LA CONOSCENZA TRA CONCETTI E SIMBOLI
Marcello Cini
Fragili confini
“Nell'Europa del Quattrocento – scriveva quel grande e dimenticato
anticipatore della epistemologia della complessità che è stato Gregory Bateson cattolici e protestanti si mandavano al rogo, o preferivano andare al rogo, piuttosto
che scendere a compromessi sulla natura del pane e del vino che si usano nella messa.
Le affermazioni per cui si bruciavano a vicenda erano, da una parte: “il pane è il
corpo” e, dall'altra: “il pane rappresenta il corpo”.” (Bateson 1997)
E spiegava: mentre nella sfera della coscienza (nella parte “calcolante della
nostra mente”) siamo in grado di distinguere perfettamenrte fra una cosa reale e il
simbolo che sta per quella cosa, nella sfera dell'inconscio (la parte della mente che
“sogna”) queste distinzioni non possiamo tracciarle. Nell'inconscio non c'è differenza
fra le cose e i loro simboli. Non c'è differenza fra è e rappresenta.
Identificare il simbolo con la realtà che rappresenta e comportarsi come se
fossero la stessa cosa è in genere un errore epistemologico grave e spesso pericoloso.
La mappa non è il territorio. Il menu di un ristorante raffinato può farti venire
l’acquolina in bocca, ma non sazia la tua fame. L’inno nazionale può far battere più o
meno il cuore a un individuo (a seconda del contesto), ma non va confuso con le città,
i fiumi e le strade del paese, né con l’insieme dei suoi cittadini.
Le guerre di religione sono dunque – ne deduce Bateson - una patologia
collettiva che segue la stessa logica associativa del pensiero schizofrenico individuale.
(Lo psicanalista Ignacio Matte Blanco spiegava questa logica raccontando che un suo
paziente schizofrenico, morso da un cane, voleva andare dal dentista per farsi curare.
Non è difficile a questo punto ipotizzare che le forme estreme di intolleranza religiosa
o razziale odierne abbiano la stessa origine.
Scrive ancora Bateson: “Nei processi che chiamiamo percezione, conoscenza e
azione - leggiamo - occorre obbedire a certe convenzioni, e quando queste regole,
peraltro oscure, non sono osservate, la validità dei nostri processi mentali è in
pericolo. Queste regole concernono soprattutto la salvaguardia dei fragili confini che
dividono il sacro dal profano, l'estetico dall'appetitivo, il volontario dall'inconscio e il
pensiero dal sentimento.” Ebbene, molti dei conflitti che oggi coinvolgono,
potenzialmente almeno, centinaia di milioni di abitanti del pianeta sono proprio
alimentati, così almenomi sembra, dalla violazione o dalla contestazione dei “fragili
confini”, propri di una cultura data, che sono rispettati come certi e saldi dagli
individui che ad essa appartengono, ma sono considerati irrilevanti o addirittura
ridicoli dai fondamentalisti di culture diverse.
Le immagini e i simboli che rappresentano le diverse culture che si trovano a
convivere gomito a gomito nella nostra società contemporanea, possono diventare
dunque, a seconda delle circostanze, sia veicoli di pacifica conoscenza reciproca sia
bombe mortali. L’alternativa dipende in gran parte dallo statuto di verità che ad essi
viene attribuito dagli individui che in essi si identificano.
Concetti e Simboli
Nella relazione che si stabilisce fra soggetto e oggetto occorre fare una
distinzione fondamentale. E’ la distinzione fra concetti e simboli. “Il concetto – scrive
il più illustre antropologo culturale italiano Carlo Tullio-Altan – determina la
conoscenza razionale, il simbolo la credenza o la fede. Il concetto appare come un
mezzo, uno strumento utile alla vita, il simbolo come un fine. Si può dire che un
soggetto possiede un concetto mentre è il simbolo che possiede il soggetto e dà un
senso alla sua vita. Il soggetto può liberamente modificare il concetto per accrescerne
le capacità euristiche, mentre è il simbolo che modifica il soggetto, come accadde al
Buddha nella sua meditazione sotto il fico o a Paolo sulla via di Damasco. Il concetto
dà valore d’uso alle cose il simbolo dà valore alle persone, per cui si può parlare del
mondo dell’avere quando pensiamo alla domesticità utilizzabile della ragione pratica
e dell’essere quando pensiamo all’esperienza dei valori simbolici, della bellezza della
morale o della religione. Valori ricondotti tradizionalmente, assieme ai valori della
razionalità scientifica, alla denominazione generica di ‘spirito’ che distingue la vita
umana da quella animale.”
E aggiunge ancora: “Fra concetti e simboli , che insieme danno pienezza di
senso alla vitavi è complementarità e non contraddizione, La contraddizione può
instaurarsi solo all’interno dei due distinti universi, quello razionale e quello
simbolico, fra vero e falso, fra utile e disutile sul piano dei concetti, fra bello e brutto,
buono e cattivo, santo e maledetto sul piano dei simboli. Grazie al patrimonio dei
concetti si esercita la spiegazione dei fenomeni naturali mentre i prodotti simbolici
della cultura richiedono l’interpretazione per essere decodificati e compresi nella loro
specifica qualità distintiva.”
A questo proposito occorre fare un’altra distinzione fra i due modi di essere
del soggetto che ne rappresentano rispettivamente il momento creativo e quello della
presa di coscienza di sé stesso come oggetto. E’ la distinzione fra l’io e il sé. L’io
deve essere pensato come il soggetto che conosce, dotato di originalità inventività e
fantasia, e il sé come il soggetto che riconosce, dotato di una struttura psichica esposta
al rischio del vivere quotidiano, formatasi storicamente su una base naturale attraverso
l’acculturazione.
Riprendendo a questo punto la distinzione fra concetti e simboli possiamo,
nell’ambito della conoscenza razionale, attribuire al primo modo di essere del
soggetto la creatività di nuovi concetti scientifici e al secondo modo il riconoscimento
del valore d’uso di nuovi strumenti tecnologici. Nell’ambito dell’esperienza simbolica
abbiamo l’io che crea nuovi simboli artistici, morali o religiosi e il sé che ne riconosce
la validità sul piano emozionale.
Concetti e simboli si richiamano tuttavia fra loro. Sono due facce della stessa
medaglia umana che non possono essere ridotte l’una all’altra. L’una senza l’altra
“ridurrebbero gli uomini – osserva ancora Tullio-Altan - alla condizione di formiche
operose inesorabilmente ripetitive oppure a quella di esseri deliranti e incapaci di ogni
qualsiasi forma di domesticità utilizzabile che garantisca loro la sopravvivenza.”
Purtroppo abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni i frutti avvelenati della
tendenza alla polarizzazione fra i sostenitori della supremazia di una faccia sull’altra.
Sia gli uni che gli altri intendono asservire al proprio potere gli abitanti del pianeta: i
padroni del capitale da un lato, attraverso l’immissione sul mercato di tutti i prodotti
simbolici della cultura umana previamente trasformati dagli scienziati in concetti utili,
e dall’altro i chierici di tutte le religioni, compresa quella che domina in casa nostra,
attraverso la subordinazione ai propri simboli dichiarati sacri, della formazione dei
concetti necessari ad affrontare i drammatici problemi di una società globale sempre
più disorientata e insicura per il profilarsi all’orizzonte di allettanti promesse e di
oscure minacce intrecciate fra loro.
E’ essenziale contrastare questa tendenza, che si profila disastrosa per la
sopravvivenza stessa della nostra specie. Occorre dunque riuscire a interpretare
l’aurea massima del “dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”
alla luce della trasformazione epocale che sta già cambiando - e ancor più lo farà nel
prossimo futuro - il volto della società globale contemporanea.
Dal XX al XXI secolo: l’economia della conoscenza
La prima sfera della “domesticità utilizzabile” – una espressione introdotta da
Ernesto De Martino per indicare il complesso di idee applicate alla realtà naturale per
modificarla in armonia con le esigenze degli uomini che lavorano e inventano sempre
nuove soluzioni ai loro nuovi problemi - investita dalla trasformazione riguarda
l’economia. In essa assistiamo alla tendenza, suffragata da fatti sotto gli occhi di tutti,
a fondare sempre più la formazione del profitto nel processo di accumulazione del
capitale sulla produzione di merci non tangibili (conoscenza, informazione, saperi,
comunicazioni, formazione, intrattenimento, cultura). C’è tuttavia una differenza
sostanziale tra la natura di questi beni e quella dei beni materiali. La proprietà
fondamentale dei beni immateriali è infatti che la fruizione da parte di un
"consumatore" non ne impedisce la fruizione da parte di altri. Perciò è improprio
parlare di consumatori, perché le merci immateriali, in realtà non si "consumano". E’
una differenza tuttavia che non può essere riconosciuta dai padroni del mercato. La
conoscenza è infatti diventata capitale intellettuale.
Questa straordinaria risorsa - ci spiega Thomas A. Stewart, editor della più
importante rivista americana di economia Fortune - costituita dal “brainpower
collettivo”, cioè da “tutto quel materiale intellettuale (sapere, informazione, proprietà
intellettuale, esperienza) può essere messa a frutto infatti per creare ricchezza.” “Chi
la trova e la sfrutta – afferma categoricamente – vince.” E continua: “Vince perché
l’economia di oggi differisce radicalmente da quella di ieri. Noi siamo cresciuti
nell’Era industriale. Ma questa è tramontata, soppiantata dall’Era dell’informazione. Il
mondo economico da cui stiamo uscendo era un mondo in cui le principali forme di
richessa erano concrete. Le cose che compravamo e vendevamo erano appunto, cose:
si potrevano toccare, odorare, locazlizzare. Gli ingredienti a partire dai quali si creava
ricchezza erano la terra, le risorse naturali come il petrolio, il minerale di ferro o
l’energia, e il lavoro fisico umano e le macchine.”
“In questa nuova èra – invece - la ricchezza è il prodotto del sapere. Sapere e
informazione - e non soltanto sapere scientifico, ma le notizie, i consigli,
l’intrattenimento, la comunicazione, i servizi - sono diventati le principali materie
prime dell’economia e i suoi prodotti più importanti. Il sapere è quel che compriamo
e vendiamo. Il capitale fisso oggi necessario per creare ricchezza è un capitale fatto di
conoscenza,” E dunque – questa è la conclusione - la conoscenza viene costretta dal
capitale – per così dire contro la sua natura – a diventare un bene scarso, non un bene
comune disponibile a tutti.
Dal XX al XXI secolo: scienza e tecnologia
La seconda sfera investita dalla trasformazione è quella della scienza. Nel
secolo appena finito l'uomo ha instaurato il suo pieno dominio sulla materia inerte
mentre Il nuovo secolo sarà il secolo del dominio dell'uomo sulla materia vivente e
del controllo sui fenomeni mentali e sulla coscienza. Questa svolta cambia
profondamente la natura della scienza. Essa infatti comporta lo sgretolamento di due
steccati che tradizionalmente la separavano dalle altre attività sociali umane. Il primo
la separava (in quanto conoscenza disinteressata della natura ottenuta attraverso la
scoperta) dalla tecnologia (in quanto utilizzazione pratica dei risultati della prima
realizzata attraverso l'invenzione). Il secondo steccato segnava quel confine fra
conoscenza razionale ed esperienza simbolica di cui abbiamo appena parlato. Di esso
ci occuperemo tra breve. Cominciamo a occuparci del primo.
Nelle discipline della vita e della mente la separazione fra scoperta e
invenzione è sempre meno netta. Già alla fine degli anni ’70 si cominciò a capire che,
se è vero da un lato che il metodo galileiano delle “sensate esperienze” e delle “certe
dimostrazioni” ha permesso di formulare le grandi leggi della natura che stanno alla
base della nostra conoscenza delle proprietà della materia inerte e delle nostre
capacità di dominio su di essa, è dall’altro altrettanto vero che esso è inadeguato a
comprendere i processi che accadono nelle diverse forme della materia vivente e in
quelli della sfera della mente degli animali e dell’uomo, nei quali, accanto a regolarità
strutturali e a vincoli fisici che pure devono essere indagati e misurati, l’evoluzione e
l’aleatorietà giocano un ruolo essenziale. Altrettanto inadeguato allo studio di questi
fenomeni si rivelò l’approccio riduzionista della fisica, visto che i sistemi complessi
manifestano in generale proprietà che solo in parte sono derivabili da quelle dei loro
componenti ma dipendono dal contesto e dalla storia individuale di ciascuno.
Cito per tutte la tematica della complessità nelle sue varie componenti; da un
lato la nascita negli anni ’80 delle discipline – dal caos deterministico ai fenomeni
dell’Artificial Life - rese possibili dalla enorme diffusione delle simulazioni al
computer, e dall’altro il moltiplicarsi negli ultimi due decenni, delle scoperte, nei
diversi settori delle scienze della vita e della mente. dei fenomeni che emergono al
passaggio tra i vari livelli di organizzazione della materia: un esempio per tutti è la
l’incapacità del riduzionismo genetico a spiegare la dipendenza dal contesto dei
meccanismi regolatori dei processi epigenetici.
Da entrambe le svolte alle quali abbiamo sommariamente accennato deriva un
crescente intreccio fra scienza, tecnologia ed economia. Di questo intrecccio hanno
cominciato ad accumularsi negli ultimi decenni del secolo scorso evidenze sempre più
numerose e disparate. A cominciare dalla decisione storica della Corte Suprema degli
Stati Uniti che nel 1980 riconobbe la brevettabilità degli organismi viventi
geneticamente modificati, dando così il via libera la corsa ai brevetti in ogni campo
dell’innovazione scientifica e tecnologica e all’estensione dei diritti di proprietà
intellettuale a ogni manifestazione creativa della mente umana. Un intreccio dunque
che sta conducendo alla mercificazione di ogni aspetto della vita individuale e sociale
diventando al tempo stesso strumenti di accentuazione delle disuguaglanze e immense
fonti di profitto.
Dal XX al XXI secolo: fatti e valori.
Come ho già anticipato, con lo spostamento del fine della scienza dal dominio
sulla materia inerte a quello del controllo sulla materia vivente e sulla mente umana si
sta sgretolando un’altra barriera: quella che separava nettamente le attività che si
occupano di fatti da quelle che si occupano dei valori che stanno alla base delle norme
(etiche e giuridiche) intese a regolare le finalità e i comportamenti degli individui nei
loro rapporti privati e nelle loro azioni sociali.
Una cosa è infatti manipolare, controllare, forgiare un oggetto fatto di materia
inerte e altra cosa è compiere le stesse operazioni su un organismo vivente o
addirittura sull'uomo. Nel primo caso il lecito può coincidere con l'utile (anche la
distinzione “per chi” aprirebbe tuttavia a rigore problemi valoriali), nel secondo il
lecito dovrebbe per lo meno dipendere anche da una valutazione di natura etica:
diventa sempre più difficile decontaminare i fatti dai valori ed estirpare gli interessi
dalla conoscenza. Nasce dunque il problema della ricerca di un corretto rapporto fra
conoscenza e valori, cioè fra la costruzione di una rappresentazione razionale della
realtà sensibile adeguata ai bisogni dell’umanità e il perseguimento di "retti"
comportamenti individuali e collettivi.
Lo sgretolamento della barriera tra fatti e valori sta accendendo un confliutto
per l’egemonia nella società fra chi ritiene che soltanto perseguendo un crescente
dominio razionale sui fatti e sulle relazioni che li connettono sia possibile affrontare i
problemi della vita umana e della convivenza sociale e chi pretende di essere
depositario e amministratore di valori assoluti di origine trascendente in grado di
regolamentare ogni aspetto dei comportamenti umani. Questo conflitto tuttavia si
traduce, secondo me, da ambo le parti in posizioni di principio inadeguate e inefficaci
ad affrontare i problemi della società contemporanea.
Per quanto riguarda i primi non ho molto da aggiungere a quanto ho già detto
sulla natura della svolta che la società globale sta vivendo nel passaggio fra i due
secoli. Da anni sostengo che le verità della scienza hanno al tempo stesso un
contenuto oggettivo che riflette la concreta realtà materiale del mondo circostante, e
una forma soggettiva che discende dalle categorie che nel contesto sociale
storicamente dato gli scienziati formulano per rappresentarla.
Penso dunque che questa premessa sia sufficiente a giustificare il mio rifiuto
ad aderire al dogma ancora assai diffuso della assenza di responsabilità della scienza
nei confronti della società di cui fa parte, e al rifiuto a priori che ne consegue di
accettare qualsiasi limitazione che possa essere posta da parte delle istituzioni
democratiche alle attività di ricerca degli scienziati a tutela degli interessi e dei
bisogni materiali e spirituali delle altre componenti presenti e future della collettività.
E’ un dogma tanto più ingiustificabile quanto più queste attività richiedono
investimenti di risorse pubbliche sempre più rilevanti. Credo dunque che da parte del
mondo della scienza debba essere espressa la disponibilità a instaurare un dialogo
responsabile sulle conseguenze che possono derivare da una incontrollata crescita
della ricerca sui fenomeni della vita e della mente nell’economia del mercato globale.
Hans Jonas ha in particolare affrontato il problema dei nuovi valori da
introiettare per rendere compatibile lo sviluppo delle nuove tecnologie con la natura
umana e i suoi fondamentali bisogni. Il suo pensiero è assai noto e mi limito a
ricordare che il primo nuovo valore che dobbiamo introiettare, secondo questo
filosofo, è fondato sull'obbligo morale di prefigurarci e di approfondire le possibilità
ipotetiche che il nostro oggi, così gravido di conseguenze e sotto molti aspetti
calcolabile, porta in grembo. "Il valore di tali prefigurazioni – scrivè – è legato al fatto
che non sono fatalistiche: anzi, è proprio in quanto noi possiamo agire in modo da
evitarne le possibili conseguenze catastrofiche che dobbiamo impegnarci a
svilupparle." E' per questo dunque, che la coscienza impone, "a coloro che fanno
previsioni ipotetiche, di rendere noto il loro punto di vista come stimolo o
ammonimento per favorire o impedire l'avverarsi di ciò che hanno previsto".
La natura dell’esperienza religiosa
Rivolgerò dunque a questo punto la mia critica ai sostenitori della concezione
che attribuisce il carattere di verità assoluta ai dogmi religiosi: una concezione tra
l’altro che, da un punto di vista generale, contribuisce oggi a rendere sempre più
dilagante la violenza nei rapporti fra i popoli del mondo e sempre più acuta
l’intolleranza reciproca fra le diverse etnie e culture che convivono gomito a gomito
su uno stesso territorio. Nemmeno su questi aspetti del rapporto fra religioni e conflitti
etnici tuttavia mi soffermerò in questa sede – mi limito a segnalare su questo tema il
bel libro di Amartya Sen Identità e violenza - perché intendo piuttosto discutere del
rapporto tra religione e scienza nella situazione concreta di oggi nel nostro paese.
Ricorrerò tuttavia ancora una volta, prima di esporre la mia tesi, al sostegno delle
argomentazioni di Carlo Tullio-Altan sulla natura del fenomeno religioso per fondare
le mie argomentazioni su basi più solide di quelle di cui dispone il mio bagaglio
culturale in materia.
“La valenza specifica dell’esperienza religiosa – scrive Altan – può essere
individuata nel processo di identificazione del soggetto con l’immagine
simbolicamente trasfigurata dell’io, e cioè del soggetto che conosce, nel quale dunque
si crea una nuova conoscenza, con la quale si dà un nome e un senso a un aspetto
prima ignorato del “mondo della vita”.
“Il soggetto in tal modo – spiega - intuisce e vive in sé stesso il processo di
fondazione di quello che gli appare come un ordine etico e cosmico, nella forma di
una immagine divina con la quale si fonde e si identifica. Tale esperienza si esprime
pertanto nelle sue manifestazioni più autentiche come singolarissima esperienza
mistica.” Si tratta dunque di una esperienza che non solo è estranea alla sfera della
razionalità dei concetti, ma che è anche caratterizzata dalla discontinuità con il
passato, e dunque non è riconducibile alla continuità delle norme date una volta per
tutte agli uomini dalla divinità.
Quest’ultima caratteristica è invece propria della trasfigurazione simbolica del
sé, che è l’immagine trasfigurata del soggetto che non si propone il fine conoscere ma
quello di di riconoscere. Essa si realizza nell’immagine dell’anima, attraverso
pratiche rituali elaborate nell’ambito delle religioni storiche nell’esercizio della loro
funzione istituzionale di assistenza, di conforto e di salvezza,. E’ dunque quest’ultima
una trasformazione simbolica che della religione rappresenta la faccia complementare
a quella mistica-profetica. Entrambe ne sono tuttavia componenti costitutive
essenziali.
“Il coesistere nelle religioni di queste due posizioni – scrive ancora Altan a
questo proposito - è stata sempre difficile nelle diverse chiese in tutti i tempi. Ma
queste due tendenze conservatrice e rivoluzionaria sono entrambe indispensabili al
fine di soddisfare due bisogni antropologici fondamentali dei fedeli: il bisogno di
sicurezza e il bisogno di libertà, che caratterizzano la specie umana.”
Il cosiddetto “incontro tra fede e ragione”
Da questa schematizzazione, sia pure molto sommaria, del pensiero di Carlo
Tullio-Altan dovrebbe apparire chiaro che il pensiero filosofico e teologico del
professor Ratzinger ha, con tutto il rispetto, assai poco a che vedere con quello che in
antropologia culturale si intende per religione. Per argomentare questa affermazione
prenderò le mosse dalle parole della famosa lezione di Ratisbona nella quale viene
spiegato chiaramente che la linea politica di questo papato si fonda sulla fine della
spartizione delle rispettive sfere di competenza fra fede e conoscenza razionale.
“Nel profondo.. si tratta – cito testualmente - dell'incontro tra fede e ragione,
tra autentico illuminismo e religione.” Non insisto sulla pericolosità di questo
programma dal punto di vista della pace fra i popoli: basta ricordare la reazione
sollevata nel mondo islamico dall’accenno alla differenza che ci sarebbe tra il Dio
cristiano e Allah - differenza attribuita alla supposta razionalità del primo in confronto
alla imprevedibile irrazionalità del secondo - che sarebbe a sua volta all’origine della
mitezza dei cristiani e della violenza degli islamici. Mi limito a discutere le basi
filosofiche del ragionamento del pontefice.
“La moderna ragione propria delle scienze naturali – dice testualmente – con
l'intrinseco suo elemento platonico, porta in sé un interrogativo che la trascende
insieme con le sue possibilità metodiche.” La risposta a questo interrogativo, tuttavia,
“deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla
filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l'ascoltare
le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente
quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa
significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere.”
Salta subito agli occhi che il professor Ratzinger compie in questo suo
approccio due drastiche operazioni di semplificazione. La prima è nei confronti della
scienza, alla quale attribuisce un “intrinseco elemento platonico “ che, se poteva
caratterizzare la “metafisica influente” (secondo la terminologia dell’epistemologo
Imre Lakatos) del paradigma galileiano, non è più certamente il nucleo filosofico
delle scienze della vita e della mente. Ho già accennato prima all’importanza
epistemologica e metodologica del passaggio dal primo alle seconde e non ci insisto
ulteriormente.
La seconda operazione, ancor più grave visto il ruolo del personaggio, è
l’espulsione dall’esperienza religiosa individuale della sua valenza specifica, cioè del
momento della fondazione da parte del credente di una immagine divina con la quale
si fonde e si identifica. Della religione in questo modo Ratzinger mantiene soltanto il
momento rituale e pastorale.
Non è la mia una interpretazione arbitraria. Sono le parole stesse della lezione
di Ratisbona dedicate alla confutazione delle tre “onde di dis-ellenizzazione della
fede cristiana” (che storicamente hanno tentato di sottrarre la fede dall’influenza
razionalizzatrice della filosofia greca) a confermarlo. La prima onda – ci spiega risale alla riforma protestante, che ha cercato “la pura forma primordiale della fede,
come essa è presente originariamente nella Parola biblica per farla tornare ad essere
totalmente se stessa”. Come è noto, ci ha pensato il Concilio di Trento a combatterla.
La seconda onda proviene dalla teologia liberale del XIX secolo che “utilizza come
punto di partenza la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo,
Isacco e Giacobbe.” Se ne è sbarazzato Pio IX, un papa che Benedetto XVI ama
molto. La terza infine, che si diffonde attualmente in considerazione dell’incontro con
la molteplicità delle culture, afferma che la “sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella
Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le
altre. Queste dovrebbero – secondo i suoi sostenitori - avere il diritto di tornare
indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice
messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi
ambienti.” Anche questa onda è, come le altre da respingere: “non è semplicemente
sbagliata – decreta Ratzinger - è tuttavia grossolana ed imprecisa”.
Quella di Benedetto XVI è dunque, secondo le parole di Altan, una vera e
propria controrivoluzione conservatrice. Questa svolta infatti non solo ribadisce la
secolare espropriazione da parte della Chiesa cattolica della sfera del sacro immanente
nella profondità dei sentimenti e delle emozioni di ogni essere umano, ma rivendica
l’esclusiva - a differenza di quanto hanno accennato sia pur timidamente a fare i
precedenti successori di Pietro, da Giovanni XXIII in poi - per l’opera di mediazione
fra l’umano e il divino. Una esclusiva che ignora e svilisce le innumerevoli differenti
forme storiche e geografiche di questa sfera così intima e delicata senza rispetto per la
dignità personale e l’integrità morale di ogni individuo.
La duplice amputazione della scienza da un lato, ridotta a rappresentazione
ideale e astorica della legalità della natura, e della religione dall’altro, irrigidita nella
forma totalizzante di razionalità universale, porta dunque alla pretesa di subordinare le
rivendicazioni di conoscenza degli scienziati al placet delle autorità della seconda. Le
prime avvisaglie delle conseguenze pratiche di questa operazione sono allarmanti.
Basta accennare, per dirne una, all’appoggio esplicito della Chiesa ai neocreazionisti
inventori del cosiddetto Disegno Intelligente - una maldestra negazione dell’evidenza
storica, accompagnata da un volgare stravolgimento dei contenuti delle controversie
interne alla comunità degli scienziati – nella battaglia ingaggiata contro il darwinismo,
bastione fondamentale e indiscusso di una conoscenza non mitologica dell’evoluzione
della vita sulla Terra.
Verso un ethos planetario?
Secondo Tullio-Altan il conflitto fra gli enunciati di valore del cristianesimo,
formulati in modo dogmatico, e taluni principi e conclusioni altrettanto dogmatiche
della scienza moderna “può essere evitato solo scegliendo una terza via: quella
definita da un’etica della corresponsabilità, nella quale trovino un punto d’incontro
tanto le istanze evangeliche quanto i principi della ragione scientifica.” Di questa
esigenza si fa anche portavoce, per esempio, il filosofo Jürgen Habermas quando dice
nel suo libro Il futuro della natura umana: “Esiste il pericolo che, attraverso gli
interventi genetici migliorativi, intenzioni “estranee” e geneticamente fissate si
impadroniscano della storia di vita delle persone programmate. Perciò ci chiediamo
preoccupati se un siffatto atto reificante non modifichi il nostro poter-essere-sé-stessi
e il nostro rapporto con gli altri.” Saremo noi ancora in grado – si domanda dunque di pensarci come persone che si concepiscono come gli autori indivisi della loro vita e
come persone eguali a tutte le altre per nascita e valore?
In ogni caso all’interno della sfera dell’esperire simbolico, la religione deve
rinunciare a pretendere di rappresentare le istanze dell’etica pubblica e della morale
individuale. “I principi elaborati nella sfera religiosa della fede, nella loro possibile
valenza sociale e politica - scrive a questo proposito l’ex presidente della Corte
costituzionale Gustavo Zagrebelsky in un saggio pubblicato nel suo recentissimo libro
Contro l’etica della verità - devono entrare nel confronto paritario con quelli elaborati
nella sfera laica della ragione.” E cita in proposito la formulazione di Jürgen
Habermas di una possibile normativa per la convivenza tra mondo dei credenti e
mondo laico che recita: “Nell’ambito pubblico dovranno contare solo quelle
argomentazioni che non mettono in campo la pretesa di verità della religione e della
metafisica in quanto tale”, ovvero: “devono contare solo asserzioni che sono in grado
di conseguire consenso indipendentemente dai contesti di fondo religiosi o
cosmologici”.
Lo stesso Zagrebelsky esprime tuttavia forti dubbi che questa formula possa
rappresentare una valida via d’uscita al conflitto in atto. “La capacità di dialogo –
scrive - equivale alla disponibilità all’auto-modificazione in base ai buoni argomenti
(razionali e religiosi, ma questi ultimi sostenuti con argomenti capaci di valere in
generale). Se non è così, il dialogo si trasforma in monologo tra sordi. Questo pericolo
esiste sia per il pensiero razionale sia per quello religioso ma per quest’ultimo è più
grave in quanto solo esso è sostenuto da un’autorità concentrata produttiva di dottrine
nel suo ambito vincolanti”.
Ammette tuttavia che la democrazia costituzionale possa “allontanare quanto
più è possibile la linea di questo scontro, sia con mezzi procedurali di natura
discorsiva, sia con la costituzionalizzazione delle pretese morali legittime degli attori
politici e sociali in vista di un ethos collettivo.” Ma conclude: “Non possiamo però
illuderci che la pacificazione definitiva sia a portata di mano. Essa non potrebbe che
equivalere, nei casi critici, a una sopraffazione. Dobbiamo perciò rassegnarci. La città
degli uomini e la città di Dio, chiunque sia il nostro Dio, non coincideranno mai.
Neppure l’epoca post-secolare e post-moderna ha sciolto questo nodo, che è un nodo
di oggi e di sempre fino a quando gli esseri umani saranno posseduti da una coscienza
che trascende la pura immanenza.”
Non è, tuttavia, una conclusione necessariamente pessimistica. L’obiettivo non
è infatti il raggiungimento di un ethos planetario. come se si trattasse di un traguardo
di arrivo. E’ piuttosto la scelta della strada da percorrere. Che, in sintesi, si può
riassumere con un noto ma scarsamente seguìto duplice precetto: per il credente di
vivere “come se dio non esistesse”, e per il non credente di vivere “come se dio
esistesse”.