Requiem per la scuola? - Norberto Bottani Website

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Requiem per la scuola? Spunti di riflessione sul futuro
dei sistemi scolastici statali
Norberto Bottani
Lo stato delle cose
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Il sistema scolastico è un impianto assai complesso che comprende,
come qualsiasi costruzione, diversi elementi. Non lo si può ridurre al
servizio statale di istruzione, che è solo una componente del sistema scolastico anche laddove la scuola statale occupa una posizione
monopolistica che impedisce all’iniziativa privata di affermarsi nel
settore dell’istruzione. La scuola statale è, del resto, una novità storica assai recente, anzi è forse l’ultima arrivata e non è detto che sia
la più riuscita, tanto che ci si può chiedere fin quando durerà. L’apparato scolastico statale, nonostante il fatto che sia l’ultimo elemento
del puzzle, è cresciuto a seguito di vicende che nulla hanno a che
fare con l’eccellenza delle prestazioni, che gli altri servizi scolastici
o i servizi scolastici che l’avevano preceduto non possedevano. La
sua abilità è stata piuttosto quella di fare il vuoto attorno a sé, di rendersi indispensabile, di apparire come un elemento fondamentale
senza il quale le società industriali e le nazioni non avrebbero potuto
sopravvivere e svilupparsi.
I promotori e i fautori del servizio statale di istruzione sono stati abilissimi quando hanno disegnato e pilotato la costruzione di questo
servizio, che ha monopolizzato l’istruzione e la formazione in moltissime società, che è addirittura diventato un modello da copiare, un
esempio da imitare nonostante i limiti, i difetti, le carenze, le insufficienze che lo caratterizzano.
Non c’è dubbio che l’apparato scolastico statale disponga di competenze e risorse sufficienti per riprodursi, espandersi, crescere,
difendersi con una consumata abilità contro tutti i tentativi e contro
tutte le tendenze che ne vorrebbero modificare l’impianto. La scuola
statale sembra inattaccabile, è capace di annullare e distruggere tut-
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te le proposte che mirano a modificarla. In altri termini è un sistema
auto-poietico.
La posizione di monopolio che la scuola di Stato occupa in Italia è
di per sé un motivo sufficiente per esaminarla a fondo, senza identificarla con il sistema scolastico pubblico, benché nel discorso comune “pubblico” sia inteso come sinonimo di “statale”. Sarebbe interessante chiedersi come mai in Italia il servizio statale sia cresciuto
in modo anomalo fino al punto da diventare pressoché indistruttibile,
anche se abbiamo da tempo informazioni sulla sua scarsa efficacia,
sui modesti risultati che consegue, sulla relazione tra risorse finanziarie stanziate per tenerlo in vita (non molte in realtà) e prestazioni conseguite. Le risorse umane investite in questo servizio sono
invece enormi, anche se i dati in merito sono imprecisi, perché le
statistiche sull’istruzione sono pressoché medioevali e non servono a capire gli investimenti umani che il servizio statale d’istruzione
esige, sfrutta, consuma per stare in piedi. Pertanto questo aspetto di
cui solo si può parlare con cognizione di causa, ossia con dati incontestabili, sfugge all’analisi, e si finisce con il parlarne con chiacchiere
o tirate settarie e dottrinali.
Uno degli argomenti principali per giustificare la creazione del servizio scolastico statale nel corso dell’Ottocento fu la giustizia sociale.
A parte le considerazioni economiche connesse alla rivoluzione industriale, alla riorganizzazione del lavoro, si stimò che fosse altamente ingiusto riservare l’istruzione soltanto a coloro che potevano
pagarla, ovverossia ai figli dei ceti benestanti che erano in grado di
retribuire un precettore particolare o di inviare i figli in istituti scolastici di eccellenza pagandone le rette. Probabilmente, ma questa è
una questione che soltanto gli storici possono dirimere, fu questo
l’argomento che convinse una parte della classe operaia ad accettare il servizio scolastico statale che avrebbe dovuto essere unico
e uguale per tutti, indipendentemente dalle condizioni sociali degli
studenti. Non si deve scordare che una parte importante delle classi
povere non era affatto favorevole alla creazione di un servizio statale
di istruzione obbligatorio e che questo servizio fu agli inizi, nell’Ottocento e in taluni casi anche nei primi decenni del Novecento, boicottato da questa parte della popolazione.
Ovviamente, la scuola obbligatoria per tutti non è nata da un giorno
all’altro, ma ha alle spalle una storia che risale fino al Seicento. In
ogni modo, la generalizzazione del servizio scolastico statale non è
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stata accolta con entusiasmo dalla maggioranza della popolazione;
ci sono voluti quasi cento anni per far sì che cinque anni di scuola
primaria non solo diventassero obbligatori, ma fossero frequentati
dalla totalità di una generazione. Occorre anche dire che questo fenomeno non si è svolto con la stessa velocità in tutte le comunità:
in talune situazioni, la generalizzazione dell’istruzione di base era
già un fatto compiuto a metà dell’Ottocento; in altre situazioni, come
per esempio nell’Italia meridionale, la scuola obbligatoria di base,
statale, di cinque anni è diventata la regola soltanto poco dopo la
fine della Seconda guerra mondiale.
Se la prima parte del secolo scorso è stata caratterizzata dall’estensione su tutto il territorio di una nazione della scuola primaria, la
scuola media universale più o meno unica si realizzò nella seconda
parte del XX secolo e il servizio scolastico statale fu prolungato fino
ai 13, ai 14 e infine ai 15 anni. Anche in questo caso occorre precisare che il prolungamento dell’istruzione scolastica statale era già
iniziato ben prima della Seconda guerra mondiale, che probabilmente ne ha interrotto l’espansione.
Infine, a partire dalla fine del Novecento, l’espansione del servizio
scolastico statale è avvenuta in due direzioni: l’anticipazione del servizio scolastico statale, fenomeno tuttora in corso con la diffusione
delle scuole per l’infanzia e l’anticipazione dell’obbligo scolastico a 4
anni (si veda per esempio Ginevra) e il prolungamento della formazione superiore o formazione terziaria. In taluni Paesi l’età media della
laurea è già ora sui trent’anni. Questa crescita è diventata autoreferenziale: il sistema scolastico statale è ormai in grado di espandersi
in base a giustificazioni che poco hanno a che fare con la giustizia
sociale e l’uguaglianza di fronte all’istruzione, spesso sbandierati dei
responsabili politici per ottenere il sostegno necessario, mentre non è
riuscito a offrire a tutti gli alunni e studenti una qualificazione rispettabile e, perché no, analoga dal punto di vista scolastico.
In tutti i servizi scolastici statali, anche in quelli con le migliori prestazioni sulla base delle valutazioni fatte e dei confronti che si sono
potuti effettuare grazie alle indagini internazionali comparate, si
constata un divario tra scuole e soprattutto tra studenti. In un certo
senso non stupisce che ci siano differenze considerevoli di comportamento, di abilità manuali, di conoscenze, di comportamenti tra
bambini dei ceti benestanti e quelli dei ceti sociali meno abbienti,
ma il servizio scolastico statale non riesce, nonostante le promesse,
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nonostante le risorse, né a ridurre la varianza tra ragazzi provenienti
da ceti sociali diversi né a promuovere gli allievi meritevoli che provengono dalle classi sociali disagiate.
È comprensibile, del resto, che ogni comunità si preoccupi di produrre
e di promuovere una propria élite, ossia una propria classe dirigente, ricercatori di grandi qualità, tecnici competenti. La selezione è inevitabile,
ma deve essere giusta ed è questa la promessa che fu fatta quando si
impose il servizio scolastico statale. Questa promessa è andata delusa.
Ci sono ormai indagini a iosa che dimostrano che le élite di una società
provengono quasi esclusivamente dalle stesse classi sociali, che l’eredità sociale e familiare non è stata per nulla ridotta dall’istruzione statale, che le classi sociali dominanti monopolizzano i titoli scolastici più
prestigiosi e si riproducono generazione dopo generazione. Il servizio
scolastico statale non è equo, e non è stato capace di permettere ai figli
dei ceti sociali meno abbienti di accedere alle posizioni più prestigiose grazie alla formazione e all’istruzione. L’ascesa sociale è stata resa
possibile, laddove è avvenuta, più dal progresso economico che non da
quello scolastico. La selezione scolastica permane nonostante l’espansione della scolarità; le discriminazioni sociali di fronte all’istruzione non
sono scomparse, e quando accade che ci siano esiti fortunati, si tratta di
un’eccezione e non della regola: il successo di casi singoli è imputabile
a doni specifici più che ai meriti della scuola.
Le indagini internazionali spesso concludono che la presenza di servizi scolastici statali eccellenti, nei quali la varianza tra studenti e tra
scuole è ridotta, dimostrerebbe la possibilità che anche in sistemi centralizzati si realizzino politiche scolastiche più eque di quelle attuali. Si afferma anche che la presenza nei livelli di istruzione avanzati
e la riuscita negli studi più qualificati di studenti provenienti da ceti
sociali poco abbienti è prova del successo della lotta contro la disuguaglianza e delle politiche scolastiche per un servizio equo e giusto,
ma queste narrazioni, per quanto consolanti possano essere, sono
episodiche: non si fa la ricostruzione dettagliata delle procedure che
hanno reso possibile il successo e non si contano tutti coloro che sono
scartati, che si perdono per strada.
L’alto numero di giovani tra i 15 e i 19 anni che sono senza formazione, senza un diploma, che non lavorano, che non cercano nemmeno
un lavoro è la dimostrazione che qualcosa non funziona. La generalizzazione dei pochi casi di successo nasce dalla speranza che qualche
ritocco al servizio scolastico basterebbe a renderlo più giusto.
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Piste di riflessione per rendere maggiormente equo il
sistema scolastico
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Una prima pista sarebbe quella di rendere veramente sperimentali e
innovative le scuole private esistenti in una situazione di quasi monopolio statale dell’istruzione. Si pensi per esempio alle scuole Steiner.
In questo caso lo Stato potrebbe versare contributi a queste scuole
sperimentali secondo una chiave di ripartizione dei fondi da definire.
Ovviamente le scuole private sperimentali dovrebbero accettare di essere controllate per verificare il loro grado d’innovazione.
Una seconda pista potrebbe essere quella di premiare le scuole
private che innovano in presenza di un numero elevato di studenti
provenienti da situazioni di difficoltà. Queste scuole che combinano
sperimentazione e accoglienza dovrebbero ricevere dei finanziamenti. Anche in questo caso il sussidio da versare è condizionato a un’ispezione che verifica la percentuale della presenza di alunni poveri
nella scuola.
Una terza pista, più complessa, potrebbe consistere nel premiare le
scuole private che cercano di realizzare una popolazione scolastica
equilibrata dal punto di vista della composizione sociale. Non solo
alunni poveri e neppure una maggioranza di alunni provenienti da famiglie benestanti. Anche in questo caso ci vorrebbe un’ispezione di
verifica. Non ci si può infatti fidare dei dati forniti dalle scuole.
Solo le scuole private davvero sperimentali potrebbero essere sussidiate in una situazione di quasi monopolio statale dell’istruzione. I
criteri per l’aggiudicazione dei fondi vanno discussi e fissati con regolamenti o decreti o leggi apposite.
Mi fermerei a queste condizioni che ritengo fondamentali.
Scenari per il futuro1
Nella conferenza dei ministri dell’educazione dei Paesi membri
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Una versione precedente della descrizione degli scenari proposti dall’OCSE
è stata approntata per un progetto della Fondazione Agnelli in un contributo
intitolato Da una politica scolastica senza ricerca scientifica ad una ricerca
pedagogica senza futuro. Il testo integrale si trova inhttp://www.oxydiane.
net/archivio-archives/textes-2009/article/il-difficile-rapporto-tra-politica. Il
progetto “scenari” ha generato una massa di documenti che sono in parte
a disposizione nel sito dell’OCSE (www.oecd.org). Il progetto Schooling
of Tomorrow ha prodotto anche una serie di pubblicazioni tra le quali il
volume finale: OECD/OCDE/OCSE (2006): Repenser l’enseignement.
Des scénarios pour agir, OECD, Paris.
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dell’OCSE svoltasi a Parigi nella primavera del 1996 sul tema “L’educazione e la formazione lungo tutto l’arco della vita per tutti”, si
decise di invitare il segretariato dell’OCSE a “valutare quali avrebbero potuto essere le implicazioni di diverse rappresentazioni della
scuola del futuro”. Nessun ministro presente ha messo in discussione il ruolo della scuola (in questo caso della formazione iniziale) nel
ventaglio delle ipotesi di formazione continua lungo tutta l’esistenza. Nessun dissenso è stato espresso su questo punto. Per tutti,
la scuola sarebbe rimasta il perno dell’educazione permanente, ma
a quale scuola alludevano? Non certamente a quella che i ministri
dovevano governare e pilotare quotidianamente. Anche su questo
punto il consenso era generale: per sostenere la sfida dell’educazione per tutti lungo tutto l’arco della vita occorreva cambiare la scuola,
ma nessuno era in grado in quel momento di dire quale sarebbe
stata la configurazione scolastica ideale2.
Nel campo dell’educazione gli studi prospettici scarseggiano e
manca pertanto la metodologia per padroneggiare la complessità
dei problemi scolastici ed elaborare teorie dello sviluppo dei sistemi
scolastici e soprattutto del servizio statale. Per realizzare il mandato
ricevuto dai ministri, l’OCSE lanciò allora un mega-progetto di indagine sulla scuola del futuro intitolato appunto “Schooling of Tomorrow” che costituisce ancora oggi, per l’ampiezza delle riflessioni e
dei temi trattati, un punto di riferimento. In uno dei volumi della serie
del progetto (OCSE, 2006), l’OCSE ammette che i sistemi scolastici continuano a essere in larga parte guidati da preoccupazioni
a breve termine, dettate dall’esigenza di risolvere problemi urgenti
o più semplicemente dalla volontà di mantenere lo status quo con
più efficacia. Poiché la riflessione sul lungo termine è carente, diventa difficile per le autorità scolastiche e gli attori della scuola far
fronte alle sfide della giustizia sociale. Nelle contingenze attuali, tutti
gli attori del sistema scolastico dovrebbero invece essere in grado
di guardare oltre gli orizzonti immediati, evitare di essere asfissiati
dalle contingenze e trovare il tempo per proiettarsi nel futuro per elaborare una visione ad ampio raggio dell’evoluzione della scuola. Gli
scenari della riflessione prospettica possono stimolare non soltanto
lo studio dei cambiamenti in corso, ma anche la creatività della po2
Anche nel corso degli anni Settanta si era già affrontata questa questione
e, per alcuni anni, si era approfondito il tema dell’educazione ricorrente,
ma non se ne è fatto nulla.
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litica, e aiutano a capire meglio gli obiettivi verso i quali tendere e le
soluzioni per arrivarci nonché le situazioni che vorremmo evitare. La
riflessione prospettica facilita il dialogo strategico tra i diversi attori,
quali che siano le loro idee, e gli scenari servono per prepararsi al
futuro e non per prevederlo, ammettendo che si possa ancora ipotizzare un futuro migliore (Taguieff, 2000).
Esistono numerose definizioni di “scenario”. Uno degli esperti consultati dall’OCSE asserisce che “gli scenari sono descrizioni logiche
e coerenti di situazioni future ipotetiche che riflettono punti di vista
differenti su evoluzioni trascorse, presenti e future e che possono
servire come fondamento per l’azione” (Van Notten, 2006). Gli scenari sono una delle componenti di una procedura prospettica che ha
lo scopo di aprire nuovi orizzonti, di precisare il pensiero e di chiarire
la riflessione strategica.
L’OCSE ha prefigurato sei scenari della scuola del futuro e li ha
raggruppati in tre categorie – due descritte come “il tentativo di
mantenere lo status quo”, due come “ri-scolarizzazione” o rilancio
della scuola, e due come “de-scolarizzazione”. Questi scenari non
rappresentano configurazioni che potrebbero emergere in forma
pura, ma sono proiezioni, sviluppi possibili, elaborati partendo dalle
conoscenze che siamo in grado di manipolare. Per ora è impossibile prevedere quale scenario tra i sei proposti potrebbe imporsi.
Probabilmente nessuno, oppure uno scenario ibrido. L’OCSE scarta quelli della de-scolarizzazione, ma gli argomenti che giustificano
una simile opzione non sono convincenti e paiono ovviamente falsati
dallo statuto dell’organizzazione intergovernativa che non può fare
a meno di difendere il punto di vista degli Stati e della burocrazia
scolastica. Qui la politica ci mette lo zampino.
Negli scenari dello status quo, i sistemi scolastici esistenti mantengono anche in futuro le loro principali caratteristiche, o per scelta
pubblica o per incapacità di realizzare cambiamenti sostanziali. Si
distinguono due casi: scenario 1a e 1b.
Lo scenario 1a è il più conservatore. Prospetta il mantenimento di
una burocrazia scolastica forte e si suppone che l’impianto attuale
della scuola sia sano e in grado di riprodursi e perpetuarsi ancora a
lungo. La scomparsa della scuola secondo questo scenario sarebbe
del tutto impensabile.
Nello scenario 1b si inserisce una variante che esprime un dubbio
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sulle capacità dei sistemi scolastici attuali di riprodursi tali e quali, non tanto per un difetto congenito ma per fattori esogeni come
l’irruzione delle nuove tecnologie dell’informazione che hanno la
potenzialità di perturbare i meccanismi di trasmissione e acquisizione delle conoscenze scolastiche, oppure la penuria di insegnanti.
Occorre qui rilevare che, da quanto si osserva sul terreno, i servizi
scolastici sono in grado di addomesticare le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, di svuotarle delle loro potenzialità. Se, d’altra parte, queste tecnologie si impiantassero solidamente
nel servizio scolastico statale, risultato che sembra per il momento
assai improbabile, esiste il rischio di un’accentuata disuguaglianza e
non quello di una maggiore equità di fronte all’istruzione.
I servizi scolastici sembrano in grado di continuare a gestire il meccanismo di selezione governato dall’eredità della ricchezza e dallo statuto sociale. Per neutralizzare questo rischio lo scenario 1b prevede di
rivitalizzare i sistemi scolastici con riforme radicali miranti a ristabilire
la fiducia della popolazione nella scuola e a combattere l’insoddisfazione generale nei confronti dei risultati conseguiti da servizi scolastici
uniformi, retti da moduli di finanziamento rigidi, insensibili ai meriti e
ai demeriti del personale della scuola. A questo scopo, lo scenario
scommette sull’applicazione al servizio statale d’istruzione delle leggi
che governano il mercato, per introdurre incentivi e premi al merito e
alla qualità, nonché moduli più efficienti di quelli praticati finora, ma
esistono già molte prove che si tratti di una politica fallimentare.
I due scenari detti della “ri-scolarizzazione” o rilancio della scuola
rappresentano una svolta rispetto alla filosofia scolastica che ispira
gli scenari precedenti, poiché propongono da un lato di sacrificare la funzione conoscitiva della scuola per valorizzare quella di socializzazione (scenario 2a) e dall’altro di rinunciare definitivamente
all’impianto pedagogico-didattico della tradizione scolastica, di relativizzare il peso dei programmi e di riequilibrare il binomio apprendimento-insegnamento (scenario 2b).
La dialettica “apprendimento-insegnamento” è uno dei problemi nodali della pedagogia contemporanea. Il problema da risolvere consiste nel chiarire come l’insegnamento possa contribuire all’apprendimento, ossia alla costruzione della conoscenza. Questo processo
è stato studiato da Piaget e dalla scuola costruttivista nel corso del
ventesimo secolo. Secondo i costruttivisti la conoscenza è una co-
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struzione e non nasce né dalla maturazione biologica né dalle sole
esperienze empiriche. L’apprendimento è il risultato di attività strutturate dei soggetti, nelle quali un posto rilevante è occupato dalla
costruzione delle strutture logiche. Queste scoperte fondamentali
stanno lentamente penetrando nella scuola e mettono in crisi le opinioni di coloro che ritengono che non si possa puntare tutto sull’insegnamento.
Lo scenario 2b, detto delle “Scuole come organizzazioni d’apprendimento”, recupera la funzione conoscitiva della scuola, ne ristabilisce la centralità, ma nella prospettiva delle conquiste delle ricerche
cognitive sullo sviluppo della mente svolte nel corso del XX secolo
e non più secondo gli stereotipi dell’insegnamento sedimentati nella
scuola nel corso di tutta l’epoca moderna (Gardner, 1987), sollecitando le attività conoscitive dell’allievo e rifiutandone la passività e
la subordinazione. Questo scenario implica un ribaltamento totale
della rappresentazione del prototipo del buon allievo: le scuole si
rivitalizzano intorno a un’agenda che pone al centro una cultura di
qualità degli apprendimenti, lo sviluppo delle competenze in senso
lato, come la capacità di risolvere problemi inediti oppure quella di
difendere e far valere le proprie opinioni in un gruppo di lavoro. Lo
sviluppo delle competenze artistiche e delle capacità espressive è
valorizzato appieno, perché non si possono sviluppare competenze
complesse trascurando la creatività dei linguaggi e le potenzialità
espressive dei soggetti. Le scuole devono trasformarsi per diventare
“organizzazioni d’apprendimento o organizzazioni che apprendono”,
ossia luoghi polivalenti nei quali esistono le condizioni favorevoli per
innestare, avviare e sostenere percorsi d’apprendimento individuali
e collettivi, nei quali si possono costituire gruppi a geometria variabile per la realizzazione di progetti artistici, per lo svolgimento di ricerche e sperimentazioni e dove si incontrano gli esperti che aiutano sia
a districarsi con i problemi tecnologici, sia con gli ostacoli procedurali
nell’acquisizione degli apprendimenti fondamentali. Va da sé che il
profilo professionale di questi esperti sarà alquanto diverso da quello
degli insegnanti in servizio oggigiorno.
I due ultimi scenari della “de-scolarizzazione” hanno in comune la
prospettiva dello smantellamento o della chiusura degli attuali servizi
scolastici e la loro sostituzione con modelli di istruzione non istituzionali, non burocratici. Anziché concentrarsi sul miglioramento dei servizi esistenti come le due ipotesi dello scenario 2, gli scenari 3a e 3b
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descrivono una società priva di sistemi scolastici, cioè del modello
di scolarizzazione costituitosi progressivamente nell’epoca moderna
fino a invadere e controllare pressoché tutti gli spazi di trasmissione
della conoscenza. Non si annuncia qui la morte della scuola ma la
fine dei sistemi scolastici. Gli autori antesignani di queste prospettive
sono da un lato Ivan Illich, che nel 1971 ha pubblicato un opuscolo
che suscitò grande scalpore perché proponeva di descolarizzare la
società (Illich, 1971) e Manuel Castells, sociologo catalano, specialista di fama mondiale delle ricerche sulla società dell’informazione
e delle comunicazioni, che ha prodotto nel 2000 una trilogia nella
quale si teorizza e analizza la costituzione e lo sviluppo delle società
in rete (Castells, 2002).
Entrambe le ipotesi delineate in questo terzo scenario non nascono
dal nulla, ma hanno una storia alle spalle, ragione per la quale possono essere considerate plausibili. Esse partono dal presupposto
che si possa imparare anche fuori dalla scuola, che non tutto quanto
si impara a scuola è importante, mentre invece ci sono apprendimenti fondamentali che si fanno senza la scuola. Si può fare dunque
a meno della scuola come istituzione. Il punto estremo di questo impianto teorico è difeso dai fautori dell’auto-apprendimento, come Sugata Mitra. Inoltre, si ritiene che si impari meglio quando ci si riappropri delle modalità d’apprendimento, impostando, si potrebbe dire, un
curricolo a propria immagine e somiglianza. Le nuove tecnologie che
costituiscono il nucleo delle società dell’informazione consentono di
prospettare in termini realistici queste ipotesi. Lo smantellamento del
servizio scolastico statale e anche, in gran parte, di quello privato se
ricalca quello statale, non sarà un’operazione semplice ma è una
tappa da affrontare se si mira a tentare di costruire un sistema d’istruzione – statale e privato – equo, efficace e socialmente giusto.
Lo scenario 3a, detto “Reti d’apprendimento e società di reti”, deriva dallo sviluppo e dalla generalizzazione delle reti di apprendimento (per esempio i “cloud” o “nuvole”) ed è strutturato in funzione
dell’estensione progressiva del modello di società di reti. In un certo
senso questo è lo scenario più avveniristico e forse più probabile,
nonostante le riserve che l’OCSE formula a questo riguardo fin quasi
a escludere qualsiasi possibilità di riuscita.
L’OCSE mette in evidenza numerosi difetti di questo scenario: la
scomparsa della funzione di socializzazione (ignorando le straordinarie potenzialità di socializzazione del mondo virtuale e delle intera-
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zioni cibernetiche), il peggioramento delle ingiustizie educative per i
gruppi sociali più deboli sia dal punto di vista del capitale sociale che
da quello finanziario, addirittura un rischio di regressione agli albori
dell’epoca industriale. La critica ignora la ricchezza che potrebbe
derivare dalla fluidità maggiore offerta dalla possibilità di passare da
una rete all’altra, dalle opportunità di frequentare liberamente gruppi d’apprendimento con livelli di competenza diversi, un fattore che
nelle poche indagini scientifiche svolte su questo argomento sembra
essere assai efficace ma che la società socialmente stratificata e
divisa in gruppi di potere contesta e non vuole considerare, il che
rende le riforme scolastiche nel senso dell’equità sociale di fatto
quasi impossibili.
L’ultimo scenario (3b) è il più catastrofico, poiché annuncia la scomparsa dei sistemi scolastici che crollerebbero come un fragile edificio
sotto gli effetti di una potente scossa tellurica. L’OCSE usa a questo
proposito il termine di disintegrazione del sistema. La catastrofe vedrebbe innanzitutto la scomparsa degli insegnanti, la fine del mondo
dei professori e delle professoresse, fine più immaginaria che reale
perché i ceti ricchi e forse anche quelli poveri esiteranno a fare a
meno dei precettori. La penuria di insegnanti potrebbe aggravarsi
al punto da determinare una fortissima crisi di reclutamento tale da
impedire il funzionamento del modello scolastico attuale, in cui già
ora (Bottani, 1994) scarseggiano le persone competenti attratte dalla professione di insegnante (con i suoi pregi, come per esempio la
possibilità di disporre di molto tempo oppure di lavorare con bambini
o con giovani, e con i suoi difetti, come i bassi livelli degli stipendi in
confronto ad altre professioni, o lo scarso prestigio sociale e l’esiguità delle possibilità di carriera). La scomparsa degli insegnanti non è
un’ipotesi del tutto improbabile, specialmente in certe discipline, sia
nell’insegnamento primario che in quello secondario. Se la penuria
si generalizzasse, l’OCSE prevede due possibili reazioni: da un lato,
una regressione pronunciata delle pratiche pedagogiche con il ritorno in forze di metodi tradizionali per salvare il modello scolastico, applicati in classi numerose; dall’altro, la sostituzione degli insegnanti
mancanti con il ricorso alle nuove tecnologie dell’informazione e
della comunicazione (TIC), innestando in questo modo i meccanismi che sfocerebbero nello scenario 3a (“Reti d’apprendimento e
società di reti”) oppure in una delle due opzioni dello scenario 2 (“Riscolarizzazione”).
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Un’istruzione senza scolarizzazione
In linea di massima, sembra giunto il tempo di chiedersi se un’istruzione senza scolarizzazione è possibile ed è anzi auspicabile, dopo
avere costatato i difetti della scuola statale esistente, che sembrerebbero imporre un cambiamento non facile da attuare, perché le
resistenze e le paure sono enormi. Ormai troppe persone dipendono
per la loro esistenza da questo sistema e per lo più non intendono
cambiare, non vedono la necessità del cambiamento oppure sono
disposte a subire anche un degrado rilevante delle professioni esercitate in cambio della certezza di una continuità del proprio lavoro.
L’istruzione senza la scolarizzazione è una delle prospettive descritte
in un rapporto commissionato del National College for School Leadership, l’istituto universitario inglese per la formazione dei dirigenti
scolastici. Gli autori, Riel Miller e Tom Bentley (Miller, Bentley, 2003),
due notissimi futurologi dell’istruzione, sostengono che fra trent’anni il
sistema scolastico statale dovrà rinunciare a una gran parte delle funzioni che ha fin qui esercitato e dovrà limitarsi a essere un “consulente
per l’apprendimento” (learning broker, in inglese). Miller e Bentley ritengono dunque che sia necessario preparare a questo trauma i futuri
dirigenti scolastici. In questo scenario di scolarizzazione senza scuole
(o d’apprendimento senza scuola), le scuole non avranno più la responsabilità diretta dell’istruzione dei giovani ma dovranno controllare
e valutare l’apprendimento che si svolgerà in altri enti od organismi
comunitari.
La scuola deve cambiare di ruolo, definire una nuova missione, che
potrebbe anche configurarsi come una sfida alla capacità di preparare i cittadini e le élite del domani. In questa prospettiva, i sistemi
scolastici dovranno rinunciare allo sforzo di realizzare l’uguaglianza
delle opportunità educative per tutti, elaborando il lutto per l’abbandono di uno degli obiettivi principali delle riforme scolastiche negli
ultimi cinquant’anni. Altre preoccupazioni stanno già dominando il
panorama scolastico, per esempio la competizione tra scuole che
diventerà sempre più sfrenata, o le controversie sui metodi di valutazione e selezione.
Finora il dibattito scolastico è imperniato prevalentemente sul problema della definizione degli standard da conseguire e sulle modalità di miglioramento. Questo dibattito è il frutto di una visione ristretta
della scuola perché si concentra su prospettive a breve, ignorando
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i problemi a lungo termine posti dal destino della scolarizzazione,
che non sono certamente i problemi di standard. Fin quando ci si
concentrerà su questioni tipiche di un’epoca ormai superata, sarà
impossibile sviluppare un sistema scolastico pronto ad affrontare le
sfide di domani.
Nell’epoca industriale, il ruolo fondamentale della scuola è stato
quello di educare alla disciplina, di impartire ai ragazzi le abilità di
base richieste dal lavoro e – cosa estremamente importante – di occuparli mentre i genitori erano al lavoro. Miller e Bentley identificano
cinque funzioni centrali che le scuole hanno ereditato dal periodo
industriale: funzione di custodia, insegnamento di corretti comportamenti, funzione cognitiva, funzione di selezione e funzione di socializzazione. È necessario capire se nell’era postmoderna le scuole
dovranno continuare a svolgere tutte queste funzioni, o solo alcune,
e se quelle che rimarranno saranno svolte come in passato.
La società industriale è stata caratterizzata dalla produzione di massa, ossia dalla riproduzione massiccia di beni a basso costo ma ad
alto valore di profitto perché uniformi. Il prototipo di questa organizzazione è stata l’automobile Ford T che Henry Ford avrebbe voluto
solo di color nero. La società postmoderna è invece contraddistinta
da produzioni uniche, su misura, e il suo prodotto tipico potrebbe
essere l’orologio Swatch con le sue mille personalizzazioni. In un’epoca di creazioni uniche, il consumatore diventa co-produttore, nel
senso che chiede merci e servizi progettati sulle proprie specifiche
esigenze.
La transizione dalla produzione di massa alle creazioni uniche comporta non solo un cambiamento radicale nei rapporti con il lavoro e
con i consumi, ma nelle competenze richieste ai lavoratori che non
svolgono più compiti ripetitivi. Per questa ragione l’ordinamento e
l’architettura scolastici devono cambiare, anche se la scuola esita,
perché i programmi di un tempo sono inadeguati, ma restano opache le finalità necessarie per concepire i nuovi.
Purtroppo la questione della giustizia sociale, dell’equità nell’istruzione, passa in secondo piano, e invece è indispensabile ribadire
questo obiettivo se si vuole creare una società giusta, che valorizzi
la personalità di ognuno, che consenta a ogni nuovo venuto di occupare una posizione riconosciuta socialmente ma anche conforme
alle caratteristiche (un tempo si diceva “ai doni”) di ognuno. Siamo
ancora ben lungi da una società di questo tipo e il servizio statale
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d’istruzione (ma purtroppo anche quello privato) non concorrono affatto alla sua costruzione e al suo sviluppo.
Qualche ipotesi alternativa alla scuola unica statale
Nel luglio del 2012 un senatore repubblicano dello Stato dell’Utah
negli USA, Aaron Osmond, ha annunciato la proposta di liquidazione
della scuola obbligatoria nello Stato, composto da circa 9 milioni di
abitanti3. La proposta di Osmond è complessa e contempla ben tre
leggi, una delle quali impone alle famiglie povere di pagare corsi di
ricupero previsti per gli alunni che non riescono a superare i test
dello Stato, per ridurre la percentuale degli insuccessi scolastici. In
alternativa alla – per noi – provocatoria proposta del senatore americano si potrebbe prospettare di riservare il servizio scolastico statale
agli alunni e agli studenti difficili e appartenenti a famiglie povere e
dissestate, che non ce la fanno a seguire i figli a casa nello studio,
a trasmettere loro i codici in vigore nelle scuole. I figli delle famiglie
benestanti, coloro che già sanno prima di iniziare la scolarizzazione,
possono frequentare le scuole private e pagarle costringendole, tra
l’altro, a trasformarsi.
Se i responsabili politici e scolastici auspicano che i risultati finali
della scolarizzazione obbligatoria migliorino, occorre specializzare
il servizio scolastico statale per occuparsi dei ragazzi in difficoltà
che non potrebbero pagarsi un’istruzione in grado di facilitare la loro
ascesa sociale. Queste considerazioni fanno inorridire coloro che
ritengono che il servizio scolastico statale debba essere uguale per
tutti e che temono scuole ghetto riservate ai poveri, dal momento
che il servizio scolastico statale sarebbe riservato a una popolazione
scolastica speciale e dovrebbe funzionare in modo tale da evitare la
deresponsabilizzazione delle famiglie.
La proposta del senatore Osmond non prevede la fine dell’istruzione
obbligatoria, ma è concepita per ottenere dagli alunni deboli risultati eccellenti nell’apprendimento scolastico, puntando molto sull’esigenza di modificare la relazione tra famiglie povere e apparato
scolastico. Le famiglie sono state gradualmente private dalle loro
responsabilità educative da un servizio di istruzione che si è esteso
a macchia d’olio anche con ottime intenzioni, ma che ha finito spes3
Le informazioni sullo Utah provengono da un articolo di Melinda Deslatte
pubblicato il 29 dicembre 2013 dal San Francisco Gate.
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so per produrre indirizzi formativi eccellenti per i figli dei ceti agiati
e per selezionare le élite sociali e culturali provenienti quasi esclusivamente da questi strati sociali. Per Osmond gli studenti devono
frequentare una scuola, statale o privata poco importa, ma la sua
proposta fa traballare l’impianto del servizio scolastico statale, senza
metterlo in discussione ma privandolo degli alunni e degli studenti
migliori. L’esclusione degli studenti forti dalle classi ha un’incidenza
sul clima scolastico e sul rendimento scolastico di tutti gli alunni, e
anche sulla socialità, almeno fin quando la scuola resterà suddivisa
per classi d’età, anche se le ricerche mostrano che la mescolanza
di studenti con competenze diverse è benefica per l’apprendimento
scolastico se gli insegnanti sono in grado di sfruttarla, ma la formazione sulla gestione della diversità dei ritmi di apprendimento e dei
comportamenti di studenti diversi anche per il senso del rispetto e
dell’autorità è pressoché inesistente.
La scuola statale comprende vagoni di prima, seconda e terza classe, e non è più nemmeno comparabile al servizio ferroviario che è
rimasto pure ingiusto perché, con l’alta velocità, si sono trascurate
le linee regionali che sono quelle più popolari. Ci si può pertanto
chiedere fino a quando la popolazione potrà accettare un servizio
scolastico che è ingiusto, ma sa vendersi bene, facendo credere di
operare per il bene di tutti. Probabilmente ancora a lungo, se la civiltà occidentale resisterà e se le nuove tecnologie non diffonderanno
nuovi comportamenti incompatibili con le tecniche di potere e di controllo della popolazione, che reggono le società contemporanee. In
ogni modo non mancano segnali del dissesto prossimo venturo di un
servizio scolastico statale che non riesce a essere giusto socialmente, che riproduce la discriminazione sociale di fronte all’istruzione e
viene considerato sempre più inutile.
A cosa serve un servizio che lascia per strada, in Italia, migliaia di
persone? Ha ancora un senso? Una delle soluzioni escogitate e sperimentate, soprattutto negli Stati Uniti, per ridurre la discriminazione
sociale di fronte all’istruzione è stata l’introduzione dei buoni scuola,
che anticipa quello che potrebbe succedere. Uno degli esperimenti
più importanti, almeno dal punto di vista quantitativo, è in corso nello
Stato della Louisiana. Il programma dei buoni scuola è iniziato a
New Orleans nel 2008 e ha continuato a espandersi, così che a
partire dal 2012 è applicato in tutto lo Stato. Il programma versa alle
famiglie l’equivalente delle rette scolastiche delle scuole private, co-
Bottani | Requiem per la scuola?
sta circa 36 milioni di dollari all’anno, provenienti dall’ente pubblico,
e riguarda 126 scuole frequentate da 6700 studenti. L’operazione
sta rimodellando completamente il servizio scolastico statale e fornisce alle famiglie più opzioni d’istruzione, ma non necessariamente
modalità d’istruzione alternative.
Una prima valutazione, finalizzata a informare le autorità pubbliche
sull’efficacia del programma, ha sollevato la questione della qualità
delle opzioni offerte agli studenti che altrimenti avrebbero frequentato la scuola statale. Secondo i valutatori, la possibilità di passare da
una scuola statale mediocre a una scuola privata non garantisce necessariamente una migliore qualità dell’istruzione, se le autorità scolastiche statali responsabili non controllano da vicino il programma
ammettendo all’uso dei buoni scuola solo le scuole private che dimostrano di fornire un’istruzione di qualità, anche se le famiglie tendono
a credere che l’inserimento da parte dello Stato di una scuola privata
nella lista di quelle i cui studenti ricevono il buono-scuola sia di per
sé una garanzia della bontà della scuola. Di sicuro il programma
dei buoni-scuola offre una possibilità di scelta alle famiglie, ma non
garantisce che alla fin fine gli studenti frequentino scuole private migliori di quelle statali che hanno lasciato: anzi, i punteggi dei test che
sono stati pubblicati mostrano che le prestazioni non sono statisticamente migliori di quelli delle scuole statali. Nonostante le critiche,
si può affermare, almeno, che, grazie al buono scuola, migliaia di
famiglie povere hanno la possibilità di scegliere la scuola nella quale
iscrivere i loro figli, cosa che non avrebbero potuto fare altrimenti.
Si riteneva che la possibilità di scegliere la scuola avrebbe facilitato
la fine delle scuole-ghetto nelle quali sono ammassati i figli dei poveri, perché l’onere finanziario derivante dall’iscrizione in una scuola
privata non è più a carico della famiglia, ma questo non è sufficiente per creare un servizio d’istruzione socialmente più equo, anche
perché quasi tutte le scuole private non sono situate nei quartieri
abitati dalle famiglie povere, che non sono in grado di trasportare
quotidianamente i figli, o addirittura di traslocare. Inoltre, la maggioranza delle scuole private finisce spesso con l’essere una copia
delle scuole statali e quindi non sviluppa una didattica in grado di
ridurre i condizionamenti alla riuscita. Infine, come è stato dimostrato da diverse indagini svolte nella periferia di Parigi, le famiglie dei
ceti benestanti, quando possono farlo, rifiutano di far frequentare ai
loro figli le scuole nelle quali la maggioranza degli studenti proviene
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dal mondo dell’immigrazione oppure da famiglie povere, per cui le
scuole private più selettive non accolgono i ragazzi titolari dei buoni
scuola.
Questi elementi suggeriscono che la questione dell’equità dell’istruzione non può essere risolta con i buoni-scuola, che sono, come si
diceva, una possibilità per quelle famiglie che scelgono sulla base
del fondamento culturale di una scuola, in particolare per le scuole
confessionali. Esistono altre possibilità di sostegno alla scelta, se le
politiche educative si propongono di supportare le famiglie che non
potrebbero sostenere il costo di lasciare la scuola a cui i figli sarebbero destinati in base alla residenza: ogni Paese potrà confrontarsi
con la soluzione che ritiene più adeguata al proprio contesto culturale ed economico.
Riferimenti bibliografici
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