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Direttore: Vito D'Ambra - Direttore Responsabile: Federico Maria Giuliani
GIUDIZIO DI ABUSIVITA' NEL CODICE DI CONSUMO E OBBLIGO DELLE
DUE PARTI DI CORRISPONDERE LE PROVVIGIONI AL MEDIATORE
ANCHE IN CASO DI MANCATA CONCLUSIONE DELL’AFFARE
di Federico Maria Giuliani
Il giudizio di abusività delle clausole contrattuali trova la sua scaturigine storico-giuridica nel diritto europeo,
all’interno del quale nasce la consumer protection come strumento necessario alla realizzazione del mercato
interno (art. 169, Trattato di Roma del 25 marzo 1957, oggi TUEF, già art. 153 TCE). In attuazione di tali principi
transnazionali si pongono gli artt. 33 ss., d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (cod. cons.), i quali – come ivi consentito
apertis verbis – sono talora più rigorosi delle norme comunitarie nella stessa direzione di tutela. Da tali prescrizioni
emerge un giudizio di abusività contraddistinto anzitutto da un’antinomia subiettiva, la quale è anche un
presupposto di applicazione delle norme medesime, cioè a dire la contrapposizione fra “professionista” e
“consumatore”: seller or supplier da un lato e consumer dall’altro lato (art. 3 cod. cons. e art. 2, dir. Consiglio CE
93/13/EEC sugli “unfair terms in consumer contracts”). A detta antinomia è sottesa, in termini di ratio legis, la
sproporzione di forza, non economica ma tecnico-specialistica, del professionista verso il consumatore. Ciò vale se
non in un’accezione generale e assoluta, quanto meno considerando la professionalità di una parte e la posizione
consumeristica dell’altra parte, nella singola situazione contrattuale.
Su questi aspetti soggettivi si è sviluppato un filone di diritto pretorio piuttosto articolato, dal quale per esempio è
emerso che anche un professionista intellettuale può ben essere consumatore e non già professionista allorquando
stipula un contratto con un terzo imprenditore; e ciò non accade soltanto nel caso in cui l’oggetto del contratto esuli
dal campo di specializzazione del professionista stesso (un contratto concluso da un medico ad esempio), ma anche
nel caso in cui, pur coincidendo i due ambiti (contratto per un avvocato civilista), il professionista che conclude il
contratto non agisce – ragionevolmente al cospetto dell’interlocutore – nell’esercizio della sua professione.
Una volta soddisfatto il presupposto subiettivo, il giudizio di abusività va alla ricerca delle eventuali clausole
vessatorie, le quali sono espressione del suddetto scarto di potenza fra i due contraenti. Trattasi di quelle clausole
che sono contraddistinte da un “significativo squilibrio” sinallagmatico (art. 33, comma 1°, cod. cons.). Accanto a
una lista di clausole reputate abusive in via di presunzione legale semplice, giusta il capoverso dello stesso art. 33,
non sono mai vessatorie le clausole negoziate specificamente dalle parti nel singolo contratto (art. 34, comma 4,
ibidem); e, per diritto pretorio, il relativo onere della prova incombe sul professionista. Anche questa regola della
trattativa individuale ha le sue eccezioni legali, in presenza delle quali comunque le clausole sono in ogni caso
abusive (art. 36 cpv.).
Il giudizio di abusività della clausola, espressiva del notevole squilibrio, perviene ed attiene alla c.d. nullità di
protezione (art. 36, comma 3, cod. cons.), contraddistinta da talune peculiarità. Essa è azionabile soltanto dal
soggetto nel cui interesse è contemplata ex lege (il consumatore), oltre che rilevabile d’ufficio, in deroga all’art.
1421 c.c. Non solo, ma nel giudizio di abusività-nullità l’art. 36 comma 1°, laddove applica il principio di
conservazione di valori ed effetti giuridici, va ben oltre l’art. 1419, comma 1°, c.c., stabilendo che si procede
all’asportazione chirurgica della clausola nulla in ogni caso, e non soltanto allorquando in tal senso depone
l’orientamento volontaristico bilaterale.
Un interrogativo rilevante che si pone, all’interno del giudizio di abusività, è se la ponderazione dello squilibrio
significativo, nell’ottica dell’abuso di posizione di preminenza del professionista sul consumatore, debba arrestarsi
su di un piano strettamente sinallagmatico-giuridico ovvero possa anche penetrare in una valutazione
contenutistico-valutativa delle prestazioni dedotte pattiziamente nel contratto. Al riguardo, devesi ritenere che una
lettura economico-sostanzialistica dello squilibrio di cui all’ art. 33, comma 1°, non appare corretta (in generale) in
ragione dei seguenti argomenti. Anzitutto la lettera dello stesso comma in tal senso depone poiché essa fa esplicita
menzione del disequilibrio “di diritti ed obblighi”, sì come contrattualmente pattuiti, e non già dei relativi
corrispettivi e valori. Per parte sua poi l’art. 34 cpv., ancor più icasticamente, esclude che, ai fini del giudizio di
abusività-vessatorietà di una clausola, possa rilevare la “adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi”. Del
resto, anche nel più generale ambito di applicazione del principio di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. –
seppure letto nella sua più moderna accezione antiabuso alla ricerca dell’equilibrio contrattuale (similmente a
quanto accade nel rapporto tra supplier e consumer), vero si è che, da ultimo, è emersa in giurisprudenza qualche
sparuta punta di apertura verso la ricerca di un’equità di tipo economico oltre che meramente sinallagmatico-
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giuridico, ma è altresì vero che trattasi al momento di casi isolati i quali non possono assurgere a ius pretorium.
Se ora si prende in considerazione il caso del mediatore, il quale pattuisce con entrambe le parti una provvigione
anche nel caso di mancata conclusione dell’affare, la questione della validità di siffatte clausole, posta all’attenzione
dell’interprete, solleva in primo luogo l’interrogativo circa l’applicabilità o meno degli artt. 33 ss. cod. cons. a parte
subiecti. Il mediatore, che può essere un imprenditore individuale e collettivo – e in tale caso rientra nella
definizione di professionista di cui all’art. 3, lett. c), cod. cons. sub specie dell’attività imprenditoriale -, solleva un
dubbio sul proprio requisito di professionalità nella ipotesi in cui sia semplicemente una persona fisica. Al riguardo,
se nel negozio tipico di cui agli artt. 1754 ss. c.c. non si può a rigore divisare un’attività professionale riservata, le
cose mutano sol che si osservi la successiva evoluzione della legislazione speciale in subiecta materia. Ed invero,
ancorché quella del mediatore non sia col tempo assurta al novero delle professioni c.d. protette – ai cui
appartenenti si applica, sul piano della liability, l’art. 2236 su dolo e colpa grave -, essa è nondimeno diventata
un’attività riservatamente professionale, praticabile soltanto (da ultimo finanche in via discontinua od occasionale)
da chi abbia taluni requisiti di studio e abbia superato un apposito esame camerale e per l’effetto sia ivi iscritto in
appositi ruoli (d.p.r. 6 novembre 1960, n. 1926; legge 3 febbraio 1989, n. 39; d.m. 21 dicembre 1990, n. 452).
Non solo, ma lo svolgimento dell’attività in parola senza la predetta iscrizione costituisce violazione
amministrativa, la cui recidiva si converte in reato ( art. 8, l. n. 39/1989). Ed ancora, è lo stesso d.p.r. del 1960
poc’anzi menzionato a fare riferimento a quella del mediatore come a una “professione”, sebbene poi la legge del
1989 preferisca impiegare il sostantivo “attività”, e lo stesso faccia il relativo regolamento di attuazione del 1990
(ancorché il comma 5-bis dell’art. 3 di quest’ultimo, frutto di un inserimento postumo, torni a fare ricorso al
sostantivo “professione”). Fatto si è che, di tutto ciò avendo complessivamente contezza, sarebbe arduo
l’affermare oggi che il mediatore iscritto sia privo del requisito subiettivo di professionalità necessario per
l’applicazione degli artt. 33 ss. cod. cons., i quali – considerato anche (come si è detto) il loro promanare dal
“professional” di diritto europeo – non restringono la loro sfera di applicabilità alle professioni intellettuali protette.
Altra questione, che le clausole de quibus portano all’attenzione dell’interprete, è quella dell’abusività o meno del
corrispettivo pattuito per un’attività del mediatore, la quale per un verso risulta essere atipica per l’intermediario
in quanto tale e per altro verso appare essere - nel momento stesso in cui è resa a titolo oneroso verso entrambe
le parti - contraria a quel dogma d’indipendenza del mediatore (rispetto ad ambo i preponenti) che sta alla base
del contratto tipico di cui agli artt. 1754 e seguenti del codice civile.
Sul punto, vi è da chiedersi a monte se quivi sia davvero in esame una questione di significativo squilibrio, o non
piuttosto una più generale questione di nullità virtuale per contrasto con norme imperative. Ammettendo per ora
in thesi che sia legittimo, per un mediatore professionista, inserire una clausola bilaterale di provvigione estranea
alla conclusione dell’affare, una ipotesi di squilibrio potrebbe ad esempio divisarsi nella duplicazione della clausola
sul piano strettamente quantitativo del raddoppio della clausola stessa, nel senso che, attraverso la previsione di
un siffatto compenso a carico di entrambe le parti, una di queste – quale interessata alla nullità di protezione –
potrebbe tentare di dimostrare che tale duplicazione rende complessivamente eccessivo il corrispettivo conseguito
dal mediatore. Qui però, a parte ogni considerazione circa l’unicità o meno del contratto di mediazione, è
sufficiente richiamare quanto rilevato in precedenza circa il significato da attribuire, in ermeneutica, allo “squilibrio”
nel giudizio di vessatorietà delle clausole: assunto, cioè, che esso non può risolversi in una disamina economicoquantitativa di congruità di valore, sembra potersene dedurre che la validità delle clausole di doppia provvigione
extra-affare non può essere messa in discussione sotto quest’angolo.
Resta l’aspetto dell’anomalia rispetto all’indipendenza propria del mediatore. Se si dimostrasse una tale anomalia,
se ne potrebbe inferire o la nullità delle clausole in parola per nullità virtuale – e in questo caso per vero si sarebbe
al di fuori della disciplina speciale del giudizio di abusività, rientrando piuttosto nel raffronto con il contratto tipico
di mediazione -, oppure se potrebbe dedurre un’anomalia in certo qual modo più lieve la quale, pur non
assurgendo a contrasto con norme inderogabili quali in ipotesi l’art. 1754 c.c, potrebbe al più costituire mero indice
di prevaricazione in termini di clausola contrattuale da parte del mediatore ai danni del consumatore (sebbene, a
dire il vero, sia tutto da dimostrare l’assunto giusta il quale rappresenti un possibile indizio di vessatorietà la pur
marcata atipicità di una clausola pattizia rispetto al modello legale di un contratto).
Anche qui, però, la questione della bilateralità della clausola, cacciata dalla porta rientra in qualche modo dalla
finestra. Ed invero, proviamo ad assumere in thesi che, essendo imperativa ex art. 1754 c.c. la regola
dell’indipendenza del mediatore da ciascuna delle parti, non sia legittimo (anche a mezzo di clausole atipiche) che il
mediatore pattuisca in suo favore una provvigione per attività che prescindono dalla conclusione dell’affare, poiché
in tal guisa egli finisce con il diventare mandatario e per ciò collaboratore. A ben vedere il fatto che, come nel caso
di specie, una siffatta pattuizione non sia unilaterale, bensì bilaterale, non soltanto non nuoce ma, sul piano del
divieto di collaborazione, in termini di ratio legis in un certo senso finanche giova. Posto infatti che la ratio è quella
di evitare che il mediatore faccia preponderare l’interesse dell’una o dell’altra parte, il fatto che la provvigione
straordinaria sia dovuta da entrambe le parti in pari misura, parificando il vantaggio additivo elide il conflitto
stesso, riportando i preponenti in posizione di parità al cospetto dell’intermediario. Ciò non toglie, naturalmente,
che la lettera dell’art. 1754 sia inequivoca, laddove essa prescrive che il mediatore non debba essere legato “ad
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alcuna” delle parti “da rapporti di collaborazione”, ergo di para-subordinazione, e via dicendo.
Piuttosto, talune aperture non trascurabili sotto questo riguardo presenta, ancora una volta, la legislazione speciale
in materia di mediazione. Ché, infatti, l’art. 3, comma 1°, legge n. 39/1989 dispone che il mediatore iscritto è
abilitato a svolgere non soltanto l’attività di mediazione in senso stretto intesa, ma anche ogni attività
“complementare o necessaria” per la conclusione dell’affare, il che se poco rileva ai nostri fini sotto l’aspetto della
necessarietà, assume una qualche portata nella prospettiva della complementarietà, atteso che già sul coté
etimologico è complementare ciò che è riempitivo e dunque non indispensabile, così come risulta oggettivamente
essere quell’attività di ricerca di mercato e/o del contraente a prescindere dalla conclusione dell’affare, la quale
nelle clausole de quibus è pattiziamente pagata da ambo le parti al mediatore. Vi sono poi gli artt. 2 cpv., legge n.
39/1989 e 3, comma 1°, lett. d), d.m. n. 452/1990, i quali disegnano la possibile convivenza tra lo status di
mediatore professionista e quello di mandatario prestatore oneroso di servizi; ond’è che si profila, in capo
all’intermediario in parola, un’attività meno astratta e terza, rispetto a quella tradizionalmente attribuitagli sulla
scorta degli artt. 1754 ss. c.c.
Sì che è difficile oggi, quanto meno nel caso di un mediatore iscritto nei ruoli camerali, ipotizzare che un
corrispettivo bilateralmente pattuito per l’attività di ricerca di mercato e/o contropartita costituisca, in sé e per sé,
clausola nulla siccome contraria a norma imperativa sulla mediazione. Nel caso di mediatore non iscritto, invece,
se si afferma che la lettera dell’art. 1754 - in punto d’indipendenza del mediatore rispetto ad ambo le parti - deve
prevalere rispetto alla ratio, allora si può dubitare della legittimità di siffatte clausole sebbene bilaterali; ma non
sotto l’aspetto dell’abusività (ancorché passando attraverso una loro anomalia), giacché il mediatore non iscritto
non si qualifica come professionista ai fini della normativa consumeristica , quanto piuttosto sotto il profilo della
nullità virtuale. E ciò – mette conto di sottolinearlo – vale avendo piena contezza del fatto che, al di là del nomen
iuris utilizzato in via pattizia dal mediatore e dalle due parti, quella di cui alle clausole in oggetto non è,
giuridicamente, a ben vedere una provvigione, proprio perché essa prescinde dalla conclusione dell’affare, ma
costituisce piuttosto il corrispettivo di servizi accessori, resi dal mediatore e costituiti da ricerche di mercato et
similia: servizi che di per se stessi evocano piuttosto il mandato o l’atipico e che oggi possono reputarsi non più
incompatibili con il ruolo del mediatore iscritto, particolarmente se resi ad ambedue le parti senza prevalenza
dell’una sull’altra anche in termini di relativo corrispettivo.
Questa stessa qualificazione della clausola però, nel superare il nomen iuris in ossequio all’art. 1362 c.c.,
suggerisce qualche utile riflessione finale.
Si è già detto che, in effetto, la disciplina sull’abusività e sullo squilibrio delle clausole non consente, di regola,
interventi valutativi in ordine all’adeguatezza dei corrispettivi, e pertanto in punto di congruenza economica dei
valori pattuiti. Dal che si è dedotto che non vi è spazio per dedurre la eccessività della sedicente provvigione
doppia extra-affare. Pur tuttavia, se si osservano con attenzione le clausole di vessatorietà di cui all’art. 33 cpv.
cod. cons., ne vengono in considerazione un paio sulle quali mette conto di soffermarsi.
La prima disposizione è quella di cui alla lett. d), ai sensi della quale si presume abusiva fino a prova contraria la
previsione “di un impegno definitivo del consumatore [la sedicente provvigione] mentre l’esecuzione della
prestazione del professionista [la conclusione dell’affare] è subordinata ad una condizione il cui inadempimento [il
reperimento di un soggetto disponibile a concluderlo] dipende unicamente dalla sua volontà”. Qui per il vero, se
con la bilateralità della clausola intendiamo essere già avvenuto il reperimento di una idonea contropartita
contrattuale, allora va detto che, qualora non sussistano ostacoli oggettivi alla conclusione del contratto finale e vi
sia piuttosto da ritenere che semplicemente il mediatore nulla abbia fatto per addivenire a un tale esito, allora la
doppia clausola si risolve in una condizione risolutiva meramente potestativa, in favore del mediatore, con
contestuale previsione di una possibile sostanziale invarianza del corrispettivo dovuto dalle parti. Il che può essere
proprio il caso contemplato dalla norma testé riportata. Naturalmente, affinché di codesta invarianza possa
ragionevolmente parlarsi, occorre che il corrispettivo pattuito per i servizi accessori risulti essere di poco inferiore,
per ciascuna delle parti, alla piena provvigione prevista in caso di conclusione dell’affare.
Altra prescrizione, che si pone all’attenzione dell’interprete, è quella di cui alla lett. f) dello stesso art. 33 cpv. cod.
cons., laddove è statuito che si presumono vessatorie le clausole che impongono al consumatore il pagamento di
somme a titolo di penale od equivalente, o comunque a titolo di risarcimento in caso d’inadempimento, in un
importo manifestamente eccessivo. Questo è, senza dubbio, uno squarcio di valutazione di ordine quantitativo, che
potrebbe assumere rilevanza in presenza di doppie clausole quali quelle in discorso, a favore del mediatore, nella
ipotesi in cui l’intermediario imputi a una delle parti il fatto che l’affare sia sfumato nel nulla, pretendendo per ciò
l’applicazione delle clausole de quibus, giusta le quali gli sono dovute le sedicenti provvigioni straordinarie. Nella
ulteriore evenienza in cu la parte interessata dimostri – di nuovo – la eccessività quantitativa del quantum ivi
previsto, poiché per esempio esso quasi eguaglia l’importo contemplato ex contractu per la piena provvigione
dell’affare concluso, allora si può configurare l’abuso ai danni del consumatore da parte del mediatore
professionista, e dunque si può affermare la presunzione di vessatorietà ex art. 33 cod. cons., poiché si profila una
riconducibilità di tali clausole all’art. 1382 c.c. Ond’è che parimenti, se il mediatore viceversa non è iscritto, e a lui
non s’applica allora il codice di consumo per mancanza del requisito soggettivo dal lato dell’intermediario, non si
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può ragionare in termini di nullità di protezione delle clausole in parola, bensì di mera ipotesi di riduzione del
relativo ammontare, poiché in questo senso dispone l’art. 1384 c.c. a differenza degli art. 33 ss. cod. cons.
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