grandangolo storia - Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali

GRANDANGOLO
STORIA
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LA SECONDA
GUERRA MONDIALE
a cura di Brunello Mantelli
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I
Grandangolo Storia
Vol. 37 – La Seconda guerra mondiale
© 2015 RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Media, Milano
È vietata la riproduzione dell’opera o di parte di essa, con qualsiasi mezzo, compresa stampa, copia fotostatica,
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Edizione speciale per Corriere della Sera pubblicata su licenza di Out of Nowhere S.r.l.
Il presente volume deve essere venduto esclusivamente in abbinamento al quotidiano Corriere della Sera
LE GRANDI COLLANE DEL CORRIERE DELLA SERA
Direttore responsabile: Luciano Fontana
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Sede legale: via Rizzoli 8, 20132 Milano
Reg. Trib. N. 179 del 15/03/2006
ISSN 1828-0501
Responsabile area collaterali Corriere della Sera: Luisa Sacchi
Editor: Martina Tonfoni, Fabrizia Spina
Focus e pagine scelte a cura di Brunello Mantelli
Ideazione e introduzioni di Giorgio Rivieccio
Concept e realizzazione: Out of Nowhere Srl
Impaginazione: Marco Pennisi & C. Srl
Biografie a cura di Laura Pulejo
Redazione: Flavia Fiocchi
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Indice
La sconfitta dell’Occidente
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PANORAMA
Lo scenario
Il protagonista
Altri personaggi
I numeri
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FOCUS
a cura di Brunello Mantelli
Gli eventi
Società, cultura, istituzioni
Bilancio ed eredità
Luci e ombre
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APPROFONDIMENTI
Pagine scelte
Leggere, vedere, visitare
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LA SCONFITTA DELL’OCCIDENTE
I cinquanta milioni di morti causati, solo in Europa, dalla Seconda guerra mondiale sono il suggello – infuocato e
plumbeo – di un’era dell’Occidente durata secoli, se non
millenni, e giunta a una svolta. Una svolta anticipata già
agli inizi del secolo, quando per la prima volta una sola
nazione, la Germania, iniziò a lavorare per conquistare
l’egemonia nel Continente (che all’epoca coincideva semanticamente con il mondo): un progetto che fino a quel
momento nessun Paese aveva mai osato intraprendere. Fu
un canovaccio ripetuto nel 1939 con l’intenzione di creare un “nuovo ordine” in Europa e “germanizzarla”, allontanando o sopprimendo con ogni mezzo chi, per nascita,
etnia, religione, condizioni psicofisiche, non corrispondesse all’archetipo di una perfezione inesistente scaturita da
menti corrose da deliri di onnipotenza.
Il bilancio diviene infatti ancora più drammatico se
si pensa che la maggioranza di questi cinquanta milio7
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ni di persone era costituita da civili (nella Prima guerra
mondiale, in questo senso anticipatrice di tale situazione,
i civili uccisi furono inferiori ai morti in battaglia). La
guerra guerreggiata ne è stato solo un aspetto: il conflitto
ha messo in luce gli abissi in cui può precipitare la crudeltà
umana, l’annullamento di ogni diritto naturale dell’uomo,
e non solo di quello – fondamentale e intangibile – alla
vita, dissoltosi negli stermini di massa: la “pulizia etnica”
compiuta tanto dalla Germania di Hitler quanto dalla
Russia di Stalin non causò solo milioni di morti, ma molti
altri milioni di profughi. Per giungere all’epilogo delle due
bombe atomiche sganciate dagli Stati Uniti su Hiroshima
e Nagasaki, responsabili dell’annientamento di 280.000
civili attraverso una morte sconosciuta, in parte subitanea,
in parte seguita a lunghe agonie e alla devastazione del
corpo causata dalle radiazioni. Anche questo fu un evento
destinato ad aprire una nuova era nella storia del mondo:
la guerra a distanza, la guerra istantanea che rende possibile raggiungere in poco tempo qualsiasi parte della Terra e
nella quale nessuno può più dirsi al sicuro.
Non è stata una bella eredità quella che l’Occidente
ha lasciato ai suoi abitanti quando si spensero gli ultimi
focolai di fiamme qua e là in Eurasia: millenni di civiltà,
culture, Diritto, incapaci di avere impedito eventi del
genere. È stata la grande sconfitta del mondo occidentale,
inflitta non da quegli “altri” con cui nella sua storia si è
misurato il più delle volte conflittualmente, ma da parte
di se stesso.
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L’autoaggressione dell’Occidente avrebbe trasformato
profondamente anche la sua geopolitica. Apparentemente,
quasi nulla cambiò per quanto riguardava i confini delle
sue nazioni, caso unico di una guerra di simile vastità che
lasci sostanzialmente inalterate le carte geografiche. A cambiare fu il ruolo degli Stati che entro tali confini si trovavano: nel giro di sei anni, le potenze che per secoli avevano
avuto in mano i destini del mondo – Inghilterra, Francia e Germania – furono drasticamente ridimensionate.
I nuovi detentori del potere furono le due nazioni, Usa e
Urss, che fino a poco prima erano rimaste ai margini dei
grandi eventi, più occupate a rafforzarsi internamente che
a intervenire nei giochi geopolitici dell’Europa. Da quel
momento, nessun europeo, dell’Ovest e dell’Est, si sarebbe
più potuto sentire padrone a casa propria.
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PANORAMA
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La spiaggia di Omaha Beach all’indomani dello sbarco in Normandia del D-Day.
Dalle navi statunitensi sbarcano i camion con i rifornimenti. 7-10 giugno 1944.
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LO SCENARIO
L
a Prima guerra mondiale aveva messo in evidenza
che la Germania poteva essere, comunque, la maggiore potenza europea; il Trattato di Versailles l’aveva fortemente indebolita ma non piegata nelle sue aspirazioni
di dominio. La fine della fragile Repubblica di Weimar,
l’arrivo di Hitler e il progressivo annacquamento delle
condizioni del Trattato erano tutti segnali che, in breve,
gli eredi di Bismarck avrebbero rialzato la testa.
Come afferma lo storico inglese Norman Davies,
«è sempre più evidente che i due conflitti abbiano fatto parte di un unico processo dinamico: le due guerre mondiali furono due atti consecutivi di un unico
dramma […]. Di fatto l’epoca della guerra aperta e
generale fu in qualche modo confinata a quei 30 anni insanguinati. Cominciò e finì, in modo del tutto appropriato, nella capitale tedesca, Berlino. Ebbe
inizio il 1° agosto 1914, nella cancelleria imperiale,
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Parata di truppe tedesche a Varsavia dopo l’invasione della Polonia.
Settembre 1939.
con la dichiarazione di guerra del Kaiser alla Russia.
Finì l’8 maggio 1945 nel quartier generale sovietico a
Berlino-Karlshorst, dove il terzo e ultimo trattato di
capitolazione della Germania siglò la resa incondizionata del paese».*
Tuttavia, questa escalation avvenne – se non nell’indifferenza – in una scarsa consapevolezza delle altre nazioni europee: la Russia era concentrata sui problemi
interni conseguenti alla Rivoluzione; l’Inghilterra si era
richiusa nel suo isolamento; la Francia tentò deboli alleanze con deboli Paesi – Polonia, Cecoslovacchia, Romania – per arginare una futura espansione tedesca a
Est (come effettivamente avvenne). Gli stessi Stati Uniti, dopo il loro intervento cruciale nella Grande Guerra, erano tornati ai propri affari, anche per fronteggiare
la crisi economica iniziata nel 1929.
* N. Davies, Storia d’Europa, Bruno Mondadori, Milano 2001
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Lo storico francese Edmond Vermeil, liberale e poi
attivo nella Resistenza francese, già negli anni Trenta
del secolo aveva messo in guardia dalla minaccia di
un prossimo tentativo di dominazione razzista tedesca dell’intero Continente. E, a guerra finita, avrebbe scritto: «Dal 1870 al 1915 nella storia tedesca c’è
una costante d’idee e di fatti così insistente che non
si può nutrire alcun dubbio sulla volontà dominatrice della Germania. Le due guerre mondiali non sono
state determinate da motivi contingenti o da questioni
economiche, sociali e politiche, ma da una mentalità di dominio profondamente radicata, sentita e testimoniata da tutta la cultura, filosofia, arte, letteratura e religione del popolo tedesco. Non si possono
considerare “accidenti” il costante e sempre vivo credo
pangermanista, l’inesorabile militarismo prussiano e la
tenacissima presunzione di superiorità di razza, il culto
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della forza, l’autocrazia e la ragion di Stato che sono
note sostanziali e permanenti da Bismarck a Hitler».
Concludendo:
HITLER FU CONDOTTO ALLA GUERRA DAL
“
PANGERMANESIMO, DAL MILITARISMO, E
DALL’ANTISEMITISMO, CHE SONO ANTERIORI
AL 1939; NELL’ULTIMA GUERRA LA GERMANIA
MANIFESTÒ AL MONDO IL SUO MODO DI
PENSARE DI PRIMA, MA CON MOLTA PIÙ
BRUTALITÀ DI PRIMA E SENZA L’ABILE
PREPARAZIONE PRECEDENTE.*
”
Che fosse questa la causa primaria della guerra, oggi è
una convinzione che trova concordi gli storici dopo gli
anni di polemiche su questo tema all’indomani della fi* E. Vermeil, La Germania contemporanea, Laterza, Bari 1956
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Adolf Hitler davanti alla Torre Eiffel dopo la conquista di Parigi.
23 giugno 1940.
ne delle ostilità, mentre per esempio si discute ancora
sull’inevitabilità o meno del Primo conflitto mondiale.
Sta di fatto che, come affermava lo storico francese delle
relazioni internazionali Pierre Renouvin, fino all’ultimo
momento la guerra si sarebbe potuta evitare «se il governo tedesco l’avesse voluto».
Ma anche i futuri Alleati anti-Asse ebbero una non
piccola responsabilità nel favorire il programma hitleriano. Tra le tante vicende che fecero da prodromi al
conflitto, la più significativa è probabilmente la Conferenza di Monaco del settembre 1938, che in sostanza
dette il via libera al Führer per annettersi il territorio dei
Sudeti, all’epoca parte della Cecoslovacchia. Le potenze
europee, l’Inghilterra di Neville Chamberlain, la Francia di Édouard Daladier, l’Italia di Benito Mussolini,
organizzarono in fretta e furia l’incontro con Hitler (fu
Chamberlain a pregare Mussolini di fare da interme17
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Un bombardiere statunitense B-17 durante il primo grande raid
dell’Air Force Usa sulla Germania. Il raid distrusse gran parte
degli stabilimenti aeronautici Focke-Wulf di Marienburg. 9 ottobre 1943.
diario con il Führer), sperando di “comprarselo” con la
concessione di un territorio che in realtà era di uno Stato sovrano terzo (né la Cecoslovacchia né l’Urss furono
invitate alla Conferenza), così da tenerlo a bada per impedirgli future conquiste.
Chamberlain e Daladier furono acclamati dalle rispettive popolazioni per aver garantito, così, “la pace in
Europa”. Soprattutto Chamberlain, che sarebbe rimasto
famoso per la sua politica compromissoria di conciliazione a tutti i costi con la Germania, tornò a Londra
orgoglioso e, dopo aver riferito gli esiti della Conferenza
alla Corona britannica, pronunciò un discorso rimasto
storico. Rifacendosi a quanto aveva detto il suo lontano predecessore Benjamin Disraeli all’indomani del
proprio ritorno da Berlino, dopo il famoso Trattato del
1878 che dette un nuovo ordine all’Europa rendendola
però fortemente instabile (tanto da essere considerato
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uno dei precursori degli eventi che poi sarebbero sfociati nella Prima guerra mondiale), affermò:
MIEI CARI AMICI, QUESTA È LA SECONDA
“
VOLTA NELLA NOSTRA STORIA IN CUI SI TORNA
DALLA GERMANIA A DOWNING STREET
CON UNA PACE ONOREVOLE.
CREDO CHE SIA UNA PACE PER LA NOSTRA EPOCA.
[…] ORA VI RACCOMANDO DI TORNARE A CASA
E ANDARE A DORMIRE TRANQUILLAMENTE
NEI VOSTRI LETTI.*
”
L’Inghilterra così si addormentò tranquilla ed esattamente un anno dopo Hitler invase la Polonia dando inizio alla Seconda guerra mondiale. Poi, come sappiamo,
Chamberlain si sarebbe dimesso nel 1940, dopo l’in* N. Chamberlain, discorso del 30 settembre 1938, trad. a cura della redazione
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La tragica ritirata dal Don degli alpini dell’Armir (Armata italiana in Russia)
che tra il luglio 1942 e marzo 1943 operò sul Fronte orientale,
in appoggio alle forze tedesche della Wehrmacht impegnate sul fronte di Stalingrado.
I caduti italiani della Campagna di Russia furono 74.800
(un quarto di tutte le perdite della guerra),
la maggior parte morti in combattimento o nella tragica ritirata.
vasione tedesca della Norvegia, sostituito da Winston
Churchill che invece di «sonni tranquilli» promise «sangue, sudore e lacrime» agli inglesi, ma vinse la guerra.
In realtà, la “passività” di Inghilterra e Francia non deve addebitarsi soltanto alla miopia dei suoi leader: i due
Paesi non avevano alcuna intenzione di lanciarsi in una
nuova guerra mondiale, sia per la secolare inimicizia che li
divideva, sia per problemi interni, sia per un sentimento
ambivalente nei confronti dei fascismi e del nazismo (in
Francia soprattutto da parte della classe dirigente, in Inghilterra anche da parte della popolazione).
Come osserva lo storico francese Marc Ferro, «il patto
Hitler-Stalin [Patto Molotov-Ribbentrop – ndr] dell’agosto 1939, “Waterloo” della diplomazia franco-britannica, aveva avuto solo l’effetto secondario di riconciliare
fra loro quei francesi che, sull’orlo della guerra civile dopo il 1934 e il Fronte popolare, avevano ora il pretesto di
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combattere insieme il comunismo e il nazismo. Tuttavia
[…] il sentimento anti-inglese gareggiava con il timore
del bolscevismo e con l’odio contro ebrei e massoni. In
Inghilterra esisteva una forte tradizione antibolscevica
[…] ma questo antibolscevismo non era controbilanciato, come in Francia, da un antifascismo militante, cosicché nel Paese non regnava un’atmosfera da guerra civile.
L’Inghilterra benestante era per la pace».*
Lo stesso Patto Ribbentrop-Molotov benedetto da
Stalin, che giunse inatteso e lacerò l’opinione pubblica
europea, e soprattutto i partiti di sinistra, ha avuto e ha
tuttora alcune letture differenti. Quella che trova concordi molti storici, e che si rifà alla stessa visione dell’accordo che tradizionalmente ha dato l’Unione Sovietica,
fatta propria da Palmiro Togliatti (nonché ribadita da
Vladimir Putin in tempi recentissimi: «del resto doveva* M. Ferro, La Seconda Guerra Mondiale. Problemi aperti, Giunti, Firenze 1993
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mo difenderci») è la motivazione tattica. Lo storico Sergio Romano ricorda a questo proposito che «l’Urss era
circondata da potenze che consideravano il comunismo
una potenziale minaccia, e non era allora in condizione
di combattere. Per due ragioni. In primo luogo perché
Stalin, durante le purghe del 1937, aveva quasi interamente incarcerato e soppresso il vertice dell’Armata
Rossa. In secondo luogo perché era scoppiata qualche
giorno prima, sulla frontiera della Mongolia, una piccola guerra tra l’Urss e il Giappone. Se fosse stata coinvolta
nel conflitto europeo, l’Urss avrebbe dovuto battersi su
due fronti in condizioni di grande debolezza».*
Altre letture pongono invece l’accento sulla volontà imperialista di Stalin e considerano il Patto MolotovRibbentrop l’anticamera di una futura spartizione del­l’Est
Europa tra le due potenze. Come osserva lo stesso Romano,
* S. Romano, Hitler e Stalin, le affinità elettive di due dittatori, Corriere della Sera, 11 aprile 2005
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Partigiani del distaccamento Buranello
sfilano a Sestri Ponente nel 1945.
STALIN NON SI LIMITÒ A PROTEGGERE
“
IL PROPRIO PAESE. APPROFITTÒ DELLA
GUERRA TEDESCA PER IMPADRONIRSI DI UN
TERZO DELLA POLONIA, DI UNA PROVINCIA
ROMENA, DI UN PEZZO DI FINLANDIA E DI TRE
REPUBBLICHE SOVRANE DEL BALTICO.*
”
Questa lettura del Patto viene così commentata dagli
storici Eugenio Di Rienzo ed Emilio Gin: «I carteggi
diplomatici franco-britannici della turbolenta seconda
metà del 1939 mostrano le Cancellerie europee disposte a giocare su ogni tavolo, in assoluta libertà, rispetto
all’ingessata visione della lotta fascismo-antifascismo».**
Peraltro, anche Lev Trockij, il teorico della «rivolu* S. Romano, Hitler e Stalin, le affinità elettive di due dittatori, cit.
**E. Di Rienzo, E. Gin, Le potenze dell’Asse e l’Unione Sovietica 1939-1945, Rubbettino,
Soveria Mannelli 2013
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Churchill, Roosevelt e Stalin alla Conferenza di Jalta (4-11 febbraio 1945),
nella quali i vincitori della Guerra divisero l’Europa in due aree di influenza,
statunitense e sovietica.
zione permanente», nella seconda metà degli anni Trenta del secolo, durante l’esilio che si sarebbe concluso nel
1940 con il suo assassinio da parte dei sicari di Stalin,
affermava: «Solo degli idioti possono pensare che gli
antagonismi imperialistici mondiali siano determinati
da una contrapposizione inconciliabile tra democrazia e
fascismo». Aggiungendo:
DI FATTO, LE CRICCHE DIRIGENTI DI TUTTI
“
I PAESI CONSIDERANO LA DEMOCRAZIA, LA
DITTATURA MILITARE, IL FASCISMO ECCETERA,
COME STRUMENTI E METODI DIVERSI PER
SUBORDINARE I LORO POPOLI AI FINI
IMPERIALISTICI.*
”
Fatto sta che la Seconda guerra mondiale trasformò com*L.Trockij, Guerra e Rivoluzione, Mondadori, Milano 1973
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pletamente le relazioni internazionali dividendo il mondo in due parti, ognuna regolata da due diversi modelli
politico-sociali, se non si vuole dire ideologici, con una
trasformazione irreversibile. Le nazioni protagoniste della Grande Guerra, Inghilterra, Francia e Germania – ma
anche gli altri Paesi europei che avevano fatto la storia
dell’Occidente –, risultarono fortemente ridimensionate,
perché sovrastate dai due giganti Usa e Urss – uno occidentale ma non europeo, l’altro europeo ma non occidentale – e ricostruite con indirizzi che giungevano in
sostanza da questi ultimi. Fu questa la vera cesura che
fece sprofondare nel passato tutta la storia dell’Occidente, dai suoi inizi fino alla vigilia della Conferenza di Jalta.
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MONDO
PENSIERO
1921 Viene pubblicato il Tractatus logicophilosophicus del filosofo e logico austriaco Ludwig Wittgenstein, il quale sostiene che le proposizioni della filosofia
tradizionale, non riconducibili né alle proposizioni elementari di significato empirico, né a quelle logico-matematiche,
sono pseudo-proposizioni “senza senso”.
Pertanto la filosofia non è una dottrina
ma soltanto un’attività chiarificatrice.
1922 Dopo la Marcia su Roma, Benito Mussolini diviene primo ministro. Nel 1925
assumerà il potere assoluto dando inizio alla dittatura fascista.
Si forma l’Unione delle Repubbliche
Socialiste Sovietiche (Urss), il primo
Stato comunista ufficiale della storia.
1929 La crisi di Wall Street innesca la Grande
Depressione negli Stati Uniti.
1930 Il Mahatma Gandhi dà inizio ufficialmente in India al movimento di disobbedienza civile contro la dominazione
britannica. Verrà assassinato nel 1948.
1923 Si forma la cosiddetta Scuola di Francoforte, di impronta filosofica e sociologica neomarxista, che comprende i
filosofi influenzati dall’ambiente del­
l’Istituto per la ricerca sociale della città
tedesca. Fra i suoi esponenti, Horkheimer, Adorno, Habermas, Pollock.
Il filosofo e critico letterario ungherese
György Lukács pubblica il saggio Storia
e coscienza di classe, testo fondamentale della teoria marxista, in cui vengono sviluppati i concetti di alienazione,
reificazione e prassi.
1931 Il Giappone invade la Manciuria
1933 Adolf Hitler diviene cancelliere della
Germania. L’anno successivo si autoproclama presidente del Reich e Führer.
Ha inizio la dittatura nazionalsocialista
e la promulgazione delle prime leggi
razziali contro gli ebrei.
1935 L’Italia invade l’Etiopia.
1924 Il filosofo e scienziato tedesco Moritz
Schlick, esponente del positivismo logico, fonda il Circolo di Vienna, del quale
faranno parte filosofi e logici come Rudolf Carnap, Otto Neurath e occasionalmente Kurt Gödel e Hans Reichenbach.
Il circolo resterà attivo fino al 1936,
anno in cui Schlick sarà assassinato da
uno studente di estrema destra.
1936 Inizio della Guerra Civile Spagnola con
una rivolta militare contro la Repubblica. La guerra si concluderà nel 1939
con l’istituzione della dittatura da parte
del generale Francisco Franco.
1938 La Germania annette l’Austria.
Sono promulgate in Italia le prime leggi razziali.
Patto di Monaco: Gran Bretagna e Francia
approvano l'invasione della Germania
del territorio dei Sudeti (Cecoslovacchia)
1927Esce Essere e tempo del filosofo tedesco Martin Heidegger, considerato
il “manifesto della filosofia dell’esistenza” o esistenzialismo, per il quale
il problema dell’essere passa necessariamente attraverso lo studio di
quell’ente che è l’uomo.
1939 La Germania e l’Italia stringono il Patto
d’Acciaio. La Germania e l’Unione Sovietica firmano il Patto di non aggressione
Molotov-Ribbentrop. L’invasione nazista
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LETTERATURA E ARTI
SCIENZA ED ESPLORAZIONI
1926 L’inglese John Logie Baird presenta il
primo apparecchio televisivo, perfezionato e utilizzabile alla fine del decennio.
1922 L’irlandese James Joyce pubblica
Ulysses, romanzo che si allontana da
ogni convenzione formale e logica per
lasciare libero il flusso del pensiero e
che influirà profondamente sulla letteratura del Novecento.
Esce La terra desolata, di Thomas
Stearns Eliot, rappresentazione della
vita quotidiana come epica degradata,
di un’umanità fatta di eroi urbani privi
di qualunque ideale.
1927 Viene proiettato in pubblico negli Stati Uniti The jazz singer (Il cantante di
jazz), primo film interamente sonoro
della storia.
1927 Il belga Georges Lemaître elabora la
teoria del Big Bang, secondo cui l’universo sarebbe nato da un «superatomo»,
un concentrato di materia ed energia
che esplodendo avrebbe originato le
galassie e dato origine all’espansione
dell’universo.
Lo statunitense Charles Lindbergh compie il primo volo solitario New York-Parigi
senza scalo.
1923 Italo Svevo pubblica La coscienza di
Zeno, romanzo che smembra l’unità
cronologica del racconto, descrive
l’assurdità della vita e si inquadra
nella confluenza del pensiero negativo
e antipositivista di Schopenhauer, di
Nietzsche e di Freud.
1924 Viene eseguita la Rapsodia in blu di
George Gershwin, primo esempio di
unione della classicità musicale con
elementi del jazz e del blues.
1928 L’inglese Alexander Fleming scopre la
penicillina.
1930 Vola a Ciampino (Roma) il primo elicottero, progettato dall’ingegnere Corradino D’Ascanio.
1927 Esce il film Metropolis dell’austriaco
Fritz Lang, tra le opere simbolo del
cinema espressionista, ed è universalmente riconosciuto come modello di
gran parte del cinema di fantascienza.
1931 Viene realizzata negli Stati Uniti la
prima chitarra elettrica, che entrerà in
commercio nel 1947, rivoluzionando la
scena musicale del mondo e permettendo la nascita della musica rock.
1929 Viene diffuso il Manifesto del Surrealismo di André Breton, che dà vita a
questa corrente artistica che avrà i
massimi esponenti in Salvador Dalí,
Max Ernst, René Magritte, Man Ray.
1932 James Chadwick scopre il neutrone,
Harold Urey il deuterio, Carl David Anderson scopre il positrone (elettrone
positivo), primo esempio di antimateria.
1932 Viene pubblicato il libro Il mondo nuovo dello scrittore britannico Aldous
Huxley. Il testo anticipa temi quali lo
sviluppo delle tecnologie della riproduzione, l’eugenetica e il controllo
1935 L’inglese Sir Robert Alexander WatsonWatt inventa il radar.
1937 Negli Stati Uniti esplode l’Hindenburg,
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MONDO
PENSIERO
della Polonia innesca la Seconda guerra
mondiale, con la Dichiarazione di guerra
alla Germania da parte di Francia e Gran
Bretagna e l’invasione della Polonia
orientale da parte di truppe sovietiche.
1931 Il matematico austriaco Kurt Gödel
pubblica il teorema di incompletezza sintattica, destinato a scuotere le
fondamenta della matematica. Gödel
dimostra infatti l’impossibilità di
costruire un sistema matematico in
grado di offrire una certezza globale:
la matematica è nel vero soltanto se è
considerata incompleta.
1940 A giugno, l’Italia dichiara guerra alla
Francia e alla Gran Bretagna, schierandosi a fianco della Germania.
Tra agosto e settembre si svolge la
Battaglia d’Inghilterra
A settembre, Italia, Germania e Giappone sottoscrivono il Patto tripartito,
detto anche Asse Roma-Berlino-Tokyo.
1942 Il filosofo tedesco Walter Benjamin
scrive le Tesi sul concetto di storia
nelle quali espone un modello marxista
di storia che sapesse reggere alle catastrofi del XX secolo, quale fulcro teorico
di resistenza per la lotta a venire.
1941 A giugno la Germania lancia la sua offensiva contro la Russia. A dicembre il
Giappone attacca la base Usa di Pearl
Harbor e gli Stati Uniti entrano in guerra.
1943 Lo scrittore e filosofo francese JeanPaul Sartre pubblica L’essere e il nulla,
testo che riprende la fenomenologia di
Husserl e l’esistenzialismo di Heidegger per un’analisi pessimistica dell’esistenza umana, segnata dall’angoscia
dovuta alla sua presunta totale libertà,
che si rivela in realtà come una libertà
falsa, basata sul nulla.
1942 Ondata di vittorie alleate nelle Midway,
a Stalingrado e El Alamein.
1943 L’Italia si arrende agli Alleati.
1944 Sbarco in Normandia e liberazione della Francia.
1947 Il filosofo tedesco Max Horkheimer
pubblica Eclisse della ragione, testo
che rappresenta una spietata critica
della società contemporanea occidentale, riassunta nella “logica del dominio”, nella quale fa rientrare anche
l’esperienza rivoluzionaria.
1945 Finisce in Europa la Seconda guerra
mondiale. La Germania accetta la resa
incondizionata. A Jalta i tre vincitori,
Churchill, Roosevelt e Stalin, dividono
l’Europa in due aree di influenza. Mussolini viene giustiziato. Hitler si suicida.
In Estremo Oriente gli Usa lanciano le
prime bombe atomiche su Hiroshima e
Nagasaki portando alla resa del Giappone. La Conferenza di Potsdam divide
l’Europa nel blocco occidentale e quello
orientale.
1951Esce Minima Moralia del filosofo e musicologo tedesco Theodor Adorno, che
manifesta intuizioni inquietanti sulle
tendenze generali della società tardo-industriale, che precipita verso l’inumanità.
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LETTERATURA E ARTI
SCIENZA ED ESPLORAZIONI
mentale, usati per forgiare un nuovo
modello di società, nella quale l’uomo
perde ogni connotazione individuale,
come in una specie di limbo.
decretando la fine dell’èra dei velivoli
«più leggeri dell’aria».
1938 I tedeschi Otto Hahn e Fritz Strassmann
scoprono la fissione dell’atomo. È l’alba dell’èra nucleare che porterà alla
pila atomica e alla bomba atomica.
1937 Esce il film Biancaneve e i sette nani di
Walt Disney. È il primo lungometraggio di
animazione e segnerà l’avvio di un genere che trasformerà alcuni canoni dell’intrattenimento per bambini (e adulti).
1939 Albert Einstein scrive al presidente
americano Franklin Delano Roosevelt
la lettera in cui lo informa che in Germania potrebbe essere realizzata la
bomba atomica. Gli Stati Uniti avviano
così il Progetto Manhattan che condurrà al primo ordigno nucleare.
Vola in Germania il primo aereo a reazione, un Heinkel 178.
1939 Il presidente americano Franklin Delano Roosevelt inaugura il primo servizio
al mondo, regolare e definitivo, di trasmissioni televisive. Nasce un nuovo
mezzo di comunicazione che influirà
profondamente sui linguaggi e sui
connotati socioculturali del mondo.
1942 A Chicago entra in funzione la pila atomica di Fermi.
Lancio delle V2: dall’isoletta di Peenemünde sul Baltico l’ingegnere tedesco Wernher von Braun fa volare la
V2, primo razzo a propellente liquido
pilotato automaticamente, che però
non modificherà la sorti del conflitto.
Dalla V2 von Braun svilupperà i razzi
dei programmi spaziali americani che
culmineranno con lo sbarco dell’uomo
sulla Luna (1969).
1947 Lo scrittore tedesco Thomas Mann
pubblica Doktor Faustus, considerato
la summa della sua opera, che è stata
rivolta in massima parte alla crisi dello
spirito e della nazione germanica, tra
la razionalità e la fiducia nel progresso e la dissoluzione sociale e politica
dell’ex Impero tedesco.
1949Esce 1984 dello scrittore britannico
George Orwell, romanzo che descrive con satirica amarezza l’abisso dei
regimi totalitari, tanto da far nascere
l’aggettivo “orwelliano”.
1946 Fabbricato in Usa l’Eniac, il primo calcolatore elettronico (computer).
1947 Gli americani Walter Brattain e John
Bardeen realizzano il primo transistor,
che apre l’epoca della miniaturizzazione dell’elettronica e della portatilità degli apparecchi, dalle radio ai computer.
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Albert Speer, 1933.
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IL PROTAGONISTA
Albert Speer, architetto e uomo politico tedesco. Amico personale di Hitler, principale ispiratore degli ambiziosi progetti architettonici e urbanistici del Terzo Reich
nonché della complessa liturgia politica che ne informava adunate e cerimonie ufficiali, fu tra i pochi gerarchi
che a Norimberga ammisero le colpe della Germania
nazista, scampando così al patibolo.
Nato nel 1905 a Mannheim, nel Baden-Württemberg,
da una facoltosa famiglia di architetti, benché più incline
alla matematica, fu persuaso dal padre a non abbandonare la tradizione familiare. A sua volta, intraprese dunque
gli studi di architettura a Karlsruhe, poi al politecnico
di Monaco e infine, nel 1925, al politecnico di BerlinoCharlottenburg, dove appena laureato divenne assistente.
Intanto, nell’agosto del 1928, incurante della disapprovazione materna, aveva sposato l’amata Margarete
Weber, fedele compagna che gli avrebbe dato sei figli e
cui avrebbe in seguito dedicato i propri diari di prigionia.
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La vita di Speer giunse a una svolta quando, sul finire del 1930, assistette casualmente a una conferenza
tenuta agli studenti del Politecnico da un Hitler calmo
e civile, in rassicuranti abiti borghesi quasi «volesse sottolineare la moderazione e il buon senso». Ricordando
nelle sue Memorie lo stupore provato nel trovarlo così
diverso dalle caricature che se ne facevano all’epoca – e
riflettendo su ciò che a quel tempo ancora non conosceva e che solo più tardi avrebbe imparato su Hitler –
Speer osserva «che egli sapeva sempre conformarsi, per
calcolo o per istinto, all’ambiente che lo circondava». Fu
allora che venne conquistato dalla sua oratoria:
MI SENTIVO TRASCINATO DALL’ENTUSIASMO
“
STESSO DA CUI ERA CONTINUAMENTE SORRETTO
IL DISCORSO, UN ENTUSIASMO COSÌ INTENSO
CHE MI SEMBRAVA DI POTERLO TOCCARE. ESSO
DEMOLIVA OGNI RISERVA, OGNI SCETTICISMO,
E FACEVA AMMUTOLIRE GLI AVVERSARI,
CREANDO, IN CERTI MOMENTI, L’IMPRESSIONE
DI UN’UNANIMITÀ CHE NON ESISTEVA.*
”
Tutt’altra impressione ebbe nell’ascoltare, alcune settimane dopo, gli eccessi di Goebbels al palazzo dello
Sport. Eppure, forse a seguito del violento intervento
con cui la polizia disperse i manifestanti, o forse per ef* Tutte le citazioni, tranne dove espressamente indicato, sono da A. Speer, Memorie del Terzo
Reich, trad. di E. e Q. Maffi, Mondadori, Milano 1995
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fetto dell’appassionato discorso di Hitler, pochi giorni
dopo s’iscrisse al Partito. «Nessuna drammaticità nella
mia decisione: né allora né poi mi sentii membro di un
partito politico. E in verità non avevo scelto la NSDAP.
Mi ero semplicemente messo al fianco di Hitler». Iniziò
a partecipare alle sfilate delle SA (le Sturmabteilungen,
cioè i reparti d’assalto) perché gli trasmettevano sensazione di ordine e fiducia in quei tempi così incerti.
Grazie a un giovane dirigente, Karl Hanke, futuro deputato, poi viceministro della Propaganda e infine ufficiale della Wehrmacht, ebbe avvio la sua prima collaborazione come architetto con la risistemazione di una sede del
Partito. Ma, a seguito della Grande Depressione economica, gli stipendi dei docenti furono ridotti severamente
e decise di lasciare il Politecnico per tornare con la moglie
a Mannheim, dove aprì un proprio studio di architettura.
Fu nel 1933, anno dell’ascesa al potere del Führer, che
Hanke, divenuto capo organizzativo della circoscrizione
politico-amministrativa, gli chiese di tornare a Berlino.
Goebbels lo incaricò di ristrutturare il palazzo del ministero della Propaganda, opera del grande Karl Friedrich
Schinkel, e rimase talmente soddisfatto del risultato che
Speer fu chiamato nel luglio dello stesso anno per gli
allestimenti del raduno del Partito a Norimberga. Hitler
si ricordò di lui quando ebbe bisogno di affiancare un
architetto a Paul Troost, direttore dei lavori di rinnovamento della Cancelleria del Reich a Berlino.
La sua carriera spiccò il volo quando, in seguito
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all’improvvisa morte di Troost (1934), lo sostituì, appena ventinovenne, nel ruolo di architetto-capo del Partito. Spettò a lui realizzare la nuova tribuna in pietra in
sostituzione di quella in legno allo Zeppelinfeld di Norimberga, il campo dove avveniva il raduno annuale del
Partito. Per la sua spettacolare scenografia si ispirò all’Ara di Pergamo – ricostruita e inaugurata poco tempo
prima a Berlino – le cui dimensioni ingrandì enormemente per accogliere fino a 240.000 persone. La sfilata
in notturna, proposta da Speer per nascondere lo scarso
physique du rôle dei «gerarchetti» che vi partecipavano,
fu illuminata dai fasci di luce verticale di 130 riflettori
di contraerea: la “cattedrale di luce” immortalata nel filmato Il trionfo della volontà di Leni Riefenstahl.
Le ambiziose visioni di Hitler sembravano pienamente incarnarsi nello stile maestoso del suo architetto,
deciso a innalzare edifici che testimoniassero la grandezza del Terzo Reich per migliaia di anni. Il Führer, che in
gioventù aveva sognato di diventare un artista, nutriva
una vera ammirazione per la geniale creatività di Speer e
ben presto tra i due si instaurò un rapporto particolare,
privilegiato. In apertura della sua deposizione al Processo di Norimberga, Speer espose il proprio percorso di
vita dichiarando:
SONO ENTRATO IN STRETTO CONTATTO
“
CON HITLER A CAUSA DELLA PASSIONE
CHE AVEVA PER L’ARCHITETTURA.
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HO FATTO PARTE D’UNA CERCHIA CHE
COMPRENDEVA ALTRI ARTISTI E IL GRUPPO
DEI PERSONALI COLLABORATORI.
SE HITLER FOSSE STATO CAPACE DI AVERE
AMICI, IO SAREI STATO SICURAMENTE UNO
DEI SUOI AMICI PIÙ STRETTI.*
”
Il dittatore, del resto, non celava la propria predilezione
per il giovane professionista; passava con lui ore e ore al
tavolo da disegno a discutere idee e progetti, lo riceveva in
privato in qualsiasi momento e manifestava familiarità nei
suoi confronti anche in pubblico; da lui amava farsi accompagnare alle mostre d’arte e in ogni simile occorrenza.
Dopo aver progettato lo Stadio per le Olimpiadi del
1936, Speer – nominato nel 1937 ispettore generale per
l’edilizia a Berlino – fu incaricato della ristrutturazione
urbanistica della città, futura capitale del mondo nei folli
piani di onnipotenza del Führer. Ancora una volta diede corpo ai sogni di grandezza di Hitler, disegnando una
città monumentale, con palazzi alti come grattacieli e un
immenso viale per le parate al centro, lungo più di cinque chilometri e largo 120 metri, ai cui estremi dovevano campeggiare un arco di trionfo alto 120 metri e una
cupola di 250 metri di diametro. Per realizzare l’utopico
progetto, che rimase sulla carta a causa dello scoppio della
guerra, furono requisiti e demoliti circa cinquantamila tra
* A. Speer, in G.M. Gilbert, Norimberga, riportato da J. Fest, Speer. Una biografia, Garzanti,
Milano 2000
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appartamenti e vani commerciali del centro della città,
con un protervo sventramento che assieme agli edifici fece
tabula rasa di tutto il tessuto sociale, in barba alle obiezioni dello stesso sindaco nazista di Berlino, Julius Lippert, e
dei suoi uffici. Speer non solo aveva assecondato la visione
megalomane del Führer, ma lo aveva superato andando,
come egli stesso afferma nelle sue Memorie, «molto al di là
del concetto hitleriano di colossale, se non altro dal punto
di vista dell’estensione della pianificazione urbanistica».
Hitler pensava agli edifici, Speer all’intera città, senza
darsi cura delle ripercussioni che ciò procurava agli esseri
umani: «Mi sentivo l’architetto di Hitler. Gli avvenimenti
politici non mi riguardavano». Eppure, persino il padre
era inorridito di fronte ai deliranti plastici della città:
ANCHE MIO PADRE VENNE A VEDERE I LAVORI
“
DEL FIGLIO DIVENUTO CELEBRE. DAVANTI AI
MODELLI SCROLLÒ LE SPALLE E DISSE «SIETE
DIVENTATI COMPLETAMENTE PAZZI!»
”
Sempre nel 1937, disegnò il padiglione tedesco per l’Esposizione universale di Parigi, che fu premiato insieme
a quello sovietico ideato da Boris Iofan, e nel 1938 iniziò
la costruzione della nuova Cancelleria del Reich, destinata a essere distrutta dall’Armata Rossa (1945). Speer
la completò in meno di un anno, secondo i desideri di
Hitler. Intanto la sua influenza cresceva. Nel 1942, dopo
la misteriosa morte in un incidente aereo, di Fritz Todt,
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ministro per gli Armamenti e la Produzione bellica, accettò di subentrargli nella carica, benché fosse privo di
vocazione politica, e divenne inoltre ispettore generale
per la viabilità e per le risorse idriche e l’energia.
Considerato fino ad allora soltanto un artista, diede
prova di straordinarie abilità organizzative oltre che di
uno zelo spietato. Per velocizzare il processo produttivo
ridusse al minimo la burocrazia e con 14 milioni di lavoratori coatti alle proprie dipendenze, reclutati nei campi
di concentramento o rastrellati per le strade d’Europa,
in due anni e mezzo riuscì a triplicare le forniture di
armi e munizioni, malgrado i danni causati dai bombardamenti alleati. Proprio per evitare le distruzioni, del
resto, le fabbriche di armamenti furono in molti casi
trasferite in miniere e siti segreti, con gli operai-schiavi
costretti a lavorare in condizioni disumane.
Ma nonostante l’impegno profuso, la Germania non
poteva competere con la produzione bellica degli Alleati
e, all’inizio del 1944, lo stesso Speer iniziò a comprendere che la situazione era disperata. Forse logorato dalla consapevolezza dell’imminente sconfitta, si ammalò
gravemente ma con grande sorpresa di tutti si riprese e
tornò al suo lavoro.
Nel 1945 fu uno dei pochi gerarchi a opporsi alla
strategia della “terra bruciata”, ultima pazzia di Hitler,
che ordinò ai suoi uomini di distruggere durante la ritirata tutto quanto potesse essere utilizzabile dal nemico.
Ben consapevole che la guerra era perduta, l’architetto
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disubbidì e negli ultimi giorni del conflitto pensò persino di assassinare il Führer immettendo gas nervino negli
impianti di aerazione del bunker sotto la Cancelleria di
Berlino che lui stesso aveva progettato. Malgrado ciò,
poco prima che Hitler si suicidasse volle incontrarlo e
gli confessò di aver sabotato i suoi ordini, ma il dittatore, conscio della fine vicina, lo lasciò andare. Speer
raggiunse allora Flensburg, sede del governo fantoccio
del grand’ammiraglio Karl Dönitz, nelle cui vicinanze
fu arrestato alla fine della guerra.
Processato a Norimberga insieme a molti altri gerarchi del regime, di fronte all’accusa di essersi servito di
manodopera in stato di schiavitù si dichiarò colpevole,
asserendo in sua difesa che fosse l’unico modo per far
fronte alle esigenze belliche. Ammise inoltre le proprie
responsabilità per il suo ruolo nel governo nazista, di cui
riconobbe i crimini, ma dichiarò di non essere a conoscenza dei piani di sterminio degli ebrei. Sfuggì così al
patibolo e fu condannato a venti anni di reclusione, che
scontò nel carcere berlinese di Spandau. Liberato nell’ottobre 1966 insieme al capo della Gioventù hitleriana,
Baldur von Schirach, si stabilì a Heidelberg, dove visse
ritirato i suoi ultimi anni, tormentato dai rimorsi e dal
sospetto dei tanti che nutrivano dubbi sulla sua sincerità.
Pubblicò diverse opere autobiografiche, tra cui le
Memorie del Terzo Reich (1969), scritte durante la prigionia, che ottennero un notevole successo editoriale, e
collaborò di frequente con storici e giornalisti impegnati
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in ricerche sulla Germania nazista. In una dichiarazione
del 1977 in cui definiva il Processo di Norimberga e la
propria condanna «complessivamente corretti» scrisse:
RITENGO TUTTORA GIUSTO ASSUMERMI
“
LA RESPONSABILITÀ E QUINDI ANCHE LA
COLPA DI QUEI CRIMINI […] COMMESSI SOLO
DOPO IL MIO INGRESSO NEL GOVERNO DI
HITLER […]. GUARDO TUTTORA ALLA SUPINA
ACCETTAZIONE DELLA PERSECUZIONE DEGLI
EBREI E AL MASSACRO DI MILIONI DI LORO
COME ALLA MIA MAGGIORE COLPA.*
”
Albert Speer morì il 1° settembre 1981, colto da un ictus
mentre era a Londra per partecipare a un programma
della BBC. Di lui scrisse lo storico Sebastian Haffner:
Speer «non è un nazista vistoso e pittoresco [ma] l’uomo
medio di successo, ben vestito, beneducato, non corrotto
[…]: il tecnico puro, l’uomo dalle brillanti attitudini che,
a prescindere dalle radici sociali e senza disporre d’un suo
patrimonio, non ha altro obiettivo che quello di far strada nel mondo […]. Questo è il loro tempo. Degli Hitler
e degli Himmler potremo anche sbarazzarcene. Ma gli
Speer, qualunque cosa possa loro individualmente accadere, rimarranno ancora a lungo fra di noi».**
* A. Speer, in J. Fest, Speer. Una biografia, cit.
** Ibidem
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ALTRI PERSONAGGI
William Henry Beveridge, economista e uomo politico
inglese (1879-1963). Nato a Rangpur (Bengala) da un
funzionario coloniale, si laureò in Legge a Oxford (1903)
ma rinunciò alla carriera forense per dedicarsi allo studio e alla soluzione di problemi sociali legati alla disoccupazione. Accettò allora l’incarico di vicedirettore del
Toynbee Hall, centro filantropico nel povero East End
di Londra, e curò poi per il Morning Post una rubrica
sulle politiche sociali. Avvicinatosi ai coniugi Sidney e
Beatrice Webb, esponenti di spicco della Fabian Society
e del riformismo socialista inglese, entrò in contatto con
Winston Churchill (1908), che lo volle come consulente alla Camera di Commercio e, ispirato dai suoi scritti,
istituì un sistema di agenzie di collocamento nazionali, le
Labour Exchanges di cui fu in seguito direttore. Divenne
segretario permanente al Ministry of Food, dove si distinse
tra i fautori del razionamento e del controllo dei prezzi.
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Nel 1919 lasciò la carriera amministrativa per dirigere la London School of Economics (fino al 1937) e poi
l’University College di Oxford, ma rimise le sue competenze al servizio del governo durante la Seconda guerra
mondiale, quando ideò il celebre Piano Beveridge (1942),
un innovativo sistema di sicurezza sociale preludente al
Welfare State, che entrò in vigore nel 1948. Deputato liberale, perse le elezioni del 1945 e, creato barone,
entrò alla Camera dei Lord. Tra le sue opere: Unemployment (1930); Full employment in a free society (1944).
George Catlett Marshall, uomo politico e generale statunitense (1880-1959). Nato a Uniontown (Pennsylvania)
da un mercante di carbone, si laureò al Virginia Military
Institute di Lexington e iniziò la sua carriera nelle forze
armate come sottotenente di fanteria nelle Filippine. Durante la Grande Guerra prestò servizio in Francia (19171918) e fu in seguito aiutante di campo del generale John
J. Pershing; trascorse poi alcuni anni in Cina e rivestì vari incarichi presso le scuole militari, tra cui la prestigiosa
scuola di fanteria di Fort Benning (Georgia), di cui fu vice­
comandante. Chiamato a dirigere la Sezione per i piani
di guerra (1938), divenne infine capo di Stato Maggiore
generale (1939-45). Si impegnò allora a riorganizzare e potenziare l’esercito, rinnovandone gli armamenti e semplificando la burocrazia militare, opera che gli valse l’appellativo di “organizzatore della vittoria” da parte del primo
ministro inglese Winston Churchill. Durante la Seconda
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guerra mondiale sostenne la necessità dello sbarco in Normandia, in contrasto con la strategia mediterranea degli
inglesi, e si mise in luce per la sua abilità diplomatica nelle
conferenze di Casablanca (1943), Jalta e Potsdam (1945).
Fu poi inviato in Cina dal presidente Harry S. Truman
(1945) per un vano tentativo di mediazione tra Chiang
Kai-shek e Mao Tse-Tung. Segretario di Stato (1947-49),
lanciò l’European Recovery Program, più noto come Piano
Marshall, il programma di aiuti per la ricostruzione dell’economia europea prostrata dalla guerra, per cui si meritò il
Premio Nobel per la pace (1953). Dimessosi per motivi di
salute, fu ancora segretario alla Difesa nel 1950-51.
Isoroku Yamamoto, ammiraglio giapponese (18841943). Originario di Nagaoka, appena un anno dopo essere uscito dall’Accademia navale di Yetajuna prese parte
alla storica Battaglia di Tsushima (Stretto di Corea), che
segnò la vittoria nipponica nella Guerra russo-giapponese
(1904-05). Nel 1916 si laureò con tutti gli onori al collegio navale di Stato Maggiore di Tsukiji e fu adottato
dall’influente famiglia Yamamoto, di cui acquisì il nome;
il suo vero padre infatti era Sadayoshi Takano, che l’aveva
avuto all’età di 56 anni e lo aveva perciò chiamato Isoroku, ossia “cinquantasei”. Promosso tenente comandante, studiò inglese a Harvard e insegnò al collegio navale
di Stato Maggiore nipponico prima di essere inviato alla
scuola di volo di Kasumigaura. Divenne dunque capitano e tornò negli Stati Uniti quale addetto navale presso
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l’ambasciata nipponica di Washington (1926-28). Al suo
rientro in patria ottenne il comando della portaerei Akagi
e fu delegato alla Conferenza navale di Londra (1935);
continuò poi la sua ascesa nei ranghi della marina militare fino a ricoprire il ruolo di viceministro della Marina
(1936), che sfruttò per promuovere un piano di riarmo
navale imperniato sulla dotazione di efficienti portaerei
da combattimento. Comandante in capo della flotta imperiale (1939), progettò e diresse l’attacco aeronavale alla
flotta americana di Pearl Harbor (1941), che sancì l’inizio
della guerra nel Pacifico. Guidò l’espansione giapponese
nell’Asia Sudorientale e comandò le forze impegnate nella Battaglia di Midway (1942), risoltasi in un disastro per
le sue portaerei. Morì abbattuto da un caccia americano
che intercettò il suo aereo in volo sulle isole Salomone.
Ferruccio Parri, uomo politico italiano (1890-1981).
Nato a Pinerolo e laureatosi in Lettere a Torino, prese
parte alla Prima guerra mondiale come ufficiale di fanteria, meritandosi tre medaglie al valore. Fu tra i primi anti­
fascisti che si opposero attivamente al regime e nel 1927
organizzò con Carlo Rosselli e Sandro Pertini la fuga
all’estero del leader socialista Filippo Turati. Condannato
al confino e liberato nel 1933, riprese la lotta clandestina
quale membro di Giustizia e Libertà e contribuì alla fondazione del Partito d’Azione (1942). Dopo l’8 settembre
1943 ebbe un ruolo di primo piano nell’organizzazione
della Resistenza partigiana, dirigendo insieme a Raffaele
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Cadorna e Luigi Longo l’attività militare del Corpo volontari della libertà per l’Alta Italia; divenuto consultore
nazionale dopo la sconfitta dei nazifascisti, fu il primo
presidente del consiglio dell’Italia liberata (19 giugno22 novembre 1945). Lasciò poi il Partito d’Azione (marzo 1946) e diede vita con Ugo La Malfa e altri al Partito
della democrazia repubblicana – per il quale fu deputato
alla Costituente – confluito in seguito nel Pri. Senatore di
diritto nella prima legislatura (1948-53), aderì al movimento di Unità popolare (1953) ma rimase indipendente
quando questo si unì al Psi. Di nuovo senatore (1958),
a vita dal 1963, fondò e diresse fino alla morte la rivista
Astrolabio, che mirava a creare un punto di incontro tra
le diverse “anime” della sinistra; nel 1968 divenne infine
presidente del gruppo della Sinistra indipendente, accostandosi al Pci. Negli anni Settanta si ritirò gradualmente
dalla politica attiva, ma rimase presidente della Federazione italiana associazioni partigiane (Fiap), da lui fondata (1949). Morì a Roma all’età di 91 anni.
Arthur Travers Harris, maresciallo dell’aria inglese (18921984). Soprannominato Bomber Harris o The Butcher (il
Macellaio), durante la Seconda guerra mondiale inaugurò
la strategia dei bombardamenti a tappeto sui centri urbani
tedeschi. Nato a Cheltenham, si trasferì in Rhodesia (l’odierno Zimbabwe) nel 1909 e, allo scoppio della Grande
Guerra, partecipò alla campagna nell’Africa tedesca del
Sudovest (Namibia) con il 1° Reggimento rhodesiano.
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L’anno dopo (1915) tornò in Inghilterra, dove entrò nei
Royal Flying Corps, antesignani della Royal Air Force (Raf),
e, ottenuto il brevetto di pilota, diresse varie squadriglie di
caccia in Francia e in Inghilterra. Fu poi ingaggiato dalla Raf quale comandante di squadriglia e svolse incarichi
in Irak, India, Gran Bretagna, Palestina e Transgiordania
(anni ’20 e ’30), per poi assumere il ruolo di vicedirettore
della Pianificazione (1934-37) al ministero dell’Aeronautica. Promosso Air Commodore (1937), pari al grado di
generale di brigata, divenne vicemaresciallo dell’Aviazione (1939), maresciallo (1941) e comandante in capo del
Bomber Command della Raf (1942). Sviluppò allora la
tattica dei bombardamenti di saturazione su vasta scala,
volti a colpire direttamente le popolazioni per abbatterne
il morale e la resistenza. Ne derivò la distruzione quasi
totale di molte città tedesche, tra cui Amburgo (1943),
con 40.000 morti, e Dresda (1945), con 200.000 civili
uccisi. Nel dopoguerra numerose voci di biasimo si levarono contro i suoi metodi e Harris, sdegnato, si trasferì in
Sudafrica (1946-53), dove diresse la South African Marine
Corporation. Rientrato in patria, fu insignito del titolo di
baronetto (1953) e si ritirò a Goring-on-Thames.
Georgij Konstantinovič Žukov, generale sovietico
(1896-1974). Nato a Strelkova (Russia orientale) da un
ciabattino e una contadina, durante la Grande Guerra
militò nella cavalleria, meritando sul campo la promozione a sergente e la croce di San Giorgio, alta onorificenza
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della Russia zarista. Allo scoppio della guerra civile si arruolò volontario nell’Armata Rossa e aderì al Partito comunista (1919), avviando una rapida carriera che, già nel
1922, lo vide al comando di uno squadrone della 1a Armata di cavalleria, corpo d’élite. Assistente ispettore di cavalleria dell’Armata Rossa (1930), continuò la sua ascesa
nei ranghi militari, sfuggendo all’epurazione dei quadri
dell’esercito attuata da Stalin negli anni Trenta. Diresse
con successo la controffensiva contro i giapponesi al confine con la Manciuria (1939) e durante il secondo conflitto mondiale acquisì fama leggendaria di “generale che
non ha mai perso una battaglia”. Comandante d’Armata
e poi capo di Stato Maggiore generale (1941), coordinò
la difesa di Leningrado (1941-44) e arrestò l’avanzata tedesca su Mosca (1941), per poi ottenere la storica vittoria
di Stalingrado (1942-43) e guidare infine il contrattacco
(1943-44). Caduta Varsavia, entrò trionfalmente a Berlino alla testa delle sue armate (1945) e divenne comandante delle truppe russe d’occupazione nella Germania
orientale (1946), ma fu poi relegato nell’ombra da Stalin, che ne temeva il formidabile prestigio. Alla morte di
questi, entrò nel Comitato generale del Pcus (1953-56)
e nel Presidium (1957) e fu, infine, ministro della Difesa
(1955-57), ma dovette ritirarsi per i dissidi insorti con il
nuovo leader sovietico Nikita Sergeevič Chruščëv.
Jean Moulin, funzionario governativo francese (18991943), eroe della Resistenza. Figlio di un professore di
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storia legato al Partito radical-socialista, servì brevemente nell’esercito sul finire della Prima guerra mondiale
(1918) e, compiuti gli studi di Legge a Montpellier,
intraprese la carriera amministrativa. Nel 1925 conobbe il giovane Pierre Cot, militante radical-socialista e
futuro deputato della Savoia (1928-40) che, asceso al
governo in veste di ministro dell’Aviazione (1933-34 e
1936-38), lo volle al suo fianco come capo di gabinetto;
da tale posizione, Moulin sostenne i repubblicani nella Guerra Civile spagnola, inviando aerei e piloti, pur
senza ottenere i risultati sperati. Entrato poi nell’amministrazione prefettizia, a 38 anni divenne il più giovane
prefetto della Francia (nell’Aveyron) e nel 1940 assunse la prefettura dell’Eure-et-Loir, con sede a Chartres.
Quando nel giugno i tedeschi invasero la città, si rifiutò
di firmare un documento che denunciava presunte atrocità commesse dall’esercito francese e tentò il suicidio
tagliandosi la gola. Tuttavia sopravvisse e maturò la decisione di unirsi alla Resistenza. Destituito dal governo
di Vichy, riparò a Londra ma tornò in patria nel gennaio 1942 quale rappresentante del generale Charles
De Gaulle nella cosiddetta zona libera. Qui promosse
il coordinamento dei vari movimenti della Resistenza,
cui diede unità operativa con la fondazione del Conseil
national de la Résistance (maggio 1943), di cui fu il primo presidente. Arrestato dalla Gestapo appena un mese
dopo vicino a Lione, morì tra atroci torture ma non
tradì i compagni.
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Marek Edelman, uomo politico polacco e attivista della Resistenza (1919-2009). Nato in una famiglia ebraica
di Varsavia, aderì giovanissimo al Bund, l’Unione dei lavoratori ebrei di Russia, Lituania e Polonia, di impronta
socialista, e negli anni dell’occupazione tedesca militò nel
gruppo di resistenza fondato dal movimento; quando poi
sorse la ŻOB – Żydowska Organizacja Bojowa, Organizzazione ebraica di combattimento (1942) – guidata da
Mordechaj Anielewicz, si unì a essa, assumendo il comando delle squadre di combattimento del Bund.
Come vicecomandante della ŻOB, si distinse per il
suo coraggio durante l’eroica insurrezione del ghetto di
Varsavia, messa in atto da un pugno di ebrei che con poche decine di armi tenne in scacco le truppe naziste per
quasi un mese (19 aprile-16 maggio 1943). Fuggito il 10
maggio 1943, si nascose nella zona ariana della città e con
i superstiti della ŻOB prese parte alla sanguinosa rivolta
di Varsavia (agosto-ottobre 1944). Nel dopoguerra completò gli studi e divenne medico ma non rinunciò alla sua
militanza socialista anticomunista, finendo più volte in
carcere. Quando nacque Solidarność (1980), ne fu uno dei
consiglieri, fino a partecipare ai cosiddetti negoziati della
Tavola rotonda (1989) tra il sindacato e la giunta militare
del generale Wojciech Jaruzelski, che aprirono la transizione pacifica dal comunismo alla democrazia. Deputato
alla Dieta (1989-93), fu insignito dell’ordine dell’Aquila,
la massima onorificenza polacca (1998). Tra le sue opere:
Il guardiano (1998); C’era l’amore nel ghetto (2009).
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I NUMERI
FORZE MILITARI IN CAMPO
Asse 18.860.000 di cui:
Germania 10.300.000 (esercito 7.500.000, aviazione 2.000.000, marina 800.000)
Giappone 4.360.000 (esercito 3.610.000, aviazione 400.000, marina 350.000)
Italia 4.200.000 (esercito 4.065.000, aviazione 60.000, marina 75.000)
Alleati 39.574.000 di cui:
Urss 13.550.000 (esercito 13.000.000, aviazione 500.000, marina 500.000)
Stati Uniti 14.000.000 (esercito 8.300.000, aviazione 2.400.000, marina 3.700.000)
Gran Bretagna 4.700.000 (esercito 2.900.000, aviazione 1.000.000, marina 800.000)
Commonwealth 4.700.000 (esercito 3.075.000, aviazione 258.000, marina 95.000)
Francia 2.830.000 (esercito 2.500.000, aviazione 150.000, marina 180.000)
Canada 1.100.000 (esercito 755.000, aviazione 250.000, marina 95.000)
PRODUZIONE BELLICA
Aerei:
Stati Uniti 300.000
Germania 112.000
Gran Bretagna e Commonwealth 115.000
Urss 100.000
Giappone 63.000
Carri armati:
Stati Uniti 88.000
Germania 46.000
Gran Bretagna e Commonwealth 30.000
Urss 90.000
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PERDITE UMANE COMPLESSIVE DELLA GUERRA*
(compresa guerra sino-giapponese)
Militari: 22.000.000
civili: 48.000.000
Totale: 70.000.000
Asse 18.860.000 di cui:
Germania 7.600.000 (militari 5.500.000, civili 2.100.000)
Giappone 2.630.000 (militari 1.930.000, civili 700.000)
Italia 443.000 (militari 313.000, civili 130.000)
Principali Alleati di cui:
Urss 23.000.000 (militari 10.400.000, civili 12.600.000)
Stati Uniti 413.000 (militari 405.000, civili 8.000)
Gran Bretagna 365.500 (militari 272.000, civili 93.500)
Francia 560.500 (militari 210.000, civili 350.000)
Guerra sino-giapponese:
perdite cinesi
militari 4.000.000 civili 15.500.000
totale 19.600.000
PERDITE AEREI
Aviazione Usa: in Europa 18.100 in Asia e nel Pacifico 4.200
Raf 35.500
Luftwaffe 79.000
* Fonte: Joseph V. O’Brien, Dipartimento di Storia – John Jay College of Criminal Justice,
New York, NY, Usa
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FOCUS
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GLI EVENTI
Q
uando è effettivamente iniziata la Seconda guerra mondiale? La data canonica, registrata su tutti i
manuali scolastici, è il 1º settembre 1939, giorno in cui le
forze armate tedesche, la Wehrmacht, attaccarono lo Stato polacco, e tuttavia ne sono pensabili altre, precedenti,
se tra le cause principali del conflitto consideriamo la crisi,
fattasi acuta negli anni Trenta, dell’ordine – sicuramente
asimmetrico e diseguale – nato dalla Grande Guerra e
formalizzato nei trattati di pace che la conclusero, nonché
la drammatica incapacità a farvi fronte dell’istituzione sovranazionale pensata alla scopo di risolvere pacificamente
i contrasti tra gli Stati, la Società delle Nazioni (SdN).
Questa, fortemente voluta dall’allora presidente degli
Stati Uniti d’America Thomas Woodrow Wilson sulla
base di proposte avanzate nel corso della guerra da intellettuali, studiosi e politici ed inserita nel testo del Trattato
di Versailles, sarebbe poi nata nel gennaio 1920, ma senza
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la partecipazione statunitense, bloccata dall’opposizione
di una parte del Senato all’articolo X della carta istitutiva
dell’SdN, che prevedeva l’intervento automatico a difesa
di uno Stato membro vittima di un’aggressione esterna.
Per effetto dello stallo gli Usa non avrebbero sottoscritto
nemmeno i trattati a suo tempo definiti a Parigi con la
Germania, l’Austria residuale e l’Ungheria, regolando i
propri rapporti con i tre Stati mitteleuropei tramite specifici patti bilaterali siglati nel 1921.
Il primo degli episodi che possono essere considerati
come l’avvio del processo che avrebbe portato alla guerra mondiale è il cosiddetto “incidente di Mukden” (per
i cinesi) o “incidente manciuriano” (per i giapponesi),
avvenuto nel 1931: un attentato ai binari della ferrovia
mancese meridionale organizzato dai giapponesi stessi,
che ne avevano acquisito il controllo in precedenza, fornì il pretesto al governo ed alle forze armate del Sol Levante per invadere la regione staccandola dalla Cina; essa
fu eretta l’anno successivo in Stato vassallo sotto il nome
di Manchukuo. In tal modo si veniva a concretizzare il
caso previsto dall’articolo X prima citato, ma l’unica reazione della SdN fu la costituzione di una commissione
d’indagine il cui esito fu una mozione di condanna del
Giappone, il quale dal canto suo reagì uscendo dall’organizzazione internazionale.
Quella di Tokyo sarebbe stata la prima di
una serie di secessioni che avrebbero ulte-
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riormente indebolita la SdN, a cominciare
dalla pressoché contemporanea uscita della
Germania (che vi era stata ammessa solo nel
1926 in quanto considerata responsabile della Grande Guerra) pochi mesi dopo la salita
al potere di Adolf Hitler.
Se la contesa tra Cina repubblicana e Giappone imperiale ed espansionista era avvenuta fuori dallo spazio
euroatlantico, zona al tempo egemonica, la successiva
crisi militare avrebbe visto come Stato aggressore una
potenza europea: l’Italia monarchico-fascista. Il 3 ottobre 1935, infatti, il Regio Esercito entra in forze in
Etiopia con l’obiettivo di occuparla integralmente; il
9 maggio 1936 l’Etiopia fu ufficialmente annessa. Nonostante la scomparsa dalla carta geografica di uno dei
suoi Stati fondatori, la SdN non riuscì ad andare oltre
l’approvazione di sanzioni economiche, parziali perché
escludevano materie prime strategiche come il petrolio
ed il carbone, nonché per la decisione di non applicarle
presa sia da Stati non facenti parte delle Società, come
gli Usa, o da essa già usciti, come la Germania, sia da
Stati membri che si erano astenuti o che, pur avendo
votato a favore, poi non interruppero i rapporti commerciali con l’Italia.
Nel frattempo, il 7 marzo precedente, altra data
cruciale, truppe tedesche erano entrate in Renania,
territorio che, secondo il Trattato di Versailles, avrebbe
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dovuto rimanere smilitarizzato. L’operazione, denominata in codice “Winterübung” (esercitazione invernale), avvenne in un contesto internazionale dominato
dall’aggressione italiana all’Etiopia; la reazione sotto
tono della SdN all’iniziativa mussoliniana confermò il
gruppo dirigente del regime nazionalsocialista della sua
praticabilità.
Le reazioni franco-britanniche all’entrata in Renania di unità della Wehrmacht si sarebbero limitate alle proteste verbali. Di lì a poco, il 17 luglio del 1936
– anno drammatico per il mutamento nei rapporti di
forza tra le potenze a cui avrebbe dato luogo – avrebbe
avuto inizio la Guerra Civile spagnola. Nata come regolamento dei conti interno tra le forze conservatrici
coagulatesi attorno al gruppo di generali golpisti – tra
cui sarebbe poi emersa la leadership di Francisco Franco – ed il composito schieramento delle sinistre che
facevano riferimento al governo legittimo di Fronte
popolare, era destinata a trasformarsi in un confronto
fortemente simbolico e per molti versi anche materiale
tra fascismo ed antifascismo. Ciò avvenne in seguito
all’appoggio dato ai golpisti da Italia e Germania, nonché dal Portogallo salazarista, e al sostegno fornito alle
autorità repubblicane – oltre che dall’Unione Sovietica
e dal Messico – da un vasto movimento internazionale
di solidarietà da cui sarebbero nate le Brigate volontarie internazionali. Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti
avrebbero invece scelto la linea del “non intervento”.
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Il rosario di eventi sgranatosi dal 18 settembre 1931 al 17 luglio di cinque anni dopo fece emergere con chiarezza lo schieramento
delle potenze ostili all’“ordine di Versailles”
e miranti a mandarlo in mille pezzi; ne facevano parte con funzioni di apripista il Giappone, l’Italia e la Germania nazionalsocialista autodefinentesi Terzo Reich, i tre Stati
che avremmo poi visto, di lì a qualche anno,
combattere assieme legati tra loro da una
complessa rete pattizia.
Il 7 luglio dell’anno seguente, 1937, il conflitto sinogiapponese, da decenni latente ed acutizzatosi dopo i
fatti del 1931, riprese con violenza; le forze armate nipponiche estesero ampiamente il territorio cinese sotto il
proprio controllo, occupando nei mesi successivi Pechino, Shanghai, e l’allora capitale Nanchino, che fu teatro di terrificanti violenze compiute dall’esercito del Sol
Levante. I combattimenti tra le parti belligeranti sarebbero cessati solo con la resa delle truppe giapponesi avvenuta il 9 settembre 1945, una settimana esatta dopo
la conclusione ufficiale della Seconda guerra mondiale.
L’ultimo episodio suscettibile di essere considerato
come reale inizio di un conflitto generalizzato avvenne
il 30 settembre 1938 a Monaco, dove i capi dei governi britannico, Neville Chamberlain, francese, Édouard
Daladier, tedesco, Adolf Hitler, italiano, Benito Mus59
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solini, sottoscrissero l’intesa che di fatto autorizzava la
Germania ad annettersi la regione cecoslovacca dei Sudeti, abitata in prevalenza da tedeschi. La Wehrmacht
l’avrebbe materialmente occupata all’inizio dell’ottobre
successivo. Protocolli aggiuntivi al patto prevedevano
la regolazione tramite accordi bilaterali delle contese su
alcuni distretti di confine che opponevano la Cecoslovacchia rispettivamente a Polonia ed Ungheria; la prima
già il 2 settembre inglobò la Zaolzie e poi un’ulteriore
fetta di territorio cecoslovacco; la seconda, sulla base di
una mediazione italogermanica (francesi e britannici si
chiamarono fuori), si impadronì inizialmente di diverse
strisce confinarie, a cui nel marzo 1939, in seguito alla dissoluzione per mano tedesca della Cecoslovacchia
residuale, si sarebbe aggiunta l’Ucraina transcarpatica.
L’accordo di Monaco fu una tappa chiave
della strada verso la guerra generalizzata,
segnando l’eclissi definitiva della SdN.
Venne sostanzialmente meno la possibilità di costruire
un’intesa che, in funzione antitedesca (antinazista), riproponesse lo schieramento che nella Grande Guerra
aveva avuto ragione degli Imperi centrali, opzione perseguita dal gruppo dirigente moscovita in particolare
dopo il 1933, con l’instaurarsi della dittatura hitleriana
in Germania.
Imboccata con decisione, alla metà degli anni Venti,
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la strada del “socialismo in un Paese solo” dopo che
già in precedenza erano state avviate strette relazioni
politiche, economiche e militari con la Repubblica di
Weimar sulla base della comune esclusione quali “Stati
paria” dalla comunità internazionale, all’inizio del decennio successivo l’Urss venne infatti riconosciuta ufficialmente da numerose potenze e, nel 1934, entrò nella
SdN, stringendo nello stesso periodo patti di non aggressione e poi di alleanza anche militare con la Francia
e la stessa Cecoslovacchia.
Personaggio chiave di questa politica era stato
il commissario del popolo agli Affari esteri Maxim
Maximovič Litvinov, le cui posizioni risultarono però
a quel punto pesantemente indebolite; non solo infatti
l’Urss, come la Cecoslovacchia, non era stata invitata
a Monaco, ma l’offerta moscovita di intervenire militarmente in difesa di Praga si scontrò da un lato con
la non disponibilità francese ad onorare il patto a suo
tempo stretto con lo Stato mitteleuropeo, dall’altro con
il rifiuto opposto da Polonia ed Ungheria a concedere
a truppe sovietiche il passaggio sui propri territori, loro necessario per potersi schierare a difesa dell’Alleato.
Se si considera che la visione del mondo dominante
a Mosca prevedeva l’inevitabilità della guerra quale
necessario portato, sulla scorta delle analisi leniniane,
dello sviluppo capitalistico, si può comprendere come
i timori circa l’esistenza di una volontà politica franco­
britannica mirante a scagliare il Terzo Reich contro
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l’Urss si fossero ingigantiti vista la sorte imposta alla
Cecoslovacchia.
Il 3 maggio 1939 Litvinov sarebbe stato sostituito al
commissariato del popolo agli Affari esteri da Vjačeslav
Michajlovič Molotov, da tempo fautore di un avvicinamento alla Germania in nome di una Realpolitik che
mettesse al primo posto gli interessi dello Stato sovietico, sottraendolo ad un possibile attacco tedesco che lo
avrebbe visto isolato.
Dalla svolta, il cui significato fu immediatamente colto dai diplomatici dell’ambasciata
tedesca, sarebbe scaturito il Patto di non
aggressione germano-sovietico, firmato il
24 agosto al Cremlino dallo stesso Molotov
e dal suo omologo tedesco Joachim von
Ribbentrop.
All’intesa era allegato un protocollo segreto che definiva le sfere d’influenza reciproche nell’area centro ed esteuropea, oltreché nello spazio baltico. Data la sostanziale identificazione che si era creata negli anni precedenti tra movimento comunista internazionale, coordinato dal Komintern (l’Internazionale comunista) e
Urss, il patto, in sé e per sé una scelta razionale dal
punto di vista della ragion di Stato sovietica, sarebbe
stato presentato ai partiti comunisti come perfettamente conforme agli interessi della classe operaia mondiale,
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cosa che non avrebbe mancato di provocare un diffuso
senso di sconforto nello schieramento antifascista internazionale, nonché gravi fratture al suo interno che
si sarebbero ricomposte solo dopo il 22 giugno 1941.
Col senno di poi ci si è spesso stupiti della passività
mostrata da Francia e Regno Unito nei confronti dell’aperta aggressività mostrata in quegli anni dalla Germania nazionalsocialista, tramite la cosiddetta politica
dell’“appeasement” (pacificazione, accomodamento), e
tuttavia, sebbene rivelatasi miope, quell’opzione aveva,
almeno dal punto di vista delle classi dirigenti dei due
Paesi, un suo puntuale senso. Va considerato, prima di
tutto, che quantunque alleati nella Grande Guerra, i due
Stati tornarono ad avere, nel ventennio interbellico, gli
stessi interessi divergenti che si erano manifestati nell’anteguerra, puntando Londra a ricostruire un equilibrio
tra le potenze europee medie e grandi che le permettesse
di fungere da ago della bilancia, ed invece inseguendo
Parigi un vecchio sogno egemonico sul Continente secondo schemi che si possono far risalire a Napoleone e,
prima di lui, a Luigi XIV. In secondo luogo, le loro élite
dirigenti erano assai esitanti, ancorché per motivi diversi, ad accettare di impegnarsi in un nuovo conflitto;
quelle britanniche erano perfettamente coscienti di aver
sì vinto sul campo di battaglia ma al prezzo della perdita irrimediabile di una posizione egemonica in ambito
economico e finanziario che era durata molti anni: nel
1914 il Regno Unito era potenza creditrice, nel 1919 era
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diventata potenza debitrice. Una nuova guerra, per forza
di cose non breve né limitata, avrebbe significato andare
incontro alla perdita dell’Impero.
Le radici dell’analogo atteggiamento francese erano
le stesse che sarebbero state alla base della «strana disfatta», come il grande storico Marc Bloch avrebbe definito il collasso verificatosi nell’estate 1940: il timore del
comunismo che avrebbe potuto giovarsi di uno scontro
con la Germania nazista per forza di cose condotto in
alleanza con l’Urss, l’attrazione esercitata dal modello
politico fascista nelle sue diverse incarnazioni su settori
non trascurabili dell’intelligencija e della politica, il peso della Francia conservatrice.
La Germania nazionalsocialista puntava alla
costruzione di quel “grande spazio economico” a guida tedesca che l’andamento delle operazioni belliche nell’Europa Centroorientale dal 1914 al 1918 aveva fatto balenare come realizzabile, con la radicale differenza che il piano aveva assunto, accanto
alla dimensione economico-militare dominante vent’anni prima, valenze fortemente
ideologiche dai chiari toni razzisti.
Dal “grande spazio economico” si era passati allo “spazio vitale”, al cui interno si presupponeva la costruzione
di una gerarchia verticale di popoli-razza.
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L’Italia aveva dovuto, per il primo decennio postbellico, fare i conti con la netta sproporzione tra le proprie
aspirazioni egemoniche rivolte verso lo spazio mediterraneo, danubiano-balcanico, e coloniale-africano ed i
propri mezzi materiali. Da ciò aveva avuto origine l’oscillazione di Roma tra l’appoggio ad ogni spinta antiVersailles e la ricerca di buoni rapporti con Londra, che
dell’ordine di Versailles si presentava come la garante
principe. L’arrivo al potere di Hitler ed il conseguente
rovesciarsi della democratica Repubblica di Weimar nel
dittatoriale Terzo Reich, debitore in molti campi, sia
materiali sia simbolici, del primigenio regime fascista,
avevano rappresentato per Mussolini ed il suo entourage il materializzarsi della leva, a lungo bramata, che
avrebbe permesso loro di scardinare l’ordine scaturito
dai Trattati di pace del 1919-1920.
Qui sta una delle radici, non l’unica ma neppure la meno importante, del movimento
centripeto che avrebbe portato Roma e Berlino verso alleanze sempre più strette.
La serie ininterrotta di vittorie militari ottenute dall’Impero giapponese successivamente all’avvio di modernizzazione ed industrializzazione accelerate nella seconda
metà del XIX secolo (Prima guerra sino-giapponese
1894-95; Guerra russo-giapponese 1904-1905; Prima
guerra mondiale) aveva rafforzato le aspirazioni di im65
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portanti circoli intellettuali e gruppi di pressione che, in
nome della dottrina del panasiatismo, ritenevano necessaria un politica di espansione nella terraferma asiatica.
Con l’andar del tempo il maggior ostacolo alla realizzazione di quell’obiettivo iniziò ad essere individuato da
quei settori dell’élite nella presenza sempre più visibile
degli Usa nell’area del Pacifico. Contemporaneamente la
fragile democrazia parlamentare affermatasi all’inizio del
XX secolo perse progressivamente terreno di fronte alle
correnti nazionaliste che promossero la trasformazione
del Giappone in una dittatura militare dotata però di
una propria ideologia, lo “spirito nazionale giapponese”
(kokutai), una mescolanza di razzismo, ultranazionalismo, espansionismo, lealtà assoluta verso il potere imperiale considerato d’origine divina. Si andava definendo,
intanto, il progetto della “Grande sfera di prosperità comune dell’Asia Orientale”, affine a quanto andava negli
stessi anni prendendo forma a Berlino ed a Roma, con
cui Tokio stava entrando in una forte relazione sia per la
comune aspirazione revisionistica, sia per l’anticomunismo che era elemento costitutivo delle rispettive visioni
del mondo. Un elemento particolarmente enfatizzato
dalla propaganda nipponica fu l’idea dell’“Asia agli asiatici”, una sorta di “dottrina Monroe” nelle intenzioni
destinata a far presa sui movimenti anticolonialisti che
si erano sviluppati e si stavano sviluppando nei possedimenti britannici, francesi, olandesi dell’area.
Nel periodo interbellico prevalse negli Stati Uniti
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una forte e radicata spinta isolazionista che, nonostante
nella seconda metà degli anni Trenta si fossero manifestate le tendenze aggressive cui si è in precedenza accennato da parte di Germania, Giappone ed Italia, avrebbe trovato espressione in quattro successive leggi sulla
neutralità (Neutrality Acts, 1935, 1936, 1937, 1939) ed
il connesso divieto di intervenire in qualunque modo,
anche tramite rifornimenti, nei conflitti in corso votate
a maggioranza dal Congresso. La cosa però non avrebbe
impedito all’allora presidente Franklin Delano Roosevelt di avviare in segreto, nel 1937, la costruzione di
una flotta di sommergibili d’altura in grado, se necessario, di bloccare il traffico marittimo giapponese. Dal
1938, inoltre, un programma di riarmo sarebbe stato,
sia pur lentamente, avviato alla luce del sole. Nel luglio
1939 Washington dichiarò che il trattato commerciale
con Tokio, risalente al 1911, avrebbe perso la propria
validità dal gennaio successivo; esattamente un anno
dopo, proibì l’esportazione di materiali strategicamente
rilevanti, tra cui benzina avio, macchine utensili, ferro e
acciaio, verso il Giappone, che non aveva allo stato altre
possibilità di procuraseli.
L’INIZIO DELLA GUERRA
Era questa la situazione internazionale quando il primo
settembre 1939 la Wehrmacht entrò in forze in Polonia
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senza che alle autorità di Varsavia fosse stata presentata,
come d’uso sino ad allora, alcuna dichiarazione di guerra. L’attacco fu condotto su tre direttrici convergenti su
Varsavia, una delle quali prese le mosse dalla Slovacchia,
dal marzo 1939 Stato indipendente e vassallo del Terzo Reich. Il piano difensivo predisposto dalle autorità
polacche prevedeva di concentrare le proprie forze immediatamente alle spalle del confine occidentale, nelle
cui regioni erano collocate le maggiori concentrazioni
produttive ed industriali del Paese, necessarie per il proseguimento della guerra, e faceva gran conto sull’intervento al proprio fianco di Francia e Gran Bretagna, sulla base della garanzia accordata a Varsavia il 31 marzo.
Il 3 settembre 1939 Londra e Parigi dichiararono effettivamente guerra a Berlino, decisione che però fu priva
di effetti pratici immediati: né alla Polonia sotto attacco
giunsero aiuti, né lungo il confine franco-tedesco ci furono significativi attacchi. L’inazione franco-britannica
e l’evolvere rapido degli eventi sul terreno indussero la
Romania, sebbene legata alla Polonia da un trattato di
alleanza, a dichiararsi, il 6 settembre 1939, neutrale, isolando così vieppiù Varsavia. Nelle due settimane successive gran parte dell’apparato militare polacco fu messo
fuori combattimento e vaste estensioni delle regioni centrali ed occidentali del Paese occupate, compresi molti
importanti centri urbani. Le operazioni avevano assunto inaspettatamente carattere di guerra di movimento,
smentendo le aspettative comuni delle cancellerie fran68
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cese e britannica, del governo di Varsavia e delle stesse
autorità moscovite che si aspettavano scenari da Grande
Guerra con il connesso stabilizzarsi del fronte su campi
trincerati e perciò contavano su tempi relativamente più
lunghi per agire gli uni, per resistere il secondo, per intervenire, giusto il patto appena siglato con Berlino, le terze.
Vista la situazione, Mosca si affrettò a chiudere il
conflitto di frontiera che da alcuni mesi vedeva contrapposte proprie, consistenti, truppe in appoggio alle forze
armate dell’alleata Mongolia Esterna, che nel 1924 si
era costituita in una Repubblica popolare dopo la presa
del potere, tre anni prima, da parte del Partito popolare
mongolo. La vicenda avrebbe avuto un peso nella scelta
delle autorità giapponesi di concentrarsi sulla penetrazione verso sudovest in territorio cinese, tralasciando la
direttrice settentrionale che avrebbe comportato nuovi
scontri con l’Urss.
Appena quarantott’ore dopo, il 17 settembre, l’Armata Rossa, liberata dal rischio di una guerra su due fronti,
varcava il confine orientale della Polonia. Grosso modo,
l’avanzata delle truppe sovietiche si fermò, come prescritto dal protocollo segreto allegato al Patto MolotovRibbentrop, alla linea Curzon, così chiamata dal nome
del ministro degli Esteri britannico George Nathaniel
Curzon, che l’aveva proposta nell’ambito della Conferenza di Pace di Parigi quale confine tra il rinato Stato
polacco e la Russia sovietica sulla base di considerazioni
di natura linguistica e nazionale.
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Solo grazie al conflitto polacco-sovietico durato dal
1919 al 1921 Varsavia aveva potuto spostare il confine
orientale 250 chilometri più ad est.
Entro la fine del settembre 1939 lo Stato polacco avrebbe cessato di esistere; il governo e una parte
delle forze armate avrebbero trovato rifugio nei Paesi
confinanti, dove sarebbero stati internati. Le due parti
in cui il Paese era stato diviso ed occupato conobbero
sorti parimenti drammatiche ma tra loro diverse: i territori sotto occupazione tedesca furono in parte annessi, ricostituendo così quella continuità territoriale del
Reich guglielmino che il Trattato di Versailles aveva
spezzato, in parte assoggettati ad un regime di tipo coloniale. In ambedue le aree, comunque, vennero applicate dalle autorità tedesche politiche violentemente
oppressive sia nei confronti degli ebrei, che vennero
rinchiusi in quartieri trasformati in ghetti, sia verso il
resto dei polacchi, destinati nei piani della dirigenza
nazionalsocialista ad essere ridotti alla condizione di
iloti, cui fornire solo una minima istruzione di base
utile ad obbedire. Di conseguenza vennero chiuse università e scuole superiori, mentre l’intelligencija, dai
professori universitari ai maestri, dai sacerdoti ai giornalisti venne sistematicamente perseguitata e spesso
fisicamente eliminata.
Nelle regioni orientali occupate dall’Urss la politica
di sovietizzazione forzata e di “socializzazione” dei mezzi di produzione colpì in modo prevalente la minoranza
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polacca, il cui status sociale era spesso più elevato, e
fu condotta con mezzi assai brutali, tra cui spiccarono
deportazioni di massa verso la Siberia o l’Asia centrale e
fucilazioni su vasta scala.
Non necessariamente, tuttavia, i rapporti tra la Germania nazionalsocialista e la Polonia governata dai militari dovevano sfociare in un conflitto bellico. Per parecchio tempo Berlino cercò di trovare in Varsavia un
alleato contro l’Urss. Poi le cose andarono diversamente.
Ha inizio a quel punto la “strana guerra”
(drôle de guerre), un periodo di alcuni mesi durante il quale di fatto non si combatte,
sebbene Germania da un lato, Francia e Gran
Bretagna dall’altro siano reciprocamente in
armi, e le profferte di pace avanzate ad ottobre da Berlino siano state seccamente respinte da Londra e Parigi.
Dal canto loro i principali alleati del Terzo Reich, Giappone ed Italia, stavano per il momento a guardare: il
primo, pur essendosi nel 1935 legato a Berlino tramite il Patto anticomintern, cui due anni dopo avrebbe
aderito pure Roma, era impegnato con alterne vicende
nella campagna in Cina, la seconda aveva optato per la
“non belligeranza”. Sebbene a partire dal 1934 avesse
intrecciato la propria economia con quella germanica
tramite un regime di scambi bilanciati (clearing) e due
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anni dopo avesse rafforzato la cooperazione bilaterale
tramite quell’insieme di accordi a cui Mussolini avrebbe dato la fortunata definizione di Asse Roma-Berlino,
l’Italia fece tale scelta in considerazione sia del consumo
di armamenti provocato dalla Campagna di Etiopia sia
dei tempi previsti dal suo gruppo dirigente per la preparazione di un conflitto che spostasse a proprio favore
gli equilibri tra le potenze, visto come auspicabile non
prima del 1942.
Se la decisione tedesca di avviare nel settembre 1939
una campagna militare suscettibile, con forte probabilità, di innescare una guerra di ampie dimensioni colse
di sorpresa Mussolini ed il suo entourage, essa aveva però solide motivazioni, se non costrizioni, da ricercare
nella sfera della politica economica e nella politica del
commercio estero messa in atto dal Terzo Reich. La
crisi mondiale del 1929, infatti, oltre a colpire molto
duramente l’economia tedesca, aveva provocato la frantumazione del mercato mondiale in segmenti separati;
la Germania, non autosufficiente nel settore alimentare
ed il cui apparato industriale era essenzialmente di trasformazione, non poteva fare a meno del commercio
estero. Per superare la stasi produttiva interna si fece
ricorso dopo il 1933 al finanziamento statale in deficit.
A ciò si aggiunse l’esigenza per il gruppo dirigente nazionalsocialista di essere sempre in grado, anche in caso
di una futura e prevista guerra, di produrre “e burro e
cannoni”, cosa che fece avviare una politica aggressiva
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verso l’esterno, sfociata dal 1938 in una serie di conquiste territoriali. Da questo punto di vista l’annessione
dell’Austria, poi dei Sudeti, la successiva trasformazione
della Boemia e della Moravia in un protettorato e la seguente occupazione della parte centro-occidentale della
Polonia vanno anche viste come un modo per mettere
le mani sulle riserve valutarie, sulle scorte di materie
prime, sugli apparati produttivi industriali e sulla produzione agroalimentare dei territori invasi.
Mentre ad Occidente tutto sembrava fermo,
qualcosa si stava muovendo invece ad Oriente.
Tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre 1939, l’Urss
chiese ultimativamente a Lituania, Lettonia ed Estonia di concederle basi militari, motivando la richiesta
con esigenze di sicurezza del proprio territorio. I tre
Stati baltici erano diventati indipendenti nel 1918, in
seguito alla crisi dell’Impero zarista culminata nella
Rivoluzione d’Ottobre; stretti tra Germania, Unione
Sovietica e Polonia, per motivi essenzialmente geopolitici si legarono strettamente alla Gran Bretagna, che
dopo la Grande Guerra aveva ripreso la propria tradizionale politica mirante ad ottenere un equilibrio tra
le varie potenze europee.
Ma date le circostanze non poterono fare altro che
cedere alla pressione sovietica.
Diversa fu l’evoluzione delle cose in Finlandia, in73
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dipendente dal 1917, a cui già nel 1938 Mosca aveva
avanzato proposte di rettifica territoriale allo scopo di
migliorare le difese di Leningrado; ripresentate all’inizio di ottobre 1939 sotto la forma dello scambio di territori, esse furono sostanzialmente respinte da Helsinki.
A novembre ebbe inizio il conflitto armato; sebbene
originato da motivi prettamente strategico-militari, il
gruppo dirigente sovietico cercò di attribuirgli un colore politico rivoluzionario dando vita ad un governo
popolare finlandese guidato dall’esponente comunista
Otto Kuusinen. L’aggressione valse all’Urss l’espulsione
dalla SdN, votata il 14 dicembre 1939. Fu l’ultima sua
azione di qualche importanza. Nonostante l’Armata
Rossa disponesse di forze preponderanti per numero di
armamenti, la strenua difesa finlandese riuscì a tenerla
in scacco per oltre quattro mesi, infliggendole pesanti
perdite. Solo verso la fine dell’inverno una rinnovata
offensiva sovietica e il rifiuto degli altri tre Paesi scandinavi (Danimarca, Norvegia e Svezia) di permettere
il passaggio sui propri territori di contingenti francobritannici, che Londra e Parigi intendevano mandare in
appoggio ai finlandesi, costrinse Helsinki ad accettare
le rettifiche di confine volute da Mosca, ratificate nel
Trattato di Mosca del marzo 1940. La “guerra d’inverno”, come è usualmente definita, ed il suo andamento
non positivo per l’Urss ebbero conseguenze non trascurabili sull’immediato futuro, contribuendo a convincere sia le cancellerie occidentali sia la dirigenza tedesca
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sulla natura di “gigante dai piedi di argilla” dell’Unione
Sovietica, il cui apparato militare era parso scarsamente
motivato e mal guidato, presumibilmente, si riteneva,
per effetto della violenta epurazione che aveva colpito,
in diverse forme, quasi quarantamila quadri militari tra
il 1937 ed il 1938, decapitando l’Armata Rossa.
Analogamente, ancorché non si fosse realizzato, il
progetto franco-britannico, mirante a sostenere la Finlandia con un proprio corpo di spedizione nella regione
scandinava, mise in allarme Berlino inducendola a mettere in sicurezza quell’area prima di avviare una offensiva ad occidente. Non si dimentichi infatti che nel Nord
della Svezia, Stato neutrale ed in sé strategicamente non
così importante perché le sue coste si affacciano in gran
parte sul mar Baltico, sono collocate le importantissime miniere di ferro di Kiruna, cruciali per l’economia
di guerra tedesca che continuò ad importare in grande quantità il minerale per tutto il corso del conflitto;
la possibilità che, sia pur in violazione della neutralità
svedese, esse passassero sotto controllo britannico non
poteva ovviamente essere accettata dalla Germania.
Non per caso il 9 aprile 1940 la Wehrmacht attaccò
Danimarca e Norvegia, l’una porta del Baltico, l’altra finestra sull’Atlantico; mentre le forze armate danesi non
opposero praticamente alcuna resistenza, permettendo
agli invasori di controllare tutto il Paese in meno di una
settimana, quelle norvegesi continuarono a combattere in modo organizzato sino al 10 giugno, ed anche
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successivamente attraverso azioni di guerriglia condotte
da piccoli gruppi. Diverse anche le scelte dei sovrani:
Haakon VII di Norvegia si trasferì con i suoi ministri
in Gran Bretagna, dove venne istituito un governo
norvegese in esilio, mentre Cristiano X di Danimarca
rimase a Copenhagen. Per inciso i due erano fratelli.
In seguito all’azione tedesca il mar Baltico passò sotto
controllo germanico; i restanti Stati scandinavi, Svezia e
Finlandia, rimasti neutrali, erano di fatto sotto costante
minaccia ed obbligati ad accettare le richieste, all’inizio
principalmente economiche, poi anche riguardanti servitù militari come transiti di truppe, di Berlino.
La reazione franco-britannica puntò a prendere il
controllo del porto di Narvik, nel Nord della Norvegia,
collegato alla miniere svedesi di Kiruna da una linea ferroviaria, attraverso l’azione congiunta di marina, aviazione e fanteria ma, dopo averne cacciato i tedeschi il 28
maggio, le truppe alleate furono costrette a ritirarsi in seguito all’attacco sferrato dalla Wehrmacht ad occidente.
Pressoché in contemporanea, il 10 maggio precedente, truppe britanniche erano sbarcate a Reykjavík,
capitale dell’Islanda, imponendo al governo locale la
propria presenza in funzione antigermanica, nonostante le autorità dell’Isola, al tempo regno autonomo in
unione personale con la Danimarca, avessero dichiarato la propria neutralità; dopo l’entrata nel conflitto degli Usa, alla fine del 1941, nell’Isola oceanica si sarebbe
installato anche un presidio statunitense.
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La dimensione globale che la guerra stava
assumendo fece infatti prevalere ovunque
le esigenze strategico-militari su ogni altra
considerazione.
Nello stesso giorno, denso di svolte, a Londra Winston
Churchill avrebbe sostituito Neville Chamberlain alla
testa del governo, e la Wehrmacht avrebbe lanciato un
attacco avvolgente contro la Francia (in codice Fall Rot,
Operazione Rosso) attraverso Belgio e Paesi Bassi (in
codice Fall Gelb, Operazione Giallo), Stati neutrali che
vennero coinvolti per motivi banalmente geografici. La
campagna, che vide l’abbondante impiego da parte tedesca di mezzi corazzati ed aerei, assunse quasi subito,
sebbene ciò non fosse stato pianificato a tavolino, il carattere di una rapida guerra di movimento.
I Paesi Bassi cedettero le armi dopo appena quattro
giorni, il Belgio si arrese il 28 maggio; nei giorni seguenti le unità tedesche si spinsero verso il canale della
Manica, intrappolando in una gigantesca sacca gran
parte del corpo di spedizione britannico e un consistente numero di unità francesi. Il 4 giugno i reparti
della Wehrmacht raggiunsero la costa. Oltre 300.000
militari alleati poterono mettersi in salvo da Dunkerque diretti in Gran Bretagna, altre decine di migliaia
caddero prigionieri. A quel punto i reparti tedeschi
mossero verso sud-est, intrappolando le restanti forze
francesi schierate alle spalle della Linea Maginot.
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Il 14 giugno occuparono Parigi, nei giorni successivi
conclusero l’accerchiamento.
La Francia era debellata.
A governo ed assemblea nazionale, trasferitisi a Bordeaux, non restavano che due possibilità: continuare
la lotta dai territori francesi del Nordafrica o adattarsi
ad un armistizio. Dopo convulse discussioni che coinvolsero tanto Londra quanto Parigi, il governo britannico propose l’immediata formazione di una Unione
franco-britannica; il progetto piacque al primo ministro
francese, Paul Reynaud, ed al suo sottosegretario alla
Guerra, il generale Charles De Gaulle, riparato in Gran
Bretagna con i reparti francesi postisi in salvo dalla sacca di Dunkerque, ma si scontrò con l’opposizione della
maggioranza del gabinetto. Reynaud si dimise lasciando
la carica di primo ministro all’anziano maresciallo Philippe Pétain, eroe della Grande Guerra, il quale decise
di trattare con la Germania; l’Armistizio fu firmato il 22
giugno ed entrò in vigore tre giorni dopo.
L’ITALIA ENTRA IN GUERRA
Il 10 giugno anche l’Italia, ponendo fine alla propria non belligeranza, entrò in guerra,
iniziando immediatamente un’offensiva sulle
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Alpi occidentali, alla quale le truppe francesi
schierate a difesa del confine reagirono, nonostante la catastrofe incombente, con inaspettata durezza.
La campagna durò tuttavia pochi giorni; già il 24 a Roma sarebbe stato firmato il cessate il fuoco. Molto è stato scritto sulla non belligeranza, sulle sue motivazioni e
sui suoi possibili sbocchi; si è sostenuto che essa avrebbe
potuto protrarsi nel tempo e che solo il repentino crollo della Francia di fronte alle colonne corazzate tedesche abbia determinato Mussolini ed i suoi gerarchi ad
abbandonarla decidendo di entrare in guerra. In realtà
Roma si lega mani e piedi a Berlino ben prima dell’estate 1940: in seguito all’annuncio, dato da Londra il
1° febbraio, che la Royal Navy avrebbe sequestrato
tutte le merci tedesche o dirette in Germania anche
se trasportate da naviglio neutrale, bloccando perciò l’80 per cento delle forniture di carbone tedesco
all’Italia, che viaggiavano per mare, prevalentemente
via Rotterdam, e quindi mettendo in crisi il Paese, le
autorità italiane reagiscono chiedendo all’Alleato germanico di garantire la copertura di tutto il fabbisogno dell’Italia, circa un milione di tonnellate al mese,
con la clausola che il trasporto avvenisse per ferrovia.
Contemporaneamente rifiutano sdegnosamente la
proposta britannica di sostituire con proprio carbone
la percentuale finita sotto embargo, che Londra aveva
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avanzato nella ovvia speranza di trasformare la non
belligeranza in neutralità.
Berlino si dichiara disponibile, rimarcando che il
conseguente onere, pesantissimo, era giustificato in
primis da motivi politici, al fine cioè di rendere l’Italia
totalmente indipendente dalla Gran Bretagna. All’inizio di marzo 1940 l’accordo è sottoscritto. Con esso
le possibilità di autonomia dell’Italia scendono a zero.
Nonostante ciò, nei mesi seguenti la Germania dosa col
bilancino i rifornimenti, in modo che l’Alleato italico
percepisca costantemente sul collo la gelida stretta della
scarsità. D’altro canto, la conquista della Polonia prima, della Francia, del Belgio e del Lussemburgo dopo
(con i ricchi bacini carboniferi di cui essi dispongono)
contribuiscono a rendere più rigida la dipendenza italiana dai flussi il cui ritmo è deciso a Berlino.
La prosecuzione della non belligeranza, cioè, era da
questo punto di vista possibile solo se l’Italia mussoliniana si adattava a svolgere un ruolo meramente gregario del Terzo Reich, per di più con la prospettiva di
non guadagnarci un bel nulla in caso di vittoria finale
hitleriana. L’unica alternativa radicale, va sottolineato,
era il rovesciamento drastico delle alleanze, prospettiva incompatibile con la permanenza al potere di quel
gruppo dirigente in quel contesto storico preciso.
L’entrata in guerra dell’Italia apre nuovi
fronti di guerra, proprio nel momento in cui
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sul continente europeo stanno cessando i
combattimenti:
il Mediterraneo, da quel momento solcato da flotte
ostili, la sua sponda meridionale ed il corno d’Africa,
dove iniziano a fronteggiarsi reparti di fanteria italiani
e britannici, con da entrambi i lati truppe coloniali.
Le sorti della Francia sconfitta sono paradigmatiche
di quanto succederà ad altri Paesi occupati dalle forze
dell’Asse: l’Alsazia Lorena torna a far parte della Germania; larga parte del territorio, comprendente Parigi
con quasi tutto il Nord-ovest e le zone prospicienti
l’Oceano, viene sottoposta ad un amministrazione
militare germanica; i distretti carboniferi dell’estremo
Nord vengono staccati dal resto della Francia e congiunti col Belgio sotto un’altra amministrazione militare tedesca, mentre sul resto i vincitori consentono rimanga la sovranità francese, incarnata però non più in
una République, ma in un État dai tratti decisamente
autoritari e fascistizzanti, con a capo Pétain e capitale
la città termale di Vichy.
Negli stessi giorni in cui quest’ultimo chiedeva l’armistizio al Terzo Reich, però, a Londra Charles De
Gaulle lanciava il suo appello ai francesi invitandoli a
resistere ed a unirsi alle forze francesi libere. All’epoca
la Francia possedeva un grande impero coloniale, che
si estendeva dall’Africa araba e nera, al Vicino Oriente, all’Indocina; in termini formali le amministrazioni
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coloniali dipendevano dal governo di Vichy, ma la sua
presa su di esse era tutt’altro che sicura, cosa che lasciava spazio agli sforzi gaullisti. Ampi possedimenti
coloniali li avevano anche Belgio e Paesi Bassi; se la
sorte delle metropoli fu analoga a quella della Francia
di Vichy, quella delle Colonie fu varia: l’amministrazione belga del Congo si mise infatti pressoché subito
a disposizione della Gran Bretagna, mentre i territori
dipendenti dall’Olanda, localizzati in parte significativa in Asia, avrebbero dovuto in seguito fare i conti con
il progetto egemonico giapponese.
Trattandosi di due monarchie, i loro sovrani fecero
scelte analoghe e parallele a quelle dei reali di Norvegia e Danimarca: Guglielmina d’Olanda si rifugiò a
Londra, e costituì in terra britannica un governo in
esilio; Leopoldo III del Belgio preferì rimanere in patria nonostante il suo governo avesse deciso di rifugiarsi prima a Parigi e poi a Londra.
A contrastare le potenze dell’Asse, ed in primo luogo la Germania, era rimasta la sola
Gran Bretagna, da cui pure dipendeva un sistema imperiale di dominions e colonie di
impressionante dimensione ed estensione;
non solo, ma Londra era divenuta la sede
di governi in esilio dei Paesi occupati dalle
armi tedesche: Polonia, Norvegia, Francia,
Paesi Bassi, Belgio, mantenendo così in vi-
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ta, almeno sul piano simbolico, l’idea di una
coalizione antifascista plurinazionale.
Nei confronti del Regno Unito, però, i progetti nazionalsocialisti erano più complessi rispetto a quelli riservati agli Stati continentali; l’obiettivo di fondo rimaneva costringere Londra ad accettare il fatto compiuto,
cioè il dominio tedesco sul continente europeo, stipulando una pace di compromesso.
La successiva mossa militare del Terzo Reich, l’attacco all’Isola noto come Battaglia d’Inghilterra, aveva
infatti quello scopo, da raggiungere prima di tutto attraverso il dominio dell’aria. Avviate all’inizio di luglio
1940, le operazioni della Luftwaffe, che si sarebbero
protratte sino all’ottobre successivo e che potevano
giovarsi, a quel punto, di basi di partenza collocate in
Francia, Belgio e Paesi Bassi, si proponevano tre obiettivi: la conquista della supremazia aerea, da perseguire
tramite la messa fuori combattimento della Royal Air
Force (Raf ); l’indebolimento dell’apparato produttivo britannico attraverso bombardamenti distruttivi
sui suoi centri industriali, lo spargimento del terrore
tra la popolazione civile mediante attacchi terroristici
sulle città, secondo una modalità teorizzata come in
grado di avere un peso decisivo sugli esiti dei conflitti del tempo dall’ufficiale superiore italiano Giulio
Douhet, che l’aveva esposta nel 1921 nel suo volume
Il dominio dell’aria.
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In stretta connessione con l’offensiva aerea, il gruppo dirigente nazionalsocialista avviò i preparativi per
un’eventuale sbarco, sotto il nome in codice di Operazione Otaria (Seelöwe). L’operazione Otaria non avrebbe però mai avuto luogo, non essendo state Luftwaffe
e Kriegsmarine, che partecipavano alla campagna antibritannica puntando a bloccare le vie di comunicazione
marine di Londra, in grado né di debellare la Raf, né di
interrompere in modo decisivo le linee di rifornimento
del Regno Unito; nonostante un costo umano tutt’altro
che irrilevante, in particolare tra i civili (circa 40.000
morti), le perdite britanniche in velivoli e piloti furono
non poco inferiori a quelle tedesche.
Va tenuto presente che le squadre aeree della Luftwaffe avevano pagato un prezzo consistente nelle campagne appena concluse in Europa Occidentale, grazie
in particolare all’attività della contraerea dei Paesi Bassi, che era riuscita a mettere fuori combattimento oltre
500 aerei tedeschi, quantità consistente che perciò sarebbe venuta a mancare nell’immediatamente seguente
Battaglia d’Inghilterra. Se di un suo lascito duraturo
si può parlare, questo riguarda semmai la pratica del
bombardamento terroristico sulle aree urbane, anche
prive di rilevanza militare, allo scopo di spezzare il morale dei civili. Douhet aveva effettivamente fatto scuola,
e gli attacchi indiscriminati della Luftwaffe nell’estate
del 1940 sarebbero divenuti un modello anche per le
forze aeree dei nemici del Terzo Reich.
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Le aspettative di Berlino circa la possibilità che Londra si adattasse ad una pace separata non mancavano
di basi consistenti; una parte del gabinetto di Guerra
britannico, a cominciare dal ministro degli Esteri, Lord
Halifax (Edward Frederick Lindley Wood), convinto
fautore dell’appeasement, non disdegnava l’opportunità
di uscire dal conflitto attraverso un accordo con la Germania nazionalsocialista che, in cambio del riconoscimento dell’egemonia di Berlino in Europa, permettesse
al Regno Unito la conservazione dell’Impero coloniale, tanto più che la recente entrata in guerra dell’Italia
costituiva per quest’ultimo una ulteriore minaccia. Lo
scontro interno al governo fu però vinto da Churchill e
dai suoi fautori; di lì a qualche mese Halifax fu sollevato
dall’incarico ministeriale ed inviato quale ambasciatore
a Washington, la capitale degli Usa il cui presidente,
Franklin Delano Roosevelt, pur dovendo fare i conti
con una forte opzione neutralista ed isolazionista, maggioritaria sia nella pubblica opinione sia al Congresso,
stava iniziando a rivedere la propria politica estera in
senso progressivamente filobritannico. Nel frattempo,
la radicalità della scelta churchilliana di continuazione
della guerra si era espressa anche nell’attacco distruttivo alla flotta francese, all’ancora nel porto algerino di
Mers-el-Kebir, portato da una squadra navale britannica il 3 luglio 1940.
La decisione, che non mancò di scavare un solco tra
i due Paesi, rafforzando almeno temporaneamente il
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consenso della disorientata opinione pubblica francese
al governo Pétain, fu presa nel timore che le navi da
battaglia francesi cadessero in mano tedesca, mettendo
così a gravissimo rischio la Mediterranean Fleet che già
doveva fare i conti con la Marina militare italiana, sulla
carta potenzialmente superiore.
La mancata debellatio o comunque uscita dal
conflitto per via negoziale del Regno Unito
rappresentò sicuramente un punto di svolta
decisivo nel suo andamento – sebbene ciò
sia sfuggito alla quasi totalità dei commentatori coevi – costringendo in seguito il Terzo Reich ed i suoi alleati a dividere significativamente le loro forze.
ATTACCO ALL’URSS
Proprio mentre infuriava lo scontro nei cieli britannici,
infatti, il complesso rapporto tra Germania ed Unione
Sovietica stava per entrare definitivamente in crisi; attraverso un articolato processo decisionale ai vertici del
Terzo Reich prese forma, tra l’inizio di giugno e la fine
di luglio 1940, un piano di attacco generalizzato contro
l’Urss: Hitler era tornato a dare la priorità all’Oriente quale luogo in cui trovare il desiato “spazio vitale”
(Lebensraum).
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Il 31 luglio il Führer espresse ai membri del
comando della Wehrmacht la propria decisione di muovere guerra all’Unione Sovietica
prima che fosse risolta la partita con il Regno Unito, motivandola con la necessità di
togliere a Londra l’ultimo potenziale supporto continentale al proprio rifiuto di intavolare trattative di pace.
Secondo il punto di vista hitleriano, Mosca avrebbe dovuto essere schiacciata tramite un attacco in forze condotto da almeno 120 divisioni (il che significa, a ranghi
completi, oltre 1.800.000 uomini) in una sorta di guerra lampo (Blitzkrieg) della durata di quattro sei settimane. I vertici della Wehrmacht fecero presente che un assalto del genere, da condurre su di un fronte vastissimo,
dal mar Baltico al Mar Nero, richiedeva come minimo
quattro mesi di preparazione, quindi l’offensiva non
poteva aver luogo precedentemente alla primavera del
1941. Immediata conseguenza del cambio di rotta fu
l’interruzione del programma di costruzione di armamenti finalizzato alla Battaglia d’Inghilterra, che prevedeva di concentrare le risorse su aviazione e marina, e
la sua sostituzione con una direttiva che invece dava la
priorità all’esercito.
La preferenza accordata dal gruppo dirigente del
Terzo Reich a campagne militari brevi condotte dopo
aver accumulato vasti stock di armamenti ad hoc, sal87
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vo poi, ad offensiva ancora in corso, spostare materie
prime, fonti di energia e manodopera sulle produzioni
necessarie alla campagna successivamente programmata, va ricondotta in larga parte al radicato timore di
un possibile ripetersi della crisi del 9 novembre 1918.
Questa aveva portato al collasso del Kaiserreich, alla rivoluzione ed alla nascita dell’odiata, ai loro occhi, Repubblica detta di Weimar. L’Impero guglielmino non
era infatti crollato sotto l’urto di catastrofiche sconfitte militari, bensì, principalmente, per il dissolversi del
fronte interno a causa del secco peggioramento del tenore di vita della popolazione, causato in primo luogo
dal blocco navale britannico verso gli Imperi centrali.
Qui sta inoltre una delle radici della decisione di Hitler e dei suoi paladini, come sono
stati definiti dalla storiografia, di puntare ad
Oriente; avendo cessato la Germania, sul finire dell’Ottocento, di essere autosufficiente
per quanto riguardava le derrate alimentari,
la soluzione definitiva del problema andava
cercata nelle “terre nere” dell’Ucraina allora
sovietica.
Analogamente, mettere le mani sulle riserve petrolifere
dell’Azerbaigian avrebbe reso il Terzo Reich, già ricco in
proprio di carbone e per di più impadronitosi nel mesi precedenti dei distretti carboniferi polacchi, belgi e
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francesi, del tutto indipendente sotto l’aspetto dell’approvvigionamento energetico.
Nello stesso arco di tempo in cui si apriva concretamente la prospettiva di un nuovo ed esteso fronte ad
Oriente, una serie di strutture scientifiche e di ricerca
che facevano capo ai vertici dell’apparato SS elaboravano il cosiddetto Generalplan “Ost” (Piano generale per
la riorganizzazione dello spazio orientale) che prevedeva un pesante intervento sulla composizione demografica dei territori occupati, prima quelli polacchi, e poi i
sovietici, finalizzato alla loro germanizzazione, da condurre attraverso deportazioni di massa ed eliminazioni
pianificate della popolazione considerata in eccesso che
fosse colà residente. La presenza ebraica, storicamente
consistente in quelle aree, andava ovviamente “rimossa”
in toto, ma con essa anche parte notevole degli abitanti di lingua e cultura slava. Unito al virulento antibolscevismo che faceva parte integrante della visione del
mondo dei fascismi, di cui il nazionalsocialismo non
rappresenta altro che una versione estremamente radicale, fu questo complesso di obiettivi a far assumere alla
successiva Operazione Barbarossa il carattere di guerra
di annientamento.
Dal canto loro, nella seconda metà di giugno 1940,
truppe sovietiche avevano occupato i tre Paesi baltici
(Lituania, Lettonia, Estonia), già messi sotto tutela nel
settembre precedente. Se da un punto di vista strettamente strategico-militare questa mossa del Cremlino,
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come anche la precedente guerra d’inverno contro la
Finlandia, aveva un suo ben chiaro senso, mirando a
consolidare le spalle di un possibile fronte di guerra
dell’Urss nei confronti della Germania, altra questione
fu, anche in questo caso, il travestimento della ragion
di Stato moscovita con la causa e gli interessi del movimento operaio e comunista mondiale, in modo da
portare avanti con rapidità la “bolscevizzazione” dei tre
Stati divenuti nuovi membri dell’Unione Sovietica.
LA GUERRA IN AFRICA E NEI BALCANI
Come già ricordato, l’entrata in guerra dell’Italia aprì
un nuovo fronte nell’Africa Settentrionale ed orientale;
da un punto di vista strategico sarebbe stato cruciale
per l’Italia il Fronte dell’Africa Settentrionale; la rapida
conquista dell’Egitto e del canale di Suez avrebbe permesso di mettere sotto controllo il Mediterraneo privando la flotta britannica della sua base di Alessandria
e riducendo praticamente a zero l’importanza di Malta,
di cui del resto gli stessi comandi inglesi avevano previsto la caduta nei primi mesi di guerra. Alla Mediterranean Fleet sarebbe così rimasta solo la disponibilità
di Gibilterra.
Non solo, nella misura in cui a Mussolini ed ai suoi
gerarchi premeva condurre una guerra “parallela” ed autonoma rispetto a quella della Germania hitleriana, pro90
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prio il Nordafrica rappresentava l’opportunità migliore.
È questo il senso di importanti scelte della dirigenza del
regime, quali il rifiuto opposto, nell’aprile 1940, alla
proposta tedesca di partecipare all’imminente offensiva contro la Francia trasferendo una propria armata sul
Reno, e la non accettazione dell’offerta di Hitler, avanzata nell’agosto dello stesso anno e ripetuta più volte
nelle settimane seguenti, di mettere a disposizione unità corazzate tedesche per le operazioni contro l’Egitto.
Unicamente nella Battaglia d’Inghilterra ci sarebbe stata
una certa partecipazione italiana, tramite l’invio, tra settembre ed ottobre 1940, in supporto alla Luftwaffe di
un Corpo aereo italiano (Cai), forte di 178 aeroplani da
bombardamento, da caccia e di appoggio.
Il 19 agosto 1940 Mussolini in persona scrisse al
generale Rodolfo Graziani, governatore e comandante
delle truppe italiane della Libia, di prepararsi ad attaccare le forze britanniche in Egitto. Sulla carta la sproporzione delle forze era enorme e decisamente a favore
degli italiani: Graziani aveva ai suoi ordini oltre centocinquantamila uomini, a cui il comandante supremo
inglese in Egitto, il generale Archibald Wavell, poteva
opporne solo trentamila, tra reparti metropolitani e coloniali. È vero che Wavell aveva a disposizione carri armati pesanti, che mancavano a Graziani, tuttavia il loro numero era limitato (una cinquantina), mentre per
quanto riguardava i mezzi corazzati medi e leggeri erano gli italiani ad essere quantitativamente in vantaggio.
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L’11 settembre successivo iniziarono le ostilità; colonne italiane varcarono il confine tra Libia ed Egitto
ed avanzarono, praticamente senza incontrare resistenza, poiché gli inglesi, consci della propria inferiorità, si
erano ritirati su linee più arretrate, sino all’oasi di Sidi
el Barrani, dove Graziani ordinò di assestarsi fortificando il terreno ed apprestandosi alla difensiva. Gli italiani
erano così riusciti a costituire una testa di ponte in territorio egiziano, sicuramente fastidiosa per i loro avversari
ma di per sé non decisiva, se non nell’ipotesi di proseguire l’avanzata. Nulla invece si verificò fino ai primi di
dicembre, e quando qualcosa di nuovo accadde fu per
iniziativa dei britannici. Il 9, infatti, cominciò una controffensiva dei reparti di Wavell, che aveva inizialmente
un obiettivo limitato: la riduzione del territorio sotto
controllo italiano. Lo schieramento difensivo italiano a
Sidi el Barrani crollò invece di schianto, lasciando agli
attaccanti via libera verso il territorio libico. In poche
settimane i britannici presero le piazzeforti di Tobruk
e Bardia, ed occuparono, il 6 febbraio 1941, la capitale
della Cirenaica, Bengasi. Le dimensioni della catastrofe
sono rese ancor più evidenti dall’altissimo numero di
prigionieri caduti in mano britannica: oltre centomila.
Esito non diverso, anzi se possibile ancora
più catastrofico, lo ebbero i progetti aggressivi del regime, portati avanti nello stesso
periodo, verso i Balcani.
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Tanto la Grecia quanto la Jugoslavia costituivano da
tempo un obiettivo dell’espansionismo fascista, ma
nell’estate del 1940 Roma dovette fare i conti con la volontà tedesca di non turbare l’equilibrio nell’area, in cui
Berlino puntava semmai a conseguire l’egemonia attraverso la penetrazione economica e l’influenza politica.
Ciò non impedì tuttavia alle autorità italiane di sviluppare svariati piani militari offensivi verso Atene, la cui
messa in pratica però fu più volte rinviata, su pressione
di Berlino, finché, il 12 ottobre 1940, Mussolini non fu
informato dell’entrata di truppe tedesche in Romania
allo scopo di mettere in sicurezza i campi petroliferi di
Ploesti, cosa che lo decise a porre nuovamente quelle
ipotesi all’ordine del giorno per motivi sia di prestigio
sia di riequilibrio dei rapporti di forza interni all’Asse,
ordinando di attaccare la Grecia dalla testa di ponte albanese, già sotto controllo italiano dal 1939.
Il piano strategico, per altro, si limitava a prevedere
l’occupazione dell’Epiro da parte di tre divisioni, valutando che a quel punto Atene avrebbe chiesto l’armistizio. Il 28 ottobre 1940 gli italiani passarono il confine; quattro giorni dopo ebbe inizio la controffensiva
greca, che costrinse i reparti del Regio Esercito ad una
ritirata tanto precipitosa quanto inaspettata. Le truppe
elleniche penetrarono profondamente in Albania, occupando circa un terzo del suo territorio e costringendo gli italiani sulla difensiva; questi ultimi riuscirono a
stabilizzare il fronte solo a dicembre inoltrato, trasfor93
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mando però quella che doveva essere una passeggiata
militare contro un esercito dall’efficienza mediocre in
una replica della guerra di trincea sull’Isonzo e sul Carso del 1915-1918.
L’impatto sull’opinione pubblica mondiale, ed in
particolare su quella dei Paesi belligeranti, fu enorme;
per la prima volta una campagna di guerra condotta
da forze dell’Asse non si risolveva in una travolgente
avanzata ma veniva spezzata e per poco non si risolveva
in una rotta; l’Italia, inoltre, si rivelava come il punto debole dello schieramento nazifascista, come il suo
“ventre molle”, come ebbero occasione di rilevare non
solo i britannici, ma anche alti funzionari del governo
di Berlino.
Con ogni probabilità l’emergere della fragilità italiana, del cui apparato militare tanto
alleati quanto avversari avevano largamente
sopravvalutato efficienza e capacità operativa, costituì un ulteriore punto di svolta all’interno del conflitto.
Per tutto l’inverno 1940-1941 il Fronte greco-albanese
rimase fermo; perché la situazione si sbloccasse fu necessario, il 6 aprile 1941, l’intervento tedesco, che terminò di appiccare il fuoco all’intera penisola balcanica.
Per Berlino era una decisione ormai non più rinviabile, dopo che, tra il 29 ottobre ed il 3 novembre 1940,
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unità britanniche avevano occupato Creta e preso terra
nei pressi della capitale ellenica, e il 27 marzo 1941
un colpo di Stato militare aveva rovesciato il governo
jugoslavo che due giorni prima aveva accettato, sotto le
pressioni tedesche, di aderire all’Asse. Ungheria e Bulgaria si unirono all’attacco contro Atene e Belgrado,
che furono costrette a cedere le armi; il corpo di spedizione britannico si ritirò a Creta, occupata dai tedeschi
soltanto alla fine del maggio successivo.
Intanto, erano sbarcati in Tripolitania i primi reparti dell’Afrika Korps, inviato da Hitler in soccorso.
Si trattava di un corpo di spedizione non particolarmente numeroso, ma completamente meccanizzato.
Fu allora possibile fermare l’avanzata britannica e poi,
il 30 marzo 1941, passare alla controffensiva rioccupando la Cirenaica e spingendosi oltre il confine fino
a Sollum. Le forze italogermaniche erano però troppo
esigue per un’offensiva in grande stile verso l’Egitto
che avrebbe effettivamente costituito una seria minaccia per lo schieramento britannico in Medio Oriente,
tanto più che il 1° aprile un colpo di Stato aveva portato al potere in Irak esponenti arabi favorevoli all’Asse.
Né l’Italia, vista la sua debolezza militare, né la
Germania, che aveva impegnato gran parte delle sue
risorse nella preparazione dell’attacco all’Urss, furono
però in grado di soccorrere i potenziali alleati irakeni,
i quali non poterono fare altro che cedere le armi di
fronte al contrattacco del British Army. Intanto, i bri95
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tannici erano passati all’offensiva nel Corno d’Africa;
nell’arco di appena quattro mesi, dal 19 gennaio al
18 maggio 1941, Eritrea, Somalia, Etiopia vennero
occupate.
L’Impero italiano, per la cui conquista era
stata necessaria una guerra appena sei anni
prima, non esisteva più.
Nei mesi precedenti il piano di attacco tedesco all’Urss
aveva preso forma definitiva; la campagna in preparazione era lì descritta come di esecuzione rapida, da
condurre attraverso l’impiego in grande stile di mezzi
corazzati in modo da occupare rapidamente gran parte del territorio europeo dell’Urss. Si prevedeva altresì
la partecipazione fin dall’inizio degli eserciti rumeno e
finlandese.
Il giorno successivo all’attacco all’Urss, 23
giugno 1942, un documento riservato steso
dall’Ufficio del Piano quadriennale, guidato
da Hermann Göring, espresse a chiare lettere il senso delle misure che si intendeva
intraprendere, spiegando che nel terzo anno di guerra non solo la Wehrmacht ma anche la popolazione civile tedesca avrebbe
dovuto essere nutrita con i cereali prelevati
nelle aree occupate dell’Urss, cosa che pre-
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sumibilmente avrebbe provocato, fu scritto, la morte per fame di decine di milioni di
persone.
Che, di fronte ad un’offensiva su vasta scala della Wehrmacht, l’Armata Rossa e con essa lo Stato guidato da
Josif Stalin fossero destinati a crollare in pochi mesi era,
come si è rilevato, convinzione diffusa anche nelle cancellerie occidentali; le aspettative in tal senso di Berlino
risultano confermate dalla richiesta che l’ambasciata tedesca presso il Quirinale trasmette alle autorità italiane
nello stesso mese di dicembre 1940: il governo del Terzo Reich chiede all’Alleato mediterraneo oltre 250.000
lavoratori industriali qualificati, che si sarebbero dovuti
recare oltre il Brennero con contratti di lavoro semestrali. Roma accetta e l’arruolamento ha inizio dai primi mesi del 1941.
Negli stessi mesi non poco stava mutando dall’altra parte dell’oceano Atlantico: nel settembre 1940 gli
Usa introducono la leva obbligatoria; il 29 dicembre
successivo il presidente statunitense Franklin Delano
Roosevelt, appena rieletto per la terza volta, dichiara in
un importante discorso radiofonico che gli Stati Uniti
sono «l’arsenale della democrazia», promettendo perciò sostegno sia al Regno Unito, unica potenza ancora
combattente contro le forze nazifasciste, sia alla Cina,
faticosamente impegnata nel tener testa all’espansionismo nipponico. Nel marzo successivo, Washington si
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impegnava a fornire alla Gran Bretagna, alla Cina, alle
forze degaulliste della Francia Libera rifornimenti in
armamenti, materie prime, carburante, derrate alimentari e tutto quello che fosse utile alla loro condotta della
guerra, rinviando alla fine delle ostilità il pagamento di
quanto messo a disposizione.
Pur restando formalmente potenza non belligerante, con questa disposizione gli Stati
Uniti posero di fatto fine alla propria precedente neutralità.
Preparato con cura nei mesi precedenti, l’assalto tedesco all’Urss, l’Operazione Barbarossa, sarebbe scattato
il 22 giugno 1941 su un fronte lungo 2130 chilometri, dal mar Baltico al Mar Nero. A confrontarsi furono
da un lato circa 3.500.000 uomini sotto le bandiere
dell’Asse, dall’altro i circa 3 milioni di effettivi dell’Armata Rossa. Assai squilibrati invece i rapporti di forza a
favore dei sovietici per quanto riguardava carri armati,
aerei e cannoni con rapporti rispettivamente di tre ad
uno, oltre due ad uno e circa due ad uno.
Nonostante l’asimmetria, l’avanzata di tedeschi ed
alleati nelle tre direzioni previste, Leningrado, Mosca,
il bacino del Donec, apparve per alcuni mesi inarrestabile: all’inizio di dicembre la città voluta da Pietro
il Grande era sotto assedio, vi sarebbe rimasta per 900
giorni; le avanguardie tedesche erano a pochi chilometri
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dalla Capitale; il medio corso del Donec era stato raggiunto; unità della Wehrmacht erano vicine all’estremità orientale del mar d’Azov. L’Ucraina, la Bielorussia,
i Paesi baltici, la Crimea, le aree più occidentali della
stessa Russia erano state occupate dagli invasori. Oltre
3 milioni di militari sovietici erano caduti prigionieri;
di loro più di 2 milioni sarebbero morti nei campi di
prigionia della Wehrmacht, in stragrande maggioranza
di fame, entro il febbraio 1942.
A provocare la strage conversero più fattori: il carattere di guerra di annientamento nei confronti di un
nemico stigmatizzato quale slavo, asiatico, bolscevico
ed in larga misura ebraico o influenzato dall’ebraismo
che venne conferito ab origine all’Operazione Barbarossa dai decisori politici del Terzo Reich; la volontà esplicita di trarre dalle terre orientali le risorse alimentari
necessarie per reggere lo sforzo bellico, cosa che rendeva
inconcepibile “sprecare” parte di quelle risorse per nutrire proprio i prigionieri di guerra sovietici; la pervicace convinzione che la campagna potesse concludersi
entro l’autunno o poco più oltre, con la conseguente
smobilitazione dei richiamati, il che fece al momento
apparire irrilevante l’eventuale uso dei prigionieri di
guerra sovietici quale manodopera coatta.
Il gruppo dirigente staliniano, preso inizialmente
di sorpresa dalla vastità dell’azione tedesca, ordinò alle proprie truppe di contrattaccare immediatamente,
cosa che portò ad una serie di disfatte sul campo. Nel99
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le settimane successive, tuttavia, sebbene a prezzo di
altissime perdite umane, in termini di caduti, feriti e
prigionieri, e territoriali, la resistenza strenua dei reparti dell’Armata Rossa costrinse gli ufficiali comandanti
delle grandi unità della Wehrmacht a rendersi conto
che la Campagna d’Oriente non sarebbe stata una passeggiata, a rallentare il proprio procedere ed a riflettere
sulla propria sottovalutazione della tenuta dello Stato
sovietico e del suo apparato militare.
Appena due mesi dopo l’inizio dell’offensiva, la
Wehrmacht avvertì il Führer dell’impossibilità di
concludere entro l’anno, come inizialmente previsto,
l’Operazione Barbarossa, cosa che avrebbe trovato
qualche settimana dopo una indiscutibile conferma
nell’esito della Battaglia di Mosca. All’offensiva tedesca in direzione della Capitale, sviluppatasi dal 30
settembre al 5 dicembre, avrebbe fatto seguito una
pesante controffensiva sovietica che, per la prima volta in modo così evidente, costrinse la Wehrmacht ad
arretrare, attestandosi su una linea difensiva spostata
assai più ad occidente della città. Il significato più
profondo della vittoria sovietica nello scontro stava,
però, nell’aver fatto definitivamente tramontare l’ipotesi nazionalsocialista di una guerra lampo. Hitler
ed i suoi paladini dovettero a questo punto adattarsi
ad una non prevista guerra d’usura, che li avrebbe
costretti a decisivi mutamenti nella condotta del conflitto e a una radicale riorganizzazione della produ100
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zione di armamenti. Contemporaneamente iniziò il
potenziamento del ministero delle Armi e Munizioni, destinato a diventare la chiave di volta dell’economia di guerra e della sua pianificazione, che dopo
la morte in un incidente aereo, l’8 febbraio 1942,
di Fritz Todt, suo primo responsabile, fu affidato ad
Albert Speer.
Ci sono pochi dubbi sul fatto che proprio la
Battaglia di Mosca abbia costituito un cruciale punto di svolta, costituendo per lo
schieramento di potenze egemonizzato dalla Germania l’inizio della fine.
L’ENTRATA IN GUERRA DEGLI STATI UNITI
Proprio mentre lo scontro era al suo apice, il 7 dicembre 1941, la guerra divenne definitivamente mondiale
attraverso l’apertura di un altro gigantesco fronte, questa volta sull’Oceano Pacifico, tramite l’attacco aeronavale sferrato dal Giappone contro il porto militare
statunitense di Pearl Harbor, nelle isole Hawaii. Tra
il 1940 ed il 1941 i rapporti, già tesi in precedenza
per la penetrazione giapponese in territorio cinese, conobbero una fase di ulteriore peggioramento a causa
del tentativo nipponico di approfittare dello stato di
crisi in cui versavano potenze coloniali quali la Francia
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ed i Paesi Bassi, sconfitte ed occupate dalla Germania,
per mettere sotto controllo l’Indocina francese e le Indie orientali neerlandesi, puntando successivamente ai
possedimenti della Gran Bretagna, impegnata allo spasimo nella lotta al Terzo Reich, quali la Malesia, sotto
sovranità britannica, e in prospettiva l’India, ed alle
Filippine, che erano all’epoca una sorta di protettorato
statunitense.
Nel luglio 1941 la decisione di Washington di bloccare le forniture di petrolio al Giappone, essenziali per
l’economia del Paese e per il mantenimento dell’efficienza delle sue forze armate, aprì una convulsa trattativa bilaterale conclusa da un nulla di fatto, mentre
il gruppo dirigente nipponico continuava i preparativi
per mettere in sicurezza, tramite un esteso attacco militare, le basi materiali della “Grande sfera di prosperità
comune della Asia Orientale”. Obiettivo del piano era
mettere fuori gioco, attraverso successivi colpi aeronavali, la flotta statunitense del Pacifico.
Anche il Giappone, come la Germania nei confronti del Regno Unito, puntava strategicamente in tempi
futuri ad una pace di compromesso con Washington
basata sull’accettazione del fatto compiuto e sulla divisione delle sfere d’influenza.
L’Operazione Barbarossa prima, l’attacco
giapponese alla Hawaii dopo, oltre ad estendere enormemente il teatro delle operazioni,
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provocarono la fine dell’isolamento britannico e l’avvio nei mesi successivi della Grande
alleanza antifascista che avrebbe sostanzialmente legato, sia pur non senza contrasti e
divergenze di vedute anche assai consistenti,
Londra, Mosca e Washington sino al 1945.
Dato il potenziale produttivo dei tre Paesi e le forme
di collaborazione anche economica oltre che militare
che essi furono in grado di costruire, il tempo lavorava
a loro favore.
Tuttavia, nell’inverno 1941-1942 la situazione appariva per i nemici dell’Asse niente affatto rosea: il Terzo
Reich e, sia pure con un ruolo minore, l’Italia erano
padroni di quasi tutta l’Europa Continentale e di una
parte significativa dell’Africa Settentrionale, mentre il
Giappone dominava il Pacifico occidentale ed il Mar
Cinese Meridionale. Il peso della guerra guerreggiata
sulla terraferma era a quel punto sostenuto pressoché
dalla sola Unione Sovietica, che si ritrovava per di più
le unità nemiche profondamente incuneate nel proprio
territorio.
L’apertura di un secondo fronte terrestre, che mettesse Germania ed Italia nella sgradevole situazione di
dover dividere le proprie forze combattenti, avrebbe
preso corpo solo quasi tre anni dopo, con lo sbarco in
Normandia attuato il 6 giugno 1944, ma la cui pianificazione iniziò un anno prima.
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LA BATTAGLIA DI STALINGRADO
Nel frattempo il 1942 aveva visto una nuova spinta
offensiva della Wehrmacht, rafforzata da un cospicuo
schieramento di forze italiano, nel quadrante meridionale sovietico in direzione dei campi petroliferi del
Caucaso. L’avanzata si spinse sino a Stalingrado, importantissimo centro industriale e nodo strategico di
comunicazione, scontrandosi, a partire dal 17 luglio,
con le unità sovietiche schierate a protezione. Dopo
una lunga fase, durata sino alla metà di novembre, di
combattimenti nella città casa per casa, fu avviata da
parte sovietica una serie di operazioni nella cui conduzione ebbero un ruolo decisivo i reparti corazzati, e
che portò all’accerchiamento della 6a Armata tedesca,
che si sarebbe poi arresa il 2 febbraio successivo, ed alla rotta delle truppe rumene, italiane ed ungheresi, che
erano state collocate a difesa delle lunghissime linee di
collegamento tra l’Armata e le retrovie.
La Battaglia di Stalingrado divenne famosa
per le sue caratteristiche e per il suo valore
simbolico: da quel 2 febbraio 1943 la linea del
fronte avrebbe cessato di muoversi verso est.
Il colpo definitivo alle velleità nazionalsocialiste di
spazzare via dalla carta geografica la Russia sovietica lo
avrebbe poi dato la Battaglia di Kursk (580 chilometri
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a sud di Mosca), dove era presente un saliente sovietico che si incuneava profondamente nelle linee tedesche. Avviatosi il 5 luglio 1943, il combattimento ebbe
termine il 14 successivo; i tedeschi dovettero ritirarsi,
mentre i sovietici riuscirono a mantenere il controllo
del saliente e della zona circostante. In Oriente, come
avrebbero cominciato a capire non pochi alti ufficiali
della Wehrmacht, la guerra era persa.
Esito analogo si era nel frattempo profilato sul
Fronte nordafricano, dove nell’autunno del 1942 si
era definitivamente consumata la sconfitta delle forze
dell’Asse. Dopo la riconquista della Cirenaica e l’occupazione di Sollum (marzo-aprile 1941) da parte
delle forze italogermaniche, il fronte era rimasto sostanzialmente immobile fino al novembre del 1941,
quando unità britanniche passarono all’offensiva, penetrando profondamente in Cirenaica ma senza riuscire a disorganizzare i reparti dell’Asse, che, il 28 dicembre, fermarono l’avanzata nemica sul confine con
la Tripolitania e, dopo un primo contrattacco attuato
con successo alla fine di gennaio 1942, il 26 maggio
successivo sfondarono le linee inglesi. Un mese dopo,
l’importante base di Tobruk cadde in mani italiane e
tedesche; sembrava loro aperta la strada verso Alessandria, ed inoltre appariva vicino l’isolamento di Malta,
destinata, nei piani dell’Asse, ad essere presa attraverso un’azione aeronavale. In tal modo si sarebbero
poste le premesse per espellere i britannici dal Medi105
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terraneo; era però essenziale che tutto avvenisse molto
in fretta, prima cioè che le forze nemiche stanziate in
Egitto potessero giovarsi del supporto statunitense, ed
approfittando altresí dello spostamento di parte della
Mediterranean Fleet britannica nell’Oceano Pacifico
per far fronte all’espansionismo giapponese, cosa che
di per sé favoriva l’iniziativa italogermanica nell’Africa del Nord.
Convinto di poter facilmente arrivare al Cairo, il
Comando delle forze dell’Asse (dalla primavera del
1941 di fatto nelle mani del generale tedesco Erwin
Rommel) decide di avanzare in Egitto; il 30 giugno
1942 viene raggiunta la depressione di El Alamein,
che dista appena cento chilometri da Alessandria. A
quel punto, però, la spinta offensiva si esaurisce, per
la riorganizzazione dei britannici e per la carenza da
parte italogermanica di rinforzi e rifornimenti adeguati. Nonostante gli attacchi condotti da italiani e
tedeschi da luglio a settembre 1942, costati moltissimo in caduti, feriti, e prigionieri, la linea del fronte
rimane immobile fino al 23 ottobre seguente, quando
l’iniziativa ritorna agli inglesi. Dopo una settimana
di combattimenti, i reparti dell’Asse sono costretti ad
una frettolosa ritirata che li riporterà, un mese dopo,
sulle posizioni di partenza.
Ma c’è una novità: tra il 7 e l’8 novembre 1942 una
forza d’invasione mista angloamericana ha preso terra
in Marocco ed in Algeria, colonie francesi; per le unità
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italiane e tedesche che operano in Nordafrica sussiste
ora il concreto rischio di essere prese tra due fuochi.
Berlino trasferisce immediatamente le proprie unità
in Tunisia, per garantirsene il controllo; nei mesi successivi gli sforzi dell’Asse si concentrano sul tentativo
di farne un’imprendibile testa di ponte, mentre viene
progressivamente abbandonata la Tripolitania: alla fine
di gennaio 1943 tutto quanto il territorio libico è in
mani britanniche.
Per l’Italia la situazione è a dir poco disperante: non
solo non si è affatto riusciti a sottrarre il Mediterraneo al controllo degli inglesi, ma ora lo stesso territorio
metropolitano è sottoposto alla minaccia aerea degli
Alleati, che possono usufruire degli aeroporti francesi
in Marocco ed in Algeria, nonché delle stesse installazioni costruite dagli italiani in Libia. È chiaro, inoltre,
che l’arroccamento tunisino non potrà essere tenuto a
lungo; una volta che esso sia caduto, verrà all’ordine
del giorno uno sbarco angloamericano nell’Italia meridionale, il “ventre molle” dell’Asse.
L’11 maggio 1943 i reparti superstiti dell’Asse in
Africa del Nord cessano di combattere. All’inizio di
giugno l’isola fortificata di Pantelleria, baluardo della
Sicilia, è investita da un uragano di fuoco. Nella notte
tra il 9 ed il 10 luglio 1943 truppe angloamericane
prendono terra in Sicilia; il 24 luglio su tutta intera
l’Isola sventolano l’Union Jack e la bandiera a stelle e
strisce.
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Il giorno dopo a Roma cade il regime monarchico-fascista, aprendo la strada al governo
militare di Pietro Badoglio ed alla successiva
occupazione tedesca, coadiuvata da un rinato fascismo che si proclama, questa volta,
repubblicano.
L’AVANZATA FINALE DEGLI ALLEATI
Nel Pacifico, intanto, i rapporti di forza si erano alterati irrimediabilmente a favore degli statunitensi e
delle forze del Commonwealth britannico loro alleate
già dal giugno 1942, in seguito allo scontro aeronavale delle Midway, avvenuto tra il 4 ed il 6 del mese.
Pensata dal Comando supremo della Marina nipponica come l’ideale continuazione dell’attacco a Pearl
Harbor, la manovra offensiva che sarebbe sfociata nella battaglia avrebbe dovuto portare all’annientamento della residua capacità militare della flotta d’altura
statunitense; in realtà, terminò con la distruzione di
quattro grandi portaerei nipponiche, oltre a naviglio
minore e a parecchi velivoli da caccia e da bombardamento. Pesanti furono anche le perdite americane, ma
a risultarne irrimediabilmente danneggiata fu la capacità di proiezione di potenza che era fondamentale
per Tokio e per la realizzazione dei suoi piani egemonici. Da allora in poi le si prospettava solo una lunga
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guerra di resistenza, senza alcuna possibilità di uscirne
vincitrice.
Fu di conseguenza non arduo per Washington in un
certo qual modo incapsulare il conflitto nel Pacifico,
dando la priorità alla situazione europea ed al conseguente contrasto di Germania ed Italia. Una volta conclusa quella partita ci si sarebbe nuovamente occupati
del Sol Levante. Sarebbe a quel punto giunta l’ora dei
bombardamenti atomici di Hiroshima (6 agosto 1945)
e Nagasaki (9 agosto 1945).
Lo Sbarco in Normandia (6 giugno 1944) e quello
successivo in Provenza (15 agosto 1944) posero le premesse per la rapida liberazione della Francia, dove Charles
De Gaulle, capo riconosciuto della Francia Libera, giunto a Parigi il 26 agosto, appena 24 ore dopo la presa di
possesso della città da parte delle truppe corazzate ai suoi
ordini, avrebbe costituito un nuovo governo espressione
della Resistenza, ma anche per l’attacco finale al territorio
metropolitano tedesco, finora vulnerabile solo dall’aria.
Reparti dell’Armata Rossa, reduci dalla riconquista
di Ucraina e Bielorussia, sarebbero penetrati in Prussia
orientale e avrebbero raggiunto il corso dell’Oder, che
distava poche decine di chilometri da Berlino, all’inizio
di gennaio 1945; dal canto loro reparti statunitensi passarono il Reno a Remagen due mesi dopo.
L’8 maggio 1945 quel che restava del governo
tedesco si arrende, accettando di firmare la
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resa incondizionata, secondo la formula decisa, su proposta di Franklin Delano Roosevelt,
alla conferenza tripartita tenuta a Casablanca
nel gennaio 1943.
Inizialmente pensata come da applicarsi anche al Giappone, arresosi formalmente il 2 settembre successivo, e
all’Italia, dove il conflitto aveva avuto termine nell’ultima settimana di aprile dopo che per venti mesi larga
parte del Paese era divenuta un campo di battaglia, la
formula cara al presidente degli Stati Uniti fu però applicata in questi due ultimi casi con modalità assai più
moderate rispetto a quelle utilizzate nei confronti della
Germania.
Secondo gli studi disponibili ed in base ai differenti
parametri di cui i loro autori si sono serviti, il numero
di esseri umani che persero la vita nella Seconda guerra
mondiale è calcolato tra i 50 e gli 80 milioni; il numero
dei civili risulta essere stato più o meno il doppio di
quello dei militari. Oltre 26 milioni erano cittadini sovietici, circa 10 milioni i militari, e oltre 16 milioni i civili (il calcolo è per forza di cose approssimativo a causa
dei mutamenti territoriali intervenuti dopo il 1945).
In tutto perì pressoché il 13,7% della popolazione
registrata in Urss nell’ultimo anno di pace, il 1940, (ma
la percentuale superò il 25% in Bielorussia e il 16% in
Ucraina) a fronte di una percentuale di circa l’8,5% per
la Germania, quota analoga a quella jugoslava; di poco
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più del 3% in Cina; del 2,5% in Finlandia; dell’1,5%
circa per la Francia (però nell’Indocina allora francese
si raggiunse approssimativamente il 6%), rispettivamente dello 0,9% e 0,3% per Regno Unito e Usa.
L’Italia perse poco più dell’1% della popolazione. Solo la Polonia, considerata nei confini del 1939, ebbe,
con il 17%, perdite umane maggiori di quelle sovietiche.
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SOCIETÀ, CULTURA, ISTITUZIONI
L
e politiche di occupazione condotte dalle potenze
dell’Asse e del Tripartito e dai loro alleati minori
si caratterizzarono per una fortissima carica ideologica:
non si voleva soltanto espandere il proprio spazio attraverso conquiste territoriali, ma altresì intervenire pesantemente sulla struttura demografica dei territori occupati, spostando popolazioni, modificando il loro peso
reciproco nelle aree miste, eliminando gruppi giudicati
indesiderabili se non francamente deleteri, primo tra
tutti – ma non unico – quello ebraico, giudicato corpo
ontologicamente estraneo a prescindere dal grado di assimilazione ed integrazione che si era verificato sia pure
in misura diversa da Paese a Paese nel periodo successivo
alla Rivoluzione francese.
Proprio i principi fondativi di quest’ultima, che nel
corso del XIX secolo e nei decenni successivi, con particolare accentuazione dopo la Grande Guerra, si erano
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trasfusi nelle costituzioni formali e materiali degli Stati,
erano l’opposto della visione del mondo fascista; autorità contro libertà; gerarchia contro eguaglianza; asimmetria contro fratellanza. Un esempio lampante dell’opposizione antitetico-polare tra la prima e la seconda terna
concettuale salta agli occhi se solo si prende in mano
una delle monete coniate tra il 1940 ed il 1944 a Vichy:
scomparsa la dizione République Française, sostituita da
un neutro (presuntamente tanto virile quanto autoritario) État Français; cancellata la ben nota triade liberté, égalité, fraternité, al suo posto compare il trinomio,
dal sapore clericale, conservatore e nazionalista travail,
famille, patrie; espulsa dal recto l’immagine femminile
della Marianne, simbolo inequivocabilmente repubblicano e potenzialmente sovversivo dell’ordine patriarcale, a pro’ di una celtica ascia bipenne.
Assieme alle colonne della Wehrmacht, delle Regie Forze armate, del Dai-Nippon Teikoku Rikugun
(esercito dell’Impero del Grande Giappone) ed alle
portaerei della Dai-Nippon Teikoku Kaigun (marina
dell’Impero del Grande Giappone) viaggiavano infatti
progetti di riorganizzazione per linee razziali e gerarchiche del consesso umano convergenti, sebbene non
sempre identici. Questi non potevano non esercitare
un impatto spesso devastante sulle società degli Stati
occupati, già traumatizzate pesantemente dalle sconfitte incassate in tempi brevissimi e con esiti anche umanamente disastrosi in termini di perdite umane, avvii
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ai campi di prigionia militare di migliaia di giovani in
divisa, fughe precipitose di civili, donne, bambini, anziani, uomini esonerati dall’arruolamento davanti agli
invasori trionfanti.
Il risultato fu la crisi delle certezze, già in
precedenza traballanti, sulla solidità e sulla
stessa ragionevolezza degli assetti democraticoparlamentari che i Trattati di pace conclusivi della Grande Guerra avevano creduto
di poter fondare o consolidare nella nuova
Europa uscita dal conflitto.
Messe sempre più in discussione dal progressivo estendersi sul Continente di regimi autoritari ispirati dal
modello politico fascista, le democrazie europee interbelliche temono altresì il comunismo così come si
era organizzato nell’Urss, una sorta di Giano bifronte
da un lato Stato tra Stati, dall’altro centrale del movimento comunista internazionale tramite il Komintern, e comunque percepito da intellettuali, politici
e movimenti di orientamento conservatore come,
tutto sommato, assai più pericoloso dei fascismi. La
demoralizzazione conseguente alla sconfitta sul campo ed alla successiva occupazione militare, unita alla
capacità dimostrata dai regimi fascisti, diventati forza
occupante, di aderire alle faglie presenti nelle società
occupate, crea un campo di tensione dove tra i poli
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idealtipici contrapposti, rappresentati da resistenza e
collaborazione, si colloca una gamma estremamente
variegata di posizioni e di atteggiamenti oscillanti, il
cui progressivo ricollocarsi nel corso del tempo è strettamente in rapporto con l’andamento del conflitto.
Schierarsi con la Resistenza nel 1940 è assai diverso
dall’assumere siffatta posizione nel 1944; lo stesso vale
per la collaborazione.
I COLLABORAZIONISMI
Per comprendere e valutare la natura e le modalità con
cui si manifestarono, nei diversi Stati occupati dalle
forze dell’Asse, atteggiamenti, comportamenti ed attività politiche collaborazioniste, occorre tener preventivamente conto che la possibilità d’azione del collaborazionismo era rigidamente predeterminata dalla forma
di occupazione di volta in volta scelta dalla potenza fascista occupante.
La collaborazione poté svilupparsi solo là
dove l’occupante le concesse uno spazio più
o meno grande in base alle sue scelte politiche di fondo. Tali scelte furono sempre in
stretto rapporto con i progetti e le ipotesi di
riorganizzazione dei futuri ambiti egemonici, in cui si intrecciarono saldamente le due
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logiche che guidavano il loro agire: conseguire il predominio economico, gerarchizzare la società per linee razziali.
Schematizzando, per quanto riguarda il Terzo Reich
possiamo distinguere differenti modelli di gestione dei
territori occupati e non annessi o ridotti alla condizione di protettorato (Boemia e Moravia) o di colonia in
senso stretto (Generalgouvernement): l’organizzazione di
una rete di controllo amministrativa, militare, economica e di polizia che lasciasse però sussistere un simulacro
di governo nazionale semiautonomo (Francia, a parte il
territorio amministrato dagli italiani, Belgio, Paesi Bassi, Danimarca, Norvegia, Croazia, dopo l’8 settembre
1943 l’Italia, e dall’estate 1944 l’Ungheria), o l’amministrazione militare diretta (territori greci non occupati
dall’Italia, Serbia, territori occupati dell’Urss: Ucraina,
Bielorussia, Paesi baltici, Caucaso, regioni della Russia cadute in mano germanica). All’interno di questa
tipologia occorre poi introdurre ulteriori distinzioni,
da ricondurre o all’applicazione del principio della gerarchizzazione razzista, o a scelte politiche di opportunità da parte delle autorità d’occupazione; per quanto
riguarda i polacchi, per esempio, venne loro attribuito
uno status nella scala razziale talmente basso da ridurre
pressoché a zero la possibilità che si strutturassero forze
autoctone disposte alla collaborazione politica.
Nell’ambito della prima alternativa, talvolta gli oc117
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cupanti preferirono appoggiarsi ai gruppi conservatori
indigeni affidandogli la gestione dell’amministrazione
e degli apparati pubblici del Paese conquistato, come
accadde in Belgio, nei Paesi Bassi, in Francia ed in parte anche in Danimarca, che costituisce però un caso
particolarissimo poiché vennero lasciati sussistere legalmente – anche sotto l’occupazione – il parlamento ed i
principali partiti politici, escluso quello comunista. In
altri casi conferirono il potere politico (pur con rigide
limitazioni) a forze ideologicamente affini al fascismo
ed al nazionalsocialismo, come in Norvegia, Croazia e
in seguito in Italia e in Ungheria. Al di là di questa pur
importante differenza, gli Stati qui richiamati vennero
comunque sottoposti, senza eccezione alcuna, ad una
triplice struttura di controllo germanica, costituita da
una rappresentanza politica del Reich, una delegazione
della Wehrmacht, un’istanza superiore della SS e della
polizia, a cui era in particolare demandata la lotta contro i movimenti di resistenza.
All’estremo dello spettro collaborazionista troviamo
gli alfieri e vessilliferi del collaborazionismo ideologico:
i membri dei gruppi e partiti modellati sul PNF o sulla NSDAP e che ad essi si rifacevano per ideologie e
programmi. In una vasta palude contigua, ma ad essi
non riconducibile, si collocavano tutti coloro che assunsero atteggiamenti intermedi, ovviamente assai diversificati l’uno dall’altro: si andava infatti dal compromesso accettato in mancanza di migliori alternative, alla
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collaborazione non ideologica ma invece motivata da
consonanze puramente politiche con l’occupante o da
interessi materiali, od ancora dalla convinzione che solo tramite e con l’appoggio dell’invasore fosse possibile
la realizzazione di quegli obiettivi politici, economici,
sociali che apparivano desiderabili. Si collaborava con
il Terzo Reich e con il suo junior partner fascista mussoliniano per micronazionalismo, ma anche in nome di
un europeismo nostalgico delle gerarchie tradizionali,
clerico-reazionario ed antisemita. Ne sortì un miscuglio
composito, confuso e contraddittorio ma assai facile da
plasmare, nelle forme desiderate, da parte delle istanze d’occupazione e delle gerarchie supreme del Terzo
Reich, le quali riveleranno una luciferina abilità nel
servirsi, giocandole spesso l’una contro l’altra, delle sue
varie componenti.
Così, per esempio, nelle zone occupate dell’Urss verranno di volta in volta attizzati i nazionalismi dei popoli
non russi, esaltate le reciproche differenze linguistiche,
culturali e religiose, ma non si mancherà di solleticare
il nazionalismo grande-russo nostalgico dello zarismo e
lo si utilizzerà in chiave antibolscevica. Analogamente
nei Balcani, si punterà a scagliare croati contro serbi,
ed entrambi contro i musulmani di Bosnia, a cui si offrirà d’altro canto una pelosa protezione. È una partita
sanguinaria a cui parteciperanno fino in fondo anche
le autorità d’occupazione politiche e militari italiane
operanti in Slovenia, Dalmazia, in territorio croato, in
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Montenegro e nel Kossovo. Solo la relativa debolezza
del suo apparato militare, e di conseguenza l’esiguità
sostanziale dei territori occupati dall’Italia, ne limitò la
possibilità di attivare istanze collaborazioniste, che furono tuttavia presenti.
Maggiore rilevanza ebbe il tentativo, condotto in
comune da Germania ed Italia, e consonante in questo caso con le politiche portate avanti dal Giappone,
di sollevare le popolazioni arabe contro le potenze coloniali britannica e francese. Oltre all’arruolamento di
volontari di origine algerina, tunisina e marocchina nel
Maghreb, le potenze dell’Asse riuscirono ad accattivarsi la simpatia dell’importante uomo politico irakeno,
più volte presidente del consiglio dei ministri, Rašid
’Ali al-Kailani, e dell’influente notabile di origine gerosolimitana e convinto militante nazionalista panarabo
Muhammad Amin al-Husaini, nominato nel 1921 dai
britannici Gran Muftì di Gerusalemme. Entrambi univano alla spinta antibritannica un forte sentimento antiebraico, accresciutosi con lo sviluppo dell’immigrazione sionista in Palestina. Dopo il fallimento della rivolta
indipendentista dell’aprile 1941, in quel contesto necessariamente contro il Regno Unito e a favore dell’Asse, di
cui venne apertamente sollecitato il sostegno, entrambi
trovarono rifugio a Berlino, da dove svolsero un’attiva
propaganda indirizzata al mondo arabo ed islamico a
favore dell’Asse.
Con assai maggiore intensità la carta dell’anticolo120
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nialismo, sotto lo slogan “l’Asia agli asiatici”, fu giocata dal Giappone quale ad un tempo giustificazione del
proprio espansionismo e tentativo di trarre dalla propria
parte i movimenti di liberazione che, in varie forme, si
stavano strutturando nell’Asia Sudorientale. Il caso forse
più significativo fu quello, in India, di Subhas Chandra
Bose, esponente di primo piano e leader dell’ala sinistra del Partito del Congresso. Rifugiatosi a Berlino nel
1940, Chandra Bose avrebbe raggiunto nel 1943 l’isola
di Sumatra, allora in mano nipponica, dove organizzò
un’Armata nazionale indiana posta sotto il comando
dell’autoproclamatosi governo provvisorio dell’India libera, guidato da egli stesso.
Le forze del governo provvisorio non furono però
mai in grado di contrastare seriamente il dominio britannico sulla Penisola; dal canto suo la maggioranza del
Partito del Congresso, sotto la guida indiscussa di Mohandas Karamchand Gandhi, aveva preso da tempo le
distanze da Chandra Bose, schierandosi con l’Alleanza
antifascista anche se parte costitutiva di essa era la potenza coloniale britannica. Ciò non di meno, la figura
di Chandra Bose resta per l’autocoscienza storica e l’opinione pubblica indiana odierna assai controversa ed
oggetto di dibattito.
Ancora più complessa fu la situazione birmana, dove i movimenti di opposizione al dominio coloniale di
Londra inizialmente si schierarono in maggioranza a
favore dei giapponesi, i quali occuparono il Paese nel
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1942, dando vita ad un esercito per l’indipendenza del
Paese e tentando di formare un governo provvisorio che
prefigurasse un libero Stato birmano. Le scelte dei vertici nipponici furono però diverse, preferendo appoggiarsi su forze maggiormente conservatrici, scontentando così la leadership nazionalista che finì nel 1944 per
cambiare campo passando dalla parte della coalizione
antifascista.
In Indocina, territorio coloniale francese e quindi
sottoposto formalmente al governo di Vichy, le autorità
nipponiche, che già di fatto controllavano la Penisola
dopo la disfatta della République nell’estate 1940, cercarono solo nel marzo 1945, dopo la completa liberazione della Francia in seguito allo sbarco alleato in Normandia, di dar formale vita a tre Stati vassalli, rispettivamente l’Impero del Vietnam ed i regni di Cambogia
e Laos, destinati a durare solo pochi mesi.
Assai più protratta nel tempo fu invece l’occupazione nipponica nelle Indie orientali neerlandesi (l’attuale Indonesia), iniziata nel marzo 1942 e protrattasi
sino alla fine del conflitto. Accolti come liberatori dalla
maggioranza della popolazione indonesiana, i giapponesi attuarono una politica dalle molte facce, mirando
da un lato ad aprire agli autoctoni l’amministrazione
e la burocrazia, fino ad allora in mano esclusivamente
agli olandesi, che vennero internati in campi di concentramento, dall’altro esercitando però sulla popolazione
indigena forme assai dure di asservimento, dall’ar122
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ruolamento forzato di manodopera alla prostituzione
coatta di numerose giovani donne nei bordelli militari
nipponici. Nei fatti, tuttavia, lo smantellamento delle
strutture coloniali olandesi, lo spazio d’azione, seppure
subalterno, accordato agli esponenti nazionalisti locali,
e l’addestramento militare a cui le autorità nipponiche sottoposero reparti volontari autoctoni nell’ottica
di servirsene come truppe ausiliarie diedero grande
impulso al movimento indipendentista, che nell’immediato dopoguerra sarebbe riuscito ad affrancarsi dal
dominio coloniale.
Nelle Filippine, all’epoca una sorta di protettorato
statunitense avviato però verso l’indipendenza, le profferte degli occupanti, sbarcati subito dopo l’attacco a
Pearl Harbor, produssero invece risultati maggiormente divaricati: nonostante la parziale trasmissione dei
poteri ad un Consiglio di Stato formato da autoctoni e poi, nell’ottobre 1943, la proclamazione di una
Repubblica filippina indipendente, unicamente settori
consistenti delle élite e una parte non maggioritaria
della popolazione accettarono di collaborare, mentre
fin dalle prime settimane di occupazione fu rilevante
l’attività di resistenza portata avanti sia da unità dell’esercito regolare passate alla guerra di guerriglia, sia da
reparti partigiani di vario orientamento, appoggiati alcuni direttamente dagli Usa; altri, come gli Huk, di
tendenza comunista; altri ancora, come le formazioni
Moro, di matrice islamica. La struttura fisica delle Fi123
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lippine, un arcipelago, favoriva del resto la frammentazione del movimento antigiapponese.
In sintesi, come era d’altro canto avvenuto
anche nell’Europa occupata, il tentativo nipponico di inserirsi in linee di frattura già esistenti (in questo caso prevalentemente tra
colonizzati e colonizzatori) si scontrò con la
volontà di Tokio di costruire la propria sfera
egemonica sulla base di una gerarchia di popoli, favorendo così implicitamente il costituirsi delle resistenze organizzate.
Vero rimane, tuttavia, che la complessa, e non di rado
drammatica, esperienza di occupazione vissuta dai popoli dei Paesi coinvolti dalle campagne del Sol Levante
avrebbe finito col rafforzare le correnti indipendentiste,
contribuendo in tal modo al collasso postbellico del dominio coloniale nell’area, non differentemente d’altronde dall’appello che la Gran Bretagna fu costretta a fare
alla mobilitazione delle popolazioni di colonie e dominions, chiamate a combattere il blocco fascista in nome
della libertà.
Come si è notato in precedenza, nei Paesi occupati
dalle forze dell’Asse di frequente ai gruppi ideologicamente più affini alle case madri fascista e nazionalsocialista viene riservato un ruolo prevalentemente di propaganda ed agitazione, mentre si preferisce affidare a forze
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conservatrici le quote di potere non gestite direttamente
dall’occupante. La conseguente frustrazione, trasmessaci da molte fonti, che non tarda a diffondersi tra partiti
e formazioni apertamente fasciste o fascistizzanti trova
tre vie di sfogo: la crociata antibolscevica, veste che il
regime nazionalsocialista dà all’Operazione Barbarossa,
la persecuzione antiebraica, la lotta all’ultimo sangue
contro le insorgenze partigiane.
Per quanto riguarda il primo aspetto, il Terzo Reich
puntò a costruire un’armata di volontari provenienti
da tutti i Paesi d’Europa caduti sotto il suo controllo;
occorre anche in questo caso fare una distinzione tra
ciò che accadde nell’Europa Occidentale e lo svolgersi
degli eventi nell’area meridionale ed orientale del Continente. Nella prima l’arruolamento di volontari avvenne prevalentemente sotto la spinta di motivazioni politico-ideologiche (l’anticomunismo in primo luogo);
nelle seconde ad ingrossare le file della Waffen SS o dei
reparti ausiliari della Wehrmacht fu essenzialmente un
aggressivo nazionalismo antirusso (e, talvolta, la volontà di sottrarsi con l’arruolamento alle tremende condizioni dei campi di prigionia nazionalsocialisti). La
persecuzione antiebraica era consustanziale al regime
nazionalsocialista che la fa diventare legge dello Stato
subito dopo la salita al potere, appesantendola col passare del tempo; a partire dal 1938 essa avrebbe fatto un
salto di qualità a livello continentale per l’introduzione
di norme antiebraiche nel corpus legislativo di altri Sta125
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ti (Bulgaria, Italia, Polonia, Romania, Slovacchia, Ungheria) sulla base di scelte del tutto autonome da quelle
precedenti tedesche dei rispettivi regimi, tutti fascisti o
fascistizzanti.
Con lo scoppio della guerra, nel 1939, e poi
con l’apertura del Fronte orientale, nel 1941,
si sarebbero create le condizioni perché
dall’originario programma di emigrazione
forzata si passasse all’eliminazione fisica delle comunità ebraiche presenti nello spazio
sottoposto al controllo, diretto od indiretto,
del Terzo Reich. Da oltre 5 milioni ad oltre 6
milioni il totale delle vittime.
Ovunque fossero rimasti in funzione brandelli delle istituzioni preesistenti all’occupazione ed anche dove fosse
stato concesso di insediarsi a governi collaborazionisti
gli apparati dello Stato, le polizie in primo luogo, ma
anche le milizie, a cui partiti e raggruppamenti ideologicamente vicini a fascisti e nazionalsocialisti diedero vita, svolsero un ruolo centrale nello schedare, rastrellare
e concentrare gli ebrei, consegnandoli nelle mani degli
apparati che stavano realizzando la “soluzione finale del
problema ebraico”, cioè l’attuazione della Shoah, irrealizzabile senza la zelante partecipazione delle burocrazie
dei Paesi occupati, dai poliziotti ai commissari, dagli
ufficiali d’anagrafe ai direttori ministeriali e l’attivo so126
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stegno delle organizzazioni politiche che vedevano nel
PNF e nella NSDAP modelli da imitare.
Non solo, era frequente che le strutture dell’amministrazione pubblica controllata dai collaborazionisti non
si limitassero a rispondere positivamente a richieste e
pressioni antiebraiche provenienti dagli uffici tedeschi,
ma prendessero esse stesse in prima persona iniziative
persecutorie, come accadde a Vichy e, qualche anno più
tardi, a Salò.
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BILANCIO ED EREDITÀ
N
onostante i colossali sconvolgimenti intervenuti
nel corso del conflitto ed i drammatici lutti da esso provocati, primo tra tutti la distruzione di una parte
significativa dell’ebraismo europeo e la parallela scomparsa di quel tessuto di comunità ebraiche che per secoli avevano caratterizzato in particolare la parte centrale
ed orientale del Vecchio Continente, la mappa politica
d’Europa conobbe variazioni assai minori di quelle intervenute dopo la Grande Guerra: la Polonia venne respinta verso Occidente, inglobando ad Ovest i territori
orientali della Germania prebellica e perdendo ad Est
terre che sarebbero diventate ucraine, bielorusse, lituane; la Germania, ridimensionata ad Oriente, dopo un
periodo di sospensione della propria statualità, unico caso di applicazione integrale del concetto di «resa incondizionata», risparmiato invece ad Italia e Giappone, fu
scissa, nel 1949, in due Stati. A parte ciò, se si escludono
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rettifiche di confine di non eccessiva entità, tutto restò,
dal punto di vista della geografia politica, come prima, e
così sarebbe rimasto fino al biennio 1989-1991.
Va però detto che, come ha sottolineato lo storico
britannico a lungo docente negli Usa Tony Judt,
ALLA FINE DELLA PRIMA GUERRA
“
MONDIALE SI REINVENTARONO E
RIDISEGNARONO I CONFINI, MENTRE I POPOLI
FURONO IN GENERE LASCIATI DOVE SI
TROVAVANO. DOPO IL 1945, INVECE, ACCADDE
IL CONTRARIO: CON UNA SOLA IMPORTANTE
ECCEZIONE, LE FRONTIERE RIMASERO
SOSTANZIALMENTE INALTERATE, MENTRE
FURONO SPOSTATE LE PERSONE .
”
«Tra gli strateghi occidentali dominava la convinzione
che la Società delle Nazioni e le clausole sulle minoranze
del Trattato di Versailles si fossero rivelate un fallimento
e sarebbe stato un errore cercare di risuscitarle: per questo motivo accettarono di buon grado i trasferimenti.
Se non era possibile garantire una adeguata protezione
internazionale alle minoranze dell’Europa centrale ed
orientale, allora era meglio che fossero trasferite in luoghi dove sarebbero state più accette. L’espressione “pulizia etnica” non era stata ancora coniata, ma era già una
realtà concreta e non suscitava affatto disapprovazione
od imbarazzo. A parte qualche eccezione, il risultato fu
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,
e
o
e
o
.
e
d
a
e
u
la creazione di un’Europa di Stati-nazione più etnicamente omogenei che in precedenza».*
Il collasso di molte statualità preesistenti, in particolare quelle che avevano subito nei due decenni precedenti una torsione identificatoria verso il modello politico
fascista, non si sarebbe tradotto, dopo la conclusione
delle ostilità, in crisi potenzialmente rivoluzionarie. Da
un lato mancavano le parole per dirlo, posto che tanto il lessico quanto le speranze in un rinnovamento per
via rivoluzionaria erano stati per così dire “sequestrati”
dal comunismo realizzato come esso si presentava, incarnato nell’Urss e nei partiti comunisti che a Mosca
facevano (e non potevano non fare) riferimento, sia pur
con diversi e differenti gradi di autonomia; dall’altro, il
vuoto fu rapidamente riempito, nell’Est come nell’Ovest del Vecchio Continente, dalle proiezioni militari
dei due “grandi ordinatori”, le superpotenze che hanno
avuto in dote dalla Seconda guerra mondiale l’egemonia
planetaria, gli Usa e l’Urss.
E non si trattò solo di una presenza militare, data la
crisi alimentare che si era abbattuta sull’Europa intera
negli ultimi mesi del conflitto e nel periodo immediatamente successivo, aggravata per di più dagli enormi
spostamenti di popolazione. Rifacendoci nuovamente a
Tony Judt, «il problema di nutrire, vestire, alloggiare e
confortare la disperata popolazione civile (nonché i milioni di soldati prigionieri delle ex potenze dell’Asse) era
* T. Judt, Dopoguerra. Come è cambiata l’Europa dal 1945 ad oggi, Mondadori, Milano 2007
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complicato e moltiplicato dalla crisi dei profughi, che
aveva una portata senza precedenti. Quasi tutte le operazioni iniziali di assistenza ai profughi e rifugiati furono
svolte dagli eserciti alleati. Soltanto l’esercito possedeva
risorse e capacità organizzative per gestire i bisogni di un
numero di persone equivalente a quello di una nazione
di media grandezza. Una volta messo in piedi il sistema
di campi di accoglienza, la responsabilità per la cura e l’eventuale rimpatrio o reinsediamento di milioni di profughi fu assunta in misura sempre maggiore dall’UNRRA
[acronimo per United Nations Relief and Rehabilitation
Administration, struttura fondata il 9 novembre 1943 a
Washington dai rappresentati di 44 Stati tra quelli che in
seguito avrebbero dato vita all’Onu – ndr].
Nel momento del suo massimo impegno (settembre 1945) i civili liberati appartenenti all’Onu (ossia ad
esclusione dei cittadini degli ex Paesi dell’Asse assistiti o
rimpatriati dall’UNRRA e da altre agenzie alleate) erano
6.795.000, ai quali vanno aggiunti altri 7 milioni sotto
l’autorità sovietica, nonché parecchi milioni di tedeschi».
Non per caso, del resto, il proponente del piano per
il rilancio economico dell’Europa, noto come piano
Marshall, fu George C. Marshall, nel 1947 segretario di
Stato a Washington, ma dal 1939 al 1945 capo di Stato
Maggiore dell’esercito statunitense.
Nel corso del conflitto, ed in particolare nella sua
ultima fase, furono assai diffuse le prospettive di un generale rinnovamento, orizzonte ben presente all’interno
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dei movimenti di Resistenza che si erano sviluppati in
tutte le aree del mondo occupate dalle armi dell’Asse e
dei suoi alleati minori e che ne fondava le capacità di
mobilitazione, al di là di quali fossero i loro riferimenti
politici, ideali e morali. Tuttavia, spiega con chiarezza
lo storico britannico da decenni docente in Italia David
W. Elwood, «nel 1945 la questione del rinnovamento
politico aveva ormai cambiato aspetto, in confronto ai
presupposti prevalenti durante gli anni centrali del conflitto. Il motivo di questo venne spiegato da Stalin in
una famosa dichiarazione resa a una delegazione di comunisti jugoslavi in visita in Russia all’inizio del 1945:
“Questa guerra non è come in passato: chiunque occupa un territorio vi impone il proprio sistema sociale. Ognuno impone il proprio sistema nella misura in
cui il suo esercito ha il potere di farlo. Non può essere
altrimenti”. Dunque gli alleati non erano più soltanto
responsabili della “liberazione” dei territori che si trovavano sul percorso della propria avanzata militare: da
allora in poi non sarebbe stato tanto facile distinguere
tra liberazione e occupazione; alla fine della guerra era
ormai chiaro che i concetti di democrazia portati dagli
eserciti erano ridotti a due, e che i popoli liberati sarebbero stati obbligati a adottare la versione sostenuta
dalla potenza o dalle potenze cui erano debitori per la
loro salvezza. Nell’Occidente le classiche formulazioni
del liberalismo parlamentare e della sovranità popolare
avrebbero chiaramente riportato in auge un modello,
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sia pure profondamente modificato nei suoi metodi e
nei suoi obiettivi, di tradizionale collaborazione di classe, basato sul consenso e sulla legalità. Nelle zone liberate dall’Armata Rossa, la democrazia sarebbe stata quella
incarnata dalle forze antifasciste che avevano guidato la
lotta contro il nemico».*
Va precisato, a questo proposito, che l’opzione staliniana, oggettivamente condivisa anche se meno esplicitamente dagli altri partner della Grande alleanza antifascista, partiva dall’assunzione dell’irreversibilità di una
trasformazione delle relazioni internazionali che proprio lo sviluppo dei maggiori fascismi europei e dell’imperialmilitarismo giapponese aveva avviato.
Ben lungi dall’essere la mera riproposizione delle politiche di alleanza precedenti la Grande Guerra, tanto
il Nuovo Ordine Europeo propugnato dalla Germania,
quanto la Grande sfera di prosperità comune dell’Asia
Orientale portata avanti dal Giappone, quanto il Nuovo
Ordine Mediterraneo a cui aspirava l’Italia contenevano in sé un’idea di aree egemoniche organizzate politicamente, culturalmente, demograficamente in modo
omogeneo.
Appare perciò lecito sostenere che l’egemonismo bipolare sovietico-statunitense è in
qualche misura figlio di quelle aspirazioni a
* D.W. Elwood, L’Europa ricostruita. Politica ed economia tra Stati Uniti ed Europa occidentale
1945-1955, il Mulino, Bologna 1994
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cui il conflitto aveva posto fine, ancorché esso si sia servito di strumenti, metodi, forme
di dominio del tutto diverse e di gran lunga
meno distruttive.
Ovviamente a determinare un bipolarismo che non
avrebbe lasciato spazio, quantomeno in Europa, ad alcuna “terza via”, come gli eventi avrebbero implacabilmente dimostrato nei decenni successivi, avrebbero concorso
anche elementi che provenivano dal passato, in particolare dagli sviluppi intercorsi nel periodo di “guerra dopo
la guerra” successivo al Primo conflitto mondiale, quali,
per esempio, la concezione della “politica di sicurezza”
fatta propria dal gruppo dirigente staliniano. A Mosca,
infatti, ha scritto lo storico dell’Europa Orientale Silvio
Pons, «si affermò una visione delle “sfere d’influenza”
quali sfere di dominio e quale unico strumento regolativo dei rapporti di potenza, ora definito non solo dagli
interessi geopolitici ma dai “modelli” politici e sociali.
Si formò compiutamente una concezione della sicurezza
imperniata sulle acquisizioni territoriali».*
D’altro canto a Washington si verificò la contesa per
l’egemonia sulla cerchia dei massimi decisori politici tra
due diversi paradigmi, il primo dei quali, di conio più
recente e definito “di Jalta”, vedeva nell’Urss una grande potenza che aspirava ad avere una sua propria sfera
d’influenza all’interno del sistema delle relazioni inter* S. Pons, Stalin e la guerra inevitabile 1936-1941, Einaudi, Torino 1995
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nazionali così come si era recentemente assestato, mentre il secondo, risalente agli anni Venti e detto “di Riga”,
la considerava non come una potenza tradizionale, ma
piuttosto come un’entità mirante sempre e comunque
alla rivoluzione mondiale, di conseguenza non interessata a coesistere pacificamente con altri Stati, pervasa da
un’ideologia messianica di dominio globale, da perseguire attraverso un riarmo senza fine.
Mentre il paradigma di Jalta, frutto di un
approccio non ideologico di natura realpolitisch, aveva rappresentato la linea prevalente sotto la presidenza di Franklin Delano
Roosevelt, con l’avvento al potere del suo
successore, Harry Truman, si sarebbe imposto il paradigma di Riga.
Il fatto che esiti tellurici indotti dal conflitto paragonabili a quelli verificatisi dopo la Grande Guerra non potessero verificarsi per la superiore presenza ordinatrice
delle superpotenze non può tuttavia nascondere che lo
scenario postbellico fosse caratterizzato dalla necessità di
ricostruire ex novo entità statuali che, anche quando non
geograficamente mutate, avevano subito drammatiche
amputazioni demografiche, distruzioni culturali, azzeramenti dei tradizionali assetti politici ed istituzionali.
La ricostruzione fu guidata dall’alto e quindi – in
qualche misura, anche se con modalità ben diverse da
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blocco a blocco – eterodiretta, ed i nuovi gruppi dirigenti che se ne dovettero fare carico si trovarono a fare i
conti con modalità di gestione dei conflitti preesistenti
e di ricerca del consenso diverse da quelle precedentemente usuali.
Ne sarebbe sortito il cosiddetto “equilibrio del terrore”, a lungo oggetto di deprecazione ma capace, nonostante tutto, di garantire al Nord del mondo la pace e al
suo Sud, cui pur non risparmiò gli orrori della guerra,
i percorsi già avviati verso la formazione di Stati indipendenti, nonché a tutti gli esseri umani un periodo di
progressivo miglioramento, sebbene in nuce asimmetrico, delle condizioni di vita mai in precedenza vissuto, in
simili dimensioni, dall’umanità.
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MONDO IMMATERIALE
LUCI E OMBRE
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PROFUGHI
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UCCISIONI
DI MASSA
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OLOCAUSTO
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VIOLENZE
CONTRO I CIVILI
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CAMPI
DI STERMINIO
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GENOCIDI
DI “NON ARIANI”
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RAZZISMO
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BOMBA
ATOMICA
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“NUOVO ORDINE
MONDIALE”
HITLERIANO
•
MASSACRI
DI CIVILI
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LIBERAZIONE
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POLITICA
DELL’“APPEASEMENT”
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PATTO
PATTO
DI MONACO
TRIPARTITO
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SOTTOVALUTAZIONE
DEL REGIME
HITLERIANO
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PATTO
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APPROFONDIMENTI
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COMMENTI
L’origine del sistema del clearing, attraverso cui la Germania nazionalsocialista riuscì nel corso della guerra a drenare risorse non solo dai
Paesi occupati e sottomessi, come qui sottolinea in particolare Milward,
ma anche da quelli alleati (Italia compresa, ben prima dell’8 settembre
1943), va ricercata negli anni successivi alla Grande Crisi del 1929,
allorché l’economia tedesca si trovò a dover fare i conti con una radicale
carenza di valuta che le impediva di acquistare fonti di energia, materie
prime e derrate alimentari. La soluzione, proposta e messa in atto da
Hjalmar Schacht, dal 1933 presidente della Reichsbank e dal 1934 ministro dell’economia, fu il bilateralismo, fondato sul principio “compra
solo da chi acquista i tuoi prodotti, e vendi solo a colui le cui merci tu
acquisti”. Invece di un quadruplice flusso orizzontale di merci e denaro
nelle due direzioni, si ottenne che solo le merci oltrepassassero la frontiera,
mentre il denaro rimaneva nei confini nazionali: chi acquistava versava
il corrispettivo in una cassa di compensazione istituita dallo Stato, che
provvedeva a retribuire chi vendeva. Presupposto indispensabile era la
fissazione di un rigido rapporto di cambio tra le due valute coinvolte.
Il meccanismo richiedeva che il valore dell’import fosse sostanzialmente
uguale a quello dell’export; se in un Paese coinvolti l’import superava
invece l’export, creando contabilmente una passività, ne venivano conseguenze sgradevoli per l’altro, formalmente in attivo ma impossibilitato
a retribuire i propri esportatori. In tempo di pace erano possibili aggiustamenti, ma con lo scoppio della guerra la Germania poté far valere il
suo peso politico, militare ed economico costringendo i partner, tutti in
attivo, a continue anticipazioni di cassa. Da un lato quindi si procurò
merci senza pagarle, dall’altro spostò inflazione oltre frontiera.
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LO SFRUTTAMENTO ECONOMICO TEDESCO TANTO DEI PAESI
OCCUPATI QUANTO DEI PROPRI ALLEATI
Lo sfruttamento dei territori conquistati dalla Germania fu regolato
dalla strategia tedesca. Fintantoché la strategia si basò sull’idea di una
guerra lampo, lo sfruttamento […] fu una questione di breve termine.
Esso consisté principalmente nell’accaparramento delle riserve di prodotti di carattere strategico e nell’assicurarsi la possibilità d’impiego di
particolari beni o impianti in grado di offrire un sostegno immediato
allo sforzo bellico tedesco. Quando al principio del 1942 la strategia
mutò e si accettò la certezza di una lunga guerra, cambiò anche il modo
di considerare il problema dello sfruttamento […]. Gli occupanti tedeschi da allora concentrarono il proprio interesse sull’organizzazione
di un sistema di consistenti e continui contributi da parte dei territori
occupati […]. In ciascuno dei primi quattro anni di guerra l’aumento
dei contributi esterni al prodotto totale disponibile della Germania
fu di fatto maggiore dell’aumento del contributo interno. Questo
tradizionale metodo d’imposizione dei contributi di occupazione fu
tuttavia accompagnato da un più sofisticato sistema di sfruttamento. I
contributi furono pagati per mezzo del meccanismo di clearing (compensazione) creato per regolare gli scambi tra la Germania e i territori
occupati. Ciascun Paese fu obbligato a negoziare con la Germania,
da posizioni di netta inferiorità, un accordo bilaterale […]. La bilancia commerciale fu regolata da un sistema di clearing, mentre ciascun
Paese versava ai propri esportatori il corrispettivo dei crediti aperti a
proprio favore. In sostanza, in tutti i territori occupati la Germania godette di un potere d’acquisto illimitato, tanto più che non ci fu alcun
sistema per costringerla a porre un freno al proprio indebitamento.
Alan S. Milward “Guerra, economia e società 1939-1945” trad. di Guido Abbattista, Etas Libri,
Milano 1983
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COMMENTI
Solo una rapida vittoria tedesca sul Fronte orientale apertosi nel giugno
1941 avrebbe forse potuto imprimere un diverso andamento al conflitto,
poiché i tempi lunghi resero invece possibile alla coalizione antifascista
mettere in campo la propria superiorità in risorse e capacità produttive.
Come ha scritto Adam Tooze, ne Il prezzo dello sterminio. Ascesa e caduta dell’economia nazista, in riferimento al triennio 1942-1944 – un
periodo cioè in cui gli schieramenti erano già stati definiti e il conflitto
aveva assunto, dopo la Battaglia di Mosca e l’attacco a Pearl Harbor,
quelle dimensioni di guerra d’usura, totale e geograficamente mondiale
richiamate da Overy – il rapporto tra produzione di fucili da parte degli
Alleati e dell’Asse era di 2,7 a favore dei primi; saliva a ben 15,6 per
quanto riguardava le pistole automatiche; era a 3,2 per le mitragliatrici,
a 3,1 sui cannoni, a 5,3 circa i mortai, a 4,7 sui carri armati, a 2,6 a
proposito degli aerei militari, a 5,5 in riferimento alle navi da guerra.
Più in generale, il Pil complessivo degli Alleati era nel 1941 2,4 volte
maggiore di quello dell’Asse, e sarebbe salito a 3,1 volte nel 1944. La
produzione d’acciaio, che già nel 1939 era per i componenti futuri della
coalizione antifascista 2,9 volte quella dei membri dell’Asse belligeranti
o meno, nel 1944 aveva raggiunto 3,5 volte. Ancora più impressionante
il confronto tra la produzione di armamenti della sola Unione Sovietica
e della Germania nel periodo: oltre il 50% in più di fucili, quasi 8 volte
superiore il numero di pistole automatiche, quasi una volta e mezza quello di mitragliatrici e cannoni, più del quadruplo i mortai, più del doppio
i carri armati, il 30 per cento in più di aerei. Solo nella cantieristica la
Germania predominò con 703 navi a fronte di appena 5, ma, date le
caratteristiche del Fronte orientale, ciò fu irrilevante.
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PERCHÉ GLI ALLEATI VINSERO LA GUERRA
Poiché risorse colossali furono mobilitate su distanze enormi, al punto
che il campo di battaglia fu mondiale in un senso veramente letterale,
per gli alleati non si trattava di vincere la guerra in qualche area delimitata: essa doveva essere vinta in ogni teatro e in ogni dimensione, in
terra come in mare e nei cieli. Ciò fece del raggiungimento della vittoria un’impresa assai costosa, imponente e, soprattutto, lenta. La guerra impose un prezzo esorbitante agli stati belligeranti delle due parti,
ciascuna delle quali impiegò in battaglia un terzo (o più) delle proprie
forze umane e convertì i due terzi dell’economia in modo da rifornire
una prima linea insaziabile di risorse. Si trattava di un modo di fare
la guerra su una scala che l’Ottocento non avrebbe potuto nemmeno
immaginare, […] che trasse la propria giustificazione dalla disperata
visione darwiniana del mondo propagandata dai profeti di sventura
degli anni Trenta. Tutti gli stati, fascisti, comunisti o democratici,
condividevano l’assunto comune ma spaventoso che la guerra dovesse
essere «totale», […] che aveva per posta la sopravvivenza. L’esito della guerra dipese dall’efficace mobilitazione delle risorse economiche,
scientifiche e morali della nazione almeno tanto quanto dai combattimenti stessi: questa spiegazione può non essere altrettanto affascinante
di quella che si basa sulla pura e semplice efficacia dei combattimenti,
ma rende giustizia al fatto che fu una guerra combattuta anche dai
civili oltre che dai soldati. Il successo alleato nelle lunghe campagne di
logoramento può essere spiegato in maniera convincente solo tenendo
conto del ruolo della produzione e delle innovazioni tecnologiche.
Richard Overy “La strada della vittoria. Perché gli alleati hanno vinto la seconda guerra mondiale”
trad. di N. Rainò, il Mulino, Bologna 2002
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COMMENTI
Il 23 luglio 1941 l’articolo di fondo della Pravda, dell’intellettuale e
giornalista Emel’jan Michajlovič Jaroslavskij, portava come titolo: La
grande guerra patriottica del popolo sovietico, che richiamava esplicitamente la “Guerra patriottica”, definizione con cui era nota la campagna di Russia del 1812, conclusasi con la ritirata della Grande Armée,
che avrebbe innescato il crollo del sistema imperiale napoleonico; il termine sarebbe stato ripreso dallo stesso Stalin nel suo primo discorso radiofonico ai popoli dell’Urss il 3 luglio successivo. Nel testo non compare
mai il termine “socialismo”, mentre la parola “patria” ricorre ben dodici
volte. Analogamente, nell’orazione che egli avrebbe tenuto il 6 novembre
successivo la “patria” viene nominata nove volte, ed il socialismo solo
tre, due delle quali però in riferimento al nazionalsocialismo di cui viene contestato il carattere “socialista”. Il giorno successivo, 7 novembre,
nell’usuale discorso di saluto alla rivista militare sulla Piazza Rossa,
Stalin non fa alcun cenno al “socialismo” e, oltre ad evocare per tre volte la “patria”, cita quali ispiratori della resistenza antitedesca “le figure
ardimentose dei nostri grandi antenati”, nell’ordine Aleksandr Jaroslavič
Něvský, signore di Novgorod, santo per la Chiesa ortodossa russa; Dmitrij
Ivanovič Donský, principe di Mosca, anch’egli sugli altari; Kuzma Minin
e Dmitrij Michajlovič Požarskij mercante il primo, principe il secondo,
che combatterono nella guerra tra Polonia e Moscovia all’inizio del XVII
secolo; Aleksandr Vasiljevič Suvorov e Michail Illarionovič Kutuzov, entrambi generali zaristi. Palese la scelta da parte di Stalin e dell’intero
gruppo dirigente sovietico di appellarsi prima di tutto al patriottismo, in
particolare russo. Una scommessa che si rivelò vincente.
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L’«ECCEZIONALE IMPRESA» DELL’URSS
Forse non sarà vero che l’«eccezionale impresa non svanirà mai dalla
memoria di una umanità riconoscente», come era stato insegnato a
generazioni di cittadini sovietici, ma lo sforzo bellico sovietico resta
ancora un’impresa ineguagliata, storica e mondiale nel vero senso della parola. Stalin aveva ragione quando diceva che la guerra era «un
esame per l’intero sistema sovietico» e sapeva, forse meglio di chiunque altro, che lo Stato era arrivato ad un passo dal fallire la prova. Le
probabilità che l’Urss battesse la Germania hitleriana erano molto
scarse ancor prima che il conflitto scoppiasse, e dopo i primi mesi si
ridussero ulteriormente. All’estero l’immagine tradizionale dell’Urss
era quella di un sistema reso inerte da una burocrazia soffocante e da
una feroce repressione. Contro questo Paese si erano schierate le forze
armate più pericolose del mondo, che avevano già conquistato gran
parte dell’Europa in soli diciotto mesi. L’Urss ottenne la vittoria nonostante le quasi unanimi aspettative contrarie. Questo fatto impone
agli storici una difficile quadratura del cerchio: l’Unione Sovietica
aveva mille ragioni per essere sconfitta, ma vinse in modo trionfante
e completo. Naturalmente l’Urss non era sola: senza la suddivisione
delle energie tedesche imposta dalla campagna di bombardamenti
aerei o dalle operazioni nel teatro mediterraneo, il risultato avrebbe
potuto essere meno sicuro, forse molto diverso. Tuttavia, fu sul fronte
orientale che le forze tedesche subirono il grosso dei danni (l’80% dei
caduti in battaglia) e fu sempre sul fronte orientale che si concentrò
il peso schiacciante della Wehrmacht fino al 1944.
Richard Overy “Russia in guerra 1941-1945” trad. di P. Modola, Il Saggiatore, Milano 2000
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COMMENTI
È diffusa la lettura della Seconda guerra mondiale come termine di una
“guerra civile europea”, o “seconda Guerra dei Trent’anni”, iniziata nella
Grande Guerra. Secondo alcuni, tra cui Eric John Hobsbawm, il punto
di partenza andrebbe collocato nell’agosto 1914, quando cioè l’Europa
precipitò nel baratro, secondo altri, tra cui Ernst Nolte, la data corretta
è invece il 1917, anno della rivoluzione bolscevica, che avrebbe provocato il costituirsi di uno Stato il cui fine esplicito era la rivoluzione
comunista mondiale. Diverse, se non divergenti, nell’impostazione, queste ottiche concordano nel ritenere il ventennio interbellico 1919-1939
una fase intermedia e di conseguenza nel sottovalutare il peso della crisi
del Ventinove, ancorché senza i suoi catastrofici effetti ben difficilmente
la NSDAP sarebbe riuscita a sfondare elettoralmente in Germania ed
Hitler a diventare cancelliere. Diner richiama invece una prospettiva
differente, dove sarebbe stata semmai l’opzione dell’ “unconditional surrender” cara a F.D. Roosevelt a trasformare la Seconda guerra mondiale
in una “guerra civile”, cioè in un conflitto in cui una delle due parti deve
scomparire. L’opzione rooseveltiana dovette scontrarsi, nel momento in
cui fu enunciata, con i generali statunitensi Marshall ed Eisenhower, con
Winston Churchill, e con Josif Stalin, i quali ritenevano che la formula
avrebbe rischiato di prolungare la guerra indebolendo le forze interne
alla Germania che stavano prendendo posizione contro la politica di
Hitler. Essa tuttavia prevalse; la sua genesi ed il suo successo sono da
ricondurre all’autorappresentazione dominante negli Usa, come ricorda
lo stesso Diner: «nella Prima guerra mondiale gli americani intervennero
per rendere il mondo “safe for democracy”. La Seconda guerra mondiale
fu per loro una “crusade for freedom”».
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LA NECESSARIA «RESA INCONDIZIONATA»
Nel gennaio del 1943 Roosevelt e Churchill annunciarono alla conferenza di Casablanca lo unconditional surrender, la «resa incondizionata». Si escludeva la possibilità di trattare con il nemico, pretendendo che le potenze dell’Asse si arrendessero senza condizioni. Durante
una conferenza stampa i signori della guerra fornirono la spiegazione
dell’espressione «resa incondizionata». Il presidente americano illustrò
la tradizione che stava alla base dello unconditional surrender. Parlò di
Ulysses S. (U.S.) Grant – “unconditional surrender Grant” – il capo supremo delle armate del Nord durante la guerra civile americana, eletto
in seguito presidente degli Stati Uniti, l’uomo che aveva imposto al Sud
la resa incondizionata. La resa incondizionata è una forma di sottomissione a cui si assiste generalmente alla fine delle guerre civili. Queste
guerre escludono un compromesso che permetta ad entrambe le parti
in causa di continuare ad esistere, e ciò con la stessa logica che vieta la
presenza contemporanea di due governi in un unico stato. Un’unica
comunità sociale non può avere più di una fazione che eserciti i poteri
dello stato e del governo. Il partito sconfitto deve abbandonare le sue
rivendicazioni oppure soccombere. In una guerra civile le rivalità si
acuiscono sino alla sconfitta totale, anzi fino all’annientamento di uno
degli avversari. Generalmente le guerre civili sono caratterizzate da un
antagonismo tra contenuti di fede, valori, e diverse forme ideologiche,
e tale antagonismo può contribuire ad accendere e a legittimare la violenza; l’intensità di tale violenza è dovuta però esclusivamente a quella
costellazione che esclude a priori qualsiasi compromesso.
Dan Diner “Raccontare il Novecento. Una storia politica” trad. di F. Reinders, Garzanti, Milano 2001
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COMMENTI
Sebbene l’orientamento originale di F.D. Roosevelt fosse ritenere che gli
Stati Uniti avessero un ruolo da giocare su scala mondiale, sulla falsariga
di quanto avevano sostenuto Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson, da
un lato le condizioni di dura crisi economica in cui gli Usa versavano
allorché nel 1932 egli fu eletto per la prima volta presidente, dall’altro la
presenza, sia nell’opinione pubblica, sia all’interno del Congresso e senza
distinzione tra i due partiti che vi erano rappresentati, di un forte orientamento isolazionista lo costrinsero per anni a concentrarsi sulla politica
interna e procedere con i piedi di piombo nello scacchiere internazionale. Significativo tuttavia il ristabilimento, nel 1933, delle relazioni
diplomatiche con l’Urss, interrotte dal dicembre 1917 in seguito alla
rivoluzione bolscevica. Frutto di colloqui tra Roosevelt e il commissario
del popolo agli Affari esteri sovietico Maxim Maximovič Litvinov, agli
occhi del presidente statunitense l’intesa aveva un duplice valore: porre
un ulteriore limite all’espansione imperiale del Giappone in Asia Orientale, preoccupante per gli Stati Uniti il cui baricentro strategico iniziava
a spostarsi dall’Atlantico al Pacifico, ed aprire il grande mercato sovietico
al commercio statunitense. Anche nessuno di questi scopi fu allora raggiunto, l’idea rooseveltiana di trovare nell’Unione Sovietica un partner
importante aveva preso forma. Essa avrebbe fatto decisivi passi in avanti
nel giugno 1941, quando, lo stesso giorno in cui fu lanciata dai tedeschi
l’Operazione Barbarossa, gli Stati Uniti estesero all’Unione Sovietica i
rifornimenti inizialmente previsti per il Regno Unito, la Francia Libera
degaullista e la Repubblica di Cina dalla legge “Affitti e prestiti”, del
marzo precedente. L’embargo sul Giappone posto nel luglio successivo fu
perciò un rischio calcolato.
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PA G I N E S C E LT E
LA CENTRALITÀ DEL PACIFICO PER F.D. ROOSEVELT
La risposta di Roosevelt all’occupazione dell’Indocina meridionale
da parte del Giappone, i cui vertici ritenevano di avere già allora, a
prescindere dalla Cina, le spalle al sicuro a causa dell’impegno della
Russia nella guerra contro la Germania portava in sé l’imminente
scatenamento di una guerra nel Pacifico. Il 26 luglio 1941 Roosevelt
annunciò il blocco dei beni giapponesi negli Usa e rese nota inoltre
la costituzione di un alto comando in Estremo Oriente. Lo stesso
giorno la Gran Bretagna ed i suoi dominions ruppero i rapporti commerciali col Giappone. Il 28 luglio le Indie olandesi si associarono
alla misura di embargo. Le forniture di stagno, caucciù e petrolio
al Giappone vennero sospese da parte di tutti questi Paesi. L’impero perciò, per la sua totale dipendenza dall’importazione di petrolio,
si trovò di fatto di fronte all’alternativa della capitolazione politica
all’America o di prendere con la forza le materie prime in Asia Sudorientale, scatenando un attacco contro gli Usa e i suoi alleati. A prescindere da tutto il resto, le misure di embargo avevano conseguenze
catastrofiche anche per la guerra contro la Cina. Poiché nel governo
giapponese era convinzione comune che il conflitto con la Cina doveva essere concluso solo con una completa vittoria, questa minaccia
alla conduzione della guerra in Cina rappresentò un fattore essenziale
per la linea di congiunzione del conflitto cino-giapponese in atto dal
1931 e della guerra del Pacifico del 1941. Alla fine del 1941 era stata
per così dire innescata una «spoletta a tempo» che prevedibilmente a
breve tempo avrebbe fatto scattare la decisione di attaccare gli Usa.
Andreas Hillgruber “La distruzione dell’Europa. La Germania e l’epoca delle guerre mondiali
(1914-1945)” trad. di G. Mandarino, il Mulino, Bologna 1991
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LEGGERE, VEDERE, VISITARE
BIBLIOGRAFIA
TESTI PRIMARI
La banalità del male
di H. Arendt, Feltrinelli, Milano 2013
Alle origini del welfare state
Il rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenziali
di W.H. Beveridge, Franco Angeli, Milano 2010
La libertà solidale. Scritti 1942-1945
di W.H. Beveridge, a cura di M. Colucci, Donzelli, Roma 2010
Dialoghi con Albert Speer
di J.C. Fest, Garzanti, Milano 2008
153
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I taccuini di Norimberga
di L. Goldensohn, a cura di R. Gellately, trad. di P. Budinich, Il Saggiatore, Milano 2008
Memorie del Terzo Reich
di A. Speer, trad. di E. e Q. Maffi, Mondadori, Milano 1996
SAGGI
Stalin e la guerra inevitabile 1936-1941
di S. Pons, Einaudi, Torino 1995
Il fascismo giapponese
di F. Gatti, Cafoscarina, Venezia 1997
Stalingrado
di A. Beevor, Bur, Milano 2000
Il prezzo dello sterminio
Ascesa e caduta dell’economia nazista
di A. Tooze, Garzanti, Milano 2008
Il ghetto di Varsavia. Diario (1939-1944)
di M. Berg, Einaudi, Torino 2009
Guerra assoluta
La Russia sovietica nella seconda guerra mondiale
di C. Bellamy, Einaudi, Torino 2010
154
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Russia in guerra 1941-1945
di R.J. Overy, trad. di P. Modola, Il saggiatore, Milano 2011
La strada della vittoria
Perché gli alleati hanno vinto la seconda guerra mondiale
di R.J. Overy, trad. di N. Rainò,il Mulino, Bologna 2011
Il ghetto di Varsavia lotta
di M. Edelman, Giuntina, Firenze 2012
STORIA
Storia militare della seconda guerra mondiale
di B.H. Liddell Hart, Mondadori, Milano 1970
Storia generale della guerra in Asia e nel Pacifico 1937-1945
di A. Santoni, STEM-Mucchi, Modena 1977-1979
Fronte orientale
Le truppe tedesche e l’imbarbarimento della guerra (1941-1945)
di O. Bartov, il Mulino, Bologna 2003
Storia della 2ª guerra mondiale
Obiettivi di guerra e strategia delle grandi potenze
di A. Hillgruber, trad. E. Grillo, Laterza, Roma-Bari 2004
La seconda guerra mondiale
I sei anni che hanno cambiato la storia
di A. Beevor, Rizzoli, Milano 2013
155
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Una guerra al tramonto (1944-1945)
Dallo sbarco in Normandia alla vittoria degli alleati in Europa
di R. Atkinson, Mondadori, Milano 2015
Controstoria della seconda guerra mondiale
di E. Bauer, Edizioni Res Gestae, Milano 2015
GERMANIA
Hitler. Una biografia
di J.C. Fest, Garzanti, Milano 2005
Hitler e l’enigma del consenso
di I. Kershaw, trad. di N. Antonacci, Laterza, Roma-Bari 2007
La disfatta. Gli ultimi giorni di Hitler e la fine del Terzo Reich
di J.C. Fest, Garzanti, Milano 2007
Operazione Valchiria
di I. Kershaw, trad. di A. Catania, A. Silvestri, Bompiani, Milano 2009
Heydrich e la soluzione finale. La decisione del genocidio
di E. Husson, Einaudi, Torino 2010
Il Terzo Reich al potere. 1933-1939
di R.J. Evans, Mondadori, Milano 2011
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Il volto del Terzo Reich
Profilo degli uomini chiave della Germania nazista
di J.C. Fest, Ugo Mursia Editore, Milano 2011
La fine del Terzo Reich. Germania 1944-45
di I. Kershaw, Bompiani, Milano 2013
ITALIA
Il nuovo ordine mediterraneo
Le politiche di occupazione dell’Italia fascista (1940-1943)
di D. Rodogno, Bollati Boringhieri, Torino 2003
La nazione perduta. Ferruccio Parri nel Novecento italiano
di L. Polese Remaggi, il Mulino, Bologna 2004
La Resistenza in Italia. Storia e critica
di S. Peli, Einaudi, Torino 2004
Una nazione allo sbando. 8 settembre 1943
di E. Aga-Rossi, il Mulino, Bologna 2006
Le guerre italiane 1935-1943
Dall’Impero d’Etiopia alla disfatta
di G. Rochat, Einaudi, Torino 2008
La gabbia infranta. Gli Alleati e l’Italia dal 1943 al 1945
di E. Di Nolfo, M. Serra, Laterza, Roma-Bari 2010
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EUROPA
L’Europa ricostruita
Politica ed economia tra Stati Uniti ed Europa occidentale 1945-1955
di D.W. Elwood, trad. di M. Innocenti, il Mulino, Bologna1994
L’Europa nazista
Il progetto di un nuovo ordine europeo 1939-1945
di E. Collotti, Giunti, Firenze 2002
Il sogno del “grande spazio”
Le politiche d’occupazione nell’Europa nazista
di G. Corni, Laterza, Roma-Bari 2005
Dopoguerra
Come è cambiata l’Europa dal 1945 ad oggi
di T. Judt, trad. di A. Piccato, Mondadori, Milano 2007
La guerra dell’ombra. La Resistenza in Europa
di H. Michel, Ugo Mursia Editore, Milano 2010
La seconda guerra mondiale in Europa
di S.P. MacKenzie, il Mulino, Bologna 2011
Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin
di T. Snyder, trad. di L. Lanza, S. Mancini, P. Vicentini, Rizzoli, Milano 2011
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BIOGRAFIE
Speer. Una biografia
di J.C. Fest, Garzanti, Milano 2004
In lotta con la verità. La vita e i segreti di Albert Speer
di G. Sereny, Bur, Milano 2009
Un segreto ricomporsi
Albert Speer, dalla memoria individuale alla storia
di P. Lombardi, Le Lettere, Firenze 2013
Albert Speer e Marcello Piacentini
L’architettura del totalitarismo negli anni Trenta
di S. Scarrocchia, Skira, Milano 2013
FILM
Roma città aperta, di Roberto Rossellini, Italia 1945
I dannati di Varsavia, di Andrzej Wajda, Polonia 1957
Il ponte sul fiume Kwai, di David Lean, Usa 1957
La ciociara, di Vittorio De Sica, Italia 1960
Il giorno più lungo, di Ken Annakin, Usa 1962
La grande fuga, di John Sturges, Usa 1963
Quella sporca dozzina, di Robert Aldrich, Usa 1967
Patton, generale d’acciaio, Usa 1970
Tora! Tora! Tora!, di Richard Fleischer, Usa 1970
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La croce di ferro, di Sam Peckinpah, Uk, Germania 1977
Schindler’s List, di Steven Spielberg, Usa 1993
La sottile linea rossa, di Terrence Malick, Usa 1998
Salvate il soldato Ryan, di Steven Spielberg, Usa 1998
Il nemico alle porte, di Jean-Jacques Annaud, Germania, Uk, Irlanda 2000
U-571, di Jonathan Mostow, Usa 2000
El Alamein – La linea del fuoco, di Enzo Monteleone, Italia 2002
Flags of Our Fathers, di Clint Eastwood, Usa 2006
Lettere da Iwo Jima, di Clint Eastwood, Usa 2006
Operazione Valchiria, di Bryan Singer, Usa, Germania 2008
Bastardi senza gloria, di Quentin Tarantino, Usa, Germania 2009
Fury, di David Ayer, Usa 2014
WEB
www.anpi.it
http://avalon.law.yale.edu/subject_menus/wwii.asp
www.bbc.co.uk/history/worldwars/wwtwo
www.ildday.it
www.instoria.it/home/politica_alleata_italia_seconda_guerra_
mondiale_I.htm
www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntate/albert-speer/1194/default.aspx
www.ushmm.org/it
www.kingsacademy.com/mhodges/03_The-World-since-1900/07_
World-War-Two/07_World-War-Two.htm
http://digilander.libero.it/secondaguerra
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LUOGHI DI INTERESSE
LA LINEA MAGINOT E LE SPIAGGE DEL D-DAY
In Francia sono oggi visitabili alcuni tratti della Linea Maginot,
l’imponente sistema di fortificazioni costruito negli anni Trenta
lungo il confine franco-tedesco e considerato inespugnabile, ma rivelatosi vano poiché le truppe d’invasione tedesche si limitarono
ad aggirarlo (1940), passando attraverso il Belgio. In Lorena vi è
una dozzina di siti aperti al pubblico, tra cui il più imponente baluardo della linea difensiva, il Fort du Hackenberg, posto 30 km a
nordest di Metz e capace di accogliere fino a mille soldati. Al forte
erano connessi ben 10 km di tunnel sotterranei, destinati a garantirgli l’autosufficienza per un periodo di tre mesi; la visita guidata,
della durata di due ore, si svolge a bordo di un trenino elettrico
che conduce i turisti lungo una galleria sotterranea di 4 km. Si ricordano inoltre il Fort de Guertrange, vicino Thionville, e il Fort
du Simserhof, nel comune di Siersthal, una delle più importanti
postazioni di artiglieria della Linea Maginot. Nella parte alsaziana si
consiglia invece una visita al Musée de la ligne Maginot di Schoenenbourg, circa 45 km a nord di Strasburgo, una fortezza ritenuta
indistruttibile, servita da 3 km di gallerie a 30 m sotto terra. Al suo
interno si possono osservare gli equipaggiamenti caratteristici della
Linea Maginot con le cucine, una centrale elettrica, un’infermeria
e le caserme, dove potevano soggiornare fino a 650 uomini. Degni
di nota anche il Forte del forno di calce (Fort du Four à Chaux) di
Lembach e il Museo del rifugio (Musée de l’Abri) di Hatten, poco
più a sud, che offre un’interessante ricostruzione della vita quotidia-
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na nei bunker e ricrea lo scenario di una delle più violente battaglie
fra mezzi corazzati della Seconda guerra mondiale, avvenuta proprio
qui. L’esposizione comprende inoltre una serie di veicoli militari e
armamenti.
Da non perdere infine il Mémoriale de l’Alsace-Moselle, situato a Schirmeck, a poca distanza dal campo di concentramento di
Natzweiler-Struthof, l’unico creato sul suolo francese. Un coinvolgente allestimento scenografico interattivo ripercorre la drammatica
storia dell’Alsazia e della Mosella – i cui abitanti hanno cambiato
nazionalità per ben quattro volte in 75 anni – dal 1870 fino alla
riconciliazione franco-tedesca, soffermandosi in particolare sul periodo della Seconda guerra mondiale e dell’annessione. In luogo del
campo di concentramento di Struthof, risalente al 1941, sorge oggi
il Museo del Memoriale Nazionale della Deportazione di Struthof, a ricordo dei 52.000 prigionieri che qui furono costretti al lavoro forzato, molti dei quali vi morirono di fame e di stenti. La visita
inizia negli spazi espositivi del Centro Europeo del Resistente Deportato, dove si conserva ancora la Kartoffelkeller, la “cantina delle
patate”, un deposito seminterrato costruito dai deportati del campo.
Sono molti i turisti che ogni anno si recano sul litorale a nord della
Normandia per scoprire i luoghi che fecero da sfondo alla più imponente offensiva militare della storia, in codice Operation Overlord, il
grande sbarco in Normandia (6 giugno 1944), che segnò il principio
della liberazione dell’Europa e, nelle parole di W. Churchill, «l’inizio
della fine della guerra». La sanguinosa battaglia durò 76 giorni e si
risolse in un vero e proprio massacro: gli Alleati persero 210.000
uomini, mentre i tedeschi registrarono 200.000 morti e altrettanti prigionieri; morirono inoltre 14.000 civili francesi. Il magnifico
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tratto di costa detto Côte de Nacre, ossia “di madreperla”, è letteralmente disseminato di campi di battaglia, buche lasciate dai bombardamenti, musei e cimiteri di guerra, a testimonianza del duro prezzo
pagato per la liberazione dell’Europa dal giogo nazista. Il più grande
è il Normandy American Cemetery and Memorial, sopra Omaha
Beach, fondato sul finire degli anni Quaranta per i caduti americani,
mentre 18 cimiteri militari del Commonwealth sorgono lungo la
linea di avanzata delle forze britanniche e canadesi, il più importante
dei quali è situato a Bayeux.
La gran parte dei soldati alleati approdò sugli 80 km di spiagge a
nord di Bayeux, i cui nomi in codice – da ovest a est – erano Utah,
Omaha, Gold, Juno e Sword Beach. Tappe obbligate per una ricostruzione dettagliata degli eventi del D-Day sono il Mémorial de
Caen, uno dei principali centri europei della memoria, sorto in una
città che fu quasi completamente rasa al suolo dai bombardamenti dell’estate 1944, e il Musée Mémorial Bataille de Normandie
di Bayeaux, che con i suoi 2300 mq di superficie illustra con cura
lo svolgimento delle operazioni dal momento dello sbarco fino alla
loro conclusione, il 29 agosto 1944. Altri luoghi memorabili sono
Quinéville con il suo Mémorial de la Liberté retrouvée, proprio di
fronte alla cosiddetta Utah Beach, e Pointe du Hoc (Cricqueville–
en–Bessin), piccolo promontorio sede di una roccaforte tedesca che
fu conquistata a caro prezzo dai Rangers del colonnello J. E. Rudder,
decimati durante l’assalto.
Le battaglie più cruente avvennero lungo i 7 km della costa nei pressi di Vierville-sur-Mer, Saint-Laurent-sur-Mer e Colleville-sur-Mer,
nota ai veterani americani con il nome di Bloody Omaha; da vedere il
Musée D-Day Omaha (Vierville-sur-Mer) con reperti originali e ri-
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costruzioni di situazioni reali in tempo di guerra e il Musée Mémorial Omaha Beach (Saint-Laurent-sur-Mer), che espone una ricca
collezione di uniformi, armi, oggetti personali, veicoli e fotografie.
A Longues-sur-Mer si conservano invece le uniche armi di grosso calibro rimaste in Normandia, un’imponente batteria tedesca di
cannoni che costituiva parte integrante del Vallo atlantico nazista. Si
ricorda poi Arromanches, uno dei luoghi simbolo dello sbarco, dove
si trovano ancora i resti di uno dei due porti prefabbricati utilizzati
dagli Alleati e l’interessante Musée du Débarquement. A Ver-surMer, infine, il Musée America Gold Beach illustra la minuziosa preparazione dello sbarco da parte dell’Intelligence britannica mentre il
Centre Juno Beach (Courseulles-sur-Mer), unico museo canadese
della zona, accoglie una notevole mostra multimediale imperniata
sul ruolo rivestito dal Canada nel D-Day.
NORIMBERGA
Seconda città della Baviera per dimensioni, già fiorente in epoca
medievale, Norimberga fu prescelta da A. Hitler quale città dei
congressi del Terzo Reich e il suo nome rievoca tuttora nella memoria collettiva l’immagine inquietante delle parate militari naziste.
Le colossali adunate presso il Reichsparteitagsgelände (Complesso per i Raduni del Partito nazista) facevano parte di una strategia di propaganda delineata fin dal 1927 per accrescere i consensi
intorno al nazismo, che aveva un forte seguito a Norimberga, ma
fu nel 1933 che Hitler decise di allestire uno spazio apposito per
le manifestazioni del Partito a Luitpoldhain, una zona periferica a
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sudest della città. Qui, a circa 4 km dal centro, sorgono ancora alcune delle imponenti strutture architettoniche – in parte incompiute –
realizzate da A. Speer e sfuggite ai bombardamenti degli Alleati, che
nel 1945 distrussero buona parte del complesso. Tra questi vi è la
vasta spianata dello Zeppelinfeld, dove, di fronte a una tribuna di
350 m, la Zeppelintribüne, aveva luogo la gran parte dei raduni
e delle sfilate nazionalsocialiste; oggi accoglie invece manifestazioni
sportive e concerti rock. Seguendo poi la Große Straße, che con i
suoi 60 m di larghezza taglia in due l’area, si giunge al Märzfeld
(Campo di Marte), posto 2 km più a sud, allora adibito alle esercitazioni militari. L’odierno lago artificiale Silbersee, a ovest della
Große Straße, si trova invece proprio dove avrebbe dovuto innalzarsi
il Deutsches Stadion, che secondo il progetto era destinato a ospitare oltre 400.000 spettatori; tuttavia i lavori di costruzione si arrestarono allo scavo iniziale e la buca fu colmata in seguito dalle
acque della falda. Si ricorda poi la Luitpoldarena, posta al margine
nordoccidentale del complesso, un tempo impiegata per le parate
delle SS e oggi trasformata in un parco pubblico. Poco distante si
trova infine la Kongresshalle (Sala dei Congressi), costruita solo in
parte, che nelle ambizioni di A. Speer avrebbe dovuto raggiungere
proporzioni superiori al Colosseo. L’ala nord dell’edificio è ora sede
del Dokumentationszentrum, un centro di documentazione sul
nazismo che ripercorre attraverso fotografie, documenti e filmati l’ascesa al potere di Hitler, gli anni del regime e il crollo della Germania
nazionalsocialista. In particolare, la sala 6 è dedicata a Norimberga e
al suo ruolo quale sede del quartier generale del Partito, mentre nella
sala 7 un film illustra i monumentali progetti architettonici ideati da
A. Speer per il Reichsparteitagsgelände; nella sala 8 si scopre infine
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come buona parte dei materiali edili venisse realizzata dai prigionieri
dei campi di concentramento, costretti a lavorare in disumane condizioni di schiavitù.
Dalla parte opposta della città, a circa 2 km dall’Altstadt, sorge il
Palazzo di Giustizia, l’attuale Landgericht Nürnberg-Fürth (Bärenschanzstraße 72), dove nel 1945-46 si tennero i processi di 24 gerarchi nazisti, ritenuti i principali responsabili degli orrori del regime,
19 dei quali furono condannati a morte per crimini contro la pace
e l’umanità. Oltre alla Schwurgerichtssaal 600, la Sala 600 della
Corte d’Assise dove operò il Tribunale Militare Internazionale, dal
2010 è aperta al pubblico una mostra permanente chiamata Memorium Nürnberger Prozesse, che con l’ausilio di filmati storici
e registrazioni audio offre una vivida rievocazione del Processo di
Norimberga, rimarcandone il grande valore esemplare nell’ambito
della giustizia internazionale.
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Finito di stampare nel mese di aprile 2016
a cura di RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Media
presso Grafica Veneta, Trebaseleghe (PD)
Printed in Italy
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