Sussidio della Lectio - Centro Giovanile Antonianum

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Lectio divina mensile al Centro Antonianum 2009 – 2010
4° incontro (17.01.2010)
Andare incontro agli altri: gioie e dolori.
Mission possible & impossible (Atti 15,40 – 18,22).
Introduzione
Nel 3° incontro abbiamo dato un’occhiata a ciò che succede dentro la comunità cristiana: divisioni e dispute
durissime non vengono risparmiate ai discepoli di Gesù, per quanto imbevuti di Spirito Santo! Tuttavia il
“concilio” di Gerusalemme rimane un modo davvero bello, istruttivo e canonico di affrontare le divergenze
nella Chiesa. I cristiani sono come tutti gli altri uomini, ma hanno a disposizione una marcia in più nel gestire
le difficoltà e le miserie umane: alla luce delle Scritture, incentrati sul mistero pasquale, con la mediazione
dell’autorità – che deve porsi al servizio dell’unità – … è sempre possibile trovare una strada per vivere
insieme, pur nella diversità. Almeno quando ci sono in ballo cose grosse, perché nei rapporti interpersonali, a
volte, i limiti sono tali da essere al momento insuperabili. La vicenda di Paolo e Barnaba, due campioni della
fede, ce l’ha mostrato.
Splendori e fragilità dunque di una comunità che rimane essa stessa in attesa della piena fraternità del Regno.
Ancora una volta emerge che Uno solo è stato capace di mantenere la comunione con chiunque, a prezzo del
Suo Sangue: il Messia di Dio, capace di amare fino a perdersi. Gli altri, anche i migliori, hanno precisi limiti
nell’amare. Consolante e illuminante, per noi che oscilliamo tra il disperarci per le divisioni o il crederci giusti,
aspettando che gli altri si convertano.
La rottura tra la sinagoga e la ecclesìa di Gesù è stato il primo scisma terribile. Credendosi migliori dei fratelli
maggiori – gli ebrei – i cristiani venuti dalle genti faranno di peggio: le guerre di religione porteranno le chiese
bizantine a dividersi da quelle di cultura semitica, poi si dividerà il cristianesimo orientale bizantino da quello
latino occidentale, infine si dividerà il cristianesimo occidentale al tempo della Riforma. La chiesa della riforma
si sbriciolerà poi in mille aggregazioni. E non è finita. Se si va a vedere da vicino, nessuna delle due parti in
causa, ogni volta, aveva la totalità della ragione e a distanza di secoli si è vista l’inconsistenza teologica di
certe contrapposizione. Dopo 17 secoli papa Giovanni Paolo II e papa Shenuda III, copto, hanno firmato un
accordo in cui si riconosceva che la fede delle rispettive comunità è la stessa! Inutilmente ci si era scannati a
vicenda. Perciò prima di pontificare sull’incapacità altrui di vivere insieme, divorzi inclusi, bisognerebbe essere
molto umili e consapevoli della propria storia di famiglia.
Del resto basta leggere il Vangelo per rendersi conto che Gesù non si era fatto nessuna illusione sui suoi: non
per caso la Sua preghiera al Padre, al termine della vita, è stata la richiesta del dono dell’unità per i suoi. La
piena comunione arriverà come dono finale della storia della salvezza e viene anticipata a livello di segno
profetico là dove cristiani di diverse confessioni imparano a pregare, vivere, lottare insieme … puntando più su
ciò che unisce che su ciò che divide, facendo credito alla speranza che è possibile un concerto e non solo le
esecuzioni di splendidi solisti.
Certo, ogni chiesa tende a dire di essere la vera e che sono gli altri ad essere i fratelli separati: lo dicono per
esempio gli ortodossi e lo dicono i cattolici romani. Ma già il fatto di essere speculari nelle affermazioni
dovrebbe far nascere dei sospetti su questa che è solo una ingenuità presuntuosa. Nessuno chiamerà una
torta vera quella a cui mancano degli spicchi. Non è importante infine chi ha la colpa della perduta integrità:
decisivo è il fatto che l’integrità è perduta!
Smisuratamente preoccupati di essere assolti, molto spesso ci si concentra su chi ha le responsabilità della
separazione invece di capire come il Divisore ci ha giocati, in nome di un qualche parziale bene.
Queste divisioni non di rado, sia nell’antichità che oggi, indeboliscono il cristianesimo molto più che presunti o
reali nemici esterni. Una comunità unita nella carità è invincibile!
In questo 4° incontro mediteremo sullo sbarco del cristianesimo in Europa: attraverso strade chiuse Paolo e
company arrivano a Filippi, Atene, Corinto ed Efeso e se ne vede ovunque delle belle! Il 2° viaggio missionario
è un incredibile tour di alcune migliaia di km, lungo 3–4 anni.
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4° incontro (17.01.2010)
Testo biblico
At 15,36 – 18,22.
Testo di riferimento
BIZZETI P., Fino ai confini estremi. Meditazioni sugli Atti degli Apostoli, Bologna 2007, 276 – 303.
Sussidio n° 1 per At 16,16–24.
(BOSSUYT P. – RADERMAKERS J., Lettura Pastorale degli Atti degli Apostoli, Bologna (EDB) 1996, 510)
La ragazza non si sente chiamata in causa da ciò che dice; il suo avvertimento è rivolto agli altri: «essi vi
annunciano». E le sue parole, per di più, hanno il carattere ripetitivo e disumanizzante degli slogan
pubblicitari. È evidente che si tratta di un’alienata. […] La Buona Notizia è portata da testimoni che impegnano
la propria vita, non da uomini ridotti ad altoparlanti.
… Paolo non riesce più a trattenersi. Quella giovane schiava è sfruttata, ne hanno fatto un automa che procura
delle buone entrate. Quello che all’inizio era un dono naturale è diventato fonte di alienazione; si tratta di una
sorta di prostituzione da cui i padroni ricavano doppio guadagno. Non potendo sopportare lo spettacolo di
una simile degradazione, Paolo pronuncia l’esorcismo liberatore. Dice allo spirito: Ti ingiungo, nel Nome di
Gesù Cristo, di uscire da lei. Lo spirito esce (exēlthen) immediatamente, e con esso esce (exēlthen) anche la
speranza del guadagno su cui contavano i padroni. La loro reazione è estremamente violenta: furibondi, li
vediamo insorgere contro Paolo.
Sussidio n° 2 per At 16–17.
(FRANCESCO BIANCHI, Atti degli Apostoli, Roma Città Nuova) 2003, 190)
La venditrice di porpora e il carceriere pauroso e ignorante offrono un esempio che risulta più affascinante e
trascinante di quello dei proconsoli o dei filosofi; queste persone credono senza chiedersi nulla sul futuro stile
di vita, sul disprezzo delle ricchezze, sulla necessità di perdonare. Essi credono non per capacità intellettuale,
ma grazie alla forza della propria anima e alla preghiera di Paolo e dei suoi compagni. Il Dio del cristianesimo
non è dunque, come già scriveva Pascal, il Dio dei filosofi. E come la storia del cristianesimo insegna, i primi a
credere nel messaggio cristiano sono state proprio le persone semplici, che non aderirono a una filosofia, ma
alla parola di Gesù e al Vangelo. […] Talvolta disprezzati per la propria “impreparazione” teologica, per la loro
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4° incontro (17.01.2010)
semplicità di cuore, questi semplici sono stati le “gambe” sulle quali il messaggio cristiano ha camminato nel
corso dei secoli, allevando famiglie cristiane …
Sussidio n° 3 per At 17,22–28
SENECA, Lettera 41,1: «Dio è vicino a te, è con te, è dentro di te»
ARATO DI SOLI, Fenomeni,5 (vedi anche CLEANTE DI ASSO, Inno a Zeus):
«Incominciamo da Dio, che mai noi uomini dobbiamo trascurare di nominare. Di Dio sono piene tutte le
strade, tutte le piazze degli uomini, pieno ne è il mare e i porti. In ogni cosa abbiamo bisogno di Dio, perché di
lui siamo stirpe».
Ἐκ Διὸς ἀρχώμεσθα, τὸν οὐδέποτ' ἄνδρες ἐῶμεν
ἄρρητον. Μεσταὶ δὲ Διὸς πᾶσαι μὲν ἀγυιαί,
πᾶσαι δ' ἀνθρώπων ἀγοραί, μεστὴ δὲ θάλασσα
καὶ λιμένες· πάντη δὲ Διὸς κεχρήμεθα πάντες.
Τοῦ γὰρ καὶ γένος εἰμέν.
I Paenomena è un poemetto didascalico del poeta Arato (315–245 aC) che traspone in versi le teorie
dell’astronomo Eudosso di Cnido. Formatosi alla scuola del filosofo stoico Zenone, la sua opera ebbe larga
diffusione come testo scolastico di astronomia.
Sussidio n° 4 per At 17,22–28
(ENRICO BERTI, L’universalità di Dio, http://www.sussidiarieta.net/files/Pdf/012009/Berti.pdf)
Una critica che spesso si sente, o si legge, al Cristianesimo, in particolare alla Chiesa cattolica, è la seguente: i cristiani
non si accontentano di professare la propria religione come una religione fra le altre, espressione di una cultura fra le
altre, come si dovrebbe fare in una società pluralistica e democratica, dove ciascuno è libero di credere quello che vuole.
Essi invece – secondo questa critica – pretendono che la loro fede possieda una verità valida per tutti, cioè una verità
universale, violando in tal modo il principio del pluralismo e della tolleranza reciproca. In questa pretesa la mentalità
cosiddetta “laica” vede l’espressione di una prepotenza, di un’arroganza, di una presunzione intollerabile. A questo
proposito il Papa, nella parte finale del discorso al mondo della cultura a Parigi, afferma che per «i cristiani della Chiesa
nascente» il Dio nel quale credevano «era il Dio di tutti», cioè costituiva una «risposta che riguardava tutti», e che
«l’universalità di Dio e l’universalità della ragione aperta verso di Lui costituivano per loro la motivazione e insieme il
dovere dell’annuncio. Per loro la fede non apparteneva alla consuetudine culturale, che a seconda dei popoli è diversa,
ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti». A giustificazione di questo atteggiamento il Papa cita il
discorso di san Paolo all’Areopago, definendolo «lo schema fondamentale dell’annuncio cristiano verso l’esterno». Paolo
infatti “non annuncia dèi ignoti”, cioè dèi nuovi, appartenenti ad altre religioni, ma dichiara agli Ateniesi «quel Dio che
voi adorate senza conoscerlo, quello io vi annuncio», cioè quel Dio «del quale noi siamo progenie, come anche alcuni dei
vostri poeti hanno detto»1. Di solito i commentatori individuano in queste ultime parole una citazione dei Fenomeni di
Arato di Soli, poeta stoico del III secolo a.C., e concludono che san Paolo si richiamava allo stoicismo per ingraziarsi i suoi
ascoltatori, tra i quali vi erano dei filosofi stoici. Ma il riferimento di questa citazione e l’impostazione generale del
discorso hanno un ben altro significato. Quello che Paolo annuncia agli Ateniesi è il cosiddetto “Dio dei filosofi” /…/.
L’espressione “Dio dei filosofi”, come è noto, è stata coniata da Pascal per contrapporre il Dio di Cartesio, cioè il Dio
orologiaio, che fabbrica un mondo capace poi di funzionare da sé, al “Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe” e di “Gesù
Cristo”, dunque è stata usata per lo più dai cristiani con significato spregiativo. Il Papa invece l’ha riabilitata, vedendo in
essa l’indicazione di quel Dio universale, al quale è aperta la ragione umana, e che non si contrappone al Dio di Gesù
Cristo, bensì ne costituisce il primo annuncio. L’interpretazione che il Papa dà del discorso agli Ateniesi è la stessa che è
stata enunciata nell’enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II, secondo la quale tale discorso costituisce lo sforzo “per
individuare una base comune” su cui avviare l’annuncio del kerigma. L’enciclica recita infatti: «per farsi comprendere dai
pagani, i primi cristiani non potevano nei loro discorsi rinviare soltanto a Mosè e ai profeti; dovevano anche far leva sulla
conoscenza naturale di Dio […]. Poiché però tale conoscenza naturale, nella religione pagana, era scaduta in idolatria,
l’Apostolo ritenne più saggio collegare il suo discorso al pensiero dei filosofi, i quali fin dall’inizio avevano opposto ai miti
e ai culti misterici concetti più rispettosi della trascendenza divina»4. Che san Paolo non si riferisse solo agli Stoici, ma
intendesse riprendere il concetto di Dio elaborato dai più grandi filosofi greci, Platone e Aristotele – cioè quel concetto
che essi avevano purificato dai limiti antropomorfici degli dèi della religione popolare greca e soprattutto da quella
molteplicità che inevitabilmente ne impediva l’assolutezza – risulta in modo chiaro dal confronto fra il discorso agli
Ateniesi e la storia della precedente filosofia greca. La prima caratterizzazione che l’Apostolo offre di tale Dio è: «il Dio
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che ha fatto il mondo e tutto ciò che vi si trova, signore com’è del cielo e della terra». L’idea che il mondo e tutto ciò che
vi si trova sia opera di Dio è stata introdotta nella filosofia da Platone col Timeo ed è stata ripresa da Aristotele nel
dialogo perduto Sulla filosofia, opere entrambe ben note a Filone di Alessandria, contemporaneo di Gesù e
probabilmente conosciuto da san Paolo, grazie alla cultura ellenistica che questi possedeva5. Il fatto che i filosofi greci
non avessero ancora l’idea di creazione dal nulla non ha alcuna importanza, perché anche tra i cristiani questa idea si
chiarì solo a partire dal II secolo dopo Cristo. La seconda caratterizzazione introdotta da Paolo è che tale Dio «non abita
in templi fatti dalla mano dell’uomo e non può essere servito da mani d’uomini, quasi avesse bisogno di qualche cosa,
dando egli a tutti la vita, il respiro ad ogni cosa». Essa corrisponde perfettamente al concetto di Dio professato da
Aristotele, il quale nel dialogo suddetto sosteneva che il tempio più adatto a Dio è il mondo intero, condannando come
empia l’idea che questo sia stato fatto come gli oggetti prodotti dalle mani degli uomini, e altrove sosteneva che Dio non
ha bisogno di nulla, perché da lui dipendono l’essere e la vita di tutte le cose. La terza caratterizzazione introdotta da san
Paolo è che Dio ha fatto sì che l’umana progenie si distribuisse su tutta la terra, e «ha determinato l’ordine dei tempi e i
confini del loro spazio ». Anche questa precisazione, che non sembra avere alcuna importanza ai fini
dell’evangelizzazione, può essere invece un richiamo al dialogo di Aristotele Sulla filosofia, citato da Filone, dove si dice
che Dio ha imposto al mondo un ordine che stabilisce l’alternarsi delle stagioni e la diversità tra le diverse regioni, cioè gli
spazi, della terra. Infine la più famosa caratterizzazione di Dio nel discorso agli Ateniesi, è che «in lui abbiamo la vita, il
movimento e l’essere, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: – noi siamo progenie di lui –». Questa è
certamente una citazione di Arato, e dell’Inno a Zeus di Cleante di Asso, discepolo e successore dello stoico Zenone, ma è
anche il risultato della fusione tra il concetto di Dio elaborato da Platone, quello elaborato da Aristotele e quello
elaborato dagli Stoici, fusione che si riscontra anche in altri testi antichi, quali il trattato De mundo attribuito ad
Aristotele, ma sicuramente a lui posteriore. Questo era precisamente il Dio dei filosofi, al quale san Paolo si richiama per
mostrare agli Ateniesi, nella cui città i più grandi filosofi greci avevano operato, che questo è il Dio di cui egli sta loro
parlando. Certo, dopo avere detto tutto questo, Paolo introduce l’annuncio specificamente cristiano, con le parole: «Dio
fa oggi annunciare agli uomini tutti e dappertutto che facciano penitenza, avendo egli stabilito il giorno in cui giudicherà
il mondo con giustizia per mezzo di un uomo da lui prescelto, dandone a tutti prova col resuscitarlo dai morti». Questo è
l’annuncio del Cristo, del Dio fatto uomo, morto e resuscitato per salvare tutti gli uomini. Sentendo parlare di
resurrezione – narra l’autore degli Atti – alcuni degli ascoltatori derisero Paolo, altri se ne andarono rinviando il seguito
ad altra occasione, e alcuni invece si unirono a lui e credettero, tra i quali Dionigi detto l’Areopagita, una donna di nome
Damaride e altri ancora. Spesso i commentatori vedono in questa conclusione uno scacco, un totale insuccesso del
discorso di Paolo. Ma non è così: i Greci credevano nell’immortalità dell’anima, ma non nella resurrezione della carne,
perché erano dualisti, troppo spiritualisti, quindi avevano difficoltà a credere in Cristo. Tuttavia alcuni credettero, dunque
per loro il discorso di Paolo fu decisivo. Questa conclusione rappresenta perfettamente la situazione in cui si trovano gli
uomini che con la propria ragione sono giunti a scoprire l’esistenza di Dio, come hanno saputo fare i grandi filosofi greci
vissuti prima di Cristo. Alcuni si fermano a questo punto, perché la ragione, cioè la filosofia, è aperta alla fede, ma non
costringe a credere. Altri invece compiono il passo ulteriore e credono. Ma il Dio in cui credono è lo stesso Dio a cui sono
giunti con la ragione, non è un Dio diverso; è il Dio che tutti gli uomini possono ammettere …
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1 Atti degli Apostoli 17, 23-28.
2 J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 2003, pp. 128-129.
3 La traduzione di tale prolusione, pubblicata dalla Marcianum Press a cura di H. Sonnemans, è stata ripresa anche nel quotidiano “La
Repubblica” del 15 marzo 2007.
4 Giovanni Paolo II, Fides et ratio, nn. 24 e 36.
5 Ho illustrato tutto ciò nel saggio Il “Dio dei filosofi” nel discorso di Paolo agli Ateniesi, in A. Ales Bello (a cura di), Pensare Dio a
Gerusalemme. Filosofia e monoteismo a confronto, Roma, Pontificia Università Lateranense, 2000, pp. 47-57.
Sussidio n° 5 – Iscrizione di Delfi
(http://it.wikipedia.org/wiki/Iscrizione_di_Delfi)
L' iscrizione di Delfi o iscrizione di Gallione è un'epigrafe incisa in greco ritrovata in maniera frammentaria a Delfi (Grecia)
nel 1905 e pubblicata nel 1925 (A. Deissmann, Paulus. Eine kultur und religionsgeschichtliche Skizze, 2a ed. Tubinga
1925). Questa la traduzione italiana del testo ricostruito nelle sue parti frammentarie (Traduz. di Romano Penna,
L'ambiente storico-culturale delle origini cristiane. Una documentazione ragionata, La Bibbia nella Storia, EDB 1991, pp.
251-252):
« Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico (nel 12° anno della sua) potestà tribunizia, acclamato imperatore per la
sua 26a volta, padre della patria, saluta [...]. Già da tempo verso la città di Delfi sono stato non solo ben disposto, ma
ho anche avuto cura della sua prosperità e sempre ho protetto il culto di Apollo Pitico. Ma poiché ora si sente dire
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4° incontro (17.01.2010)
che viene abbandonata anche dai cittadini, come mi ha da poco riferito L. Giunio Gallione, amico mio e proconsole,
desiderando che Delfi conservi intatta la sua primitiva bellezza, vi ordino di chiamare anche da altre città a Delfi degli
uomini liberi come nuovi abitanti e che a essi e ai loro discendenti sia integralmente concessa la stessa dignità di
quelli di Delfi, in quanto cittadini in tutto e per tutto uguali [...] »
Il suo valore storico è prezioso in quanto fornisce implicitamente un sincronismo tra gli eventi narrati nel testo biblico
degli Atti degli Apostoli e la storia del mondo greco-romano. Il proconsolato dell'Acaia rivestito da Gallione era di durata
annuale a partire dalla primavera (Dione Cassio), e l'epigrafe lo colloca nell'anno della 26a acclamazione imperiale di
Claudio (25 gennaio - 1 agosto 52). L'anno di carica di Gallione può essere dunque inteso come il 51/52 o 52/53. In At
18,12-16 è descritto l'incontro a Corinto tra Paolo e Gallione, e questo permette di datare il soggiorno in questa città
all'interno del secondo viaggio dell'apostolo attorno al 52, "data cardine" della vita di Paolo: grazie all'epigrafe e ai
resoconti di Atti gli storici ricostruiscono in maniera implicita e deduttiva la cronologia degli eventi relativi a Paolo sia
precedenti che seguenti a questo soggiorno.
Sussidio n° 6 – Paolo a Corinto
(VESCO J. L., in viaggio con s. Paolo, Brescia 1974, 121–124)
L’apostolo è rimasto a Corinto quasi due anni (autunno 50 estate 52). Di questo soggiorno, Luca non riporta
nei particolari che l’incidente davanti a Gallione, ma si può tentare di scoprire la vita quotidiana di questo
porto popoloso e di ricostruire le immagini familiari che si presentavano all’apostolo.
Ogni due anni, si celebravano a Corinto, in onore di Posidone, dio del mare, i “giochi istmici”, che dopo i giochi
olimpici erano i più famosi della Grecia. Giungevano da ogni parte per applaudire corse a piedi, incontri di
pugilato, gare equestri, lanci del disco ecc. I concorrenti dovevano iscriversi con un anno di anticipo ed erano
sottoporsi ad un severo allenamento dieci mesi prima della gara. Se essi interrompevano le loro esercitazioni,
venivano squalificati. Coloro che tenevano duro fino alle gare e che vincevano il premio, ricevevano una
corona di rami di pino, albero sacro a Posidone. E’ col pensiero a questo spettacolo che Paolo scrive: «Non
sapete voi che i corridori dello stadio corrono bensì tutti, ma uno solo ottiene il premio? Correte anche voi in
modo da ottenerlo. Tutti i lottatori si sottopongono ad ogni sorta di astinenze; e loro lo fanno per guadagnare
una corona corruttibile; noi invece per una corona incorruttibile. Io dunque corro, non come alla ventura,
faccio del pugilato, ma non come uno che dà dei colpi all’aria; bensì tratto duramente il mio corpo e lo tengo
sottomesso, affinché dopo aver fatto da araldo agli altri, non rimanga squalificato» (1 Cor. 9,24-27).
Paolo ha assistito anche lui a questi giochi? Durante la sua permanenza a Corinto ve ne furono nella primavera
dell’anno 51, ma gli ebrei ortodossi non vi parteciparono e anzi disapprovarono queste gare religiose di
uomini nudi. Gli archeologi hanno ritrovato, nell’edificio riservato agli organizzatori dei giochi istmici, un
mosaico di grande pregio che raffigura un atleta nudo, incoronato, con la palma della vittoria nella mano
destra davanti alla dea della Fortuna (Tyche) seduta su di un trono. Richiamando questa scena, Paolo dava
un’immagine suggestiva della vita cristiana, ma forse scandalizzò dei giudeo-cristiani particolarmente
scrupolosi!
Egli paragona il suo impegno di apostolo a quello del gladiatore e pensa alla processione che portava i
candidati attraverso le vie della città al luogo dei combattimenti quando scrive: «Io credo infatti che Iddio
abbia destinato noi, apostoli, ultimi fra gli uomini come dei condannati a morte, perché siamo diventati lo
spettacolo del mondo, degli angeli e degli uomini» (1 Cor. 4,9).
Quando Paolo parla ai Corinti delle tribolazioni alle quali è stato sottoposto ad Efeso, le paragona ad una lotta
contro gli animali feroci, spettacoli questi del circo, per i quali i romani si appassionavano grandemente (1 Cor.
15,32).
La filosofia dell’esistenza di cui Paolo cita la frase: «Mangiamo e beviamo, perché domani morremo!» (1 Cor.
15,32) si poteva leggere come epitaffio su numerose tombe greche e romane oppure anche incisa su alcune
coppe. Questa concezione della vita umana è sottesa a tutto il pensiero del Satyricon di Petronio. Essa misura
quale distanza separasse i Corinti che credevano nella risurrezione da quelli che non vi credevano.
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4° incontro (17.01.2010)
Due terzi della popolazione di Corinto era in condizione di schiavitù. Lungo le strade di questo centro
commerciale mediterraneo, si dovevano spesso vedere delle vendite di schiavi. Al collo di questi infelici
pendeva una iscrizione che indicava la loro età, la loro nazionalità, il loro stato di salute e i loro difetti. Il
compratore eventuale esaminava minuziosamente questa merce umana e giudicava se poteva farne una
utilizzazione proficua. Spesso gli schiavi portavano un tatuaggio, indice della consacrazione ad un dio o segno
di appartenenza ad un proprietario. Coloro che si rendevano colpevoli di un delitto venivano crocifissi, pena
questa da schiavi. Qualcuno riusciva a riscattarsi. Offrivano allora il denaro economizzato a qualche dio greco,
che, in compenso, li riscattava al loro padrone e rendeva loro la libertà; il padrone incassava la somma offerta.
Talvolta uno schiavo serviva da pedagogo al figlio del suo padrone; il suo compito consisteva essenzialmente
nel condurre il bambino a scuola.
Paolo rievoca tutte queste realtà quando scrive ai Corinti. Parla del suo corpo che «tiene sottomesso» e al
quale fa subire gli stessi trattamenti che sopportavano gli schiavi (1 Cor 9,27). Egli porta sul suo corpo i segni,
le stigmate, della sua appartenenza la Cristo (Gal 6,17). La croce non significa più soltanto, per lui, lo
strumento di tortura infamante, ma diventa un simbolo di vittoria (Fil 2,8). Paolo ricorda ai Corinti che essi
sono stati riscattati dalla schiavitù del peccato con un prezzo molto alto, il sangue di Cristo (1 Cor 6,19-20). Egli
ammonisce i suoi figli spirituali, scrivendo loro che quand’anche avessero migliaia di pedagoghi in Cristo, non
hanno tuttavia molti padri, è lui e lui solo che li ha generati nel Cristo Gesù (1 Cor 4,15).
A Corinto vi era un quartiere di vasai e se il vasellame di Corinto non era più così bello come nel passato,
serviva pur sempre per esportare profumi, olio d’oliva e vino. Quando Paolo vorrà esprimere il concetto che il
tesoro del Vangelo è portato da esseri di carne e di sangue, userà la similitudine del «tesoro affidato ai vasi di
argilla», estremamente fragili, perché si capisse bene che la straordinaria potenza del messaggio «non
appartiene che a Dio» (2 Cor 4,7). Per far comprendere ai cristiani di Roma che Dio rimane padrone della sua
opera, egli ricorda la figura del vasaio che, con la medesima pasta, foggia «un vaso di onore o un vaso di usi
vili» (Rom 9,21).
Lo specchio attraverso il quale — scrive Paolo — noi vediamo le realtà eterne soltanto in modo confuso, e non
direttamente, è un’allusione a quegli specchi di lucido bronzo che sono stati ritrovati nelle tombe grecoromane. L’immagine non vi si riflette che in modo assai imperfetto (1 Cor 13,12). Il tema dell’architetto che
pone le fondamenta sulle quali altri costruiscono, parlava in modo esplicito ad una città ricostruita di recente
(1 Cor 3,10).
Numerose taverne ritrovate a Corinto, con le loro coppe dedicate a Dioniso, a Eros, a Zeus, testimoniano
l’abitudine alle orge notturne in questa città di marinai e mercanti. Gli ammonimenti di Paolo contro i vizi e gli
eccessi, non erano del tutto fuori luogo. Strabone (Geografia, VIII, VI, 20) riferisce che una cortigiana di
Afrodite si vantava di avere «corrotto in un batter d’occhio tre comandanti di marina»! La prima lettera ai
Corinti ricorda ai neo convertiti che molti di loro erano un tempo «fornicatori, idolatri, adulteri, effeminati,
pervertiti, ladri, avari, ubriaconi, maldicenti, rapinatori» (1 Cor 6,9-11). Allusioni, queste, che non avevano
nulla di gratuito!
Per esprimere le realtà spirituali, Paolo non esita ad usare il linguaggio degli affari, un modo di esprimersi ben
conosciuto a Corinto. Così, egli invita i cristiani a soffrire con lui e a ricevere «le generose ricompense» della
consolazione divina (2 Cor 1,6-7). Allo stesso modo, scrive ancora, Dio ha contrassegnato i cristiani del suo
“sigillo”, garantendo in tal modo la loro provenienza autentica: questo era allora l’uso di garantire la merce di
valore (2 Cor 1,22). I Corinti hanno già ricevuto nei loro cuori «il pegno dello Spirito» cioè il primo versamento
che garantisce il pagamento integrale del debito (2 Cor 1,22). Paolo parla ancora di coloro che «trafficano» la
Parola di Dio (2 Cor 2,17): e a Corinto si conosceva bene cosa volesse dire «trafficare»!
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