fascismo sussume e rinnova, costruisce attorno alla violenza una nuova cultura politica, che si legittima col costante richiamo alla guerra e alla sua esperienza rigeneratrice, adesso, anche per una “nuova” politica. Come mai questa dinamica riesce a manifestarsi e a prevalere, in forme diverse e a un decennio di distanza, solo in Italia e Germania? Non per motivi economici e sociali, tanto diverso è il grado di sviluppo capitalistico e il contesto di crisi in cui hanno luogo la vittoria politica di Mussolini e di Hitler, anche se quella cornice favorisce fortemente quell'esito. Né solo per una forza ideologica che anche altrove si cerca, però, di imitare e importare in momenti diversi. Se non ci si vuole risolvere ad una spiegazione personalistica – pur senza sottovalutare l'enorme ruolo svolto dalle figure carismatiche del duce e del führer – non si può che tornare alla dimensione istituzionale e politica della crisi: la prima capace di dare conto delle debolezze e contraddizioni che si sono coagulate nel medio periodo e che la rottura della guerra e l'esito del dopoguerra hanno radicalizzato e accentuato; la seconda di spiegare, tra altri ugualmente possibili, perché proprio quello fu l'esito di una crisi maturata nel giro di pochi anni e precipitata in pochi mesi. Anche se l'esito di affidare alla politica il ruolo di imporre un'ideologia dai connotati fortemente emotivi e irrazionali in una visione organicistica della comunità e delle istituzioni si è storicamente risolta in una tragedia, quella proposta ha avuto successo in una fase adolescenziale o giovanile della società di massa, in stati solo recentemente e parzialmente democratici, in un'Europa segnata dal trauma del conflitto mondiale e alla difficile ricerca di una uscita dalla crisi del dopoguerra. È probabilmente nell'articolazione delle risposte istituzionali e politiche date in Italia e in Germania al contesto di quella crisi che si possono individuare i motivi e le tappe che hanno reso l'opzione fascista particolarmente attraente e capace di imporsi. 0001000100 ‣ La dinamica della crisi. La democrazia non è una Repubblica davvero amata, né mai lo sarà. Ma è meno odiosa di altre forme contemporanee di governo, ed entro questo limite merita il nostro appoggio. (Edward M. Forster, 1938) Dove le istituzioni parlamentari e liberali sono più recenti e meno radicate, la guerra ha lasciato un'eredità più profonda, perché non è stata metabolizzata in modo unitario e partecipe. Dove la guerra è stata perduta, o dove la vittoria viene percepita come “mutilata” o inutile, il peso del conflitto perdura negli anni del dopoguerra informando di sé la battaglia politica e diventando un momento centrale di quella ideologica. Non sono i risultati e neppure le cause che hanno portato alla carneficina del 1914-18 a essere poste al centro del dibattito pubblico: ma l'esperienza in sé. Il significato della guerra s'identifica con l'esaltazione della nazione e chi mette in discussione quest'ultima diventa responsabile o della “pugnalata alle spalle” che ha favorito la sconfitta militare o del sacrificio inutile perché svenduto alla Conferenza di pace. La mobilitazione nazionalista ingloba tra i suoi avversari tanto il pacifismo wilsoniano quanto il socialismo, poco importa se in versione riformista o massimalista. L'avventura dannunziana di Fiume sembra, da questo punto di vista, esemplare. La partecipazione di forze sociali e culturali eterogenee, attratte tanto dal nazionalismo e dall'irredentismo quanto dal desiderio d'avventura e dall'incapacità a rientrare nel mondo della pace, vede in controcanto l'attesa ambigua e sospettosa di Mussolini e l'interessata contrapposizione del governo Giolitti. I socialisti sono al tempo stesso vittime di un conflitto civile che tende a considerarli estranei alla nazione, e responsabili di una guerra politica interna al proletariato che lo rende diviso, indebolito, incapace di proporsi come guida del paese e dello stato. È un conflitto che in Italia assume sembianze violente nella prima versione, in Germania nella seconda: in un caso indebolendo la possibilità di reagire all'ascesa al potere del fascismo, nell'altro la capacità di gestire la propria autorità nel governo e nelle istituzioni statali. La crisi liberale, in Italia, si manifesta prevalentemente come distruzione di una sfera pubblica appena abbozzata, come incapacità della società borghese di darsi autonomia e fiducia attorno a valori che non siano quelli delle classi medie e della burocrazia, del modernismo reazionario delle professioni o del conservatorismo sociale e culturale del mondo agrario. La democrazia, non a caso, è un valore rivendicato e difeso da pochi, contro cui si scatena la propaganda e la mobilitazione di nazionalisti e socialisti, di radicali e comunisti, e verso cui prendono le distanze sia i liberali conservatori che quelli reazionari. Il fascismo incoraggia e riassume queste spinte offrendone una versione giovanile, aggressiva e arrogante, in cui l'azione, con i suoi connotati ineliminabili di violenza, è l'antidoto al disfattismo e diventa essa stessa cardine di una nuova ideologia nazionale. Nella repubblica di Weimar quelle spinte, che sono minoritarie nel nuovo sistema politico ma allignano nell'apparato statale e istituzionale, vengono considerate dalla socialdemocrazia al potere un residuato bellico destinato a scomparire. La tenuta di Weimar, infatti, è prevalentemente frutto di un compromesso sociale e di continue alchimie politiche, non di un vero patto costituzionale capace di affondare sempre più le radici della democrazia e di farne il valore reale e la rappresentazione simbolica della nuova Germania. L'azione della socialdemocrazia, pur orientata all'accordo e al rispetto di regole vincolanti, viene percepita come un progetto di parte; ed è incapace di presentarlo e trasformarlo in una sintesi di valori che possano – in un momento di crisi – diventare il nucleo politico e il cuore simbolico dell'intera comunità. Nella crisi del dopoguerra, il bisogno di totalità che accompagna la modernità diventa ancora più forte, e si connota dei tratti ereditati dalla guerra: gerarchia e cameratismo, immagine del capo e fascino dell'istituzione totale, elitismo e disprezzo delle masse, voglia di potere e disumanizzazione dell'avversario. È su queste linee che si crea l'organizzazione politica e paramilitare del fascismo, che fa della glorificazione della violenza – democratizzata dalla guerra – uno dei suoi tratti maggiormente distintivi. L'intreccio tra il nazionalismo organico e il radicalismo politico avviene in una dimensione di lotta (contro i valori amorali e decadenti dell'individuo, della democrazia e del mercato) e di esaltazione simbolica (della patria-nazione in Italia e dell'unità völkisch in Germania). Anche se il fascismo privilegia l'immedesimazione nello stato e il nazismo l'identità razziale, è il nazionalismo a offrire a entrambi il terreno di mobilitazione e consenso, che i due movimenti radicalizzano con la trasformazione della politica in attivismo, dal forte contenuto emotivo. Pur nella loro diversità, fascismo e nazionalsocialismo propongono un modello di politica che presume di trascendere il conflitto sociale e l'alternativa liberalismo-socialismo, e cioè gli aspetti maggiormente visibili della crisi in atto. Il modello integrativo o corporativo, fondato su una radicale repressione preventiva, propone un'idea di uomo-massa liberato all'apparenza dall'isolamento e dall'alienazione della società liberale-industriale. Il culto dell'azione popolarizza questo modello, tende a farne un'organizzazione dal basso, dove la violenza è presentata come difensiva e vittoriosa ma può rivolgersi aggressivamente contro i propri nemici, legittimata e sacralizzata dal richiamo allo Stato e alla Nazione. Quali sono gli strati e i gruppi sociali attratti da questo insieme fumoso e retorico di proposte politiche, in cui – per restare al programma dei “fasci di combattimento” del 1919 – obiettivi fortemente progressisti (suffragio universale anche femminile, otto ore lavorative, tassazione fortemente progressiva, confisca delle proprietà religiose) vengono declinati con linguaggio nazionalista, antidemocratico e antidisfattista? Sono la piccola borghesia di cui parlava Luigi Salvatorelli nel 192346; le classi medie che “stavano progressivamente smarrendo le già scarse connotazioni di classe ereditate dall'Ottocento, ed erano sospinte dai processi strutturali verso una collocazione sociale ambigua”47; la folla composita di falliti, emarginati, ambiziosi, che cercano una contropartita psicologica “autoritaria” alla crisi della famiglia e all'invadenza della “nuova” donna. Accanto a essi ci sono quegli strati professionali (architetti, medici, ingegneri, urbanisti, statistici) in cui “si fa strada l'illusione che la ``mano forte'' del fascismo avrebbe favorito – di contro al superato modello classista di un conflitto ``a somma zero'' tra ceti inferiori e superiori – l'espandersi dal centro alla periferia, dall'alto verso il basso, di un'opera di modernizzazione urbana già avviata, in genere su sollecitazione dei socialisti e dei cattolici, in alcuni grandi e medi comuni”48. E ci sono coloro che temono la minaccia sociale e culturale del bolscevismo, tutti quelli che pensano di potere usare il fascismo come strumento indiretto per le proprie finalità economiche e politiche. Non vi è una corrispondenza chiara e meccanica tra ideologia e base sociale, e l'identità sociale, del resto, sempre meno nella società moderna viene data unicamente dalla classe d'appartenenza. Il rivolgersi ai gruppi sociali che oscillano inquieti tra il capitale e il lavoro, infastiditi e impauriti dalla lotta di classe, offrendo loro un programma “culturale” e non sociale, che legittima le proprie idiosincrasie come i propri comportamenti violenti, rappresenta la vittoria di un'ideologia che è totalizzante e si rifiuta di declinare e precisare i propri contenuti. Il nazionalismo antisocialista riesce a imporsi nel dopoguerra perché si presenta come ribellione generazionale verso gli aspetti del liberalismo cui vengono imputate la sconfitta in guerra e la pace punitiva o mutilata: razionalità, tolleranza, diversità. La percezione del pericolo rivoluzionario, enfatizzata dal radicalismo nazionalista, è in realtà condivisa e spesso gestita in prima persona dalle istituzioni statali e non (polizia, magistratura, esercito, Chiesa) che ritenevano il socialismo la più pericolosa forza antisistema dell'epoca storica pre e post-bellica. Il fallimento internazionale nella repressione del bolscevismo russo, mantiene vivo il timore del socialismo anche quando gli scoppi rivoluzionari si sono ormai esauriti o sono stati sconfitti, offrendo così ai movimenti fascisti “una riserva di integrazione socio-politica negativa potente e facile da manipolare”49. I movimenti fascisti si presentano come alleati dello stato nel combattere i suoi nemici e come demolitori dello stato per la sua incapacità a offrire soluzioni adeguate ai bisogni delle masse, intrecciando un utopismo rivoluzionario anticonservatore con una funzione pubblica di preservazione del sistema nel suo complesso. È una contraddizione che, lungi dal penalizzare elettoralmente per la sua contraddittorietà, sembra invece pagare anche sul terreno del consenso, pur in contesti differenti. Era un'epoca – ricorderà Stefan Zweig – “di fervidi entusiasmi e di frodi, un misto di impazienza e di fanatismo. Era un periodo aureo per tutto ciò che fosse stravagante e incontrollabile: teosofia, occultismo, spiritismo, sonnambulismo, antroposofia, chiromanzia, grafologia, misticismo, paracelsismo. Tutto ciò che permettesse sensazioni più intense di quelle provate fino ad allora, ogni genere di stupefacenti, morfina, cocaina, eroina trovava facile smercio; l'incesto e il parricidio nel teatro, il comunismo e il fascismo nella politica rappresentavano gli unici argomenti desiderati; bandita nel modo più assoluto era invece qualsiasi forma di normalità e di misura”50. Gli elementi descritti da Zweig erano presenti, in misura più ridotta e circoscritta, anche nell'epoca prebellica, dove costituivano il versante irrazionale di una cultura fondata sull'idea di progresso. Adesso, dopo la “follia” della Grande guerra (“Una sola cosa è chiara – aveva scritto Maksim Gor'kij il 2 agosto 1914 – sta iniziando il primo atto di una tragedia universale”51) rappresentano un terreno che aspira a sostituire quella ragione fallita tragicamente. In misura crescente, del resto, la cultura di massa è diventata parte integrante della vita quotidiana postbellica; e di quella cultura l'immagine – con la sua dirompente carica emotiva – è momento sempre più preponderante. Le ideologie e le culture di massa, e l'intreccio che si opera tra esse, sono il tentativo di accentuare ma anche istituzionalizzare la vita emotiva collettiva. Nel percorso ormai ampiamente riconosciuto di estetizzazione della politica nell'entre-deux-guerres, un ruolo cruciale è affidato al contagio emotivo della politica, che perde progressivamente la sua dimensione di mediazione critica a vantaggio di reazioni identitarie fondate sull'azione. Se si osserva attraverso questa lente la diffusione delle pratiche di commemorazione e il culto dei morti in battaglia (glorificazione ed esorcizzazione del trauma della Grande guerra), la ricerca del capo carismatico capace di incarnare il mito collettivo prevalente (la nazione, la razza, la classe, lo stato), l'esaltazione del corpo dopo la sua brutalizzazione e mutilazione bellica, le forme di superstizione legittimate dalla Chiesa come esperienze mistiche (è il caso paradigmatico di Lourdes), si comprende come l'emozione possa inserirsi con una spinta formidabile nella partecipazione collettiva. In un'epoca che ha raggiunto la modernità e che vive un discorso – si pensi al cinema e alla pittura, alla fotografia e al teatro, al varietà e al fotogiornalismo – in cui è l'immagine a riassumere spesso il significato, ad alludere il senso, a suggerire analogie e richiami. L'emotività diventa, al tempo stesso, surrogato e supporto all'azione, unificando in tal modo le avanguardie attive e le masse in attesa, e salvaguardando l'identità individuale pur all'interno di una deriva collettiva. Questo ingresso dell'emotività non ha ancora una sua legittimazione scientifica (che rifiuta di prenderla in considerazione) né un riconoscimento sociale (rimane un atteggiamento “femminile”), e può quindi manifestarsi soltanto in forme ideologicamente forti e organizzate (gruppi giovanili maschili) che incarnano la speranza collettiva non con modalità razionali e pragmatiche ma in forme mitico-utopiche. Non è un caso, forse, che uno degli scrittori più lucidi dell'epoca, Robert Musil, cercasse di far coesistere la conoscenza emotiva e la conoscenza scientifica, pur senza riuscire a convincersi di questa possibilità: “Manchiamo dei concetti per assorbire quanto abbiamo sperimentato; o forse manchiamo dei sentimenti il cui magnetismo metta in moto i concetti”52. È su questa base, di accettazione della complessità, irregolarità e imperfezione del mondo, che la psicoanalisi diventa una componente sempre più centrale del panorama culturale dell'entre -deux-guerres : infatti, “da una parte essa scavò la strada verso un mondo interiore e liberò il processo primario del pensiero senza cui la razionalizzazione sarebbe rimasta esterna; dall'altra divenne una parte stabile dell'organizzazione sociale, aiutando a incorporare la vita personale e la sessualità nella struttura stessa di progettazione e ordine”53. Benché gli studi di genere e di storia delle donne abbiano affrontato con crescente attenzione questi anni, ancora manca una convincente interpretazione del ruolo svolto dal processo di emancipazione femminile e di ridislocazione del ruolo delle donne durante e dopo la Grande guerra. Una volta raggiunto il suffragio, le donne si orientarono maggiormente al raggiungimento di libertà personale e sessuale e a una crescente autonomia sia dentro sia fuori la famiglia, ottenendo probabilmente un successo più elevato – a livello di élites almeno – sul terreno culturale che su quello economico e sociale; e provocando in tal modo una forte reazione difensiva del mondo maschile, soprattutto dove la gerarchia dei ruoli sessuali e la subordinazione sociale e culturale della donna era più radicata. In gran parte d'Europa, agli occhi dei veterani e della maggioranza dei cittadini, le donne “moderne” emerse dal conflitto mondiale apparivano “come un miscuglio di desiderio appena soppresso e di profondo risentimento per la loro irraggiungibilità, e di fiducia in se stesse”54. L'insistenza sui valori “maschili” di coraggio e disciplina da parte dei movimenti nazionalisti e fascisti, attrae l'elettorato conservatore: che vede come una minaccia alla propria esistenza e ai propri privilegi l'avanzata della democrazia sotto l'aspetto di miglioramenti per gli operai, le donne, le minoranze nazionali. La tragedia del liberalismo – frutto della sua incapacità a confrontarsi con la modernità di massa – fu invece quella di deludere quegli stessi settori della società che percepirono la democrazia prevalentemente come sola concessione del voto, orientandosi così in molti casi verso il richiamo socialista e comunista a un capovolgimento graduale o rivoluzionario dell'assetto sociale. All'interno del mondo liberal-conservatore, reazionario o autoritario, la concezione della donna è assai simile soprattutto nella difesa della famiglia, nel rafforzamento della componente religiosoeducativa, nel ruolo domestico e culturalmente non autonomo in cui la si vuole mantenere. Su questo terreno, per fare un esempio particolare ma significativo, i programmi dei due grandi contendenti per l'egemonia politica in Polonia – la coalizione dei “senza partito” di Pilsudsky e il Partito nazionale democratico di Dmowski – sono assolutamente identici. Più difficile è identificare quale fu la strategia del fascismo e del nazionalsocialismo, tanto nella logica di conquistare adesioni prima della conquista del potere, quanto nel rafforzare il consenso femminile durante gli anni del regime. Di sicuro l'idealizzazione della madre casta in costume contadino convisse, nel nazismo, con l'incoraggiamento della maternità anche per le singole madri55. Di certo il fascismo valorizza la famiglia come fulcro della Nazione (e lo stesso fa il nazismo rispetto alla Razza), non tanto come valore conservatore-religioso: “Immagini femminili erano usate per rappresentare gli ideali per cui gli uomini lottavano: i veterani avevano fatto la guerra nel nome delle loro mogli e figli, così come i fascisti difendevano le donne e i bambini contro gli ebrei e i comunisti (entrambi dipinti spesso come violentatori)”56. Da parte del fascismo e del nazismo, i cui strumenti per il potere sono i partiti di massa, vi è la necessità di incorporare anche le donne nella mobilitazione popolare, organizzandole dentro le proprie istituzioni in cui possono agire con una limitata autonomia che è tuttavia compatibile “con un più sfumato atteggiamento verso le richieste specifiche avanzate dalle diverse componenti del movimento delle donne”57. Anche rispetto alle donne, il fascismo si rivolge all'insieme della società, cercando di reclutare da mondi femminili diversi e magari contraddittori, inserendo tanto il radicalismo egualitario quanto il conservatorismo o il riformismo familista entro l'orizzonte di una Nazione definita in termini populisti. 0001000100 ‣ La rivoluzione italiana e la crisi di Weimar. L'odio esplose improvvisamente, senza avviso, dal nulla. (Christopher Isherwood, 1934) Tanto la crisi italiana quanto, dieci anni più tardi, quella tedesca, non avevano come unico sbocco possibile la soluzione fascista e nazionalsocialista. Alle indubbie capacità tattiche mostrate sia da Mussolini sia da Hitler nei mesi e nei momenti più acuti delle crisi, vanno aggiunte la sottovalutazione profonda e la convinzione di potere manovrare questi nuovi movimenti da parte delle forze conservatrici tradizionali, tanto politiche che militari. In poco più di tre anni i “fasci di combattimento” creati da Mussolini nel marzo 1919 mettendo insieme nazionalisti e sindacalisti, antiparlamentari e rivoluzionari, conquistano il potere dopo avere assunto una sempre più netta fisionomia nazionalista e antisocialista. La trasformazione in Partito nazionale fascista, al terzo congresso del movimento nel novembre 1921, consacra una formazione che è di massa per il numero degli iscritti (oltre trecentomila) più ancora che per il consenso elettorale acquisito (35 deputati dentro il Blocco Nazionale nel maggio dello stesso anno). Ma è la duttilità ad adattarsi alle condizioni della lotta politica (di piazza e parlamentare) che fanno del fascismo un elemento sempre più centrale della vita politica italiana: braccio della repressione sociale antisocialista e auspice, in nome dell'ordine, della pacificazione politica con i socialisti; squadrismo diffuso contro il sovversivismo “rosso” e alleanza con Giolitti; reducismo nazionalista e disimpegno nell'avventura dannunziana di Fiume; radicalismo repubblicano e legalismo monarchico. L'ambivalenza – interpretata dagli avversari come ambiguità e quindi come debolezza – di muoversi sul terreno paramilitare di una violenza aggressiva ma propagandata come difensiva e su quello delle alleanze politiche senza preclusioni, costituisce la novità e la forza del fascismo. L'azione continua a essere ritenuta lo strumento principe per centralizzare un movimento disomogeneo e diviso, ma i contenuti di questa forza d'urto acquistano un carattere sempre più moderato, istituzionale e nazionale che legittimano Mussolini come possibile soluzione di transizione. La marcia su Roma di fine ottobre 1922 viene accolta con indifferenza e presunzione, sottovalutazione e fatalismo dai vertici politici, militari e istituzionali dello stato. La fiducia che il capo del fascismo ottiene in parlamento il 17 novembre 1922 apre la strada al nuovo regime, con l'appoggio di nazionalisti e popolari, liberali e democratici. Nel suo intervento alla Camera, il futuro leader che avrebbe guidato 25 anni dopo la prima repubblica democratica, Alcide De Gasperi, giustificava il suo appoggio al governo, malgrado il “fascismo rivoluzionario” di cui non riusciva ancora a comprendere le intenzioni58. In Germania la lunga crisi di Weimar è stata generalmente osservata nell'ottica del suo esito conclusivo, tutt'altro che inevitabile e scontato se si considerano le diverse opzioni “autoritarie” che si fronteggiavano confusamente all'inizio degli anni Trenta. Weimar è anche l'esempio di un tentativo di impiantare la democrazia “tra le peggiori condizioni possibili”59, dentro una crisi strutturale del sistema economico e politico internazionale e cercando di tenere insieme le spinte contraddittorie che si erano accumulate almeno dall'inizio del secolo: “Il doppio volto della modernizzazione condizionò la vita quotidiana e dominò anche il dibattito culturale. In un clima di frenetica mondanità, la cultura di Weimar volle interpretare tutti i ruoli possibili della modernità, provandoli e rifiutandoli quasi simultaneamente”60. Il profondo senso di insicurezza e disorientamento che caratterizza l'esperienza weimariana man mano che prosegue nel suo contraddittorio cammino, ha due radici che sembrano emergere con maggiori evidenza di altre: gli effetti di medio periodo del compromesso sociale e quelli immediati della sua conclusione; la metabolizzazione della sconfitta da parte dell'opinione pubblica e di un corpo sociale frammentato e alla ricerca di una nuova identità comune. Le debolezze del sistema politico di Weimar sono state delineate con chiarezza venti anni fa61. Il sistema proporzionale porta i partiti al centro degli equilibri governativi e li rende simbiotici con gli interessi organizzati (sindacati, industriali, ecc.), concedendo al Presidente del Reich, fortemente influenzato dai gruppi militari e burocratici tradizionali, poteri eccessivi che possono ignorare la volontà della maggioranza. La capacità della socialdemocrazia – a metà tra Klassenpartei e Volkspartei, anche se prevale l'attenzione agli interessi quotidiani della classe operaia organizzata – di guidare il paese tra il 1924 e il 1930, viene messa in discussione con il sopraggiungere dell'onda della crisi economica internazionale. La logica di proteggere, prevalentemente o esclusivamente, i ceti operai e i lavoratori occupati nel corso della depressione, allontana il consenso di disoccupati, classi medie e mondo degli affari, acutizzando il conflitto tra industriali e mostrando l'incapacità istituzionale del sistema politico a organizzare efficaci negoziati sociali tra le diverse élites e i cittadini nel loro complesso: “La Repubblica di Weimar non godè dei vantaggi della capacità istituzionale necessaria a quel tipo di cambiamenti politici che bisogna attendersi nelle repubbliche parlamentari”62. È la frammentazione dei partiti delle classi medie, conservatori e borghesi, l'incapacità della socialdemocrazia di espandersi oltre il proprio elettorato operaio, il radicalismo retorico dei comunisti, a favorire la conquista nazista di consensi tra disoccupati e insicuri, fautori di soluzioni autoritarie ma anche seguaci di un liberalismo nazionale protezionista e autarchico. Sono in gran parte le divisioni interne alle élites capitaliste (avvantaggiate o strangolate dalla politica delle riparazioni, dalle scelte commerciali e dagli appoggi governativi, dalla logica di welfare che nel 1931 è il più forte ed esteso del mondo) a impedire l'emergere di una politica nazionale; così come è il peso eccessivo della socialdemocrazia a rendere impossibile l'ipotesi di una Grande Coalizione. Il rivolgersi verso il nazismo di settori forti dell'economia – dalle miniere all'industria pesante e all'agricoltura – è favorito dal crescente consenso popolare, a carattere largamente interclassista, che il nazionalsocialismo è riuscito a conquistare, con una radicale polemica contro le debolezze e divisioni della democrazia parlamentare. Le difficoltà economiche (scarsità di risorse e blocco della crescita) accentuano le tradizionali divisioni sociali, radicalizzando il conflitto distributivo tra le classi. La polarizzazione – esemplificata dalla scelta imprenditoriale di ridurre salari e tenori di vita e porre fine al compromesso sociale, e dall'incapacità socialdemocratica a proporre alternative diverse dalla difesa corporativa degli occupati – spinge le classi medie, timorose di perdere il proprio status, verso ideologie che si presentano come interclassiste e popolari. Il Partito nazionalsocialista, che inizia la corsa elettorale proprio in concomitanza con la crisi economica nel 1929, affida la propria identità alla lotta contro un governo ritenuto l'emblema della sconfitta e dell'umiliazione nazionale. La Repubblica sembra vivere per inerzia, senza trovare una solida difesa da parte di alcuno del proprio carattere democratico, che era l'unica garanzia possibile per trovare un risvolto positivo della sconfitta bellica. Essa si trova così sottoposta dapprima alle pressioni rivoluzionarie, destinate a spaccare il fronte popolare; successivamente alla sempre più diffusa reazione vittimista e revanscista, che diventa un punto centrale del nuovo nazionalismo a sfondo sempre più dichiaratamente razzista. Il desiderio di rivincita delle élites tradizionali di fronte a una politicizzazione di massa che modernizza il paese in modo più radicale e spregiudicato che altrove, s'intreccia con la perdita di legittimazione della Repubblica a seguito del tramonto del compromesso sociale e della mancanza di solide istituzioni politiche di compensazione. Tra i progetti di svolta autoritaria quello nazionalsocialista si caratterizza per la forte spinta all'integrazione sociale attorno a un'idea etnica ed esclusiva di nazione e di popolo, per la proposta di ricreare grande la Germania dando seguito al suo bisogno di Lebensraum, per la spregiudicatezza dell'uso delle forze paramilitari che raggruppano le giovani generazioni attorno alla priorità dell'azione. Il bacino elettorale su cui si fonda il nazionalsocialismo (che nel luglio 1932 arriva al 37% dei suffragi) è costituito dai contadini, il gruppo sociale più significativamente abbandonato dai partiti tradizionali, dagli abitanti delle piccole città minacciati e intimoriti dalla modernizzazione (all'epoca il 60% dei cittadini vive in centri con meno di ventimila abitanti), da appartenenti alle classi medie o da disoccupati che hanno precedentemente votato per altri partiti o non avevano votato. La disoccupazione ha colpito circa un terzo della forza-lavoro e ha raggiunto i 6 milioni di persone. L'organizzazione efficiente, la mobilitazione continua, la propaganda a carattere religioso e l'elasticità e disponibilità ad adattarsi alle situazioni locali reclutando le persone più diverse e favorendo una struttura carismatica piramidale, conquista i piccoli centri e le comunità rurali, mentre il radicalismo violento, l'antisocialismo militante, l'insistenza su un nazionalismo intriso di antisemitismo – tratti riassunti nella denuncia della “pugnalata alle spalle” e del pericolo comunista – attraggono seguaci nelle grandi città e vi creano il clima per una richiesta d'ordine e di ripristino dei valori su cui si era andati in guerra nel 1914. L'erosione e la messa in discussione della stabilità istituzionale, di cui la violenza nazista è responsabile con il suo appello al bisogno borghese di “vigilanza” e l'offerta di sfogo alle tensioni sociali e generazionali postbelliche, è accompagnata da una promessa di legge e ordine che è anche minaccia di ulteriore insicurezza e pericolo. “La violenza politica nella Repubblica di Weimar comportò un processo assai complicato di negoziazione pubblica, che risiedette pesantemente su una sorta di approvazione popolare per la sfida al monopolio della forza da parte dello stato”63. Se al fascismo italiano ci vollero alcuni anni per rendere stabile e irreversibile la dittatura fascista, il nazionalsocialismo ottenne lo stesso risultato in pochi mesi dal momento in cui Hindeburg, a fine gennaio 1933, dette l'incarico a Hitler di formare un governo di coalizione, e con rapide tappe: lo scioglimento del parlamento, l'incendio del Reichstag, il decreto “per la protezione del popolo e dello stato” che mette fuori legge i comunisti e sopprime i diritti costituzionali fondamentali, le elezioni di marzo con il raggiungimento del 43,9% dei voti, la sostituzione dei governi regionali non allineati con governatori nominati da Berlino, il rogo dei libri contrari allo spirito nazionale tedesco e contaminati dal bolscevismo e dal giudaismo. 0001000100 ‣ Il fascismo come problema storiografico. Voglio dichiarare con chiarezza ed enfaticamente che in Italia non esiste nulla che possa far parlare di tirannia o di soppressione della libertà personale come è garantita dalla costituzione in ogni terra civilizzata. Crediamo che Mussolini goda dell'appoggio entusiasta e dell'ammirazione di coloro soddisfatti di un ordine e prosperità a un livello mai conosciuti in Italia e probabilmente senza confronti oggigiorno anche tra le altre grandi nazioni che stanno ancora patendo per la guerra. (Winston Churchill, 1926) Nelle sue grandi linee, le indicazioni interpretative riassunte da Mosse nel 1979 sono ancora tra le più efficaci e convincenti: “Il fascismo fu dappertutto un ``atteggiamento verso la vita'' fondato su una mistica nazionale che poteva variare da una nazione all'altra. Fu anche una rivoluzione, che si sforzò di scoprire una ``terza via'' tra marxismo e capitalismo, ma che cercava tuttavia di sfuggire a un concreto cambiamento economico e sociale ripiegando sull'ideologia (la ``rivoluzione dello spirito'' di cui parlava Mussolini e la ``rivoluzione tedesca'' di Hitler). Esso incoraggiò però l'attivismo, la lotta contro l'ordine esistente”64. La contrapposizione durata per anni tra studiosi che hanno privilegiato l'analisi delle idee e delle tendenze culturali sottese all'esperienza fascista (le “origini ideologiche”), e storici interessati alla specifica esperienza del fascismo tra le due guerre con una forte enfasi sulle scelte politiche compiute dai movimenti e regimi (definire il fascismo è scriverne la storia, avrebbe detto Angelo Tasca), ha dato luogo negli ultimi anni alla ricerca di un consenso su alcuni punti fermi, denominatori comuni, definizioni generiche, che hanno ampliato l'arco delle interpretazioni riassuntive: in molti casi sulla base di una differenziazione puramente nominalistica e sulla rivendicazione autoreferenziale a una primogenitura terminologica. Sull'importanza del nazionalismo (definito una volta come “ipernazionalismo palingenetico”, un'altra come “ultranazionalismo populista” e un'altra ancora come “nationalism plus ”), Mosse aveva riassunto una già ricca stagione di studi ricordando come fosse “il nazionalismo, la forza essenziale che in primo luogo rese possibile il fascismo”65. Che questo nazionalismo fosse di tipo nuovo e particolare (organico, olistico, radicale), capace di trascendere le ideologie coeve (liberalismo e socialismo) era più importante che attribuirgli un carattere controrivoluzionario o la discendenza dissidente dalla tradizione socialista, perché in questo modo si potevano seguire le dinamiche di trasformazione con cui l'esperienza del potere e le influenze esterne condizionavano e modificavano le idee e la pratica del fascismo. Scavenger 66 fu il termine con cui Mosse riassunse la capacità del fascismo di appropriarsi di tutto ciò che tra Ottocento e Novecento aveva ideologicamente affascinato avanguardie e masse: romanticismo, liberalismo, socialismo, modernismo tecnologico, socialdarwinismo, creando un intreccio tra attivismo e ordine, rivoluzione e assorbimento delle tradizioni del passato. L'eclettismo rappresenta l'originalità, la forza e la caratteristica del fascismo, che punta con “determinazione a portare il nazionalismo in prima linea della vita politica e sociale, calpestando ogni cosa per subordinarla alle sue esigenze”67. La nazione, nell'ottica fascista, comprende il popolo (la cultura e il sangue sottoposti all'autorità dello stato), il territorio (fondato sulla storia che ne rivendica l'espansione), la società (intesa come comunità integrata, unita contro i nemici esterni e capace di emarginare quelli interni), la cultura (tanto le espressioni artistiche canonizzate e accettate dal regime quanto le attività rituali collettive che diventano momento d'identità quotidiana), la politica (vista come attivismo e come “stile”, capace di mettere in comunicazione il popolo e il suo duce nella subordinazione alla Nazione). Il discorso che ne emerge è sostanzialmente antirazionalistico, essenzialistico, anche se utilizza i mezzi della comunicazione moderna, gli strumenti della propaganda e le risorse dell'ingegneria sociale. Il progetto organico d'integrazione sociale perseguito dal fascismo si sviluppa nella fase di movimento soprattutto come attivismo govanile che si autoproclama laboratorio del nuovo uomo fascista, come violenta distruzione dei responsabili del declino e della crisi della nazione e come proposta interclassista di un partito che annacqua sempre più il proprio programma economico e sociale. Nella costruzione del regime il partito unico diventa il fulcro della nuova architettura politica e istituzionale, che si identifica e appropria dell'orizzonte nazionale attraverso la mitizzazione del passato. La progressiva identificazione di fascismo e nazione, grazie alla costruzione continua di una lealtà alla Patria che solo il regime riesce a garantire, si proietta in una dimensione che – diventando imperiale – cercherà (pretenderà) di trascendere le precedenti antinomie e contraddizioni interne. Il fascismo fu così “un progetto unico di ingegneria sociale di massa che adattò una tradizione intellettuale alle circostanze della propria epoca, produsse uno stile idiosincratico di pratica politica e particolarizzò il contenuto della sua utopia attraverso una sintesi dell'ideologia con l'azione”68. Lo “stile” della politica fascista può essere riassunto – anche se certo non ridotto – nel binomio di violenza e consenso, che conobbe momenti cronologicamente alterni di egemonia e di emergenza all'interno del movimento e del regime, e che ebbe articolazioni differenti nell'esperienza italiana e in quella tedesca. L'avere introdotto la violenza nella politica – in forme attiviste e dinamiche presentate come difensive, all'opposto di quelle socialiste e comuniste che, pur quando si proponevano in un'ottica rivoluzionaria, sembravano mancare di una coerente volontà di brutalità – è un elemento chiave del successo fascista perché accentua e legittima la crisi parlamentare e l'esito antiparlamentare che essa potrà prendere in seguito. È attraverso la violenza che il fascismo riesce a mantenere e riproporre l'esperienza della guerra entro il proprio orizzonte, occupando un vuoto che la sinistra – sottovalutando per ostilità ideologica e retaggio pacifista la forza politica del mito della guerra69 – aveva lasciato scoperto, dimenticando quanto “la guerra [fosse assunta] a simbolo della gioventù, del suo attivismo, del suo ottimismo e del suo eroico sacrificio”70. Il fascismo cresce nella modernità creata dalla guerra e la sua violenza si manifesta in modo tutt'altro che irrazionale: come violenza agraria, e cioè come risposta alla minaccia di collasso sociale; come violenza squadrista, e cioè come mezzo di affermazione politica e di promozione sociale dentro il movimento, come risposta comportamentale e impulsiva ai valori etici di una borghesia impaurita e divisa. L'agenda rivoluzionaria del fascismo si presenta con il volto di una modernizzazione generazionale che alimenta tensioni e disordini ma propone integrazione e ordine. “Il fascismo è un genere di politica di massa moderna e rivoluzionaria, che mentre è estremamente eterogenea nella sua base sociale e nella ideologia specifica promossa dalle sue numerose mutazioni, trae la sua coesione e ruolo guida da un mito centrale che da un periodo percepito come declino e decadenza nazionale crea la strada per un periodo di rinascita e rinnovamento in un nuovo ordine post-liberale”71. La capacità di attrarre seguaci appartenenti alle diverse classi da parte dei fascismi si accentua una volta raggiunto il potere. Nella fase del movimento sono i rappresentanti delle classi medie (la piccola borghesia di cui parlava Salvemini per il fascismo o la borghesia ordinata ridicolizzata da Kraus per il nazismo) a costituire il supporto elettorale della militanza giovanile del partito e dei gruppi paramilitari. Una volta divenuto regime, il fascismo articola una politica di ricerca del consenso che è anticipata da una serrata e violenta strategia repressiva e che si concretizza nella progressiva conquista dello stato da parte del partito unico, con cui tenderà a identificarsi. In Italia, “l'insediarsi della politica, sotto forma di organizzazione di partito, tra amministrazione pubblica e cittadini”72 trasforma in modo radicale anche se non improvviso l'apparato dello stato e le istituzioni pubbliche, contribuendo a un crescente controllo dello stato sulla società e a una presenza sempre più forte del partito sullo stato. Alla fine degli anni Venti, infatti, “l'amministrazione pubblica emergerà succube di una nuova ``razionalità'', quella tutta politica, della ricerca del consenso delle masse di cui costituirà parte integrante il ``popolo numeroso'' degli uffici”73. L'espandersi di una nuova burocrazia, più giovane e con radici geografiche centrosettentrionali e non più meridionali, rappresenta al tempo stesso il riconoscimento tangibile del regime al sostegno offerto al primo fascismo dai giovani studenti, professionisti, ex uffficiali e disoccupati, ma anche la crescente affinità sociologica tra il partito che ha conquistato il potere e lo stato che esso ha progressivamente occupato. Il prevalere di una cultura amministrativa di tipo politico (clientelare e con tratti di modernizzazione ed efficienza) su quella tradizionale di taglio giuridico (con maggiori aspirazioni universalistiche e garantiste), rende la burocrazia statale l'epitome della classe media di cui il regime farà la base sociale della nuova identità nazionale del paese. Anche in Germania i ceti impiegatizi e professionali allargano il proprio appoggio al regime, il cui dinamismo modernizzatore fondato sul riarmo e su progetti di vasto respiro (ad esempio la rete autostradale) raccoglie un consenso legato alla grandezza riconquistata dalla nazione e al suo ruolo internazionale. La svolta in politica estera, soprattutto a partire dal 1936, per la creazione di un nuovo ordine territoriale, permette di leggere come continuità delle precedenti aspirazioni nazionali la nuova strategia aggressiva fondata sul Lebensraum. La visione fascista del Mare Nostrum e quella nazista di un impero “orientale” vanno ben oltre le tradizionali politiche espansionistiche manifestate dai due paesi soprattutto prima della guerra mondiale; sono la combinazione di elementi geopolitici e ideologici che fondano sulla razza o nella storia (il glorioso passato) il diritto di rivendicare una grandezza futura. In quest'ottica gli obiettivi particolari dei due regimi “vennero messi in ordine di precedenza (l'Adriatico, il Nord Africa, Suez e i Balcani meridionali per l'Italia; la Mitteleuropa e l'Unione Sovietica per la Germania), ma la tempistica e la pianificazione furono largamente determinate dall'opportunità e dalle limitazioni esterne”74. Opportunismo e flessibilità da parte dei due regimi non nascondono una minore coerenza ideologica, ma la valorizzano, anzi, nel suo aspetto di sublimazione imperiale, in cui le aspirazioni nazionaliste e identitarie che erano state mobilitate in precedenza si coniugano con il destino e l'ineluttabilità della storia. I grandi miti su cui fascismo e nazismo hanno costruito la propria forza non sono solamente l'estrinsercarsi del loro carattere di religione politica, insufficiente pur se necessaria a costruire una coesione interna e a diventare forza direttrice della loro azione. Essi sono l'aspetto trascendente di una politica in cui interessi e valori cercano di riformularsi in equilibrio reciproco. La deriva razzista cui anche il fascismo italiano cede definitivamente con il 1937-38 (ma che aveva già offerto le sue credenziali nel corso della guerra di aggressione all'Etiopia), nasce proprio dal bisogno di rinnovare uno slancio utopico e di ritrovare i motivi di una nuova mobilitazione in un contesto segnato ormai dall'egemonia nazionalsocialista: se l'antisemitismo non è centrale nell'idea fascista di Nazione, quest'ultima può benissimo convivere e inglobare in un particolare momento storico la persecuzione degli ebrei. Il fascismo, per articolare sulla base dell'intenso dibattito storiografico dell'ultimo decennio le considerazioni di Mosse ricordate precedentemente, si presenta come una visione del mondo capace di assorbire e valorizzare interessi economici e politici anche differenziati e contrapposti, grazie a una visione utopica atta ad offrire un connotato di sacralità a una modernità in decadenza. A quella “crisi di civiltà”, che contribuisce ad accelerare introiettando positivamente l'esperienza di guerra, contrappone un diverso “stile” politico che si riassume nell'azione e il cui attivismo è connotato da forti tensioni emotive. “I fascisti furono generati in gran numero dalle crisi post-belliche nelle relazioni ideologiche, etniche, militari, di potere politico, alle quali una ideologia di stato-nazione trascendente trascinata da un paramilitarismo popolare offrì una soluzione plausibile”75. La gestione del potere da parte dei regimi fascisti, che comportò scelte economiche e soluzioni sociali rilevanti e articolate, avvenne attraverso un uso nuovo della politica (il partito unico e il führerprinzip) e un mutamento radicale delle istituzioni: con l'obiettivo di costruire una classe media unica, omogeneizzata socialmente e culturalmente, capace d'identificarsi con lo stato (la Nazione e/o la Razza) attraverso la partecipazione mitico-simbolica alla sua storia ricostruita ed esaltata. L'esperienza dei fascismi appartiene in toto – e si potrebbe dire “esclusivamente” – all'epoca dell'entre-deux-guerres, e questo già dovrebbe suggerire i confini entro cui ricercare una loro definizione e interpretazione “generica” o “generale”. La necessità di continuare ad approfondire con studi particolari e settoriali i differenti casi nazionali, non deve oscurare il carattere epocale entro cui s'inserisce l'esperienza storica dei fascismi. L'epoca è quella segnata in modo indelebile dalla Prima guerra mondiale, dalla sua inaudita violenza e dal coinvolgimento totale della popolazione quanto dal fallimento dello stato-nazione come involucro di un progresso infinito capace di inserire democraticamente le masse nella vita pubblica. Quel fallimento, e il modo traumatico con cui si consumò sui campi di battaglia europei, non segnò però la fine dei nazionalismi che quella guerra avevano auspicato e favorito. La vera battaglia sui destini dell'Europa del dopoguerra si svolse sul terreno delle istituzioni e della politica; su quali istituzioni fossero maggiormente capaci di incanalare la partecipazione delle masse ormai definitivamente inserite nel processo di modernizzazione e su quale politica potesse meglio servire a ricostruire e rafforzare lo stato, la sicurezza e l'identità di nazioni sottoposte a tensioni e competizioni reciproche. La guerra, pur se rese più favorevole in singoli paesi il terreno alla rivoluzione, tanto sul piano sociale che culturale, l'affossò invece definitivamente nella sua possibilità di successo internazionale, perché bloccò il processo di mondializzazione e dette l'avvio a un periodo di deglobalizzazione – per usare un termine di oggi – che sarebbe durato fino alla Seconda guerra mondiale e avrebbe segnato in profondità la “guerra civile europea” dell'entre -deux -guerres. Le ragioni di questa “guerra civile” sono radicate tanto nelle scelte economiche quanto nelle decisioni di politica internazionale che vennero fatte nella Conferenza di pace e che la gestione miope e provinciale dei diversi governi rese ancora meno capaci di creare un equilibrio interno ai singoli stati e una prospettiva unitaria all'intera Europa. Nella transizione postbellica a una nuova realtà politica e istituzionale, si radicalizzò una divisione europea tra i regimi liberal-parlamentari di più antica tradizione, quelli giunti più recentemente all'unificazione nazionale e ancora fortemente limitati nelle loro conquiste democratiche e quelli divenuti indipendenti con il crollo degli imperi e il termine della guerra. Ognuno di essi cercò di reagire alla richiesta di sicurezza e cambiamento, di identità e trasformazione, di utopia e rassicurazione intrecciando risposte istituzionali e costruzioni ideologiche. Le maggiori novità, in entrambi i casi, furono quelle che emersero dai movimenti fascisti, capaci di conquistare il potere e diventare regime – in Italia e Germania – a distanza di dieci anni. Fu la loro saldatura, a metà degli anni Trenta, a imprimere definitivamente alla storia europea una direzione conflittuale che sancì – con lo scatenamento della Seconda guerra mondiale – la perdita di centralità e di egemonia che l'Europa aveva iniziato a intravedere proprio negli anni in cui veniva combattuta la prima. Anche lo studio dei fascismi, quindi, non può che continuare ad avvenire all'interno di una comparazione che abbracci l'intera epoca tra le due guerre, che si muova sul versante del confronto tra le diverse esperienze totalitarie e autoritarie ma anche su quello con le dinamiche nuove d'intervento statale nell'economia e di creazione di istituzioni “sociali” di cui fanno parte anche le esperienza nordeuropee o del New Deal americano. Senza dimenticare come il tema della classe media – costruita socialmente negli USA attorno alla logica dei consumi di massa negli stessi anni in cui veniva politicamente omogeneizzata con forza e consenso dai regimi fascisti e violentemente distrutta e rigenerata nella Russia sovietica – rimanga centrale per la comprensione della modernità e della modernizzazione nonché delle culture ambivalenti e contraddittorie che hanno accompagnato l'ingresso e la partecipazione delle masse alla vita pubblica. Note al saggio L'ultima strofa recita: Never such innocence, / Never before or since, / As changed itself to past / Without a word–the men / Leaving the gardens tidy, / The thousands of marriages, / Lasting a little while longer: / Never such innocence again. Contro questo Stato accentratore e monopolizzatore, il partito popolare ha proceduto con opera di critica e con propositi di legale trasformazione. Il fascismo invece è insorto con l'azione diretta e violenta”. Il testo in: http://www.degasperi.net/show_doc.php?id_obj=416sq_id=0. 1 - Walter H. Page, ambasciatore americano a Londra, al Presidente Wilson il 3 agosto 1914, in Martin Gilbert, A History of the Twentieth Century. Volume One: 1900-1933, HarperCollins, London 1997, p. 331.2 - Julian Henry Francis Grenfell, Into Battle, in “The Times”, 12 maggio 1915.3 - Citato in Iain Boyd Whyte, Otto Dix's Germany: From Wilhelmine Reich to East/West Divide, in Otto Dix, Tate Gallery, London 1992, p. 28.4 - Citato da Carla Schulz-Hoffmann, War, Apocalypse, and the ``Purification of the World'', in The Romantic Spirit in German Art, 17901990, Thames & Hudson, London 1994, p. 198.5 - Giuseppe Prezzolini, Facciamo la guerra, in “La Voce”, Firenze 28 agosto 1914.6 - Citato in Le rève d'une ville, Nantes et le Surrealisme, Ed. Réunion des Musées Nationaux et Musée des Beaux Arts de Nantes, Paris 1994, p. 2017 “Littérature”, n. 15, 1920.8 - Citato in “Anthem for Doomed Youth. Writers and Literature of The Great War, 1914-1918. An exhibit commemorating the 80th anniversary of the Armistice, November 11, 1918”, Brigham Young University, Provo UT 1998. http://www.lib.byu.edu/~english/WWI/newmain.html.9 - “The London Times”, 31 luglio 1917.10 Paul Fussell, La grande guerra e la memoria moderna, il Mulino, Bologna 2000, p. 20 [tit. orig. The Great War and Modern Memory, Oxford University Press, New York 1975].11 - Renato Serra, Esame di coscienza di un letterato, in “La Voce”, Firenze 30 aprile 1915.12 http://www.lib.byu.edu/~english/WWI/influence/MCMXIV.html.13 - Report of the War Office Committee of Enquiry into ``Shell-shock'', HMSO [Her Majesty Stationery Office], London 1922, p. 28.14 - André Leri, Shell-Shock, Commotional and Emotional Aspects, University of London Press, London 1919, p. 118.15 - Eli Zaretsky, Secrets of Soul. A Social and Cultural History of Psychoanalysis, Alfred A. Knopf, New York 2004, p. 121.16 - Cfr. Eugen Weber, Da contadini a francesi. La modernizzazione della Francia rurale (1870-1914), il Mulino, Bologna 1989 [tit. orig. Peasants into Frenchmen: the Modernisation of Rural France, 1870-1914, Stanford University Press, Stanford CA 1976]; George L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), il Mulino, Bologna 2004 [tit. orig. The Nationalization of the Masses: Political Symbolism and Mass Movements in Germany from the Napoleonic Wars through the Third Reich, H. Fertig, New York 1975]; Pierre Nora, Les lieux de mémoire, I-III, Gallimard, Paris 1984-1992; Mario Isnenghi, I luoghi della memoria, I-III, Laterza, Bari-Roma 1996-1997; Raphael Samuel, Theatres of Memory, v. I-II, Verso, London 1996-1999.17 - Christophe Charle, La crise des sociétés impériales. Allemagne, France, Grande-Bretagne 19001940. Essai d'histoire sociale comparée, Seuil, Paris 2001, pp. 203-04.18 - Citato in Annette Becker, The Avant-Garde, Madness and the Great War, in “Journal of Contemporary History”, vol. 35, n.1, Sage Publications, London gennaio 2000, p. 81.19 - J. W. Burrow, The Crisis of Reason. European Thought 1848-1914, Yale University Press, New Haven CT 2000, p. 92.20 - Georg Simmel, Metropolis and Mental Life [1903], citato in Anthony Mc Elligott, The German Urban Experience, 1900-1945. Modernity and Crisis, Routledge, London 2001, p. 78.21 - Robert Musil, Politics in Austria [1912], in Precision and Soul: Essays and Addresses, a c. di Burton Pike e David S. Luft, University of Chicago Press, Chicago 1990 pp. 19-20.22 - Musil, Helpless Europe [1922], in Precision and Soul cit., p. 132.23 - Oswald Spengler, Il tramonto dell'occidente, Longanesi, Milano 1978, p. 3 [tit. orig. Untergang des Abendlandes, Beck, München 1918].24 - John Girling, Myths and Politics in Western Societies. Evaluating the Crisis of Modernity in the Unites States, Germany and Great Britain, Transaction Publishers, New Brunswick NJ 1993, p. IX.25 - “Soggetti alla legge dell'evoluzione, possiamo tanto progredire quanto degenerare”, Edwin Ray Lankester, Degeneration. A Chapter in Darwinism, Macmillan, London 1880, p. 60.26 - “Se da un lato febbre tifoidale, vaiolo, colera e difterite sono arretrate dinanzi ai rimedi applicati dalla scienza illuminata... dall'altra vediamo come insanità mentale, suicidio e delinquenza stiano aumentando rapidamente”, Enrico Ferri, citato in Daniel Pick, Volti della degenerazione, una sindrome europea 1848-1918, La Nuova Italia, Firenze 1999, p. 20.27 - Henry Maudsley, Organic to Human, Psychological and Sociological, Macmillan, London 1916, pp. 26, 236-37.28 - Pick, Volti della degenerazione cit., p. 307.29 - Thomas Hardy, Late Lyrics and Earlier, Macmillan, London 1922, p. XIV.30 - Eric Voegelin, The Collected Works of Eric Voegelin, v. 2: Race and State [tit. orig. Rasse und Staat, Mohr, Tübingen 1933], Louisiana State University Press, Baton Rouge LA 1997, p. 16.31 - L'espressione è di Gerhard Goehler, Constitution and Use of Power, in Power in Contemporary Politics. Theories, Practice, Globalization, a c. di Henry Goverde et al., Sage, London 2000, p. 50.32 - Stefan Berger et al., Writing National Histories. Western Europe since 1800, Routledge, London 1999, p. 11.33 - Sigmund Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, Bollati Boringhieri, Torino 1975 [tit. orig. Zeitgemasses über Krieg und Tod, lecture, Wien 1915, poi pubblicato da Internationaler Psychoanalytische Verlag, Leipzig 1924].34 - Thomas Mann, Pensieri di guerra [1914], in Gesammelte Werke in dreizhen Bänden, S.Fischer, Frankfurt am Main 1974 v. 13, p. 533.35 - Wilamowitz nach 50 Jahren, a c. di W. M. Calder et al., Wissenschaftliche Brichgesellschaft, Darmstadt 1985, p. 649.36 - Citato in Gli intellettuali e la Grande Guerra, a c. di Vincenzo Calì et al., il Mulino, Bologna 2000.37 - Stefan Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi un europeo, Edizioni del Prisma, Catania 1995, p. 270 [tit. orig. Die Welt von Gestern. Erinnerungen eines Europäens, Bermann-Fischer Verlag, Stockholm 1944].38 - Viktor Sklovskij, C'era una volta, il Saggiatore, Milano 1994, p. 181 [tit. orig. Zhili-Byli, SNKLU, Praha 1965].39 - Robert Lansing, The Peace Negotiations: a Personal Narrative, Houghton Mifflin, Boston 1921 p. 97.40 - John Maynard Keynes, A Short View of Russia, Hogarth Press, London 1925, pp. 12, 14.41 - Ivi, p. 24.42 - Ken Post, Communists and National Socialits. The Foundations of a Century, 1914-1939, St. Martin's Press, London 1997, p. 188.43 - The Collected Works of Eric Voegelin, vol. X, Published Essays 1940-1952, University of Missouri Press, Columbia CO 2000, pp. 54-55.44 - Cfr. Charles Maier, La rifondazione dell'Europa borghese. Francia, Germania, Italia nel decennio successivo alla prima guerra mondiale, il Mulino, Bologna 1999 [tit. orig. Recasting Bourgeois Europe: Stabilization in France, Germany and Italy in the Decade after World War I, Princeton University Press, Princeton NJ 1975].45 - L'esperienza “fondante” della guerra è raccontata nei diari di guerra, Ernst Jünger, Nelle tempeste d'acciaio, Guanda, Parma 1999 [tit. orig. In stahlgewittern, aus dem Tagebuch eines stosstruppführers, E.S. Mittler & Sohn, Berlin 1922].46 - Luigi Salvatorelli, Nazionalfascismo, Gobetti, Torino 1923.47 - Alberto De Bernardi, Una dittatura moderna. Il fascismo come problema storico, Bruno Mondadori, Milano 2001, p. 46.48 Mariuccia Salvati, L'inutile salotto. L'abitazione piccolo-borghese nell'Italia fascista, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 32.49 - Aristotle A. Kallis, Studying Inter-war Fascism in Epochal and Diachronic Terms: Ideological Production, Political Experience and the Quest for ``Consensus'', in “European History Quarterly”, v. 34, n. 1, gennaio 2004, p. 18.50 - Stefan Zweig, Il mondo di ieri cit., pp. 272-73.51 - Maksim Gor'kij, lettera a I. M. Kasatkin del 20 luglio-2 agosto 1914, in Letopis' Zhizni i Tvorchestva A.M. Gor'kogo, vol. 2: 1908-1916, Akademiia nauk SSSR Institut mirovoi literatury, Moskva 1958, p. 450.52 - Robert Musil, Helpless Europe [1922], in Precision and Soul cit., p. 117.53 - Eli Zaretsky, Secrets of the Soul. A Social and Cultural History of Psychoanalysis, Alfred A. Knopf, New York 2004, p. 141.54 - Women, Gender and Fascism in Europe 1919-1945, a c. di Kevin Passmore, Manchester University Press, Manchester 2003.55 - Il dibattito suscitato dal libro di Claudia Koontz (Mothers in the Fatherland: Women, the Family, and Nazi Politics, St. Martin's Press, New York 1987) si riferisce prevalentemente alle politiche di “regime”, qui appena sfiorate. L'uso femminile dell'idealizzazione nazista della maternità, cioè una pragmatica negoziazione che porta a raggiungere parzialmente alcuni obiettivi dei movimenti femminili prenazisti, si ritrova anche nel lavoro dedicato al fascismo da Vicky De Grazia (Le donne nel regime fascista, Marsilio, Venezia 1993); mentre maggiormente legata a un più tradizionale giudizio di patriarcato anti-femminile è Gisela Bock (Zwangssterilisation im Nationalsozialismus. Studien zur Rassenpolitik und Frauenpolitik, Westdeutscher Verlag, Opladen 1986); si veda anche Elisabeth Harvey, The Failure of Feminism? Young Women and the Bourgeois Feminist Movement in Weimar Germany 1918-1933, in “Central European History”, n. 28, University of California, Riverside CA 1995, pp. 1-28.56 - Women, Gender and Fascism in Europe 1919-1945 cit., p. 240.57 - Ivi, p. 241.58 - “Ma in verità, il tono rude con cui il Presidente del Consiglio ha iniziato il suo discorso ci richiama ad una realtà ancora più dura, cioè al fatto rivoluzionario che ha condotto il presente Governo al potere e alle condizioni rivoluzionarie dalle quali non siamo ancora del tutto usciti e che, per assegnare nettamente le responsabilità e per stabilire il giuoco delle forze agenti nella politica del paese, sarebbe opera vana e dannosa voler nascondere sotto le forme convenzionali e tradizionali del costume parlamentare. [...] Le ragioni dello sviluppo di questo rivolgimento istituzionale possono addebitarsi a vari fenomeni della guerra e del dopoguerra e anche alla crisi economica; ma in parte notevole, è vero, devono attribuirsi alla paralisi statale causata dall'eccessivo accentramento dei poteri negli organi centrali del parlamentarismo e della burocrazia, all'accumulamento di ogni potere legislativo nella Camera, alla atrofia del Senato e alla mancanza di organi periferici con la conseguente disintegrazione delle forze locali.59 - Detlev J. K. Peukert, La Repubblica di Weimar, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 288.60 - Ivi, p. 289.61 Cfr. The Rise of the Nazi Regime. Historical Reassessments, a c. di Charles S. Maier et al., Westview, London 1986.62 - David Abraham, The Collapse of Weimar, ivi, p. 3.63 - Bernd Weisbrod, The Crisis of Bourgeois Society in Interwar Germany, in Fascist Italy and Nazi Germany. Comparisons and Contrasts, a c. di Richard Bessel, Cambridge University Press, Cambridge 1995, p. 36.64 - George L. Mosse, Il fascismo. Verso una teoria generale, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 83.65 - Ivi, p. 86.66 - Spazzino, animale necrofago.67 - Aristotle A. Kallis, Studying Inter-War Fascism in Epochal and Diachronic Terms cit., p. 13.68 - Ivi, p. 26.69 Incapace in questo di seguire, anche i comunisti, l'insegnamento di Lenin.70 - Mosse, Il fascismo. Verso una teoria generale cit., p. 28.71 - International Fascism. Theories, Causes and the New Consensus, a c. di Roger Griffin, Arnold, London 1998, p. 14.72 - Mariuccia Salvati, Il regime e gli impiegati, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 6873 - Ivi, p. 77.74 - Aristotle A. Kallis, Fascist Ideology, Territory and Expansionism in Italy and Germany 1922-1945, Routledge, London 2000, p. 196.75 Michael Mann, Fascists, Cambridge University Press, Cambridge 2004, p. 365.