Intervento di Francesco Colucci

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Università degli Studi di Milano-Bicocca
Conferimento della Laurea Magistrale Honoris Causa in Psicologia dei processi
sociali, decisionali e dei comportamenti economici a Paolo Fresu
Musica, Jazz e Psicologia Sociale – Francesco Paolo Colucci
Il conferimento di una Laurea Honoris Causa in Psicologia a un musicista jazz che si
occupa anche di musica folklorica potrebbe apparire una bizzarria a chi non conosce la
nostra disciplina e la sua storia. Infatti, alcune importanti radici della psicologia sono
intrecciate con la musica e, ancor più, con la musica folklorica.
Wilhelm Wundt il padre “ufficiale” della psicologia scientifica moderna, nella sua
Völkerpsychologie (1900-1920) - un’opera incompresa e tuttora trascurata dove Wundt
propone una psicologia sociale antica, ma non obsoleta in quanto ispirata dalla Filosofia
della Storia di Hegel e, nello stesso tempo, molto moderna in quanto precorre quella
psicologia culturale che si svilupperà negli ultimi decenni del ‘900 - non solo dedica alle
forme primitive di espressione musicale gran parte della trattazione sui “primordi dell’arte”,
ma collega la musica popolare allo sviluppo dell’intera cultura e in particolare
dell’agricoltura:
“Anzitutto nel canto (Lied), alla espressione semplice dello stato d’animo, riallacciantesi
alle immediate impressioni naturali, si è aggiunta una forma importante, strettamente
connessa alla più vivace attività fisica e spirituale propria della civiltà totemistica e
manifestantesi nel maneggio di strumenti e di armi […] il lavoro collettivo invita al canto
collettivo che si adatta al ritmo e alla cadenza del lavoro e acquista con la crescente
complessità di quest’ultimo un contenuto più vario e conseguentemente una più ricca
differenziazione di forme” (Elementi di psicologia dei popoli, Bocca, Torino, 1929, p. 217).
Riflessioni che potrebbero valere anche per le work songs dei lavoratori nelle piantagioni
del Sud degli Stati Uniti, che contribuirono alla nascita del blues e quindi del jazz; anche se
il professor Wundt probabilmente non conosceva queste forme musicali.
E’ sulla musica l’opera principale (Tonpsychologie, 1883 - 1890 dove sono esposti gli
esperimenti sulla fusione tonale), dell’avversario di Wundt, quel Carl Stumpf che già in
precedenza aveva svolto ricerche sulla musica primitiva e che è uno dei padri dimenticati
della psicologia: Stumpf è stato direttore dell’Istituto di Psicologia dell’Università di Berlino,
dove conducevano le loro ricerche i tre psicologi della Gestalt - Wertheimer, Köhler e
Koffka - e il giovane Kurt Lewin, prima di emigrare tutti negli Stati Uniti.
Boring, nella sua A History of Experimental Psychology sottolinea l’interesse di
Wertheimer, il fondatore della Gestalt, per la musica primitiva:
“His special interest was the psychology of music and took over responsibility for Stumpf’s
Phonogram Archive, which collected phonographic records of primitive music” (Boring,
1950, p. 599).
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A queste ragioni storiche si aggiungono motivi che riguardano rilevanti tendenze attuali
della psicologia sociale europea. Intendo riferirmi, in primo luogo, alla centralità per tale
psicologia del problema del senso comune, poiché componente essenziale di quest’ultimo
sono la cultura popolare o folklore che, come scriveva un conterraneo di Paolo Fresu:
“Non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco,
ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio” (Gramsci, Quaderni dal
carcere, Torino, Einaudi, 1975, Q. 27, p. 2314).
Ritengo che il Jazz possa essere inteso come una espressione per eccellenza del folklore,
ovvero della creatività della cultura popolare; come ha sottolineato uno dei più importanti
storici contemporanei, secondo alcuni “il più autorevole” storico contemporaneo, Eric
Hobsbawm, (Alessandria d’Egitto 1917 – Londra 2012) in una serie di recensioni a
biografie e autobiografie dei primi grandi jazzisti, pubblicate sulla New York Review of
Books alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso e raccolte in seguito, con altri saggi
dello stesso autore, nel volume “UNCOMMON PEOPLE. Resistance, Rebellion and Jazz”
(1998; trad. it. GENTE NON COMUNE. Storie di uomini ai margini della storia, RCS libri,
Milano, 2000).
Secondo Hobsbawm il jazz è “una delle poche arti del XX secolo che non deve niente alla
cultura borghese” (opera citata; trad. it, p. 315). Per questo “parlava con immediatezza
anche agli animi meno acculturati”. Benché “per molti giovani appassionati fosse solo
questo” il jazz assunse una connotazione ideologica; in particolare il dixieland o il revival
della musica di New Orleans negli anni Trenta:
“New Orleans diventò un simbolo e un mito dalle molte sfaccettature: anticommerciale,
antirazzista, proletario e populista, radicale nel senso del New Deal o semplicemente
contro la borghesia o i genitori a seconda dei gusti. Negli Stati Uniti e in altri Paesi
anglofoni il suo [del dixieland] centro ideologico era indubbiamente situato al limite tra il
New Deal e il partito comunista […] Nel libro intitolato Jazz del 1939 […], prima storia
americana di questa musica basata su ricerche […], si collegava la causa dei neri e il gusto
(di minoranza) per il jazz con la musica e le canzoni folk, antiche e moderne, che erano e
sarebbero rimaste a lungo i pilastri portanti della sottocultura di sinistra che si mescolava
alla cultura del New Deal” (ivi, p. 309, corsivi miei).
Questa connotazione ideologica di sinistra del jazz non si limita agli Stati Uniti degli anni
Trenta, in quanto, ad esempio, “In Francia nel 1949 il jazz aveva un enorme prestigio
intellettuale e culturale ed era collegato alla Resistenza” (ivi, p. 311).
Meritano di essere ricordate altre due osservazioni dello storico Hobsbawm sul jazz; a suo
avviso intrinsecamente “un’arte democratica [in quanto] conformata da quelli che suonano
insieme, che impone limiti a tutti i partecipanti” (ivi, p 304). Inoltre:
“il jazz è musica di diaspora. La sua storia fa parte della migrazione di massa dal Vecchio
Sud ed è, per motivi economici come spesso per motivi psicologici, eseguito da nomadi
che trascorrono molto tempo in viaggio” (ivi, p. 306).
Il jazz, dunque, come colonna sonora delle migrazioni di massa dal Sud che, come
sappiamo, continuano.
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Se il rapporto tra jazz, musica folklorica e cultura popolare è dunque forte ed evidente
nella cultura degli Stati Uniti dei primi decenni del XX secolo e può avere il valore e il
significato che gli attribuisce Hobsbawm, deve essere valutato come “originale” il rapporto,
il ponte, creato da Paolo Fresu tra jazz e musica popolare sarda e mediterranea. Il termine
“originale” va qui inteso non come bizzarro o strano, ma nel suo significato scientifico per
cui, ad esempio, viene valutata degna di lode una tesi di laurea in quanto “originale”, o
vengono considerati tali una ricerca o un articolo. In altri termini è “originale” ciò che crea
o inventa qualcosa di nuovo che ha fondamento reale e che funziona. Che il rapporto
innovativo tra jazz e musica popolare sarda e mediterranea sia reale e fecondo è
dimostrato dalla pluriennale attività di Fresu e della sua associazione culturale Time in
jazz.
Questo dimostra che sono stati trovati legami, connessioni e Gestalt comparabili tra
“forme simboliche” (Enst Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, Berlin, Bruno
Cassirer Verlag, 1923; trad. it. La filosofia delle forme simboliche, Firenze, La Nuova Italia,
1961) ovvero in espressioni dello spirito e della cultura umana, lontane nello spazio e nel
tempo.
Questo è pertinente e rilevante per quella psicologia sociale europea che valorizza il senso
comune e le diverse “forme simboliche” con cui si manifesta, partendo anche dalla
riscoperta delle idee di Gramsci e della loro attualità per la nostra disciplina (F. P. Colucci,
The Relevance to psychology of Antonio Gramsci's ideas on activity and common sense. In
Y. Engeström et al. Eds.. Perspectives on Activity Theory (pp. 147-164). Cambridge:
Cambridge University Press, 1999). Mi riferisco, tra gli altri, alla psicologia retorica di
Michel Billig e alla teoria delle rappresentazioni sociali di Serge Moscovici.
Qui si può solo indicare che questa psicologia intende il senso comune come “polisemico e
polimorfo” (Gramsci), costituito da diverse stratificazioni e varietà di manifestazioni: il
folklore con tutta la sua ricchezza, la religione, le idee più arcaiche e, insieme a queste,
quelle derivate dalle più recenti scoperte scientifiche. Un senso comune contraddittorio in
quanto può essere conformista e innovatore, conservatore e rivoluzionario. Così le
rappresentazioni sociali - una forma di pensiero di senso comune diversa ma non di
secondo ordine rispetto al pensiero scientifico - sono, secondo Moscovici, costituite anche
da simboli e da miti dalle molte sfaccettature, come scrive Hobsbawm di quella particolare
espressione della cultura popolare, e quindi del senso comune come qui inteso, che è il
jazz.
Va detto, ma non credo che questo sia un aspetto negativo, che la psicologia sociale alla
quale mi riferisco, non fa parte del mainstream della disciplina e che la concezione di
senso comune che propone è minoritaria, anche se fondata su una tradizione di pensiero
che rinvia, oltre che a Gramsci, a Giambattista Vico e agli Illuministi francesi.
In genere il senso comune viene inteso come il deposito delle idee scontate e ovvie, delle
euristiche e dei biases cognitivi, ripetitivi e ripetitivamente analizzati da molti psicologi. In
breve il senso comune è valutato negativamente se non disprezzato dal mainstream non
solo della psicologia ma della sociologia, delle scienze umane in genere, della filosofia.
Può, allora, non essere considerato casuale che chi ha dato una valutazione negativa del
senso comune abbia disprezzato il jazz. Mi riferisco a Theodor Adorno che, secondo
Hobsbawm, ha scritto sul jazz delle pagine di grande stupidità.
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Infine, va sottolineato che l’intervento di promozione culturale che Paolo Fresu e
l’associazione Time in Jazz conducono da anni nei gruppi e nelle comunità del Nord della
Sardegna ha di fatto un rilievo psicosociale.
La cultura popolare e più generalmente il sentire comune non sono statici e stagnanti, ma
cambiano continuamente e, in questo loro mutare, possono evolversi e divenire innovativi
e creativi se si crea un rapporto con quelle che un tempo si chiamavano le élites o, come
oggi si potrebbe dire, con gli esperti. A patto che tale rapporto, come Gramsci ha
teorizzato e come Lewin in psicologia sociale ha dimostrato con la ricerca-azione, non sia
calato dall’alto, ma riesca a creare con i soggetti del senso comune una relazione paritaria,
bidirezionale e, in quanto tale, dialettica; seguendo in questo di fatto i principi di quella
che in psicologia sociale si chiama la ricerca-azione partecipativa.
Se questo si realizza, promuovendo lo sviluppo culturale si promuove il benessere che non
va inteso come uno stato solamente individuale, dovendosi basare invece sulla identità
sociale delle persone, dei singoli, e sul “senso di comunità”.
Se questo si avvera il senso comune diventa bene comune.
Francesco Paolo Colucci professore ordinario di Psicologia Sociale – Dipartimento di
Psicologia Università degli Studi Milano Bicocca.
Milano, 27 marzo 2013
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