Riccardo Becheri IL RE NUDO UMBERTO ECO Prato 2013 1 ©Tutti i diritti riservati all’autore [email protected] www.riccardobecheri.it 2 INDICE 1 PERCHE’ HO LETTO ECO. 2 IL PENDOLO DI FOUCAULT. 3 PERCHE’ HO SCRITTO QUESTO SAGGIO 4 STRUTTURA E STILE DEL SAGGIO “SULL’ESSERE” DI UMBERTO ECO. 5 IL DOVERE PROFESSIONALE. 6 I LIMITI DELL’ESSERE. 7 I RISPETTOSI CONFRONTI POLEMICI 8 LA NOTA 14. 9 GIUDIZI E PREGIUDIZI. 3 Pag. 5 “ 7 “ 9 “ “ “ “ “ “ 11 18 21 29 33 38 4 1. PERCHE’ HO LETTO ECO Il saggio di Umberto Eco “Sull’essere” è una stronzata accademica. E qui devo spiegare perché e come l’ho letto. In genere cerco di evitare di leggere scritti di Umberto Eco, ma la mia figlia maggiore Barbara è socia di Euroclub, una società editoriale che ristampa libri di successo. Le era venuta l’idea di ordinare “Kant e l’ornitorinco” di Eco e aveva cominciato a leggerlo. Ne era stata respinta in malo modo. Alla prima occasione, un paio di mesi fa, mi ha passato il libro dicendomi: “Tienilo tu. Io non riesco nemmeno a leggerlo.” Col volume in mano e stuzzicato dalla curiosità di vedere cosa avesse tanto mortificato lo spirito di mia figlia, non ho potuto far altro che aprirlo e dare un’occhiata all’indice. Confesso una qualche sorpresa vedendo che conteneva saggi filosofici. Dalla popolarità del libro ritenevo che si trattasse di un romanzo tipo “Il nome della rosa”. Evidentemente sottovalutavo le possibilità del successo, se uno scrittore di successo riesce persino a vendere libri di filosofia. Comunque la mia curiosità si era accesa. E a casa mia, a comodo, ho letto l’introduzione, il saggio “Sull’essere” e la seconda appendice su “Croce, l’Intuizione e il Guazzabuglio”; in più ho scorso qualche capoverso qua e là. Fra me e me ho trinciato un giudizio: “Kant e l’ornitorinco” era la solita pappardella accademica farcita all’inverosimile per impressionare i lettori. Non ci ho pensato più e ho messo via il volume. Dopo due o tre settimane, per caso, sul banco di un supermercato vedo l’altro libro di Umberto Eco “Il pendolo di Foucault”. Era in edizione economica, per di più scontato 5 del venti per cento; e con la bellezza di quattordicimila lire l’ho fatto mio. Mi spingeva la curiosità di vedere se anche questo era una raccolta di saggi o un romanzo. Era un romanzo, anche se misterico-filosofico. Ho letto i due capitoli iniziali e quasi per intero i due capitoli finali. E l’ho messo via: ho già detto che cerco di evitare di leggere scritti di Umberto Eco. E dopo dirò perché. Infine, e ci avviciniamo al dunque, una quindicina di giorni fa mi è capitato di leggere sul “Venerdì di Repubblica” un articolo di Giorgio Bocca dal titolo “Computer, utile e pericoloso”. Vi si accenna di malanimo a qualche utilità trascurabile del computer, ma soprattutto se ne denunciano con veemenza i pericoli sostanziali. Lo scrittore di professione, dice Bocca, accatasta nel computer qualcosa tutti i giorni, magari insieme al riso “anche la polvere e qualche bacheronzolo”; e poi inevitabilmente “pensa che sarebbe uno spreco non usarlo tutto. Sicché ne nasce una letteratura a incastri dove abbonda la mala pianta delle citazioni”. Più giù Bocca aggiunge che ha amici molto noti che hanno scritto libri fortunati; amici che si offenderebbero se gli dicesse che si capisce che li hanno scritti al computer dalla loro “confezione a polpettone” dove al limite gl’ingredienti possono essere anche buoni ma sono troppi. Bocca non fa nomi, ma a me è venuto subito in mente Umberto Eco, grande profeta dell’informatica. E questo mi ha spinto a ripescare i suoi libri fra i miei scaffali. 6 2. IL PENDOLO DI FOUCAULT Confesserò un altro peccato: a me i libroni provocano una specie di vomito da indigestione e col tempo ho imparato a guardarmene. E’ un peccato, non un vanto. “Il pendolo di Foucault” è un librone di 680 pagine diviso in ben 120 capitoli ciascuno dei quali ha premessa una bella citazione, più altre due in testa al volume. Alcune citazioni sono in latino, spagnolo, francese, al primo capitolo addirittura in ebraico; e non sono tradotte. Altre citazioni dalle stesse lingue sono riportate direttamente in italiano e non si capisce perché. Tutte le citazioni sono assai peregrine e sembra che ripetano per 122 volte al lettore: “Béccati anche questo, ciuco ignorante!” Un paio di citazioni che ho controllato corrispondono agli originali. Le altre non so. Mi auguro anzi che molte siano inventate e che nelle 680 pagine si spieghi il perché di tante citazioni, vere o false che siano. Di più, vorrei sperare che l’ironia, che ogni tanto affiora in Eco, sia il vero sostegno dei misteri di questo romanzo: una gigantesca risata beffarda che riscatti la mala pianta delle citazioni erudite e spinga questo verboso malloppo verso il Don Chisciotte. Parrebbe assistermi in questa speranza la prima citazione in testa al volume, dove si dice che l’opera è stata scritta solo per i figli della dottrina e della sapienza e che ciò che è occultato in più luoghi viene manifestato in altri, affinché la saggezza dei lettori possa comprendere l’intenzione del libro. Conforta la mia speranza di un’ironia beffarda anche la citazione numero sette di un polacco di nome Lec: “Non aspettatevi troppo dalla fine del mondo”. Mi piace, è corta, la citerò anch’io. 7 Purtroppo la speranza mi muore quasi al ricordo dei capitoli già letti e di qualche mezza pagina scorsa. Dovrei leggere tutto il libro, passo passo sino alla fine, per vedere se la fiammella della speranza resiste. Ma incombono le 680 pagine e le 122 citazioni. E se poi vomito? Allora mi dico che di sicuro fra i tanti compratori del libro ci saranno anche tanti che l’hanno letto per intero. Aspetterò con calma che qualcuno mi spieghi se almeno le citazioni nel “Pendolo di Foucault” abbiano un senso. Allora potrò forse decidermi a leggerlo. O forse lo lascerò sepolto per sempre dove accatasto il ciarpame letterario italiano. Un’ultima annotazione a proposito di lettori per intero: siamo sicuri che se questo romanzo fosse arrivato per posta ordinaria a qualsivoglia casa editrice, sotto il nome di Gian Mario degli Abruzzi , sarebbe stato pubblicato? 8 3. PERCHE’ HO SCRITTO QUESTO SAGGIO Sempre spinto dal Bocca, dopo aver ponderato “Il pendolo di Foucault” come ho detto, ho ripreso in mano “Kant e l’ornitorinco”, più che altro per divertirmi. E tutti i miei ricordi sulla letteratura a incastri, sulla mala pianta delle citazioni, sul polpettone informatico, sono stati confermati dalla seconda lettura dei passi che più o meno avevo già letto. Qui però è sorta anche la domanda fatale: ma è possibile che solo io veda l’inconsistenza di queste argomentazioni? Non sarà invece la mia pigrizia e il mio pregiudizio a non farmi cogliere il vero e il bello dei suoi saggi? Non sarò mosso dal peccato per eccellenza, l’invidia? E allora ho preso a campione il saggio “Sull’essere” e l’ho riletto e annotato e riassunto e sminuzzato e riletto ancora più volte, come se fosse la quintessenza non tanto del pensiero e della scrittura di Umberto Eco, ma dell’eterna lotta fra il bene e il male, o se preferite dell’eterna batracomiomachia, la mitica guerra fra le rane e i topi. Alla fine mi sono trovato con un fascio di appunti. Li avrei potuti bruciare, ma ormai la fatica l’avevo fatta. Potevo scrivere una nota ipocritamente elogiativa per il gran nome con qualche riserva nel merito, ma avrei dovuto essere un cacciatore di cattedre. O potevo scrivere pari pari le mie riflessioni. Ma perché farlo? Certo, per vendicare mia figlia. E già questo è un buon motivo. Mettiamoci pure per dare soddisfazione alla mia vena di meschina maldicenza. E già questo per me potrebbe bastare. Ma per gli altri? Cioè, se mai un lettore estraneo dovesse capitare su queste pagine, perché le dovrebbe leggere? 9 Ebbene, questo mio sfogo vuole soltanto auspicare un modo onesto di scrivere filosofia. Quando proprio vogliamo scrivere saggi filosofici, si deve dire la nostra senza tanti fronzoli. Certo che occorre leggere e studiare, confrontarsi con gli altri filosofi e riprendere i problemi dal punto in cui li hanno lasciati coloro che ci hanno preceduti. Ma questo non significherà mai lo scambio del mezzo per lo scopo, il rimanere a questionare con gli altri senza mai affrontare direttamente il problema. E mai e poi mai sarà ammissibile l’ammantare di paroloni e oscurità il proprio vuoto, rimasticando per la centesima volta con un’altra terminologia il già detto. Con ciò non metto in discussione, anzi rivendico la serietà scientifica delle storie della filosofia, delle monografie su un singolo autore, delle bibliografie, delle recensioni e delle memorie accademiche. Ed anche, dei termini tecnici imprescindibili. Ma se per serietà scientifica si vuol far passare la sicumera professorale, ancorché ilare, e l’adozione d’un proprio formulario iniziatico per autorizzare a parlare solo i cooptati nel circolo, ebbene ciò è quanto di più contrario esista rispetto alla filosofia. Questi circoli con i loro gerghi hanno il medesimo scopo delle corporazioni medievali, quello di proteggere i soci; e in questo caso, quello di conferire loro una presunzione di scienza. Questa presunzione non esiste per nessuno. 10 4. STRUTTURA E STILE DEL “SULL’ESSERE” DI UMBERTO ECO SAGGIO Esamino intanto la struttura e lo stile del saggio. Si compone di 42 pagine a stampa più due di note. Il testo è diviso in una premessa di tre pagine e in dodici paragrafi. Vi sono citati 55 nomi differenti per un totale di 155 evocazioni (Aristotele 23 volte, seguito da Heidegger con 19, Eco stesso con 6, fino alla sola volta di Sapir-Whorf che ho contato per uno); le citazioni fra virgolette sono 65, le parentesi oltre 230 e le note 14. Vi sono infine, comprese le ripetizioni, oltre 400 parole straniere, alcune greche in caratteri latini. Tutto questo in 44 pagine. Incastri? Mala pianta? Polpettone? Lasciamo perdere l’informatica e “l’epifania silicea del computer” come la chiama Eco. In fondo è indifferente lo strumento con cui si scrive: un nulla inciso sulla pietra rimane un nulla. Facciamo piuttosto qualche altro piccolissimo rilievo. La nota 11 non ha il rinvio nel testo, ma presumo che debba stare alla fine del quarto paragrafo, sparita per uno scambio da esponente a un maiuscolo 1.1. Hjelmslev viene citato a pagina 4 senza la prima elle. Sotto la voce “refusi” e non fra gl’inganni bibliografici metterei la “Theologia Mistica” per “De theologia mystica”. Un altro refuso è a pagina 37 dove una a è diventata e. Forse ci sono altri refusi, ma non li ho scoperti. Altre minuzie? La pagina 32 e la nota 14 ci presentano designamo e disegnamo con la i a –gniamo. Vi sono due “quale è” a pagina 1 e a pagina 35. Opinioni differenti sull’ortografia? Anche ammesso, si tratta sempre della scelta peggiore. 11 Per gl’inganni dei rinvii bibliografici, segnaliamo: Heidegger 1923; Heidegger 1973:1969; Gilson 1984 e Gilson 1948; Vattimo 1984; e chiaramente anche Eco 3.4.7 che non esiste ed è 3.4.6. Per la meritata fustigazione degl’ignoranti adopriamo i termini: filogeneticamente, ontogeneticamente, somatopatico, infundibolare, borborigma, rizomatico, figmento, apofatica e altri gergali. Per confondere le acque possono anche servire i troppi: “non è che è, che cos’è… se non, altro non è, non si può… se non, il problema non è … bensì, non si potrà che, non è tanto… quanto, non si direbbe che non” , eccetera eccetera. Per l’esattezza terminologica riscontriamo, restando ai termini principali: “l’insopprimibile evidenza dell’essere, l’insopprimibile evidenza dell’esistenza degli individui, l’insopprimibile evidenza dell’individuale esistente; e poi, l’essere è anche prima che se ne parli, l’essere è solo effetto di linguaggio, il nulla e la negazione sono puro effetto di linguaggio”. Per impressionare i deboli possono servire le maiuscole: Mondo, Universo, Mente, Poeti, Filosofi, Fondamento, Uno, Sostanza, Evento, Svolta, Frattale, Demiurgo, Filosofia Prima, Teologia, Negatività, Limite, No e altri. Per civetteria “essere” è maiuscolo solo due volte e una in maniera dichiarata. Per il contorsionismo sintattico basterebbe indicare l’intero testo, ma ci sono dei campioni che meritano una medaglia: rimandiamo perciò alla pagina 2 col periodo che comincia con “Tuttavia”, alla pagina 3 “Non solo o non tanto”, alla pagina 5 “Si ha indicalità” , sempre alla pagina 5 “Nel più elementare”, alla pagina 11 dove in un solo periodo si sviscera la “questione centrale della Metafisica aristotelica”; per brevità saltiamo al periodo di pagina 40 che inizia con “Ma Habermas”. 12 Basta sullo stile di Eco? No, qualcosa sulle parentesi e sulle citazioni devo pur dirlo. Tutti, me compreso, usiamo talvolta le parentesi al posto delle virgole, ma è un errore. Perché togliamo forza al loro uso proprio: quando l’interruzione è brusca al di là del consentito alle virgole e quando, soprattutto, non è eliminabile. Lo sa bene Eco, non qui, ma in “Come si fa una tesi di laurea”, dove dice che in prima stesura potete scrivere qualunque cosa vi passi per la testa, ma poi vi accorgerete di esservi allontanati dal centro dell’argomento: “Allora toglierete le parti parentetiche”. Il punto è questo: nella stesura del saggio “Sull’essere” non c’è stata una seconda volta, come testimoniano le 230 e passa parentesi. Prendete il quarto capoverso all’inizio, il già citato che comincia con “Tuttavia”. E’ composto di un solo periodo lungo nove righe e con tre parentesi. Vi sono dodici verbi coniugati con i seguenti soggetti: si impersonale, essere, che, noi sottinteso, gatto, noi sottinteso, essere in buona salute, si, si, si, equazione, ex-istere. A una seconda stesura questo orribile capoverso sarebbe sparito perché è tutto fuori dal centro del discorso, o al massimo sarebbe stato accolto così: talvolta usiamo il verbo essere come sinonimo di esistere la cui etimologia significa “uscire da”, “manifestarsi” e quindi “venire all’essere”. Come sa benissimo chiunque scriva anche solo un annuncio mortuario è molto più difficile essere concisi che prolissi. Spesso ci vuole un’intera giornata di lavoro soltanto per abolire una parentesi. Però la fatica sarà ampiamente ricompensata, non dalla concisione per se stessa, ma dalla purificazione del pensiero che, all’inizio confuso, ora fa tuttuno con lo stile. 13 Qui però non c’è stata una seconda volta, non c’è stata nessuna fatica, né semplice rilettura. Balzano agli occhi solo una grande fretta e una sciatteria inammissibile. Certo che Eco altrove, e se vuole, può scrivere bene, ma qui non lo ha fatto. E pubblicando uno scartafaccio senza ripulirlo ha offeso i lettori. E io sono un lettore. E veniamo ora alle citazioni. Se uno scrive su un altro autore, come faccio io qui con Eco, lo deve citare di continuo. Ed è giusto. Se uno non può fare a meno di riportare un brano di altri, lo deve citare per pagare un debito. Ed è bene. Ma si dovrebbe presumere che quando uno scrive su un argomento abbia qualcosa di personale da dire e voglia metterlo in bella evidenza, non nasconderlo dietro 155 nomi, 65 virgolette e buona parte delle 230 parentesi. La rabbia è che queste cose Eco non solo le sa, ma le ha anche scritte e raccomandate agli studenti, sempre in “Come si fa una tesi di laurea” da cui ho rubato l’espressione “pagare un debito”. Scrivendo così, nella migliore ipotesi un autore dà inizio a un processo all’infinito di rimandi, che non è affatto la mai esauribile ricerca della verità, ma solo un eterno nascondersi a se stessi. Nella peggiore ipotesi, il lettore fa come mia figlia, butta via il libro. Ma allora, perché Eco lo ha fatto? Perché da sempre Eco è affetto da logorrea irrefrenabile di tipo umoristico-erudito. Questo è il suo stile e questo è il vero suo pensiero che fa tuttuno col suo stile. Si guardi (pilucco nell’ordine del testo): la collera greimasiana, la philosophia pertracta di Wolff, l’Oggetto Dinamico di Peirce che ci spinge a produrre un representamen che a sua volta produce in una quasi-mente un Oggetto-Immediato, il gavagai di Quine, la poesia di 14 Valéry, il dibattito tra Anselmo e Gaunilone e quello tra Anselmo e Cioran, la situazione e l’ipotesi berkeleyana, l’intero paragrafo quarto col duetto fra Aristotele e san Tommaso con l’intermezzo di Parmenide e la chiusa fra Eco, Aristotele, Porfirio e ancora Eco, l’architettura tetragona di Spinoza, il Sein-Dasein- Seiende di Heidegger, il saggio di Elea a più di una pagina di distanza da dove veniva chiamato col suo nome, il verso di Holderlin , la De theologia mystica e il De coelesti hierarchia dello pseudo-Dionigi, le quattro incapacità di Peirce, van Gogh come Dasein, lo spazio bruniano, Pollicino insieme a Odino e Pitagora, il fichtianamente costruito, l’anything goes di Feyerabend, il camolato e tutto il resto di Vattimo, la reazione humeana di Nietzsche, la lettera di Rimbaud a Demeny, le affordances percettive di cui Eco parla nell’inesistente 3.4.7, il mening di Hjelmslev, Habermas che nel cercare il nocciolo della critica di Peirce alla cosa in sé kantiana sottolinea il problema peirceano, la virginis ruinam di san Tommaso, senza andare a cascare nelle note con l’imbarazzato Seneca. Che si tratti di logorrea, e di tipo erudito, mi pare evidente. E non dirò altro. Che si tratti anche del tipo umoristico risalta dal tono generale del discorso, impostato subito nel primo periodo con le sue tre parentesi scherzose (sì, sì, li so i rimandi cosiddetti seri) e rinfrescato qua e là con battute che vanno da Pollicino, van Gogh e l’epifania silicea già rammentate alla nascita di Heidegger in Oklahoma, agli scienziati in seduta medianica, al taglio di bue dal muso alla coda, al Qualcosa che risponde con una scala reale al nostro tris d’assi, alla radice quadrata che ha per padre un cammello e per madre una locomotiva, per non dire del Qualcosa-che-ci-prende-a-calci il cui riscatto serio attendiamo dai tedeschi. 15 Che poi i due tipi, erudito e umoristico, possano essere uniti dal trattino e diventare un nuovo tipo di logorrea, che potremmo anche chiamare accademica, emerge con chiarezza dai due esempi seguenti. Il primo viene nel testo dopo l’altro ma non importa. E’ il cacciavite nell’orecchio di Rorty. Cos’è tutta questa storia del dibattito fra professori che fanno una battuta, e uno la fa sparire dagli atti a stampa e l’altro invece ce la mette? Ci manca effettivamente un Goldoni che sviluppi il canovaccio. Il secondo è lo Sfero di Empedocle. Empedocle avrebbe potuto essere riconosciuto Budda come il suo quasi contemporaneo Siddharta, se solo la storia fosse giusta. Purtroppo le cose andarono diversamente ed Eco oggi, senza ricevere anatemi dai buddisti empedocliani, può definire il ciclo cosmico di Empedocle come “mobile, metamorfico, metempsicotico, compulsivamente riciclante, inveterato bricoleur…” Il punto non è l’inveterato bricoleur con i puntini. Il punto è: perché il nome di Empedocle non compare fra i famosi 55? Non vi compare Goethe dell’attimo bello, né Dante a cui mancò possa. E la “gaja scienza”, che sarà anche di Leopardi, è soprattutto di Nietzsche con retrosapori di Heidegger e Vattimo. Queste, e altre citazioni anonime e allusioni che di sicuro mi sono perso e che non ho la pazienza di ricercare, perché? Sì, sì, son tutte cose risapute e non c’è bisogno di dirle fra di noi. Ecco, è il “fra di noi” che mi dà noia. Io vedo come un ammiccare fra professori, quasi un: “Accettiamo scommesse su chi indovina”. Citare Tizio, Caio e Sempronio, alludere a X, Y, e Z, presumere che tutti abbiano studiato non solo le opere precedenti dell’autore ma anche la letteratura critica di 16 contorno, sono cose che fanno soltanto i professori universitari di pessimo gusto. Ma Eco non sa il danno che provoca nei lettori, specialmente giovani, con quel suo modo di scrivere? Con la sua autocompiacenza e il suo esibizionismo? E il rifiuto e il rigetto irrecuperabili che provoca in chi si accosta ai suoi libri non dico verso la filosofia, che forse non è più altro che una materia accademica, ma verso l’amore per la verità e per la ricerca della sapienza? 17 5. IL DOVERE PROFESSIONALE E veniamo al contenuto filosofico del saggio. Inizia dichiarando che parlerà dell’essere nel suo senso più vasto e impregiudicato e termina esortando ad andare incontro all’essere con gaiezza per coglierne le aperture e gli accenni mai troppo espliciti. L’inizio è chiaro, anche se ci sono volute tre pagine per dire quello che sta in un rigo, e la conclusione è positiva. Farebbe ben sperare se nella premessa non ci fosse detto, fra parentesi, che la riflessione filosofica non risolve le ambiguità nell’uso del termine “essere”. Allora dobbiamo smettere subito di leggere? Nemmeno l’ultimo rigo: “Il resto è congettura” aiuta granché. Non dubito che Eco teorizzi, da qualche altra parte, qualcosa su congettura e ipotesi e ne individui tre o quattro tipi differenti in modo da parlarne per un bel pezzo. Ma messo lì secco, a mo’ d’epitaffio, quel rigo ha un suono vagamente minaccioso, come di abbandono eterno all’inconoscibile. Però non scoraggiamoci subito. La prima domanda da porsi è: quanto c’è di Eco in questo saggio? Il percorso fra quell’inizio e quella fine oscilla dai confronti metafisici con Aristotele, Nietzsche, Heidegger e Vattimo alle indicazioni semiotiche di Peirce, Hjelmslev ed Eco stesso. Nell’introduzione all’intero volume “Kant e l’ornitorinco”, lui stesso, spiegando il perché del saggio “Sull’essere”, dichiara: “Non si tratta di delirio di onnipotenza, bensì di dovere professionale”. Forse basterebbe questa ammissione per dimostrare il mio giudizio iniziale. Ma innanzi tutto è fuori del testo, e io mi sono preso il compito di fare il pignolo su un saggio preciso: lì devo 18 trovare le conferme. E poi gli autori generalmente, nelle introduzioni, prefazioni, post-fazioni, risvolti e risguardi, dovunque presentino i loro lavori, fanno mostra di umiltà per suggerire il contrario. E’ questo il caso di Eco? No, lui è sincero. Solo in un delirio di onnipotenza potrebbe credere di dire qualcosa di personale sull’essere. Ed è vero che tutto ciò che sull’essere fiocamente traspare di profondo dal saggio di Eco non è di Eco , ma è patrimonio dell’umanità conquistato per noi dai veri filosofi che osarono il delirio di onnipotenza. Quello che è di Eco è il “dovere professionale” con tutte le sue regole e gelosie cattedratiche. Il primo paragrafo del suo saggio sembra quasi rivolto ai professori delle porte accanto, titolari delle cattedre di Filosofia Teoretica, o di Storia della Filosofia, o dovunque si nasconda e venga spezzettato lo studio dell’essere nelle università. Sembra che Eco dica a ciascuno di loro: “Scusa, sai, se io professore di semiotica invado il tuo campo, ma sono autorizzato da Peirce e Hjelmslev”. E a me lettore che importa? Se si parla dell’essere parliamo dell’essere, senza tanto preoccuparci su chi poi interrogherà ai prossimi esami, ai quali comunque io lettore non mi presento. Eco, dopo questa rivendicazione di competenze, per dieci paragrafi tratta il suo argomento in termini più o meno metafisici. Nel penultimo paragrafo torna sulla sua cattedra e traduce quanto ha detto dalla luce della metafisica alla luce della semiotica di Hjelmslev: l’essere diventa il continuum del contenuto e le linee di resistenza diventano sensi vietati. Tutto qui. Diciamo allora brutalmente come stanno le cose: Eco ha finalmente scoperto la metafisica se non addirittura la filosofia. 19 Si ritorni all’introduzione al volume e si rilegga la seconda ragione per cui non ha scritto un aggiornamento del suo “Trattato di semiotica generale”. Negli anni, dice, si era reso conto di due cose: primo, che nella seconda parte del suo “Trattato” presupponeva senza esplicitarlo che se parliamo è perché “Qualcosa” ci spinge a farlo; e secondo, che dai limiti dell’interpretazione culturale e testuale era stato spinto a chiedersi se non esistano limiti più profondi. Questo significa, come ho detto, che Eco ha scoperto la metafisica. Scoperta, è chiaro, come problema suo, non come libri letti e studiati. In più Eco avverte di non essere capace di architettare un capovolgimento sistematico della sua filosofia. Qui il mio cuore si è aperto e l’ho riconosciuto fratello in questa valle d’ignoranza. Subito dopo, però, aggiunge che forse nessuno può farlo da solo e comincia a parlare in semiotichese. Il mio cuore si è richiuso. Stava parlando del suo testo universitario e non di una crisi sulla via di Damasco che, come ognun sa, prelude sempre a grandi opere. Per non ingannarmi avrei dovuto continuare a leggere la citazione di dianzi: “Non si tratta di delirio di onnipotenza, bensì di dovere professionale. Come si vedrà, parlo dell’Essere solo in quanto mi pare che quello che c’è ponga dei limiti alla nostra libertà di parola.” Finalmente siamo al nocciolo di ciò che Eco ritiene suo nel saggio: le linee di resistenza dell’essere e i sensi vietati del continuum. 20 6. I LIMITI DELL’ESSERE Visto che Eco parla dell’essere solo perché gli pare che ponga dei limiti alla nostra libertà di parola, ci si aspetterebbe che il problema dei limiti, delle linee di resistenza, dei sensi vietati fosse messo subito al centro dell’attenzione. Invece no. Il primo accenno esplicito a un limite è nel nono paragrafo, quando parlando di Nietzsche dice che “egli avverte l’esistenza di costrizioni naturali”. Fino a quel momento ha parlato dell’essere, degli enti, dell’evidenza insopprimibile sia dell’essere che dell’esistenza degli individui, della polisemia e dell’aporia dell’essere aristotelico, delle soluzioni per sfuggire all’aporia, del linguaggio poetico e di un modello di conoscenza del mondo. Finalmente, quando l’essere si sta dileguando con Vattimo, per bocca di Nietzsche appaiono le costrizioni naturali. Che parlare dell’essere, fin da prima di Parmenide, comporti anche distinguerlo almeno dal nulla e dal divenire lo sappiamo tutti. Che parlare degli enti e degli individui significhi anche parlare dei confini che separano un ente da un altro ente e un individuo da un altro individuo è pacifico. Che tutto ciò, proprio perché notissimo, si dia per implicito in un saggio filosofico è concesso. Non si capisce però, quando si voglia creare una nuova teoria della conoscenza, cercare cioè “qualcosa di resistente” che ci spinge “a inventare termini generali (la cui estensione possiamo sempre rivedere e correggere)”, per quale motivo Eco non parta da quei nobili e antichi precedenti, ma li lasci sottintesi per due terzi del saggio, parlando d’altro. Poi, nelle ultime sei pagine, viene al suo argomento: “Quello di cui parlo non è la Legge delle leggi. Cerchiamo 21 piuttosto d’individuare delle linee di resistenza, magari mobili, vaganti, che producono un ingripparsi del discorso, così che pur nell’assenza di ogni regola precedente sorga, nel discorso, il fantasma, il sospetto di un anacoluto, o il blocco di un’afasia.” Parlando così, di che cavolo stiamo parlando? C’è bisogno d’una logopedista? Ce l’ho in famiglia. Da una tale premessa circa l’esigenza di un “Limite” dell’essere che ci impedisca (Dio volesse!) di parlarne a caso, non si poteva che fare un salto stratosferico nella metafisica più rarefatta, quella di Heidegger, e scoprire “la fondamentale esperienza di un Limite che il linguaggio può dire anticipatamente… l’esperienza della Morte… quel limite che è l’essere-per-la-morte”. Solo dopo aver fatto questa fondamentale esperienza, ci ammonisce Eco, scopriamo altri limiti, tipo quello che da un cane e un gatto non nasce nulla. Se questo non bastasse per una teoria del limite come base della conoscenza umana, ci possiamo rivolgere alla semiotica di Hjelmslev dove l’essere diventa il continuum, anzi in danese mening che in italiano vuol dire “senso”, non solo nel senso di significato ma anche nel senso di direzione. E questo essere-continuum-mening-senso-significatodirezione “può non avere un senso, ma ha dei sensi; forse non dei sensi obbligati, ma certo dei sensi vietati. Ci sono delle cose che non si possono dire.” E in conclusione: “Il linguaggio non costruisce l’essere ex novo: lo interroga, trovando sempre e in qualche modo qualcosa di già dato… Questo già dato sono appunto le linee di resistenza.” Cos’è quest’affastellamento di parole, questo rincorrersi di banalità, astrattezze metafisiche e minuzie semiotiche? Cos’è questo partire da un punto, le “linee di resistenza”, fare un bel giro di metafore e tornare al solito punto? E’ l’apporto di Eco alla teoria dell’essere e dei suoi limiti. 22 Facciamo pure un’analisi più dettagliata e cominciamo intanto dalle premesse: c’è qualcosa; siamo gettati nell’essere; l’essere si dice in molti modi ; ogni enunciato su ciò che è, e su ciò che potrebbe essere, implica una scelta, una prospettiva, un’angolatura. Da queste premesse sorge la prima domanda: “Significa questo che una vale l’altra, che tutte sono egualmente buone, che ogni affermazione su ciò che è dice qualcosa di vero…?” A questa domanda ne seguono altre otto dello stesso tenore: cosa ci impedisce di credere che tutte le prospettive siano buone? Cosa ci impedisce di credere che l’essere sia effetto del linguaggio del mito e della poesia, puro flatus vocis? Ci sono interpretazioni cattive? Quali garanzie ci autorizzano a tentare un nuovo paradigma? Qual è il criterio che ci permette di distinguere tra sogno, invenzione poetica, trip da acido lisergico e affermazioni accettabili sulle cose del mondo fisico o storico che ci circonda? Quale regola nuova la Comunità deve preferire e quale altra condannare come follia? Esiste uno zoccolo duro dell’essere tale che alcune cose che diciamo su di esso non debbano essere prese per buone? Esiste uno zoccolo duro dell’essere tale che le cose dette dai poeti siano riferibili a un mondo possibile ma non al mondo dei fatti reali? Queste domande si snocciolano da pagina 31 all’inizio di pagina 37, inframmezzate con le divagazioni su Nietzsche e Vattimo che riportano sempre a questi punti di domanda senza mai azzardare una risposta; ripeto: senza mai azzardare una risposta. Certo, per rispondere a queste domande si dovrebbe tirar fuori un’ontologia e una gnoseologia, un’etica e un’estetica, una teoria della storia e una teoria delle scienze fisiche, una politica e persino un trattato sull’acido lisergico. Non ci aspetteremmo tanto, ma qualcosina sì. E una risposta di Eco appare, a pagina 37 poco sotto l’ultima domanda e subito dopo il blocco dell’afasia: “Se 23 assumessimo che dell’essere si può dire tutto non avrebbe più senso l’avventura della sua interrogazione continua. Basterebbe parlarne a caso. L’interrogazione continua appare ragionevole e umana proprio perché si assume che ci sia un Limite.” Questa non è una risposta, ma una petizione di principio si sarebbe detto una volta. Assume come premessa la conclusione da dimostrare. Tutte quelle domande di prima chiedono proprio se vi sia qualcosa che ci salvi dalla perdita di senso e dal caso. E siccome, risponde Eco, non vogliamo perdere il senso e abbandonarci al caso, qualcosa ci sarà e lo chiamiamo “Limite”. E’ appunto un pio desiderio che vorrebbe dimostrare se stesso. Tralascio, perché ne parlo dopo, i poeti, i mondi possibili e le regioni dell’essere di cui non siamo in grado di parlare. Siamo dunque al punto in cui viene in soccorso Heidegger con l’esperienza di quel limite che è l’essere per la morte con i trattini , e l’esperienza spicciola dei cani che non figliano con i gatti. Vale a dire che sperimentiamo il “Limite” sia metafisicamente che in maniera semplice e immediata nella zoologia;. Inoltre è stato dimostrato, con logica purtroppo fallace, che il “Limite” ci salva dal caso e dalla perdita di senso. Ora possiamo abbandonarci alla lirica. Riassumo Eco: affermare che ci siano le linee di resistenza non vuole ancora dire che ci siano leggi universali operative in natura, tuttavia ci spingono a inventare termini generali sempre rivedibili e correggibili; e la realtà in ogni caso rifiuta interpretazioni false. Come? Dove? Quando? Chi? Perché? Sono domande oziose. L’importante è volare infine nel cielo mistico: “L’apparire di queste Resistenze è la cosa più vicina che si possa trovare … all’idea di Dio… che si presenta come pura Negatività, puro Limite, puro No”. 24 Da una sì grande altezza non si può che cadere; e infatti tutto ad un tratto ci viene detto che il nulla e la negazione sono puro effetto di linguaggio e che l’essere si presenta sempre in positivo. E il puro No, il puro Limite, la pura Negatività? Niente; scherzavamo; giochi di parole: “Correggiamo allora un’altra metafora, che ci è apparsa così comoda per ragioni retoriche, per ‘mettere sotto gli occhi’ ciò che si voleva suggerire. L’essere ci oppone dei ‘no’ nello stesso modo in cui ce li oppone una tartaruga a cui chiedessimo di volare.” Di conseguenza il limite perde la maiuscola e dall’essere dove trionfava solo per metafora si ritira in noi con l’umile minuscola: “Ma il limite è nel nostro desiderio, nel nostro tendere a una libertà assoluta”. Ed anche la Morte, maiuscola e metafisica, diventa un capriccio da ragazzini: “La stessa morte appare come limite a noi, che capricciosamente vorremmo vivere ancora…” 25 7. I RISPETTOSI CONFRONTI POLEMICI Non basta. Torniamo all’introduzione al volume. Eco vi apre una parentesi (dice così esplicitamente, poi in effetti ne apre sette) per chiarire la sua posizione rispetto alla “proposta di pensiero debole il cui copyright apparteneva da tempo a Vattimo.” Per aver partecipato nel 1984 a una raccolta di scritti sul pensiero debole, Eco veniva arruolato, nel doppio “ambito dei mass media” e “di certa pamphletistica popolare”, tra i “debolisti tout court”. Orbene, specialmente nel nostro saggio Eco ribadirà “anche attraverso alcuni rispettosi confronti polemici” di essere stato allora casomai tra i “debolisti deboli” e non tra i “debolisti forti” perché “C’è differenza tra dire che non possiamo capire tutto (una volta per tutte) e dire che l’essere è andato in vacanza (anche se ritengo che nessun ‘debolista’ sia mai arrivato a tanto).” Dio mio, ma che mondo è questo? Copyright? Debolisti di tre tipi? Mass media e pamphletistica popolare? Rispettosi confronti polemici? E per questo dovrei scomodare l’essere, Parmenide, Aristotele e san Tommaso? Bastava scrivere due pagine dal titolo “Alcune postille su certi detti di Vattimo a proposito di Nietzsche e Heidegger” e pubblicarle in qualche oscura rivista universitaria. Comunque questi squarci dell’introduzione illuminano parte dell’andamento del saggio “Sull’essere”, oltreché delimitare bene in quale mondo si muova l’autore. Si capisce cioè per quale ragione si passi da una prima parte, la premessa e i primi cinque paragrafi, di stampo, diciamo così, greco-latino-francese alla seconda parte di stampo germanico. Nella prima parte infatti c’è la scoperta della metafisica e la sua rivendicazione alla semiotica fin dal primo vagito filosofico. Nella seconda si consumano i 26 famigerati confronti polemici non tanto con Vattimo, che stando all’introduzione non c’entrerebbe nulla e bisognerebbe prendersela con la “pamphletistica”, ma con la metafisica moderna che è quasi esclusivamente tedesca. Tramite questi confronti con Heidegger, Nietzsche e Vattimo, Eco tenta di annettere alla sua semiotica alcuni temi di questi autori. Abbiamo già visto l’uso che fa Eco dell’essere-per-lamorte di Heidegger per teorizzare i suoi limiti dell’essere. L’altro tema di cui cerca di appropriarsi è quello del linguaggio dei poeti nella sua relazione con la conoscenza dell’essere. Esaminiamo come Eco tratta quest’ultimo tema. L’argomento viene introdotto appunto tramite Heidegger, con la sua divisione fra il linguaggio senescente della metafisica e il linguaggio forte dei poeti, dove si attuerebbe l’autodisvelamento dell’essere. Eco avverte subito che l’idea è antica e trova le sue origini nella mistica e nella teologia negativa. E giustamente salta agli albori dell’epoca romantica, quando in verità cominciò il processo di riduzione della conoscenza scientifica ad ambiti specialistici e nello stesso tempo il discorso poetico assurse sempre più a strumento privilegiato di conoscenza. Qui finalmente Eco dice l’unica frase bella ed asciutta del saggio, se levasse le maiuscole: “Non sono i Poeti a vincere, sono i Filosofi ad arrendersi.” Anche qui ci attenderemmo che affrontasse di petto l’argomento dell’arte come conoscenza e che disboscasse la superfetazione dell’estetica che c’è stata in questi ultimi duecento anni. La quale, da una parte, ha condotto la filosofia in strade senza uscita; e dall’altra, ha succhiato all’arte la sua vitalità e l’ha ridotta a posa. Che fa invece? 27 Come narcotizzato dal fatto di essere cattedratico di semiotica, si getta nelle braccia del suo amato Peirce e tira fuori una risibile dimostrazione che non è consentito presupporre l’inconoscibile in partenza. E poi osserva che i poeti non dicono l’essere, ma lo emulano; e spolvera l’ “ars imitatur naturam in sua operatione”, quando nella pagina precedente aveva liquidato la concezione dell’arte come imitazione di un’imitazione fra le vecchie teorie che andavano da Platone a Baumgarten. Aggiunge che il linguaggio dei poeti non produce un sovrappiù di essere, ma un sovrappiù di interpretazione. E dopo si appoggia su una ipotetica seconda estetica di Heidegger, con la sua terminologia direi superfetistica se esistesse questo aggettivo. Questa seconda estetica, secondo Eco: “non ci dice che nel discorso dei Poeti si svela l’essere. Ci dice che il discorso dei Poeti non sostituisce la nostra interrogazione dell’essere, bensì la sostiene e la incoraggia.” E finalmente conclude, non senza citare prima un veloce detto di Peirce, che “l’esperienza dell’arte non è qualcosa di radicalmente diverso dall’esperienza del parlare di Qualcosa, nella filosofia, nella scienza, nel discorso quotidiano. Ne è al tempo stesso un momento e un correttivo permanente.” Così dicendo liquida l’arte e la poesia, il che non sarebbe male; ma le liquida senza accorgersene, tanto è vero che alla fine rivaluta i poeti: il che è male. A questo punto ci viene presentato il modello di conoscenza del mondo dell’ottavo paragrafo. In sé è un utile esercizio mentale per gli studenti: qui ha il solo scopo di dare una base semiotica alla sua rivendicazione di temi e parole di Heidegger e di Aristotele. Infatti inizia il paragrafo successivo così: “Abbandoniamo ora il nostro modello, poiché esso si è trasformato nel ritratto (realistico) del nostro essere 28 gettati nell’essere, e ci ha confermato che l’essere altro non può essere che ciò che si dice in molti modi.” Da qui cominciano le divagazioni su Nietzsche e Vattimo, che, per ciò che riguarda i limiti dell’essere, non fanno che ripetere e specificare l’interrogativo iniziale di Eco, come abbiamo visto prima. E per ciò che riguarda l’arte aggiungono poche pennellate al quadro. Per Eco, Nietzsche vede la verità come un esercito di metafore e antropomorfismi elaborati poeticamente, non riconosce alcun valido metodo di avanzamento delle verità scientifiche e il cambiamento è possibile solo “come rivoluzione poetica permanente”. Da queste premesse si esce solo in un sogno ingannatore “e sarebbe il dominio dell’arte sulla vita” oppure, continua Eco, se ne esce con la filosofia di Vattimo: “l’arte può dire quello che dice perché è l’essere stesso, nella sua languida debolezza e generosità, che accetta anche questa definizione…”, cioè quella del sogno ingannatore e del dominio dell’arte sulla vita. Siamo all’essere che si dilegua e a un’ontologia retta da categorie deboli. Vale a dire, siamo ai rispettosi confronti, il cui limitato interesse si può misurare dal variare delle nove domande di prima. In più da Vattimo Eco trae le “proposte ‘poetiche’ di mondi altri”. E una volta catturata questa espressione, la inserisce subito nell’ultima domanda delle nove: i poeti si riferiscono a un mondo possibile distinto dal mondo dei fatti reali. Qui c’è la volata lirica: “Di un’altra regione dell’essere fanno parte i Mondi Possibili”. In questi mondi possibili, stranamente, fra le locomotive, le radici quadrate e le geometrie non-euclidee, Eco non cita più il linguaggio dei poeti. C’è però l’ascesa mistica: “E’ possibile che esistano anche regioni dell’essere di cui non siamo in grado di parlare.” Questo viene concesso sulla presunzione “che un giorno l’umanità possa elaborare linguaggi diversi da quelli noti.” 29 Sottolineo che nei paragrafi dieci e undici non si parla mai dei poeti o dell’arte; vi si teorizzano le resistenze dell’essere insieme ai sensi vietati, con in più gli accenni a queste eteree regioni dei mondi possibili e di quelli ineffabili. I poeti ricompaiono in chiusura. Dunque, riassumendo: per ciò che riguarda l’arte e la poesia come strumento di conoscenza dell’essere, primo, non sono i poeti a vincere, sono i filosofi ad arrendersi; secondo, l’esperienza dell’arte non è diversa dall’esperienza del parlare nella filosofia, nella scienza, nel parlare quotidiano. Fin qui sono affermazioni coerenti, banali, che anch’io come tanti potrei sottoscrivere. Purtroppo il vizio accademico di parlare dei problemi non direttamente ma attraverso altri autori, con confronti rispettosi o no, porta inevitabilmente a contraddizioni, oscurità, presupposti, in un viluppo di terminologie fuori contesto. Che vuol dire che i poeti non dicono l’essere ma lo emulano? Che significa che il linguaggio dei poeti non produce un sovrappiù di essere, ma un sovrappiù di interpretazione? Quando “i Poeti ci invitano a riprendere a ogni istante il lavoro dell’interrogazione e di ricostruzione del Mondo” fanno qualcosa che solo loro possono fare o lo fa anche la filosofia? La seconda affermazione di sopra nell’originale continua come abbiamo visto: “Ne è al tempo stesso un momento e un correttivo permanente”. Bene: questo correttivo lo fa solo l’esperienza dell’arte? Se così fosse l’arte sarebbe diversa dalla filosofia, e quanto radicalmente diversa sarebbe secondario perché in effetti senza l’arte l’essere non si conoscerebbe in nessun modo. Oscurità e contraddizioni che rendono, non dirò faticoso, ma inutile qualunque tentativo di interpretazione. Inutilissimo sarebbe andare a cercare il filo logico in 30 Heidegger, che ha discusso i problemi per i suoi scopi e non per quelli di Eco. Alcuni o molti lo fanno in simili casi; e così facendo si allontanano ancor di più dai problemi veri e si avviluppano nei rimandi, nelle citazioni e cioè nelle chiacchiere. Similmente con Nietzsche e Vattimo. Eco vuol riaffermare una visione dell’essere positiva e non debolista, in cui “Il linguaggio non costruisce l’essere ex-novo” ma trova sempre un “già dato”, su cui in qualche modo sia possibile basarsi per interrogare l’essere e coglierne le aperture, cioè per intraprendere e continuare il percorso inesauribile della conoscenza. Ottimo proposito. Oscurato dal rispetto accademico; che non è rispettoso, non è troppo, non è poco. E’ inutile e dannoso; e affoga nell’oscurità l’intento stesso. Eco aveva un progetto sacrosanto? Bene: doveva fregarsene di Nietzsche e di Heidegger che tanto sono morti, e tacere su Vattimo a cui si augura lunga vita. E citare questi filosofi, e altri ancora, solo di sfuggita e quando non ne poteva fare a meno, badando solo al filo del proprio ragionamento. Facendo come invece ha fatto si avviluppa nelle loro terminologie e tematiche, autorizza il sospetto di un’appropriazione indebita a favore della sua cattedra e rende il tutto sfocato e contraddittorio. Per restare ai poeti, che del “già dato” su cui basare la conoscibilità del reale ho parlato prima a proposito dei limiti dell’essere, Eco domanda se esista uno zoccolo duro per cui le cose dette dai poeti siano prese per buone solo se riferite a un mondo possibile e non al mondo dei fatti reali. Qui Eco pensa all’ermeneutica di Vattimo, con le proposte poetiche di mondi altri? E se invece i poeti si riferissero al mondo dei fatti reali, che facciamo? Li mettiamo in galera? Gli si ride 31 dietro? Inutili domande che non aspettano nessuna inutile risposta. Torniamo sulla terra: non sono i poeti a vincere, sono i filosofi ad arrendersi. Ed Eco si arrende. Il suo scopo non è nemmeno quello di lottare. E’ quello di essere presente e dibattere, di sottilizzare e chiosare, di fraintendere e precisare: l’eterno rimestare accademico. E a riprova del circuito inconsistente delle argomentazioni ci possiamo rileggere la chiusa del saggio dove ricompaiono i poeti. Che c’entrano i poeti? Non cercavamo a questo punto la regola nuova comunitaria? Il linguaggio dei poeti, ci era stato detto, non era niente di radicalmente diverso da quello della filosofia, e in più ci espone da duecento anni a enormi rischi di fraintendimento. Perché allora sono i poeti a dirci che bisogna andare incontro all’essere con gaiezza? E i filosofi non ce lo potevano dire? O i filosofi devono limitarsi alla congettura, così almeno continua il rimestio? Io non voglio certo sostituire qui una mia filosofia a quella di Eco. Mi limiterò ad osservare che quella sua scoperta della metafisica scopre in verità l’intrinseca debolezza della semiotica. E il suo tentativo di ribattezzare in termini semiotici la metafisica esistenziale e l’ontologia dell’arte rivela non “una galassia in espansione”, come lui dice, ma l’esaurimento dei temi propri della semiotica. Viste le tradizioni che hanno alle spalle la metafisica contro la semiotica, o anche l’estetica contro la semiotica, non è difficile prevedere che sarà la semiotica a sparire; e se ne rimarrà qualcosa, saranno poche analisi sparse. 32 8. LA NOTA 14 Ci sono infine da esaminare le regioni dell’essere, quella dei “Mondi Possibili” e quelle “di cui non siamo in grado di parlare”. Ho già segnalato la stranezza che le cose dette dai poeti vengono prese per buone quando si riferiscono a un mondo possibile e quando invece si parla dei mondi possibili i poeti non vengono nemmeno rammentati. Ora segnalo l’ulteriore stranezza dell’essere diviso in misteriose regioni mai discusse né prima né dopo. E per far vedere a tutti i pericoli che si corrono quando si parla tanto per parlare domando: che bisogno c’era di tirar fuori le regioni di cui non siamo in grado di parlare? Innanzi tutto, anche solo evocandole, Eco ne parla ed è una prima contraddizione. Poi ci dice che forse un giorno se ne potrà parlare. Se si potrà fare in futuro, si sarà fatto certamente anche in passato. E infatti fino a duecento anni fa nessuno parlava delle geometrie non-euclidee ed oggi lo fa anche Eco. Allora queste regioni sono il mistero che circonda le poche cose che conosciamo e che la filosofia, la matematica e le scienze aggrediscono di continuo con nuovi linguaggi? Ed anche: ci sono decine di teorie estetiche che dicono che ogni poeta inventa un suo linguaggio. Le regioni di cui oggi non si può parlare sono i mondi di cui parleranno i futuri poeti? O finalmente: che differenza c’è fra queste regioni ineffabili e il puro “Limite” e il puro “No” “di cui il linguaggio non deve o non può parlare”? Tutte stranezze, contraddizioni, oscurità che nascono da un periodo di nessuna utilità messo lì per caso. C’è un’ultima cosa da esaminare che rivela forse l’unico aspetto veramente sentito del saggio. Si tratta della nota 14 e 33 di certe risonanze nuove che questa nota estrae da alcuni passi, in parte già esaminati. In pratica la nota 14 è un altro finale del saggio, incomparabilmente migliore di quella filippica edificante sui poeti che gli è stata preferita. Già questa scelta di mettere il finale migliore fra le note basterebbe a provocare rabbia e ribellione verso l’autore. Nella nota Eco rammenta Luigi Pareyson e rende omaggio alla sua “Ontologia della libertà”. Ora non ci interessano i distinguo fra ciò che è di Pareyson e ciò che è di Eco e le precisazioni rispetto a Heidegger e Aristotele. Vediamo quello che Eco ne ricava. All’inizio: “Così come nutriamo l’aspirazione all’immortalità, e il desiderio di volare, aspiriamo sempre alla promessa che esista da qualche parte una zona di libertà assoluta. Ma è proprio la libertà che pone il Limite.” E alla fine: “Ancora prima di Dio l’essere ci viene incontro con dei ‘no’, che altro non sono che l’affermazione che alcune cose, noi, non possiamo dirle. Noi avvertiamo come Resistenza questo avviso profondo e nascosto che espone a rischio continuo (compreso il rischio del male) ogni nostra ricerca di verità e ogni nostra affermazione di libertà.” Qui non siamo nel chiacchiericcio. Però non siamo nemmeno nella filosofia. Siamo ai presupposti di ogni filosofia: c’è un mistero che ci mette a rischio del male, della falsità, della non libertà e insieme c’è il nostro desiderio di volare, di immortalità, di libertà assoluta. Da qui è sempre nata e sempre nascerà la buona filosofia. Io immagino che Eco, come tutti gli uomini arrivati a una certa età, improvvisamente si sia trovato davanti l’ultima domanda: “E poi?” Non una domanda libresca. Dentro. Certo che a quella domanda ognuno reagisce secondo il suo vissuto. Eco si è 34 chiesto: “perché Qualcosa ci spinge a parlare?” ed anche: ci sono limiti che “si annidino più in profondo”? Le risposte che ha dato finora a questa che ho chiamato la sua scoperta della metafisica sono frutto della maledizione logorroica da cui non riesce a liberarsi. Purtuttavia la domanda è sorta e il presupposto c’è; gliene va riconosciuto il merito. Da queste considerazioni prendono nuova luce almeno due aspetti del saggio. Il primo, già da me sbrigativamente deriso, è quella che Eco chiama “la fondamentale esperienza di un limite”, l’esperienza della morte che può essere detta anticipatamente. Da un punto di vista teorico su un limite siffatto non si può costruire nulla. Dal punto di vista umano, però, quel limite è sentito da tutti; e costituisce esperienza profonda su cui non è lecito scherzare; e io su questo non ho scherzato. L’altro aspetto è il Dio che aleggia nel saggio e la cui esistenza viene, direi, quasi dimostrata sulla fine dell’undicesimo paragrafo. O almeno auspicata e desiderata. “Questo già dato sono appunto le linee di resistenza. L’apparizione di queste Resistenze è la cosa più vicina che si possa trovare, prima di ogni Filosofia Prima o Teologia, alla idea di Dio o di Legge. Certamente è un Dio che si presenta (se e quando si presenta) come pura Negatività, puro Limite, puro ‘No’, di cui il linguaggio non deve o non può parlare.” E come avviene in questi casi fin dal primo, preistorico fremito religioso, non se ne deve parlare ma se ne parla. Ed Eco ne parla come una qualunque teologia negativa, con metafore e personificazioni e arriva, con l’aiuto di san Tommaso, a rintracciare una sostanziale parentela del suo Dio col Dio delle religioni rivelate. Il profumo di sacro pervade tutta l’aria e basterebbe a testimoniarlo la cascata di maiuscole nel brano che di nuovo ho citato. 35 Purtroppo ho una riserva anche su quest’ultimo aspetto del saggio. Per buttar giù queste mie osservazioni ho dovuto ricercare la mia vecchia copia di “Come si fa una tesi di laurea”. Mi ha subito colpito l’ultima avvertenza nell’introduzione, dove Eco praticamente si scusa, e seriamente, di usare le parole “studente” e “professore” anche nel significato di studentessa e professoressa. Mi ha assalito una folla di vecchi ricordi di contestazioni femministe e studentesche. E via via che saltavo fra le pagine riemergevano gli studenti lavoratori, Gramsci, le radio libere, lo zen a San Francisco, le tesi di laurea politiche: in una parola, il clima universitario degli anni settanta. Orbene, tutti siamo figli del nostro tempo; ma non ci sarà in Eco un’adesione ipertrofica alle mode del momento? Oggigiorno sono di moda Dio, il papa e la religione. Questa scoperta del “Qualcosa” che ci spinge a parlare, del “Limite” che è quanto di più vicino a Dio, non sarà solo una moda senza nessun aggancio profondo? Forse hanno ragione certi avversari di Eco che di lui hanno sempre evidenziato l’opportunismo e la smania di emergere fin da quando militava nell’Azione Cattolica. Comunque non m’interessa la sua storia personale, resto al saggio che ho analizzato e al profilo di lui che ne è emerso. Di sicuro Eco, se tenesse a freno la sua erudizione invece di farsene dominare, potrebbe anche scrivere qualcosa di valido, dopo essersi liberato, beninteso, dall’ossessione di essere in libreria tutti gli anni con un libro nuovo, e sui giornali tutti i giorni con un articolo. Se potessi gli darei un consiglio: di ritirarsi per cinque anni in un convento, o nella sua villa in campagna se ce l’ha, e lì fare opere di contrizione, di rinuncia, di silenzio, di solitudine, di ascesi e, dopo, scrivere un saggio di non più di 100 pagine, e senza 36 citazioni, o un romanzo di non più di 200 pagine. Forse queste opere sopravviverebbero. 37 9. GIUDIZI E PREGIUDIZI Non ce l’ho con Umberto Eco. Ma confesso di avere verso di lui un vecchio pregiudizio di cui non mi curo particolarmente di liberarmi e che, purtroppo, nelle sporadiche frequentazioni coi suoi scritti mi si rinnova sempre. Questo pregiudizio risale proprio alla mia prima lettura di “Come si fa una tesi di laurea”. Godo nell’abbandonarmi anch’io al vizio dell’autocitazione e così riporto un passo del mio diario che è nient’altro che un giornale di letture: “21 ottobre 1977 Nell’ultimo mese ho letto (o riletto) quattro libri: Umberto Eco “Come si fa una tesi di laurea”, Della Corte e Paolini “La mistificazione”, Schucking “Sociologia del gusto letterario”, Maremmi “L’agenda dello scrittore”. Per primo ho letto il libro di Umberto Eco che mi ha ridato il gusto per le schede di lettura; perciò di questi quattro libri ho fatto ampie schede, dove ho riportato citazioni, sunti e impressioni varie. Pertanto qui sul diario non voglio ripetermi; voglio soltanto tirar giù un’impressione generale e un confronto. Ebbene, i primi due libri di sopra, a parte la loro validità manualistica o di documento, sono due libri vecchi. Si rifanno a una visione del mondo sorpassata, postulano una società che non esiste più o non è mai esistita. Gli altri due libri invece, lo Schucking e il Maremmi, fanno presa piena sulla realtà, sono libri vivi e aiutano a capire quella parte del mondo che prendono in considerazione. Ognuno naturalmente ha pregi e difetti propri , tutt’e quattro. Ma quella che ho detto è la sostanza di fondo che regge l’insieme, o, se si vuole, la caratteristica della personalità 38 degli autori. Tutt’e quattro parlano in senso lato dello scrivere, di come, quanto e che cosa scrivere perché poi qualcuno legga. Ciascuno però da un angolo particolare, ma dal quale è possibile ricavare la visione che l’autore ha dell’attività letteraria. ‘Come si fa una tesi di laurea’ di Umberto Eco è un libro pregevole per studiosi e saggisti, mentre per gli studenti è una dannosa tentazione a buttar via tempo e fatica per fare una tesi di laurea seria e inutile. Utili le indicazioni per la schedatura, le bibliografie, la battitura e l’eventuale stampa dei testi ecc.. Ma questo libro è falso, fuorviante, per ciò che riguarda la serietà scientifica, l’entusiasmo per lo scrivere e il leggere, la caramellosa (o suina) immagine della tesi: ‘Fare una tesi significa divertirsi e la tesi è come il maiale, non se ne butta via niente.’ Ah, non lo so! Forse della tesi non si butta via niente, ma di dottori che hanno scritto tesi se ne butta via a centinaia di migliaia, a milioni, a decine di milioni in tutto il mondo. Quello che sorregge tutto questo libro è un mondo accademico putrefatto e irrigidito nei suoi privilegi e paludamenti. Anche la fortuna commerciale del libro dipende dal fatto che ha sicuramente un milione di compratori, perché questo è il numero degli iscritti alle università. A me Umberto Eco fa nello stesso tempo invidia, sbigottimento e fastidio. Invidia perché poteva stare a Parigi a studiare san Tommaso e perché scrive e ha successo con facilità. Sbigottimento perché non riesco a capire come faccia a essere tanto sicuro e felice della serietà scientifica delle sue opere. E fastidio per quel suo metter bocca su tutto, fare il saccente, citare questo e quello e non darti mai la sensazione che l’umanità nel suo insieme sia qualcosa di grande, valido, sublime e tragico.” 39 A distanza di ventitré anni non ho cambiato una parola, perché il mio giudizio generale su Eco rimane quello di allora. E mi congratulo con me stesso per la mia lungimiranza. Per scrivere questo mio saggio avevo ben chiaro che dovevo limitarmi fermamente all’analisi del testo di Eco “Sull’essere” senza farmi distrarre da altri suoi scritti se non quei pochi che avevo già letto e per quel tanto che me ne ricordavo. Questa esigenza rispondeva pienamente allo scopo che ho dichiarato: auspicare un modo nuovo di scrivere filosofia mostrando un campione di come non si deve scrivere. Non volevo, e l’ho detto, sostituire nessun’altra filosofia a quella di Eco. Per questo era necessario ignorare per quanto possibile ciò che non era nel saggio “Sull’essere”. Ed era necessario esaminare il testo da fuori del suo mondo, dal punto di vista della lingua italiana comune, del buon gusto e della misura; e poi della coerenza interna, della chiarezza dei suoi scopi e dell’efficacia delle argomentazioni portate a sostegno. Alla fine però mi sono levato una curiosità. Ho preso in prestito da una biblioteca pubblica cinque libri teorici di Eco, compreso il “Trattato”, e li ho sfogliati. Qualcosa ho saltato, qualcosa ho letto, qualcosa ho letto due volte. Non mi sono nemmeno sognato di analizzare altri testi come ho fatto col saggio “Sull’essere”. In genere ho saltato le minuzie analitiche: gliele concedo tutte. Sull’insieme, evidentemente, non posso esprimere nient’altro che un’impressione generale: si avverte come un senso di soffocamento. L’”esempiese”, che Eco fa finta di 40 deplorare da qualche parte e che è invece tutta la fantasia di cui sia capace, ti toglie il respiro e costringe il cervello ad appiattirsi in terra e a contare le briciole. Quando parla di altri autori, o li usa in “esempiese” o mostra come non siano semiotici come lui. Non ha nessuna capacità di sintesi; dopo il “Trattato” non ha scritto niente di organico e se ne dichiara incapace, come abbiamo visto. E le analisi a che servirebbero? Non si sa, sembrano fine a se stesse; forse sono l’unico acquisto e non sembra un grande acquisto. Una volta ci si poteva illudere che la semiotica aprisse chissà quali orizzonti verso l’intelligenza artificiale, la vera informatica o la logica formale: tutti progetti abortiti o fuori portata. Del resto lo stesso Eco rivendica: “Il discorso di una semiotica generale ha lo statuto di un discorso filosofico”, cioè non è un discorso scientifico; “che ogni discorso teorico abbia lo statuto di discorso ‘scientifico’… è solo un idolum tribus”. Ma poi vedo che sacrifica parole a questo idolum e si dichiara fiero di aver posto negli anni sessanta quella che poi sarebbe diventata la riduzione dell’analogico al digitale nella televisione; e fiero di vedere nel codice genetico dei biologi come un’applicazione inconscia della semiotica. Sul piano filosofico, poi, i due punti su cui più ribatte sono: primo, la polemica contro la deriva decostruttiva delle misinterpretazioni di un testo; e, secondo, la caldeggiata generalizzazione della semiotica nella teoria della conoscenza, basata sul processo abduttivo di Peirce e chiamata perciò “fallibilismo” e da ultimo “realismo contrattuale”. Sul primo punto basta uscire dalla ristretta cerchia dei semiologi per rendersi conto dell’ovvietà dell’assunto: tutta la storia della critica letteraria e filosofica è un richiamo 41 continuo ai testi e a ciò che di essi non si può dire e che altri invece dicono. Il difficile casomai è capire perché questo processo sempre si ripropone e come faccia a risultare positivo. Sul secondo punto, la teoria della conoscenza, ho già mostrato ampiamente l’inconsistenza delle argomentazioni di Eco. Al di fuori del saggio “Sull’essere”, sul solito punto, c’è un’altra caterva di chiacchiere, ma un unico elemento in più: “Quale regola nuova la Comunità deve preferire, e quale altra condannare come follia” che a pagina 35 del saggio “Sull’essere” veniva ricercata e domandata col punto interrogativo, alla fine viene scoperta. La regola nuova che la comunità può e deve accettare come valida tappa della conoscenza, nel suo percorso fallibilista, viene ogni volta sancita dagli esperti, innanzi tutto uscendo “da una ontologia forte” e poi “Escogitando una ontologia indebolita della Mente della Comunità (i cui rappresentanti privilegiati sono, a seconda dei settori, gli Esperti).” Questo a pagina 261 di “Kant e l’ornitorinco”; e farebbe venir voglia di gettare il volume fuori dalla finestra. E’ una concezione falsa anche solo perché è meschina. Senza dubbio Eco immagina se stesso fra gli esperti che giudicano: un collegio di docenti universitari che cooptano un collega con la sua nuova teoria. Una visione corporativa della vita spirituale che di per sé farebbe auspicare una legge che vieti ai professori universitari di scrivere libri. Ed è una concezione pericolosa. Se il collegio degli esperti che devono giudicare i libri di Eco fosse composto da me, mia moglie e i miei sei figli, e se giudicassimo Eco non solo nulladicente ma lo condannassimo al rogo, lui che fa? Contesta il collegio degli esperti o brucia tranquillamente? 42 Da che mondo è mondo gli esperti non solo hanno decretato ciò che era vero e ciò che era falso, ma hanno anche inflitto le meritate pene a chi diceva il falso. E così gli esperti ateniesi di morale della gioventù condannarono Socrate alla cicuta; e gli esperti della legge a Gerusalemme condannarono Gesù come bestemmiatore; e gli esperti teologi romani costrinsero Galileo all’abiura e bruciarono Giordano Bruno. Con tutto ciò, siamo ancora alla ricerca di “Esperti” con la e maiuscola? addirittura “rappresentanti privilegiati” della “Mente della Comunità”, con le maiuscole? Se dopo trent’anni di studi semiotici si arriva a scrivere simili bestemmie, è evidente che c’è qualcosa che non funziona nella semiotica, o in Eco, o in tutt’e due. Ma basta con Eco e concludo: per il saggio “Sull’essere” di Umberto Eco confermo il mio giudizio del primo rigo, ora ampiamente provato. Il re è nudo e non c’è modo di dirlo con parole gentili se non facendo finta che sia vestito. Maggio-Giugno 2000 43