Scienza e Verità. I limiti epistemologici della scienza a vent'anni dalla morte di Michel Foucault. Roma, 26 maggio 2004 Silvano Tagliagambe Allora quello che mi è stato chiesto e che volentieri cercherò di fare è una riflessione sugli stili di razionalità a partire da alcune suggestioni e alcuni sviluppi concreti che sono stati proposti da Foucault nelle sue opere principali per vedere poi come queste proposte, questi suggerimenti possono, in qualche modo, essere applicati a una lettura dei problemi degli stili di razionalità di fronte ai quali ci troviamo oggi. Quindi farò una brevissima introduzione su Foucault, breve perché il discorso di Foucault è molto interessante ma oggi, a mio parere, incalzano problemi di natura differente anche se sono molti legati, come vedremo, alla matrice delle problematiche in qualche modo individuate da Foucault e richiedono forse indirizzi e strumenti concettuali leggermente diversi. E poi cercherò appunti di delineare un quadro di quelli che secondo me sono i problemi di fondo che riguardano non soltanto la razionalità intesa in senso astratto ma anche problemi più concreti come quelli della formazione, dello sviluppo, del destino un po’ dell’industria italiana e del perché della crisi di un certo modello di sviluppo che secondo me è molto legato alla crisi di un certo modo di intendere la razionalità. Se dovessimo rintracciare le ragioni in qualche modo della presenza che Foucault ha avuto nella filosofia degli ultimi anni sostanzialmente dovremmo individuarla in due filoni fondamentali, uno è sostanzialmente legato al problema dell’archeologia dei saperi e l’altro al problema del rapporto tra sapere e potere e al problema della cosiddetta microfisica del potere. La genealogia dei saperi, la cronologia dei saperi, è un tema estremamente importante perché ha permesso a Foucault, sulla base di correnti di pensiero che erano molto ben presenti all’interno della filosofia francese di quel momento, e non solo della filosofia (i punti di riferimento certamente sono sicuramente Lacan, Roland Barthes), di formulare l’idea che sostanzialmente se noi vogliamo capire e fare un discorso filosofico dobbiamo intanto spostare il baricentro della filosofia da discorso sul mondo a discorsi sui discorsi sul mondo. In pratica la filosofia è un discorso di carattere metalinguistica, che non riguarda direttamente la realtà ma l’analisi dei linguaggi e dei discorsi e degli stili mediante i quali noi affrontiamo i problemi relativi al reale. E questo aspetto, che era stato poi già il portato della grande lezione kantiana, cioè è con Kant la filosofia diventa epistemologia quindi diventa sostanzialmente un discorso meta sugli strumenti linguistici e cognitivi mediante i quali noi affrontiamo il tema del rapporto con il mondo fenomenico, Foucault si irrobustisce, si nutre attraverso l’idea che questi discorsi sul mondo siano in qualche modo condizionati da strutture concettuali molto ben presenti che caratterizzano un’epoca, una determinata epoca. In sostanza l’idea che se noi dovessimo fare una sorta di storia della civiltà, questa storia della civiltà sarebbe una storia delle strutture linguistiche e concettuali che hanno di volta in volta condizionato i vari modi di organizzare e di concepire il sapere nel suo rapporto con il mondo. Faccio degli esempi che sono gli stessi che fa Foucault: l’epoca del Rinascimento è caratterizzata da una struttura concettuale che vede nella somiglianza tra il mondo, la realtà e le strutture concettuali attraverso le quali cerchiamo di studiare il mondo, la chiave per impostare un rapporto intero di verità; in sostanza l’arte, la conoscenza in generale e a maggior ragione la scienza devono essere capaci di afferrare e di riprodurre in modo mimetico sostanzialmente quelle che sono le strutture e le forme della realtà naturale. E da questo punto di vista è in questa struttura di somiglianza, in questo rapporto mimetico che consiste il valore della scienza e dell’arte. Il passaggio del Rinascimento all’età moderna è caratterizzato dal passaggio da queste strutture basate sulla somiglianza a strutture basate invece sul principio e sul concetto di ordine. Cartesio, Galilei, la scienza moderna e via dicendo, partono dal presupposto che la scienza non debba più riprodurre le forme, le strutture del reale, ma debbano essere capaci di individuare delle strutture d’ordine, delle modalità d’ordine da imporre in qualche modo alla realtà, e queste modalità d’ordine non sono tratte semplicemente dall’analisi, dall’osservazione del reale, ma sono estratte da un’analisi ad un livello più astratto. Tipico è il fatto, per esempio, che con Galilei lo studio della natura e del naturale ha un passaggio ineliminabile attraverso l’artificiale: il piano inclinato è il tentativo di studiare il movimento non osservando il movimento così come si da all’interno della realtà naturale, ma riproducendo il movimento in una situazione totalmente artificiale che è quella del piano inclinato in cui il movimento stesso viene considerato e analizzato in una situazione totalmente artificiale, quello totalmente artificiale tanto più per loro, quello del movimento in una situazione di mancanza totale di forze capaci di condizionarlo, di frenarlo, come ad esempio un movimento senza attrito. Allora, a che cosa è finalizzato questo passaggio attraverso l’artificiale? E' finalizzato a individuare delle regolarità, delle regolarità che non appaiono immediatamente e che sono in qualche modo rintracciabili nel profondo della realtà naturale e che ci permettono poi di estrarre l’idea di legge, e quindi un ordine con il quale noi riusciamo in qualche modo a caratterizzare i fenomeni. Sintomo del passaggio dall’idea, dalla struttura concettuale basata sulla somiglianza e sull’analogia tra i nostri discorsi e la realtà e invece la struttura basata sull’idea di ordine è, e questo è uno dei passaggi più belli di Foucault, la figura di Don Chisciotte, l’emblema dell’eroe che vive nel modello, cioè in una rappresentazione: lui ha in mente una rappresentazione del mondo cavalleresco, ritiene che il mondo debba assomigliare a questa struttura e si debba conformare a questa struttura, interpreta la realtà alla luce di questa struttura, non vive nel reale ma vive nel suo modello di mondo nel presupposto che il modello assomigli alla realtà e la riproduca. Ovviamente la scissione tra il modello dell’ideale cavalleresco di Don Chisciotte e il mondo segna tutta l’impotenza e il carattere tragico della figura di Don Chisciotte. Nell’età contemporanea entra in crisi anche l’idea di ordine perché noi siamo in presenza di fenomeni, la scoperta dell’inconscio, la scoperta delle pulsioni interiori, la scoperta del caos, presenti nella realtà sia naturale sia interiore, che chiaramente indebolisce il riferimento all’ordine e alla regolarità come categorie che in qualche modo possono servirci da guida e da bussola per la descrizione sia della realtà interiore della soggettività che della realtà sociale che di quella naturale. Quindi Foucault, in sostanza, dice che non abbiamo uno sviluppo e un progresso, cioè non possiamo impostare il passaggio dalle strutture rinascimentali a quelle moderne, a quelli attuali, in termini di progresso, questi, infatti, sono modelli incommensurabili e non misurabili tra di loro, e non c’è ovviamente un rapporto di necessità nel passaggio dall’uno all’altro. C'è un rapporto di necessità, invece, secondo Foucault nel legame che sussiste tra queste strutture concettuali di fondo e il modello di cultura che producono all’interno di una determinata epoca e di conseguenza anche tra queste e gli stili linguistici, i discorsi sull’arte e sulla scienza che in qualche modo ne scaturiscono. C’è un condizionamento orizzontale dalla struttura alle famiglie di modelli culturali che questa genera, ma non c’è un modello verticale che in qualche modo spieghi come da una struttura genealogica si passi ad un'altra. Questo è un discorso estremamente interessante da cui poi Foucault fa derivare alcune conseguenze mutuate da Lacan. La conseguenza principale è la scomparsa dell’uomo perché sostanzialmente l’uomo scopre queste strutture attraverso lo studio archeologico che fa della cultura, ma scopre anche di esserne condizionato e dominato, scopre cioè che non è in condizione di gestire nelle diverse epoche queste strutture. Quindi, in sostanza, la cultura è subita dall’uomo, non fatta dall’uomo. Foucault dice molto chiaramente che la ricerca culturale si genera nel vuoto lasciato dalla scomparsa dell’uomo.Questo è un tema molto presente nella filosofia francese, in primis Lacan che poi ha influenzato lo strutturalismo e anche la sociologia di matrice strutturalistica, basta pensare a Luhmann e all’idea di sviluppo della società senza soggetto, in cui il soggetto non ha una incidenza, un influenza particolare. L’altro aspetto importante di Foucault è l’idea del rapporto tra sapere e potere, cioè l’idea che il sapere si colloca sempre all’interno di strategie di potere e che le strategie di potere condizionano in qualche modo le modalità di presentazione del sapere, un discorso che Foucault non fa soltanto in chiave filosofica e teorica: il modo in cui le diverse istituzioni con i modelli che propongono si pongono come strategie di potere, strategie gerarchiche che condizionano le modalità di presentazione del sapere, per cui da questo punto di vista l’archeologia del sapere diventa negli ultimi lavori di Foucault, genealogia del potere; un potere che Foucault analizza in modi abbastanza originali riferendosi a Marx,ad esempio, contestando due aspetti della sua filosofia: il fatto che Marx individua il potere in un luogo che è appunto la proprietà, l’economia, mentre invece Foucault interpreta il potere come struttura gerarchica, in generale, non individuata in un luogo ma presente ovunque (nella famiglia, nella scuola, negli ospedale) e che ha protagonisti diversi, per cui l’operaio che per Marx, è vittima del potere in fabbrica poi però può essere protagonista di relazioni di potere all’interno della famiglia, del sindacato e quindi da questo punto di vista le relazioni di potere sono relazioni che sono riscontrabili ovunque all’interno della società. C’è questa idea del potere come gerarchia che è mutuata senz’altro dall’idea proprio della struttura dominante che è una delle chiavi di cui si serve Foucault per leggere Marx, l’idea che le strutture non siano uguali ma che in Marx cominciano ad emergere delle strutture “ad dominante” che in qualche modo tracciano una gerarchia. L’altro aspetto per cui Foucault prende le distanze da Marx è la sua macrofisica del potere cioè Marx individua il potere in strutture di carattere generale che sono localizzate in luoghi ben precisi della società mentre invece Foucault propone una microfisica del potere, cioè per lui il potere si diffonde ovunque in ogni dove, in ogni tipo di relazione e quindi è qualche cosa di omnicomprensivo. Foucault riprende l’immagine di Bentham, l’immagine del famoso edificio circolare con una torre al centro che in pratica domina tutta la vita di coloro che sono reclusi all’interno dell’edificio, una specie di occhio universale che è in condizione di tutto vedere senza essere visto. La rilettura che Foucault fa di queste immagini di Bentham consiste nel fatto che questo occhio, questa vista da parte del potere venga introiettata da parte di ogni singolo soggetto per cui il fatto di venire visto e di venire controllato in ogni aspetto della propria vita diventa un elemento che in qualche modo detta la modalità della condotta , incide sul modo di comportarsi e di pensare per cui importante non è il fatto concreto che esista lo sguardo universale, ma il fatto che questo sguardo universale venga incorporato negli stili di pensiero, nei comportamenti di ogni individuo e quindi si trasformi in norma di comportamento e abbia delle conseguenze ben precise anche sugli stili di pensiero. Questo è un aspetto diciamo interessante che chiaramente viene mutuato, lo dice chiaramente Foucault, non tanto da Marx quanto da Nietzsche. L’idea non semplicemente repressiva del potere ma produttiva e generativa di questo; l’idea che il potere è qualcosa che sostanzialmente genera e produce le società e le loro modalità di presentazione, che senza potere non potrebbero darsi né società né istituzione, né famiglia. Questi sono certamente degli aspetti che Foucault ha proposto in modo molto interessante, aspetti che noi possiamo utilizzare per leggere alcune delle problematiche che caratterizzano la cultura contemporanea, e che la caratterizzano in modi anche fortemente innovativi rispetto a quelli che Foucault era riuscito a vedere. Da questo punto di vista mi paiono, quindi, particolarmente rilevanti ai fini di una riflessione collettiva. Se vogliamo ragionare in termini di strutture epistemiche che condizionano nel profondo i modi in cui si presentano la cultura e gli stili che ne scaturiscono, oggi non possiamo fare a meno di considerare un problema che viene pochissimo citato e ancora meno trattato ed elaborato, che è il problema del rapporto tra conoscenza, rappresentazione della conoscenza e organizzazione della conoscenza. Questo, secondo me, è un tema fondamentale perché il modo in cui la conoscenza viene rappresentata retroagisce sulla conoscenza e la condiziona in modo notevole; vi faccio un esempio subito: oggi noi siamo in presenza, se dobbiamo guardare i modelli dominanti di rappresentazione della conoscenza, non più del tradizionale modello induttivo, che era stato proposto ad esempio ancora dal neoempirismo come modello di riferimento. Il neoempirismo partiva dall’ipotesi che sostanzialmente alla base della ricerca scientifica e delle teorie scientifiche ci fossero due gambe, una costituita dai dati, naturalmente presentati nella loro formulazione linguistica che erano gli enunciati protocollari in una forma standard, una struttura spazio-temporale “qui-ora” seguito dal riferimento ad una percezione diretta, “rosso” ad esempio. Dall’altro il calcolo matematico, logico; il calcolo segue ovviamente la via deduttiva, dal generale al particolare, dagli enunciati protocollari io invece costruisco la via induttiva che caratterizza appunto la ricerca scientifica. Entrambe queste strade hanno il potere di costringere all’assenso, e questo è un aspetto estremamente importante sul quale ritorneremo perché danno per scontato il problema del passaggio, la soluzione del passaggio dalla razionalità individuale alla razionalità collettiva, cioè in sostanza l’idea è “non credi ai miei esperimenti allora rifalli tu stesso e vedrai che arriverai ai miei medesimi risultati. Questo significa sostanzialmente che la razionalità, l’analisi dei problemi delle soluzioni non è elaborata collettivamente, può essere elaborata anche soggettivamente ma la cosa importante è che se viene elaborata soggettivamente in modo corretto attraverso la via dell’esperimento e la via del calcolo, immediatamente una soluzione individuale diventa intersoggettiva nel senso che costringe all’assenso e quindi impone una adesione intersoggettiva. Questo è un aspetto estremamente importante perché, ripeto, da per risolto o comunque non difficile da affrontare uno di quelli che secondo me si presenta, oggi, come uno dei problemi più scottanti, cioè il passaggio dalla razionalità individuale alla razionalità collettiva o connettiva, come la chiamano altri. E come vedremo c’è differenza tra un termine e l’altro. Oggi il modello di rappresentazione della conoscenza anche di quella scientifica non è certamente questo, è il modello popperiano con tutte le sue varianti, secondo le quali la scienza non parte da dati ma da problemi e quindi non parte da un procedimento induttivo, ma dall’individuazione di un problema e dal tentativo di trovare una soluzione a questo problema. Quindi lo schema popperiano è problema-tentativo di teoria che costituisce una risposta a questo problema-controllo attraverso i procedimenti della falsificazione. E’ evidente che questo schema di rappresentazione della conoscenza presenta un panorama del modo di costruire la conoscenza del tutto diverso dal metodo induttivo, la conoscenza da questo punti di vista non è più la possibilità di appurare e registrare e archiviare una volta per tutte verità, ma è controllo continuo su proposizioni che reggono finché reggono la falsificazione, senza però che io abbia una minima sicurezza che questa capacità di reggere alla falsificazione si perpetui nel tempo. Il modello di scienza che viene proposto è quello della scienza audace, del controllo costante, non quello della sicurezza che mi viene dato da una costruzione progressiva basata su fondamenta solide come quella dei dati e del calcolo. A questo rapporto conoscenza, rappresentazione della conoscenza oggi subentra come elemento determinante, il problema della organizzazione della conoscenza che è dato dalle tecnologie, e questo è un tema sul quale la cultura italiana è disastrosamente in arretrato. Noi abbiamo ancora l’idea che la tecnologia sia semplicemente applicazione e uso, che sia legato alle professioni rispetto al fare e non al sapere, e che quindi se uno non entra nel mondo del lavoro oppure si occupa delle cosiddette professioni liberali possa benissimo convivere senza tecnologia. Così facendo si perde un anello fondamentale, pensate ad un fatto molto semplice: oggi l’organizzazione del sapere non è data fondamentalmente dalle enciclopedie ma dagli archivi dei motori di ricerca, e i motori di ricerca come Google sono organizzati tecnologicamente sulla base di algoritmi prodotti da un intelligenza artificiale e quindi prodotti dalla tecnologia. Mentre i primi motori di ricerca,come Altavista, funzionavano gerarchizzando la conoscenza sulla base della frequenza statistica delle parole che venivano cercate (se voi cercavate “lavoro e innovazione“ Altavista vi cercava tutti i documenti e la gerarchizzazione dei documenti veniva fatta sulla base della frequenza statistica con cui queste parole ricorrevano nei documenti medesimi), Google come sappiamo ha una modalità di gerarchizzazione della conoscenza del tutto diversa, gerarchizza la conoscenza sulla base della frequenza degli accessi, per cui il sito o il documento più acceduto, è quello che mi viene proposto per primo. Ma questo avviene sulla base di un calcolo algoritmico che è fatto dallo stesso motore di ricerca, e questa è una modalità di organizzare la conoscenza, fatta tecnologicamente, che incide sulla ricerca medesima. Se io devo fare una ricerca è chiaro che ormai la faccio su Internet, ed è altrettanto chiaro che, se l’esito di una ricerca è di cento pagine di documenti, io guarderò i primi con maggiore attenzione, sto parlando ovviamente delle ricerche che noi diamo ad esempio a scuola, sto parlando chiaramente a livello di come si organizza il senso comune perché è questo che mi interessa da questo punto di vista. Parliamo di altri aspetti: il DATA MAILING è certamente una modalità di organizzazione della conoscenza basata su una tecnologia, e ovviamente la modalità di organizzazione della conoscenza basata sulla tecnologia retroagisce sul modo in cui certe tipologie di comportamenti vengono organizzati e proposti. Io credo che questo aspetto, il problema del rapporto tra conoscenza, rappresentazione della conoscenza e organizzazione della conoscenza, sia un tema che vada affrontato nelle sue conseguenze. Oggi, indubbiamente, la tecnologia interviene nella modalità di organizzazione dei saperi e la modalità di organizzazione dei saperi è condizionata tecnologicamente, quindi diciamo noi non stiamo parlando di uso di applicazione, ma di qualcosa di più pregnante che credo meriti di essere affrontato. Oggi per trasmettere i messaggi sulla rete sappiamo che dobbiamo distinguerli in dati e metadati perché nella rete passano i dati ovviamente scritti in linguaggio binario e digitale, oggi esistono standard internazionali di catalogazione dei metadati e sarebbe abbastanza interessante far vedere che un medesimo dato inserito in colonne di metadati differenti viene categorizzato diversamente e quindi assume significati parecchio diversi. E Questo è un primo aspetto. Il secondo aspetto: la nostra si dice che sia l’epoca della conoscenza globale, della globalizzazione, poi se si va a vedere sostanzialmente che cosa succede, credo che sia più corretto dire che, oggi, la nostra è una conoscenza che mette radicalmente in discussione ed in crisi, l’idea di un metodo universale, di linguaggi in qualche modo generali e astratti che possano fare da matrice a tutti quanti. Nel passaggio tra Ottocento e Novecento avevamo l’idea di un linguaggio egemone che era quello della matematica, era quello dell’idea ad esempio che la certezza ed il fondamento potesse essere trovato nella matematizzazione delle diverse discipline scientifiche e nella capacità di riportare la stessa matematica alla sua base fondamentale che era costituita dall’aritmetica, era il tentativo di Hilbert per molti aspetti. Oggi, diciamo che questa idea di un linguaggio universale capace di fare da fondamento solido si sta, da parte di qualunque disciplina scientifica, progressivamente smarrendo e sostanzialmente l’aspetto più interessante è che stiamo progressivamente passando da un idea di intersoggettività ad un idea di condivisione, cioè mentre l’intersoggettività è caratterizzata dalla sua capacità di costringere all’assenso, oggi noi abbiamo a che fare con la ricerca e lo sviluppo di sistemi multiagenti in cui l’obiettivo fondamentale diventa quello di costruire uno sfondo condiviso, un linguaggio ed uno sfondo condiviso che possa permettere a questi agenti differenti di comunicare tra di loro e di trovare una base comune pur nella disparità di punti di partenza riguardo agli obiettivi, i valori e molto spesso anche gli stili di conoscenza. La differenza è fondamentale perché la condivisione è il risultato di uno sforzo di costruzione progressivo che non ha nessun carattere costrittivo come appunto l’intersoggettività intesa in senso tradizionale. E questo passaggio dall’intersoggettività alla condivisione, alla ricerca di sfondi condivisi mi sembra un altro elemento che merita una riflessione interessante. Altro aspetto che sta emergendo è il problema della verifica in termini di qualità e non più soltanto di quantità, il problema della qualità e del rapporto quantità-qualità, è un aspetto credo interessante perché diversi economisti stanno riflettendo sulle conseguenze del passaggio da standard di valutazioni quantitativi a una valutazione che invece si richiama alle esigenze di carattere qualitativo, perché, mentre la quantità e gli standard quantitativi possono essere uniformi, quindi in qualche modo imposti dall’alto e gestiti in maniera uniforme ed omogenea, il discorso sulla qualità, ad esempio la qualità della sanità, la qualità della ricerca, è un discorso che chiaramente mette in campo sistemi di organizzazione, di valutazione dal basso; è difficile infatti imporre agli utenti un’ idea di qualità della sanità o della scuola che venga stabilita dall’alto perché gli utenti rivendicano il loro diritto di una valutazione e il diritto di dire che cosa ritengono qualitativamente migliore e che cosa no. Questo discorso sulla qualità e sul passaggio dalla quantità alla qualità è strettamente legato al discorso dell’autorganizzazione, cioè di sistemi sociali che in qualche modo rivendicano il loro diritto di auto organizzarsi e di valutare, sulla base di parametri qualitativi che non vengano imposti loro dall’esterno ma che siano invece il risultato di una valutazione che viene fatta dall’interno di questi stessi gruppi. Questo fenomeno d’altra parte è molto connesso allo sviluppo che si ha non soltanto nel loro campo di estrazione originale che è quello della biologia, ma sempre più anche nel campo sociale, anche nel campo dell’impresa, del modello dei sistemi autopoietici, dei sistemi che sono capaci di riprodurre la loro organizzazione interna e che proprio per questo riescono a gestire i rapporti con l’ambiente non semplicemente subendo le pressioni ambientali ma sulla base di una capacità di selezionare dall’ambiente quei tipi di informazione o di scambio energetico che in qualche modo ne favorisca la perpetuazione dell’organizzazione. Un ulteriore aspetto legato a quest’ultimo è quello sollevato da Darendorf con il principio della crisi dell’Illuminismo applicato. Il modello dell’Illuminismo applicato è il modello secondo il quale il rapporto tra potere e sapere era un rapporto che si poteva basare su una chiara linea di demarcazione che separasse i loro rispettivi ambiti di competenza. L’istituzione, il potere in qualunque forma si presentasse, commissionava allo specialista e al tecnico uno studio su un determinato argomento, quindi lanciava la palla al sapere, lo specialista e il tecnico sulla base dei propri linguaggi e delle proprie capacità specifiche presentavano delle soluzioni di carattere progettuale, le quali potevano essere anche alternative, che poi venivano riconsegnate al potere per la decisione e l’opzione finale. Merito di Foucault, ma non solo suo, è stato di mettere in luce che questo modello basato sull’idea di separazione, su una linea di demarcazione netta tra sapere e potere in realtà non rende conto delle molte vie di contaminazione tra questi aspetti e che queste vie di contaminazione hanno in qualche modo determinato la crisi, dice Darendorf, di questo modello di Illuminismo applicato. Sostanzialmente oggi, intanto non si accetta da parte del senso comune, una delega così totale in condizionati saperi specialistici, in Italia lo abbiamo visto, per esempio, con il referendum sul nucleare dove avevamo gli specialisti schierati in modo ben preciso e compatto su una posizione che poi non è stata recepita e condivisa a livello di opinione pubblica. Poi, le modalità di rapporto tra potere e sapere in qualche modo vengono ormai delineate sulla base della consapevolezza che lo stacco tra i due ambiti non sia più così chiaro e così definito. Sempre a proposito del modello di razionalità che sta subentrando, Keneth Keningston, che ama la crisi dell’algoritmo dell’ingegnere, induce oggi le facoltà di ingegneria americane a una riflessione molto seria e molto approfondita sul modello di formazione dei tecnici e degli ingegneri. Quello che Keningston chiama l’algoritmo dell’ingegnere, che era non soltanto un modo di rappresentare la conoscenza dell’ingegnere ma anche un percorso formativo ben preciso che veniva adottato da tutte le facoltà di ingegneria americane e non soltanto americane ovviamente, si basava sull’idea che sostanzialmente un problema complesso potesse essere suddiviso in componenti semplici che potevano essere affrontate attraverso gli strumenti del calcolo, dell’algoritmo tradizionale, in modo poi dar luogo ad una ricomposizione delle singole parti in un tutto che in qualche modo reggeva l’analisi che era stata fatta appunto in modo analitico. Oggi, dice Keningston, noi siamo sempre più frequentemente di fronte a problemi che non ammettono questo tipo di separazione, pensiamo al modello dello scenario globale dello studio dell’effetto serra, dell’interazione tra la terra, l’atmosfera e gli oceani o pensiamo a modelli che richiedono il riferimento all’interazione stretta e condizionante reciprocamente di più agenti, come ad esempio le situazioni di mercato, le decisioni e le scelte economiche in cui noi ci avvaliamo di elementi di simulazione molto potenti offertici dal calcolo e che però non sono condotti sulla base di questa separazione per parti di problemi. Se io devo progettare una macchina, ad esempio la Ferrari, devo tener conto di fattori diversi che generalmente appartengono a matrici disciplinari diversi, devo tener conto della velocità, devo tener conto della sicurezza, devo tener conto dell’affidabilità, della sua possibilità del valore economico e allora, attorno al progetto di un oggetto di questo genere io devo far lavorare specialisti differenti che hanno linguaggio, orientamenti, sistemi di valutazione di misura differenti per cui devo riuscire a trovare un linguaggio di mediazione che permette all’uno di rappresentarsi in modo corretto il problema dell’altro; per cui il problema di linguaggio e di mediazione non è più un problema di divulgazione ma è un problema in qualche modo interno alla stessa ricerca scientifica, altrimenti non si riesce a far lavorare insieme team di specialisti differenti sostanzialmente e come dice Keningston, il problema di fondo è che questo modello di cooperazione non funziona per aggiunte o per complicazioni successive, ma funziona per intersezioni. E queste intersezioni in qualche modo richiedono il riferimento ad un modello culturale e quindi un modello di formazione dell’ingegnere radicalmente differente. Keningston che come tutti gli americani alleggerisce discorsi anche con riferimenti molto spiritosi, racconta, per dare un idea dei problemi della composizione non per aggiunta ma per intersezione tra Harward e il MIT, che tra Harward e il MIT c’è un supermercato dove, come in tutti i supermercati anche italiani, c’è una cassa veloce riservata a coloro che non hanno più di 10 pezzi; regolarmente si presentano studenti che hanno un carrello colmo con numero di pezzi notevolmente superiore a quello consentito al che la commessa chiede che se è di Harward e non sai contare e se sei del MIT e non sai leggere, il problema della composizione tra due orientamenti culturali differenti. Ecco, da questo punto di vista, siamo di fronte ad una realtà che è caratterizzata, e qui ritorna il tema delle tecnologie, da un aspetto che secondo me merita una riflessione profonda, anche per i suoi riflessi politici. Pensiamo alla rete, che cos’è la rete? La rete è certamente un’infrastruttura di carattere tecnologico, ma altrettanto certamente è un ambiente che si presenta con i requisiti della cosiddetta realtà aumentata, nel senso che aumenta la realtà fisica, la realtà spaziale tradizionale e ne moltiplica le possibilità. In Sardegna sta partendo un progetto di riforma della scuola regionale basata sull’utilizzo della rete, in cui la rete appunto non è pensata semplicemente come infrastruttura ma è pensata come ambiente, questo vuol dire che all’interno delle scuole piccole, magari destinate ai tagli in seguito alla politica di risparmio del Ministero, si sperimenta un insediamento centrato sull’idea di consorzi, di piccole scuole che si consorziano tra di loro per resistere ai tagli e che si scambiamo insegnamenti on line: quindi c’è una parte di insegnamento frontale e una parte di insegnamento scambiato on line sulla rete. La rete da questo punti di vista viene pensata e realizzata come nuovo ambiente di formazione, un nuovo ambiente all’interno del quale i modelli organizzativi di istruzione vanno pensati ex novo sulla base di nuovi modelli che non possono più essere quelli della tradizionale lezione frontale e ovviamente quest’uso della rete aumenta lo spazio fisico e mette a disposizione delle piccole scuole un’ utenza di riferimento che non è più quella tradizionale che avevano. Quindi la rete è pensata come ambiente, non più soltanto come infrastruttura, ambiente che aumenta lo spazio fisico, ne moltiplica le prerogative e che ovviamente va progettata, la formazione e l’istruzione non possono essere occasionali. Ma la rete è anche un modello della realtà, di sicuro, però, con caratteristiche specifiche. Qualunque definizione di modello, parte dal principio che il modello è una copia ordinata di un dominio e di una funzione e che questa copia ordinata è una riproduzione artificiale e semplificata della realtà. La caratteristica del modello è quella di semplificare cioè di non essere una duplicazione del reale in tutti i suoi aspetti ma di prendere in considerazione i tratti del reale che vengono considerati pertinenti ai fini della soluzione di un determinato problema. La rete è certamente un modello della realtà, ma è semplificata? Certamente no, la rete è un modello della realtà che ne riproduce la complessità, pensate al fatto molto banale che la rete non è distinguibile in piani, in livelli, perché una ricerca sulla rete è una ricerca che produce per link ed in cui l’idea di contenitore della conoscenza, cioè l’idea che esista un contenitore della conoscenza, è un idea pericolosissima , ma nella rete l’idea di contenitore della conoscenza viene falsificata empiricamente, nel senso che la conoscenza è un insieme di link in cui io posso per decisione metodologica mia tracciare i confini, ma i confini non esistono all’interno della rete, non sono tracciabili all’interno della rete e questa è una cosa che ha conseguenze perché noi siamo abituati ad un modello di spiegazioni di tipo fondamentalmente sequenziale, antecedente e conseguente, causa ed effetto. La rete ci offre un modello fondato sull’azione reciproca e su diversi piani e livelli per cui il modello sequenziale di spiegazione antecedente e conseguente mal si adatta al tipo di configurazione della conoscenza-rete, ma soprattutto la rete ci da un’ idea di conoscenza non più come qualcosa di legato ma come processo al quale si partecipa sostanzialmente o si è partecipati, e comunque il criterio base è quello della partecipazione. Qui potrebbe ritornare d’attualità l’idea di Foucault che non è detto che si creino le strutture ma si è creati da determinate strutture. Allora, da questo punto di vista il problema di fondo diventa quello che la conoscenza è un processo ed è un processo in qualche modo che si realizza attraverso la creazione di comunità che ovviamente non hanno caratterizzazioni specifiche. Nell’89 Reinhold che studia le prime forme di comunità virtuali scriveva già che le comunità virtuali sono comunità senza base ma con un obiettivo e un interesse comune: età, sesso, razza e aspetto non sono percepibili e quindi non sono pertinenti e controllabili ai fini della partecipazione a questa comunità. La tua parola e i tuoi interessi determinano la tua identità e la tua partecipazione alla comunità. Alcuni hanno tratto da questa presenza sempre più forte delle comunità virtuali, facendo un salto che può essere ardito ma interessante, un passaggio dalla democrazia ad una adocrazia nel senso che mentre la democrazia è fondata su una comunità che chiaramente ha un’identità ben precisa, quindi ha un’identità nazionale, di tradizione culturale, le comunità virtuali nascono e si sviluppano sulla base dell’adesione ad un interesse contingente che può essere del tutto transitorio ed occasionale, quindi creato ad hoc. Quindi la comunità nasce ad hoc in relazione alla partecipazione ad un tema di discussione contingente, però poi queste comunità virtuali e la partecipazione a questi dibattiti, forum, chat e via dicendo in qualche modo incide sulla personalità e sui modi di pensare e vedere delle persone e quindi quest’idea di adocrazia cioè di comunità che si sviluppano ad hoc e a cui l’individuo partecipa occasionalmente diventa una modalità di costruzione di soggetti collettivi che a loro volta in qualche modo incidono sulla formazione dei soggetti individuali .Questo è un aspetto che non può più essere trascurato, non può più essere considerato un elemento appunto non particolarmente significativo. Ciò che emerge da tutto questo è un po’ l’idea che la conoscenza si sviluppi e si costituisca, parliamo di conoscenza anche di senso comune, sulla base dell’idea di una comunità che partecipa ad un processo, ad un determinato processo. In conclusione che lezione possiamo trarne da tutto questo, possiamo ritornare un attimo a Foucault per un aspetto che era presente soprattutto nell’ultimo Foucault, nelle ultime pagine della storia della sessualità, perché è uno spiraglio interessante. Foucault che era, come abbiamo visto, il teorico della microfisica del potere e del potere condizionante delle strutture, delle archeologie del sapere sull’uomo e parlava e teorizzava appunto l’idea di scomparsa dell’uomo, invece sembra prestare maggiore attenzione al problema del soggetto umano e delle sue possibilità di autodeterminazione. Anche se non parla più di libertà dice che il soggetto si può giocare nello spazio delle sue pratiche e costituirsi nell’ambito delle sue problematizzazioni, il che gli da la possibilità di essere capace di immaginazione di progetto; dobbiamo pertanto promuovere nuove forme di soggettività rinnegando il tipo di individualità che ci è stato imposto per secoli aprendo così lo spazio alla ricerca di quali possono essere i tratti di una identità sia di soggetti individuali che di soggetti collettivi che abbia la capacità di sottrarsi agli schemi tradizionali, ma che allo stesso tempo abbia la capacità di riappropriarsi in qualche modo della capacità non soltanto di leggere ma anche, in qualche modo, di controllare le strutture che vengono messe in opera e dalle quali appunto la nostra conoscenza viene condizionata. Questo è un tema molto importante, credo che sia il tema di riflessione forse dal punto di vista politico e culturale di maggiore rilievo perché si pone di fronte ad un tema fondamentale: queste strutture di cui parla Foucault oggi si incarnano nella rete e nei modelli di organizzazione di cui la rete in qualche modo è l’espressione. Ecco, che spazio c’è per i soggetti individuali e collettivi di incidere in qualche modo in queste modalità di organizzazione e di esserne attivi protagonisti? Se dovessi in qualche modo tracciare da Foucault ad oggi la strada, una via di riflessione importante che è una riflessione collettiva, io non ho in tasca la soluzione e direi che il problema di fondo è questo: la rete e la tecnologia di cui la rete è espressione, ci pone di fronte a problemi inediti, non vedere questi problemi è colpevole, trovarsi di fronte ad una riforma della scuola, lo dico perché vi ho partecipato, basata dal punto di vista concettuale su un documento che teorizza la radicale separazione tra teoria e tecnica e quindi dice che noi dobbiamo avere due canali di formazione, quella della teoria affidata ai licei e quella della tecnica legata alle professioni e che quindi è incapace di vedere il legame sempre più forte che c’è tra tecnologia e sapere, in cui la tecnologia non è più semplicemente l’applicazione del sapere ma è una modalità di organizzazione del sapere che incide e retroagisce , obiettivamente una cosa molto sconsolante. E’ pericoloso anche che i rilievi che vengono fatti a questo proposito cioè le critiche che vengono fatte anche da parte sindacale, a mio giudizio non colgono quelli che sono i problemi reali posti in campo dalla riforma della scuola. Tra i problemi reali ne cito uno che mi sembra particolarmente rilevante, in Italia si sta affermando un curioso rapporto tra innovazione e informazione, sul quale varrebbe la pena di meditare: in Italia oggi generalmente siamo di fronte ad un’innovazione che procede, viene sperimentata in qualche modo elaborata nelle sue linee di fondo e poi viene comunicata attraverso l’informazione. Enzo Marzo Mi sono iscritto abbastanza presto, non lo faccio mai, perché il mio non è un intervento ma una richiesta al relatore, la richiesta è quella di un supplemento perché nell’intenzione di come abbiamo pensato queste conversazioni, noi in particolare abbiamo sempre una preoccupazione cioè c’è: un filo che regge e che tiene unite tutte le cose che è quello che possiamo sintetizzare con una parola semplice, quella della laicità. Nel titolo che si era dato qui a questa conversazione io trovo che la relazione è più che esaustiva per quanto riguarda il sottotitolo e invece io vorrei chiedere un supplemento per quanto riguarda il titolo. Dopo mi riconfermo dal lato della relazione fatta che, mi pare che ci sia nel mondo oggi una specie di baratro, un baratro incolmabile tra la prima parola e la seconda parola del titolo, cioè scienza e verità. Nel senso che io sono convinto che lo scontro finale o comunque lo scontro oggi gravissimo che c’è nel mondo è lo tra le filosofie liberali in senso lato e le filosofie comunicaristiche in generale, che noi vediamo poi leggendo le pagine dei giornali tutti i giorni in prima pagina. Il discorso sembra molto astratto mentre invece ha una immediata applicazione, io ho sentito ed ho apprezzato tantissimo e vedo che la scienza sta molto avanti, anche le critiche a Foucault, io adoro un altro Foucault. Il problema è il baratro nel senso che, mentre qui si sta discutendo di democrazia ad hoc, l’arretramento sulle forme tradizionali della democrazia sono davanti agli occhi di tutti, cioè quando io critico una certa parte della sinistra, che chiamo troglodita, lo faccio apposta perché vedo che, da una parte c’è un dibattito che è avanzatissimo che però diventa poi totalmente astratto perché poi la realtà ci porta a forze politiche, forze culturali vincenti, che stanno su una posizione che non hanno nulla a che vedere con il dibattito di cui si parlava prima ma che hanno un’incidenza enorme. Se noi abbiamo da una parte lo scienziato che discute sulle comunità virtuali, qua invece abbiamo il ragazzo di 15 anni che si imbottisce di tritolo in nome di una comunità non per niente virtuale che io considero troglodita nel senso che fa riferimento a valori e sistemi conoscitivi di un’arretratezza incredibile. Non mi voglio fermare solamente su uno degli aspetti, vi avverto che, considero tutti gli aspetti dell’operazione, quindi da una parte e dall’altra, di sotto e di sopra, vedo che un’accentuazione così forte del comunitarismo che porta a questo tipo di disastri. Poi arriva fino a mezzogiorno della domenica in cui c’è il Papa il quale totalmente nel vuoto assoluto di dibattito se la prende con il relativismo, ogni volta ritorna la verità, la verità, la verità. Io dico semplicemente che lui parla nel vuoto, io vedo che il baratro è incolmabile sia nell’andare avanti sia nell’andare indietro, il Papa è fermo lì ma io per Papa intendo l’Islam, intendo anche le verità rivelate del dio laico americano. Tutto questo è incapace di arrivare al discorso che lei ha fatto, però, forse, il discorso che lei ha fatto è incapace di vedere che la realtà oggi è totalmente diversa, io apprezzo tantissimo le comunità virtuali della rete però c’è invece da vedere con grande sorpresa che la rete poi è utilizzata dai trogloditi anche. Vorrei che adesso lei parlasse del baratro perché altrimenti rimaniamo astrattissimamente sulla scienza,ed è un discorso di un interesse incredibile però per noi la questione del rapporto è più interessante. La rete è un modello della realtà che però non la semplifica anzi ne riproduce tutte le complessità e se vuoi le esalta. Prima di tutto perché è nel carattere intrinseco della rete riprodurre la complessità delle configurazioni secondariamente per un fatto, diciamo anche questo molto studiato. Non si parla più di globalizzazione, come sapete, si parla di globalizzazioni che è uno stimolo che mette in evidenza il fatto che proprio il timore, vero o giusto che sia, di una presenza egemone e soffocante, di un certo tipo di linguaggio e di cultura, e quindi l’idea che in qualche modo le culture locali siano destinate a perdere le loro spinte propulsive,in seguito a questa crescente affermarsi, attraverso la rete, di una concezione in qualche modo dominata da un certo tipo di cultura, sta provocando e sta moltiplicando, come reazione, l’attaccamento e la difesa anche ad oltranza, dei valori delle comunità locali e delle tradizioni, e questo lo stiamo vedendo. Non è affatto un caso che il fenomeno di affermazione della rete sia stato accompagnato dalla riaffermazione, dal consolidamento del valore da parte di molte delle tradizioni locali perché in tanto, qui ci sarebbero da fare discorsi sul problema delle interpretazione corretta del fenomeno della globalizzazione. In tanto dobbiamo distinguere tra globalizzazione e mondializzazione, chiaramente, la mondializzazione è l’idea che determinati problemi come quelli dell’ambiente, della pace, non possiamo che affermarli in una prospettiva globale e multi laterale. La globalizzazione è invece un termine tipicamente economico, che è stato mutuato sulla base del riferimento alle strategie delle multinazionali. Se noi trasformiamo questo modello a livello culturale, il modello della globalizzazione a livello culturale, è evidente che la trasposizione produce come effetto la standardizzazione, l’uniformità, l’egemonia di una determinata cultura, di una determinata lingua, e produce come reazioni fenomeni di rigetto; ciò che voglio dire è che noi non dobbiamo dimenticare che la rete è stata utilizzata anche da comunità di giovani per scoprire il versante nobile del comunitarismo, per mettere sulla rete gratuitamente il patrimonio dello loro specifiche culture per quanto piccole sia. In Sardegna ci sono dei giovani che lavorano gratuitamente per mettere sulla rete la tradizione, il materiale della lingua e della cultura sarda, per fare in modo che ci sia su questo grande scenario globale una presenza accessibile. Per cui diciamo una cosa: intanto il comunitarismo, l’idea di comunità, non si presenta sotto aspetti soltanto demoniaci o da demonizzare, il comunitarismo, la valorizzazione delle tradizioni accompagnata dalla capacità di vedere. Certo che il problema del rapporto tra scienza e verità, il problema della verità, oggi si presenta in termini radicalmente differenti da come appunto lo poteva pensare la scienza dell’ottocento, dalla fine dell’ottocento o dell’inizio del novecento. Oggi non c’è nessun scienziato che pensa che le sue teorie possano essere vere, questa è una cosa assolutamente banale, però il problema è quello della capacità di controllo, casomai; cioè il discorso della razionalità oggi si presenta sotto forma della capacità di fare delle affermazioni individuando la modalità di controllo di queste informazioni, del loro fondamento, delle loro modalità di diffusione. Questo credo sia un aspetto particolarmente significativo, è vero che nel mondo contemporaneo proliferano esempi di comunità che invece si formano, si accreditano si consolidano o trovano la loro ragione di essere in un’idea di verità acriticamente assunta e non sottoposta a nessuna modalità di controllo. Non stavo intervenendo sul lato delle credenze individuali stavo intervenendo sul lato delle possibilità, delle matrici di queste credenze. Qui ritorniamo in sostanza al discorso che facevamo prima, cioè, le credenze sono qualche cosa sottoponibili a forme di controllo o noi siamo necessitati dalle credenze? Noi siamo stati negli anni scorsi immersi all’interno di un orientamento filosofico, di filosofia della mente, che era il cognitivismo basato sul presupposto che se io guardo il teatro della mente e processi mentali all’interno del teatro della mente esistono due sottodomini nettamente diversi, uno è il dominio dei processi intenzionali, cioè delle credenze, che possono essere controllati, nel senso che mettono capo ad un linguaggio intersoggettivo, di cui il cognitivismo specifica le modalità; un altro dominio che è quello dei “qualità” dei sentimenti, che invece non sono possibili di un controllo delle pulsioni, che non sono possibili di un controllo di nessun genere. Ecco oggi questa bipartizione così netta, proposta dal cognitivismo è entrata in crisi. Questi comportamenti sono guidati dalle credenze, quindi salta l’idea che le credenze siano argomentabili e verificabili. E allora, se si dice che le credenze di religione, in quanto attinenti al sentimento, ad una illuminazione mistica, non sono ne’ confutabili ne’ dimostrabili, allora noi dobbiamo separare nettamente quello che è il campo della verificabilità, diciamo così, della non verificabilità, falsificabilità, sono anche mode culturali queste. Chiunque guarda storicamente vede che sono tutte mode culturali. La storia della filosofia è dialettica, quando diventa teologia in un senso o nell’altro distrugge la propria filosofia. Questo è un fatto fondato, noi dobbiamo sempre guardare a tutte queste impostazioni filosofiche sempre valutandole in rapporto a questo che è il loro contrario filosofico perché sono problemi che l’uomo non è in grado di risolvere e non è in grado di escludere. Ora io ti dico, questi sentimenti che non sono verificabili sul piano dell’empiria, non possono essere confutati, possono essere semplicemente e puramente valutati nei loro riflessi operativi pratici, nel senso che noi senza sapere se abbia o non abbia ragione, perché ne io e ne te siamo in grado di stabilire una cosa di questo genere. Diciamo però che farsi ammazzare in un mercato pubblico, è una cosa che contravviene a quello che è un senso comune di rispetto quantomeno dell’esistenza fisica degli altri.Il nostro discorso non deve essere portato sulla verificabilità o non verificabilità delle credenze religiose. Perché i trogloditi si fanno ammazzare, magari sono dei trogloditi per noi ma per loro non lo sono.Dobbiamo invece cercare, nei limiti del possibile, di spostare il problema sulle conseguenze di ordine pratico che seguono all’esercizio concreto di questi convincimenti religiosi. Silvano Tagliagambe Devi distinguere tra un criterio sintattico di coerenza interna che è intrinseco, ed un sistema esterno. Allora, o come sistema interno tu ti basi sul sistema semantico della verità e quindi dici che quel sistema oltre ad essere coerente, quindi intrinsecamente a posto, è vero e quindi in qualche modo fondato sulla corrispondenza con qualcosa di esterno, ma nel momento in cui tu abbandoni questo presupposto non ti basta dire che la scienza è coerente, non ti può bastare. Il criterio di valutazione è quello operativo, dell’efficacia. Dal pubblico A proposito di Foucault, quando tu parli di una conoscenza scientifica,e di una sua rappresentazione, quello “scientifica” è un aggettivo che fa perno su tutto. Nel campo delle scienze umane, le proposizioni come: la fine dell’uomo, la scomparsa dell’uomo, la cultura subita dall’uomo, l’uomo che perde ogni funzione protagonista, la rete, la adocrazia ecc. sono distruttive della capacità dell’uomo di sperare nella storia. E allora io che studio l’opera dell’uomo nella storia respingo questa trasformazione di concetti che possono andar bene per la logica scientifica laddove, tu hai pronunciato una sola volta le parole libertà, forse non te ne sei accorto, riferendo la parola al pentimento dello stesso Foucault, il quale si è reso conto dell’assurdità a cui conduceva il suo sistema. Silvano Tagliagambe: Io non posso travolgere il pensiero di Foucault. Tu che operi nel campo delle scienze umane con questo credo sai benissimo che Roland Barthes è arrivato alle medesime conclusioni operando nel campo delle scienze umane. Morena Piccinini Io non rientro assolutamente sul tema credenze perché sono invece molto intrigata dal ragionamento che si faceva rispetto al tema della rete che io vorrei cercare di rappresentare rispetto al termine della partecipazione. E cioè attraverso le forme di comunicazione dell’oggi, la rete e non solo; ognuno di noi ha tanti strumenti, molti di più del passato, certo anche molto meno selezionati, ma che proprio perché non sono molto selezionati dovrebbero dare una maggiore possibilità di partecipare, una maggiore possibilità anche di costruirsi un’idea. Aggiungo, dovrebbero dare anche una maggiore possibilità per poter intervenire su quel rapporto tra scienza e verità, con tutte le implicazione che queste determinano, non dico che questo sia semplice, dico che abbiamo di fronte uno strumento eccezionale. E’ vero che spesso l’informazione alla quale è più facile accedere è preselezionata rispetto a criteri che non sono di qualità. Ma proprio perché uno strumento ampio, può dare la possibilità di selezionare, a questo punto però credo che determini una possibilità aggiuntiva, non a caso si è fatto riferimento alla distinzione tra il muoversi su parametri quantitativi piuttosto che muoversi su parametri qualitativi. Io credo che sia di grosso interesse sul piano della partecipazione e sulla possibilità di intervenire anche sulle innovazioni, se si riesce a definire quali possono essere le modalità di affermazione della percezione di qualità, non a caso lei stesso ha fatto riferimento alla sanità. Credo sia il terreno principe sul quale abbiamo potuto verificare come chi da un lato identificava un’idea di sanità attraverso una serie di parametri quantitativi a cui automaticamente non corrispondevano le esigenze o la percezione di qualità da parte dell’utente. Quindi il problema è come questo strumento di partecipazione viene messo in valore e quindi come, attraverso gli strumenti dell’informazione, attraverso gli strumenti della possibilità di dare voce anche a situazioni isolate che identificano criteri qualitativi diversi rispetto a quelli che sono il vissuto comune. E però questo può determinare un altro problema, quando lei ha citato il problema adocrazia a me è venuto in mente il comitatismo, perché credo che di fianco a questa ricerca di qualità, se non le diamo progressivamente una definizione condivisa, si rischia di avere tante diverse interpretazioni che portano singoli gruppi di soggetti a muoversi non solo su singoli temi di interesse e quindi non solo rispetto a interessi contingenti, ma anche rispetto a interessi di potere. E a questo punto la domanda che io vorrei porre è questa: come di fronte all’evoluzione nella quale ci troviamo possiamo essere in condizione, attraverso l’esercizio di questi nuovi strumenti, di evitare che il comitatismo possa essere interpretato come un fattore vincente rispetto ad una informazione di elementi di qualità, anche se facenti parte a gruppi parziali della società e non invece a gruppi di potere che a quel punto, anche su interessi ridotti, determinano poi un valore generale perché alla fine il rischio è che i gruppi di potere mi determinino un valore generale. Oggi credo che rischiamo molto più del passato di avere da un lato tante opportunità aggiuntive in capo ai singoli, contemporaneamente di avere un uso fortissimo di strumenti altrettanto forti che condizionano ancora di più l’interpretazione stessa anche dell’innovazione e quindi l’uso dell’innovazione stessa. Silvano Tagliagambe Nello schema di McLuhan, le pluralità dei canali ti obbligano a stare attento al fatto che il messaggio sia adatto al tipo di canale che si sceglierà per la comunicazione. Oggi la predominanza di un unico canale, rende questo problema secondario, a conferma del fatto che abbiamo un canale assolutamente predominante rispetto a tutti gli altri e questo è un problema ed un motivo di riflessione. L’altro motivo di riflessione, dice De Kerckhove, è il fatto che stiamo assistendo allo sviluppo di una forma di intelligenza che non è collettiva (come dice Bernard Verrier che insiste molto sul concetto di intelligenza collettiva), ma invece connettiva. E la differenza tra i due termini è rilevante perché, mentre il termine collettivo fa presumere che vi sia una base comune e condivisibile, per cui andremo verso l’idea di una intelligenza a livello mondiale sostenuta in qualche modo da uno sfondo condiviso, l’intelligenza connettiva è un patchwork in cui semplicemente la rete ti dà la possibilità di mettere in comunicazione e di fare interagire modalità di conoscenza e di intelligenza assolutamente eterogenee tra di loro. Queste, non necessariamente devono avere punti comuni, ma ciò nonostante possono interagire perché la rete offre uno spazio di unificazione a livello di canale. E’ evidente che questo può e deve essere letto, in termini di minaccia e di opportunità. C’è un aspetto che credo sia interessante e risiede nella possibilità di studiare, realizzare e promuovere modalità di partecipazione e di coinvolgimento attraverso la rete. Diciamo, utilizzando un fatto ben preciso, che i ragazzi utilizzano ormai la rete e le comunità virtuali come strumento di partecipazione. Gli psicologi e gli psicoanalisti stanno osservando le conseguenze, che sono molto diverse, dei fenomeni di identità multipla e collettiva che normalmente vengono praticate dentro la rete. E’ un fenomeno che si sta diffondendo e che nella partecipazione a comunità virtuali, comporta il fatto che uno stesso individuo molto spesso si presenta con identità del tutto differenti. Se manca la capacità di esercitare un controllo su questo gioco, si può andare incontro a forme di schizofrenia anche gravi, che danno luogo a nuove forme di patologie psicologiche che cominciano ad essere studiate. Se si utilizza invece questo fenomeno in modo controllato, si possono generare capacità creative ed estremamente significative, che sono altrettanto analizzate e studiate. E’evidente che qui il problema è non lasciare il rapporto con la rete ad uso spontaneo, individuale e cercare di farlo rientrare il più possibile all’interno di una comunità che non sia soltanto virtuale. Io non credo che ci sia questa antitesi tra le comunità virtuali. Il problema di fondo secondo me è che la comunità virtuale può nascere e svilupparsi in forme creative e sane se è sorretta dal rifacimento ad una comunità sociale e ad una comunità reale. Questo credo che sia, se vogliamo, la sfida interessante di nuove forme di democrazia, nel senso che le comunità virtuali a cui facevo riferimento prima, sono nate e si sono sviluppate sulla base di un’adesione ad un progetto comune e condiviso che poi si è implementato attraverso modalità comunicative di tipo nuovo. Relativamente al problema della partecipazione e della strutturazione di nuove forme di comunità, credo che la democrazia e la adocrazia, siano due aspetti facilmente coniugabili, che possono fungere da stimolo per la partecipazione democratica tradizionale anche delle modalità e delle forme di adocrazia. Da questo punto di vista la rete offre delle opportunità assolutamente inedite. Credo certo che è molto più semplice mandare in onda un talk-show su Canale 5 o una trasmissione di Vespa e cercare di imporre, attraverso queste, modelli culturali. Giuseppe Bortone Ho seguito la relazione del prof. Tagliagambe e devo dire che le complessità di problemi e anche la grande partecipazione emotiva che questa vostra discussione sta stimolando, mi fanno molto riflettere. Io sono un militante sindacale, ecologista, omosessuale. Il fatto che Foucault fosse pubblicamente un omosessuale ha anche pesato sul mio innamoramento per questo filosofo. In due parole, quando cerco di fare politica con quella sottocultura che è il grandissimo centro sociale “Forte Prenestino” a Roma e per fare un discorso liberatorio sulle droghe si deve andare lì, portare i soldi, le forze della CGIL e attraversare il portone dove il 1° maggio c’è scritto: “1° maggio festa del non lavoro”, Foucault vince, perché un funzionario della CGIL è costretto ad andare fino a Centocelle, entrare lì dentro e accettare quel linguaggio, quell’interruzione, quei gruppi dirigenti, quelle modalità di autorganizzazione. Quando nelle grandi cucine del Forte Prenestino, che il sabato sera dà da mangiare a molte centinaia di persone, dove ci sono le pentole grandi industriali tipo albergo e c’è scritto all’entrata della cucina, bello, grande, pulito “in ordine il posto di lavoro”, secondo me lì Foucault ha perso. Ed aveva perso anche in me qualche anno prima quando mi sono reso conto schematizzando, forse irritando qualcuno, che non solo sul piano epistemologico, ma sicuramente sul piano politico, si tratta di un pensatore anarchico. Un pensatore a cui vorrei fare riferimento in questo mio intervento, è Peter Singer, un grande bioeticista, pensatore liberale vicino al grande pensiero liberale laico anglosassone. In un suo recente libretto, afferma che dopo aver ripreso significativamente l’eredità, il senso del bagaglio culturale e diciamo teoretico che ci lascia Marx, riprendendo da liberale alcuni elementi del suo pensiero, grandi anarchici come Bakunin e Kropotkin avevano azzeccato alcune critiche nei confronti del pensiero di Marx. Per cui per me dire “è un anarchico” non è un insulto. Foucault ci ha insegnato molte cose, ma io in un’organizzazione complessa come questa, ho sperimentato che neanche un giorno ci posso stare sulla base dell’analogia anarchica perché non regge. Di nuovo il relatore insisteva sulla rete e sulle potenzialità democratiche della rete. A me sembra che solo alla fine ha citato il nome di Habermas e a me questo fa venire in mente un po’ tutta l’opera dell’ autore, soprattutto negli ultimi decenni, dalla teoria dell’agire comunicativo in poi. E’ un pensatore per me molto importante, che mi ha dato molto, che supera i limiti anarchici di Foucault e che nello stesso tempo, cerca di essere un pensiero liberale, libertario, democratico, quindi di grande fascino per chi come noi deve tenersi in mezzo (dico noi sindacato, sinistra) fra lo Scilla anarchico e il Cariddi autoritario. Quando dico autoritario, dico anche pensatori tecnocratici che Habermas ha studiato seriamente come Weber per esempio. Tuttavia trovo lì un limite, nel senso che nelle cose che ho letto di Habermas c’è questa idea della comunicazione che secondo me è molto vicina all’idea di reticolarità democratica intersoggettiva. Ma voglio riportare l’attenzione su Singer, un uomo che ha una vocazione di tipo neoilluministico nella quale forse si riconosce anche Habermas e tuttavia un uomo la cui laicità è così pragmatica, anche tragica (penso alla sfida di Singer su temi come l’eutanasia, l’aborto e come finanche l’infanticidio), da dare secondo me un pochino più conto della drammaticità del giorno, della situazione in cui oggigiorno viviamo. Mi viene in mente il fatto che Singer è un pensatore laico, pragmatico, molto vicino alla tradizione delle università americane, inglesi e di quelle australiane, da cui viene. Bene, quando è stato necessario attribuirgli una cattedra, un insegnamento all’università di Princeton, è esploso, ma non perché era comunista o marxista, perché si tratta di un pensatore all’opposto di questi valori. E’ esploso, come accadde per Bertrand Russell. E’ scoppiata una polemica spaventosa per le sue posizioni sull’eutanasia, sull’aborto e per una serie di altri temi molto delicati. Alcuni mecenati dell’università di Princeton che, come tutte le università americane vive parecchio di donazioni private, hanno detto: “se arriva Singer noi ritiriamo la donazione”. Non si tratta di un facile personaggio di sinistra di quelli contro la globalizzazione popolarissimi in tutti i movimenti giovanili e perciò stesso indigesto al potere. Singer è un liberale nel senso più vero del termine. Concludo facendo una domanda, perché domande fino ad ora non ne ho fatte, con il ricordo di un altro pensatore, imparagonabile a Singer nel senso che è un classico nella storia della filosofia, ed è Edmond Dussel morto più di mezzo secolo fa, uno che i problemi epistemologici se li è posti diciamo drammaticamente fino in fondo, con uno sforzo eroico. Egli parlava di un eroismo della ragione, di legare teorie e tecniche ad un livello rispetto al quale successivamente, quasi nessuno è riuscito a muoversi. Con uno sforzo anche di tenere il rapporto con la matrice illuministica, a cui mi sembra nel suo intervento anche Enzo Marzo, tenesse molto; quindi con Cartesio e Kant, rivisitati alla luce dell’esperienza del Novecento. L’ultimo Husserl è comunque un Husserl che guarda alla teoria, al rapporto tra teorie e tecniche. E’ un filosofo della scienza, la conosce, non è un idealista come Croce e Gentile, quindi è molto lontano dai limiti della nostra tradizione filosofica, ma non è neanche un uomo del tecnicismo, del pragmatismo. Il suo sforzo finale è a 80 anni. E’ebreo, perseguitato, cacciato dall’università tedesca, compie uno sforzo straordinario nel momento in cui da filosofo della scienza prova ad andare oltre le tecnocrazie. Il nostro relatore ci parlava del tema dell’intersoggettività, un tema che era molto caro anche a Husserl in alcuni scritti di qualche anno prima della morte; questo tema è posto insieme a quello del polo ecologico della conoscenza e quindi ci sono questi due elementi che lui si sforza di legare. Il polo ecologico è invece il pensiero che comprende l’altro, lo sforzo in rapporto con l’altro. Anche lì è un discorso epistemologico che ha la tensione quasi delle tragedie e mi sembra di sentire Husserl quando dice agli ascoltatori francesi nel 1929 da tedesco, da ebreo tedesco, sono orgoglioso di parlare in quest’aula che si chiama Aula Cartesio della Sorbona e sviluppa appunto questo tema. Marcello Vigli Ho l’impressione che quando effettuiamo queste ricognizioni, poi ci perdiamo per strada alcuni pezzi che abbiamo messo in campo. Se ci si preoccupassimo di andare a vedere gli esiti, le ragioni per cui un messaggio che risale a tanto tempo fa, continua ad avere efficacia e capacità di coinvolgimento, forse riusciremmo meglio a cogliere la dialetticità del tutto. Non è così scontato che quello che il Papa dice oggi sia la stessa cosa che diceva il suo predecessore tanto tempo fa e non è scontato il fatto che 50 anni fa per esempio, forse un po’ meno, qualunque cosa avesse detto fosse passata indifferente in una condizione sociale, politica e culturale radicalmente diversa da oggi. Per cui anche i tentativi di raccogliere la sfida del rapporto tra scienza e verità, devono tener conto che l’una e l’altra delle due parole sono soggette, non tanto e non solo a verifica o a verificazione, ma proprio alla dimensione in cui si trovano ad essere accolte nella cultura nelle diverse epoche storiche e nei diversi momenti e luoghi dello spazio. La seconda osservazione riguardava una conclusione che francamente non mi sarei aspettato, sulla negazione della continuità tra le riforme Berlinguer e la riforma Moratti. Pensare che tra la filosofia della riforma Berlinguer e la filosofia della riforma Moratti ci sia una discontinuità, l’ho trovata una affermazione che mi ha lasciato perplesso e sulla quale vorrei discutere. Anzi, invito gli organizzatori a promuovere, data anche l’urgenza di questo interrogativo, un approfondimento su cosa è successo nel momento in cui, arrivati a poter governare il Ministero della Pubblica Istruzione, la sinistra si è trovata a fare una rapida svolta di 180° rispetto alla tradizione che aveva in qualche modo costruito un suo disegno sulle scuole che faticosamente era riuscita, non dico ad imporre, ma a far convivere con il disegno invece della Democrazia Cristiana. Berlinguer arriva e si propone anche lui come un gladiatore che distrugge il passato e inventa una novità: l’esigenza di essere un novello Gentile quasi che, dal momento in cui la scuola era passata dalla scuola monarchico-fascista a quella della Repubblica, sotto la spinta degli eventi, non fosse stata già radicalmente trasformata. E guarda caso, proprio quella scuola che era stata radicalmente rinnovata, quella dell’obbligo, oggi è la scuola che meglio resiste alla riforma Moratti. Ci rendiamo conto che forse buona parte della strada che la Moratti oggi riesce a percorrere, passa attraverso dei valichi aperti dalla riforma Berlinguer. Adesso non entro nel merito del lume delle mie osservazioni, ma voglio tuttavia cercare di dimostrarvi perché penso che sia necessario farne oggetto di una più approfondita elaborazione e riflessione. Basterebbe pensare al disastro che sta provocando quel duplice processo che Berlinguer ha avviato. Non ovviamente solo la sua idea, la regionalizzazione e la privatizzazione, dando a quella che era un’idea geniale dell’autonomia scolastica, una applicazione di tipo privatistico con la creazione di un dirigente scolastico che di fatto, se non è l’alter ego della figura del gestore della scuola tradizionalmente privata, poco ci manca. E non è un caso che oggi la riforma Moratti sta passando proprio attraverso l’opera in qualche modo estremamente impositiva, di molti di questi dirigenti scolastici che cercano di resistere alla volontà di diversi colleghi. Non di molti, ma di alcuni colleghi docenti di dribblare quei decreti; ma è purtroppo realmente uno perché recentemente, quello emerso e che parla di dirittodovere piuttosto che di obbligo, non è meno eversivo di quello sulla scuola elementare. Per cui, mentre ero rimasto piacevolmente impressionato dall’idea che effettivamente la riforma del ministro Moratti andasse valutata nelle sue dimensioni culturalmente così disastrose nella divisione tra avviamento al lavoro che di fatto c’è, ed i licei, tra cultura e tecnica, torno a ripetere che sarebbe utile che questo seminario assumesse proprio questo problema come suo, magari anche tenendo conto dell’altro aspetto cruciale della laicità, che è il ruolo del professore di religione nella scuola, che non è passato nella precedente legislatura solo perché non c’è stato il tempo, perché noi oggi ci troveremmo con la stessa legge approvata da una maggioranza di centro sinistra. Voce fuori microfono Ecco la mia non è una impostazione soltanto filosofica, perché credo di essere l’unica persona che è passata attraverso le commissioni di tutti e tre i Ministri, nel senso che ho lavorato alla prima e alla seconda commissione Berlinguer, alla commissione De Mauro e alla prima fase della commissione Moratti. Credo che questo sia un aspetto appunto che non potremo affrontare in nessun modo ed esaurire oggi. Se volete si può fare un seminario a parte. Però, sulla base di una partecipazione diretta e concreta e avendo respirato l’aria, posso dire con cognizione di causa, anche se non mi soffermo sulle differenze tra la riforma Berlinguer e l’attuale riforma Moratti, che queste sono molto marcate. Cioè mi sembra di poterlo dire con assoluta tranquillità da partecipe alle cose, tant’è vero che cito soltanto questo: nel momento in cui Claudia Mancina, riferendosi su Italiani Europei, alla prima fase della riforma Moratti (quella che si è conclusa con gli Stati Generali), ha parlato di riforma Berlinguer-Moratti, la destra immediatamente è insorta, ritirando completamente quel documento e proponendo documenti che sono di stile completamente diverso. La discontinuità c’è già nel documento presentato agli Stati Generali e nella legge 53. Voce fuori microfono Forse perché gli Stati Generali sono stati quel fallimento che tutti conosciamo e non perché la destra si sia accorta che non c’era discontinuità. Roberto Polillo Quando insieme agli altri organizzatori abbiamo pensato di aggiungere al tema principale appunto verità e scienza, scienza e verità, l’esperienza di Foucault era fondamentale perché implicitamente, riconosciamo che il suo pensiero e il bagaglio che lui ci ha dato, come interpretazione del mondo, della storia, della scienza e dei saperi in generale, mantiene sicuramente una parte importante di verità per continuare a parlare in questi termini. Quindi il suo pensiero continua ad essere attuale per alcune intuizioni che credo in realtà abbiano avuto dei riscontri proprio nella nostra vita quotidiana e in quello che sta avvenendo adesso sulla scienza, in particolare su tutti gli aspetti del controllo dell’aspetto biologico delle medicine, quindi del controllo su quello che lui definiva il bios, che ci dimostrano quanto il suo pensiero avesse intuito quello che sarebbe accaduto venti anni dopo per l’appunto, dalla sua morte. Allora il professore ci ha dimostrato, credo ala perfezione e magistralmente, il rapporto che Foucault faceva intercorrere tra il potere ed il sapere. Probabilmente, questo era anche un limite della concezione epistemologica della scienza di Foucault perché in realtà, da quello che si può evincere dai suoi libri, il suo pensiero ha attraversato diverse fasi. Sembra quasi che il sapere fosse in un certo senso un effetto collaterale delle politiche di esercizio del potere. Cioè infondo Foucault, ha una concezione del sapere, come fosse un qualcosa che emerge incidentalmente da tutta una serie di pratiche che il potere ha messo in atto per esercitare il suo dominio sulle persone. Quindi in un certo senso, il giudizio di valore che poi Foucault dà sul sapere, non è quello dell’affiancamento dell’uomo alle difficoltà della vita, del controllo della natura utile a governarla. Foucault sembra quasi intendere il potere come una gemmazione occasionale da queste pratiche di controllo che lui delinea nella sua ricerca archeologica dei saperi. Individua, nel passaggio della società dal periodo classico al periodo post-classico e nel passaggio proprio dell’età classica, uno dei momenti di snodo delle modernità e poi della seconda modernità. Quindi un episodio, un periodo delle storie dell’uomo particolarmente degno di significato. In questo, intravede il passaggio della società disciplinare, in cui appunto il Panopticon di Bentham. Poi paradossalmente Bentham era stato una persona che credeva che i giudizi di valore della società, dovessero avere poi una base per lo meno dimostrabile, che il bene della società si potesse misurare, in un certo senso, dal grado di felicità che veniva data ai cittadini. Quindi paradossalmente, una persona che si era posta il bisogno di poter valutare gli effetti della società, poi aveva dato luogo all’ideazione di questa mostruosità del Panopticon (che poi è stato realizzato in tantissimi istituti carcerari e ne abbiamo anche in Italia delle grandissime dimostrazioni), in cui appunto c’era questo rapporto tra il sorvegliato e il sorvegliante (in cui fondamentalmente il sorvegliato capiva di essere costantemente sotto l’occhio dell’osservante e che quindi la figura dell’osservante diventava ad un certo punto pleonastica in quanto l’osservato aveva gia proiettato dentro di se l’esercizio del controllo). Questo tipo di società, era tutta fondata sul bisogno di controllare il corpo umano. Non per nulla uno dei libri più famosi di Foucault, descrive con particolari anche molto minuti, tutte le pratiche dei giudizi capitali che venivano inflitte ai condannati, quindi lo smembramento del corpo, tutti quei rituali assolutamente pazzeschi che rappresentavano l’epifenomeno di questo bisogno che aveva la società di esercitare il controllo proprio sul corpo fisico delle persone. Da qui, tutte quelle pratiche di disciplinamento che poi danno luogo alle grandi istituzioni, ai manicomi, alle prigioni, alle caserme, in cui c’è questo bisogno di razionalizzare e di controllare il corpo. Dirò che da questa impostazione e da questo controllo, la medicina per esempio, trae del nutrimento essenziale. Foucault parla di spazializzazione terziaria delle malattie. Si è riusciti ad inquadrare l’uomo di scienza, il morbo dell’organo malato, che è stata una conquista in quanto nella prima definizione della medicina si faceva una sovrapposizione del mondo botanico, si prendevano quelle che erano le classificazioni delle malattie di tale ordine, quindi il genere, le specie, ecc. ecc., sono state riproposte tranquillamente per quanto riguardava la medicina. Ad un certo punto l’uomo capisce che la malattia invece va a trovare una spazializzazione all’interno del corpo e poi con lo sviluppo della società si cominciano a costituire questi grandi istituti in cui le persone vengono ordinate per patologie, per tutta una serie di criteri ed in base a questi, si comincia a fare la tassonomia delle malattie; la medicina incomincia a diventare una scienza razionale e comunque una scienza in cui c’è un certo tipo di metodo. Bene, in questo tipo di società però Foucault vede il passaggio dell’epoca classica, con il cambiare anche delle condizioni materiali. Quello che interessa a questa entità che è astratta, concreta, è esercitare sempre più un controllo sul bios, cioè sulla struttura del vivente e quindi lo sviluppo da una parte di nuove attività scientifiche, il controllo della popolazione, la demografia, che nasceva dal fatto che iniziavano a controllare anche le carestie in cui c’era un’organizzazione della produzione alimentare. Esistevano degli strumenti in cui lo sviluppo di una popolazione poteva essere pianificato anche ovviamente a fini industriali (la fabbrica fordista), quindi la necessità che si formasse una popolazione di persone attive. Questo controllo sul bios diventa pian piano il controllo dominante della società; Ciò lo vediamo drammaticamente nella medicina e credo sia uno dei messaggi più forti che Foucault ci dà. Ora, essendo io un medico, ritengo che sicuramente da quegli studi si trarranno delle informazioni positive. La componente genetica ha un’interazione molto forte con l’ambiente e questa è stata una delle recenti conquiste attuate dalla scienza. Noi non possiamo pensare soltanto al patrimonio genetico, ma dobbiamo sempre vedere l’impatto che determina sul patrimonio genetico l’ambiente esterno. Credo che l’immunologia l’ha dimostrato chiaramente. Noi possiamo sviluppare un’attività e produrre difese immunitarie o dall’altra parte, sviluppare delle difese, delle malattie allergologiche, in funzione del contesto microbico e dell’abitudine della persona in cui viene a vivere. Bisogna quindi capire. Questo però è emblematico. Noi vediamo in realtà che la grande sfida che c’è adesso, le corporated e tutti i grandi gruppi farmaco-industriali, è quella sul controllo del materiale e del bios. E’ anche emblematico che finalmente le persone si comincino a ribellare. Pochi giorni fa ho letto sul Corriere della Sera, che finalmente alcune persone islandesi hanno fatto ricorso alla Corte Suprema e credo che abbiano vinto e si sono rifiutati di dare il loro patrimonio genetico. Non è una loro esclusiva proprietà, come ci insegna Rodotà, perché ci sono delle ripercussioni. Il patrimonio genetico è legato ad una catena di persone e quindi avere delle informazioni sul patrimonio del singolo potrebbe essere fondamentale anche per gli antecedenti o per quelli che nascono da quelle persone. Questo è un fatto sicuramente importante ed io credo che questa intuizione di Foucault sia stata particolarmente felice; egli ha compreso che in realtà quelle pratiche di controllo, non erano assolutamente diminuite ma avevano fondamentalmente cambiato una tipologia e ora ciò che interessa al potere in sé è il controllo sul materiale del vivente. Credo che questo sia davanti agli occhi di tutti. Quali saranno in realtà le grandi sfide dell’equità nella medicina e nell’accesso? Si ha la possibilità di avere delle cure che sono sempre più personalizzate e che vanno ad indagare proprio nella manipolazione del singolo, del proprio patrimonio genetico o su tutta una serie di pratiche di inserimento nel futuro di pezzetti di geni che potranno colmare delle lacune biologiche, superare delle malattie ereditarie, ecc. Andiamo verso una medicina personalizzata che però diventa sempre più costosa. Questo ci pone di nuovo dei problemi di equità perché chi avrà diritto a queste terapie? Non è che forse andremo a stratificare la società tra persone che diventeranno accettori di organi in sostituzione e coloro che invece venderanno i loro organi per fare in modo che gli altri stiano bene, come già si sta verificando? Questo credo sia uno dei primi aspetti che vanno assolutamente rimarcati e che mantengono, a mio giudizio, il pensiero di Foucault nella sua pienezza. Il secondo aspetto è quello probabilmente del potere, cioè di quel meccanismo, di quella microfisica del potere, alla quale Foucault ha finalmente tolto tutta una serie di miti che noi uomini di sinistra abbiamo avuto e cioè che in realtà esistesse un potere buono ed un potere cattivo, che il potere cattivo fosse quello del capitalismo e che il potere buono fosse quello del socialismo. Noi abbiamo creduto fermamente in questi pensieri per anni. Ci siamo accorti poi che anche i regimi socialisti hanno prodotto delle mostruosità talmente enormi che rimandavano al problema del potere. Quando intervistato sulla microfisica del potere gli è stato domandato: “ma perché l’Unione Sovietica è diventata un regime dittatoriale?”. Egli ha risposto: “perché fondamentalmente la gestione dello Stato era stata lasciata ai vecchi funzionari dell’epoca zarista e questi semplicemente avevano riprodotto quegli schemi di relazione che c’erano prima”. Quindi in realtà era stato cambiato tutto per non cambiare niente. Ciò è importante, è un’altra cosa che vediamo nelle nostre pratiche di operatori quando parliamo di psichiatria ecc. Il problema del potere che si va a creare nei rapporti familiari, tra il padre e il figlio, tra il marito e la moglie, va sicuramente rimarcato e ci consente di capire tante cose. Nelle nostre organizzazioni, in cui molte volte come tutti sappiamo benissimo, (ma questo in generale per tutte le aggregazioni umane), gli scontri non sono tanto sulla sostanza e sul contenuto, quanto proprio sugli aspetti relazionali, su chi poi deve avere in un certo senso la preminenza. E credo che questo sia un altro problema che ci fa capire che poi la democrazia passa anche attraverso la consapevolezza che noi portiamo al nostro interno tutta una serie di pulsioni. Nietzsche è stato un po’ l’ispiratore di tutto questo pensiero. Infine sui problemi un po’ più in generale della società, il pensiero sociologico è molto chiaro. Dai libri dei grandi sociologi inglesi, si evince che la società moderna è profondamente diversa da quella passata. Da una parte è una società che diventa sempre più detradizionalizzata; le vecchie reti di relazioni si sono interrotte, le strutture familiari non esistono più. Esistono delle famiglie che sono di monocomponenti e noi vediamo nel nostro lavoro quotidiano quello che ciò comporta per esempio sugli anziani. Nelle vecchie famiglie erano sostenuti da 15-20 persone che ruotavano intorno alla famiglia estesa. Ora troviamo l’anziano che ha come parente una persona sola, con tutti i problemi che ciò comporta. C’è stata anche un’ usura di alcuni istituti, per esempio il matrimonio. Credo che Piggen, abbia studiato abbondantemente questi nuovi rapporti familiari, ove il matrimonio diventa un contratto d’affari. In America, ci sono stati anche dei recenti film commedie, in cui il matrimonio diventa un patto commerciale con tanto di clausole di risoluzione del contratto. Probabilmente tra un po’ si arriverà a stipulare contratti di durata quinquennale, rinnovabili, altrimenti tutti saranno liberi. Questa trasformazione comporta che la società è fondamentalmente cambiata ed anche l’identità del singolo. Quest’ultima una volta era legata a delle strutture familiari, relazionali (qui credo che lo strutturalismo ci può aiutare). Beck fa il caso della Germania dove i nati da genitori tedeschi sono una minoranza perché, tutti coloro che si sposano, sono nati in luoghi diversi, hanno studiato in un’altra nazione o lavorato fuori. Bauman, che è un autore particolarmente interessante e estremamente chiaro, sostiene che molte volte l’identità diventa un peso. Nel mondo della flessibilità, in cui nessuna persona può più fare da quando ha vent’anni fino a quando va in pensione lo stesso lavoro, avere un identità troppo rigida diventa un limite, perché in realtà quello che ormai viene richiesto alla persona per muoversi nella società globale, è avere un’identità che in un certo senso sia molteplice, multipla e adattabile. Questo è sicuramente un altro tema di riflessione che crea dei problemi. Come è ormai evidente che la politica ha ceduto un po’ il posto a quella che viene definita la subpolitica. Ma credo che questo non vada visto sempre con disprezzo perché in realtà le grandi costruzioni che noi abbiamo ereditato nel passato, hanno prodotto anche delle grandi mostruosità. Non solo hanno generato delle società oppressive, ma anche una società in cui per esempio le disuguaglianze, lungi dall’essere diminuite, sono aumentate; in cui la ripartizione del reddito non solo tra stati poveri e stati ricchi, ma anche all’interno degli stati ricchi, è estremamente più accentuata rispetto a quella che vi era venti-trenta anni fa. Dobbiamo abbandonare questa idea delle grandi trasformazioni delle politiche che risolvono i problemi. Tali subpolitiche, sono composte di persone che si mettono insieme e cercano di risolvere dei problemi che li riguardano direttamente e che servono per migliorare la vita: trovare il posto sotto casa, avere il passaggio, avere la possibilità per i portatori di handicap di usufruire delle corsie preferenziali e di comunicare nella vita. Tutti questi aspetti che molte volte consideriamo secondari, marginali e residuali, sono invece aspetti particolarmente interessanti perché riportano poi le politiche a quella che è la vera essenza. Per concludere, dico alcune cose sulla rete. Tutti quelli che hanno a che fare con il progresso scientifico da semplici fruitori, da semplici lettori (io stesso sono un lettore di riviste di medicina e mi occupo in particolare di allergologia e ho la fortuna che questa, essendo apparentata con l’immunologia è una scienza in cui la sperimentazione e lo studio proprio anche della ricerca di base, ha una funzione importantissima perché è lo studio dei meccanismi biologici più fini, quelli molecolari), possono trovare sulla rete delle informazioni che rendono pubblico quello che viene fatto. Ciò è sicuramente un fatto il cui valore nessuno può disconoscere. Credo che la rete abbia al proprio interno delle capacità, delle potenzialità di democratizzazione e di diffusione delle informazioni che sono una grande scoperta. Le ricerche sui farmaci, sono fondamentalmente finanziate dalle grandi industrie farmaceutiche. Quali sono gli articoli che possono accedere alla rete tramite le grandi riviste che sono quelle che poi danno il consenso? Sono quelle sperimentazioni che hanno dato un vantaggio al farmaco che la casa farmaceutica sta sperimentando. Se l’industria farmaceutica dà dei soldi per una pubblicazione per sperimentare un proprio farmaco, si aspetta come minimo che quel farmaco sia superiore rispetto ad un altro. Se è inferiore che cosa succede? Semplicemente che quella ricerca non andrà sulle riviste. Non sarà più pubblicata perché l’azienda non ne ha più interesse. E’ chiaro che si crea il problema che noi sulla rete avremo una serie di lavori, di pubblicazioni, di verità scientifiche, con tutti i limiti che hanno le verità scientifiche. Voce fuori microfono Prima, con qualche intemperanza, ho cercato di intervenire, perché sono convinto che la positività del dialogo è legata al fatto che esso sia serrato. Se il dialogo non è serrato, si corre il rischio di assistere ad una successione di monologhi, ciascuno dei quali può essere preso a se. Si perde quel carattere di studio, di risposte, di adeguamento alle singole situazioni, allo stato dello svolgersi proprio di una discussione. E quindi il discorso rimane privo assolutamente di qualunque significato di carattere naturale, che non sia di carattere settoriale. Volevo intervenire richiamando l’attenzione sul fatto che se la tecnologia appartiene alla scienza, l’uso della tecnologia appartiene alla cultura. Sono fatti radicalmente diversi. Voce fuori microfono Ritengo che un eccesso di tecnologia che non sia dominato da una capacità culturale, da un’autonomia culturale, può fare degli uomini una specie di pollo di batteria. L’ incorporazione dell’uomo in un sistema di informazione, che non è un’informazione affidata all’intelligenza umana, ma soltanto alle sue capacità di memorizzazione, è qualche cosa che distrugge le sue capacità critiche e la capacità di essere se stesso. E questo è il senso del discorso. Capisco che se ci si occupa di farmacologia può essere estremamente interessante sapere che essa tocca fino ad un certo punto quella che è la coscienza intrinseca degli uomini. Quando si parla di politica, di religione, di filosofia, la capacità dell’uomo di reagire e di acquisire il possesso critico di se è indispensabile. Questo senso critico di sé è distrutto dal sistema della rete, perché esso privilegia a tal punto il momento quantitativo da eliminare il senso delle dialetticità del dialogo serrato. C’è una specie di codice sommario che implica la necessità di un adeguamento delle nostre lingue, ciascuna delle quali ha una sua caratterizzazione propria, una specie di lingua franca, comune a tutti, una sorta di esperanto che non ha né letteratura, né logica, né grammatica, né sintassi, niente, soltanto semplificazione. L’incontro del mondo semplifica i rapporto umani, fino al punto di ridurci ad essere puramente e semplicemente delle particelle di un tutto. Voce fuori microfono Mi limiterò a fare qualche domanda anche se poi forse non c’è il tempo per discuterne. Tra i tanti problemi sollevati dal professore nella sua relazione introduttiva, cercando di portarli sul tema delle laicità più o meno come io la vedo, ne ho trovato alcuni particolarmente interessanti. Per esempio: uno dei problemi della laicità che attiene all’aspetto delle decisioni pubbliche, è quello di creare un percorso decisionale in grado di accogliere una condivisione non costrittiva dei valori, logiche e obiettivi diversi in un rapporto di verità e convincimento, non verità, ma convincimento. Mi domando appunto qual’ è la proposta dell’epistemologia attuale per una soluzione condivisa non costrittiva, partendo dal fatto che come prima ha sottolineato il Prof. Bellini, ci sono due antropologie diverse potenzialmente inconciliabili, che si rifanno ad un discorso religioso da un lato e ad un discorso razionale dall’altro. E’ il caso della vita in generale, della procreazione assistita o dell’aborto, che sono due delle questioni attualmente in discussione. Una mia impressione e spero di essere smentito, è che si parlava anche di sistemi di organizzazione dal basso, delle valutazioni di qualità e dall’altro lato, del superamento delle quantità come elemento di valutazione o di gerarchizzazione. Però in un sistema democratico di decisione, si tende appunto a sommare i numeri. Mi domando come può fare per esempio, con gli accessi, un Google. Mi domando in una metodologia democratica di valutazione, quanto resti della qualità e intrinsecamente a mio avviso, è soggettiva e mantiene un aspetto di gerarchia elitaria, di categoria, di gruppo, assolutamente marcato. E con questo le cedo la parola. Silvano Tagliagambe Ho apprezzato molto, il tentativo di separare la genealogia del potere dal concetto di organizzazione, che proponeva Giuseppe Bortone. L’esempio che lui ha fatto delle cucine secondo me è sintomatico da questo punto di vista. Credo sia particolarmente rilevante perché nel’45 Weaver, ha proposto delle prime forme di emersione della complessità e dei sistemi complessi, in un articolo dell’American Scientist senza ridurlo nel suo opposto. L’ipersemplificazione è l’organizzazione. Questo è un aspetto interessante perché quella non era solo un’intuizione ma una trattazione desueta per ragioni storiche e filosofiche ben precise. Vi sono dei saggi che tra il 1918 e il 1923 in modo del tutto originale e per allora assolutamente inedito (tanto che non furono assolutamente capiti), Bogdanov dedica alla scienza dell’organizzazione che chiama tectologia. È uscita nel’23, una sua raccolta di saggi chiamata “Tectologia o scienze dell’osservazione”, che naturalmente passa del tutto inosservata, anche perché Bogdanov è stato fatto oggetto delle critiche feroci di Lenin (“materialismo o empiriocriticismo”) e quindi il suo pensiero non era particolarmente popolare. Bogdanov era un medico e muore sperimentando su se stesso un vaccino. Alla luce dei discorsi che abbiamo fatto è importante distinguere tra potere e organizzazione perché trovo che uno dei limiti del pensiero di Foucault, visto che adesso siamo in fase di valutazione, pur con tanti meriti che giustamente gli sono stati riconosciuti, sia stato quello di ritenere che ogni forma di relazione di organizzazione, sia una relazione di potere. Se fosse così, non avremmo scampo. Bogdanov diceva invece che l’unico modo che l’uomo ha di affrontare la complessità, è dando vita alle forme che chiamava di complessità organizzante e che l’unica risposta possibile che può essere data ai problemi che la scienza e la tecnologia comunicava ed introduceva, è appunto quella di creare dei soggetti collettivi organizzati. Bogdanov insiste a proposito di questo, sul fatto che la nozione di verità deve subentrare alla nozione di efficacia nell’organizzazione. La sua non era un’idea mutuata dalle organizzazioni terroristiche anzi, Bogdanov era critico sulle modalità di organizzazione terroristica del lavoro. Ha proposto Giuliano Procacci in un suo saggio, che invece Stalin era un fanatico delle organizzazioni terroristiche del lavoro e riprendeva quasi letteralmente metafore e forme di schemi mentali che erano proprio gli stessi che parallelamente il terrorismo stava diffondendo negli Stati Uniti. Ecco, credo che l’esempio della cucina, per riprenderlo, sia interessante perché ci dice che le risposte a certi problemi possono consistere nell’organizzazione e che questa non è necessariamente una forma di potere. Ovviamente le organizzazioni possono trasformarsi ed essere forma di potere. Voce fuori microfono Il potere, specialmente se parliamo di microfisica del potere, è scambievole. Il Principe incarica il sapiente di dargli un parere. In quel momento è il sapiente che esercita un potere sul principe. In una famiglia, un padre severo esercita il potere sulla figlia, la figlia anoressica esercita un potere sul padre. Silvano Tagliagambe La fenomenologia di Hegel, ci dice che la relazione di potere è bilaterale, la relazione servopadrone, per esempio. La cosa importante da questo punto di vista è che le forme di organizzazione, possono essere simmetriche e bilaterali, non necessariamente asimmetriche. Cioè quello che Bogdanov mostra nella tecnologia, è che esistono certamente forme di relazione e di organizzazione asimmetrica che possiamo identificare con forme di esercizio del potere, ma che esistono anche forme di organizzazione che sono bilaterali, paritetiche e che quindi non incorporano necessariamente relazioni di potere. Questo è un aspetto importante ed interessante, come lo è il riferimento a Husserl e al polo ecologico della conoscenza, perché da lì è nata un’interpretazione della percezione di carattere ecologico, quella di Gibson, tanto per intenderci. Essa è interessante da questo punto di vista, in quanto stabilisce un rapporto bilaterale con la natura. Cioè interpretare un fenomeno naturale come risorsa, questa è la grande carta che gioca la concezione ecologica della percezione della conoscenza. Lo stesso oggetto materiale nel momento in cui viene visto e percepito non come oggetto materiale nella sua intrinsecità, ma come risorsa, viene immediatamente rapportato in forma biologica alla mia struttura conoscitiva e alle mie esigenze. Per cui, interpretarlo in chiave di risorsa, sta a significare che io lo rapporto a me e lo lego ad una visione dialogica, in cui la natura entra in un rapporto dialogico con me e quindi diventa una risorsa per me, nel momento in cui io la so valorizzare e non semplicemente consumare. Nello stesso tempo, la rapporto a quella che è la mia struttura percettiva e cognitiva. Questo riferimento a Husserl, al polo ecologico della conoscenza, tutto quello che ne può derivare in termini di non sfruttamento dell’ambiente naturale, serve alla formazione di una visione appunto co-evolutiva, per cui l’ambiente naturale se viene sprecato e consumato in modo irrazionale, immediatamente brucia le possibilità evolutive dello stesso soggetto vivente. Qui si aprono temi estremamente importanti, come quello di stabilire una differenza concettuale tra potere ed organizzazione. Questo secondo me è assolutamente fondamentale perché altrimenti ricadiamo in una visione per cui ogni forma di organizzazione è esercizio di potere. Questo non è assolutamente vero, guai se fosse così. L’aspetto fondamentale di Foucault è che egli, si iscrive nella epistemologia kantiana, cioè nell’idea che sostanzialmente noi abbiamo delle strutture che ci condizionano. La questione di fatto, diceva Kant, deve essere trasformata in questione di diritto. Non ha senso chiedersi che cosa sono i fatti, ma ha senso chiedersi se io sono in diritto e nella possibilità di conoscere, sulla base della mia struttura cognitiva e percettiva. Ecco il problema di fondo. Kant pensava a una struttura percettiva e cognitiva fissata ontologicamente, mentre il merito di Foucault da questo punto di vista, è di storicizzare queste forme, questi sistemi e di dire sostanzialmente quello che poi dimostra bene nella sua opera di carattere storico, cioè che queste forme si evolvono, si modificano. Poi sulla scuola, mi piacerebbe particolarmente discutere, perché sono molto appassionato di questi temi e quindi, tutti i problemi che poneva Polillo, sono temi particolarmente interessanti. Voglio però fare un’annotazione, tra le tante che potrebbero essere fatte. C’è ne é una in particolare. E’ vero che noi dobbiamo ripensare il concetto di identità e devo dire che da questo punto di vista la trattazione di Bauman per quanto interessante, va riletta e interpretata sulla base di quello che secondo me è il testo chiave. Non per fare una citazione, ma un riferimento importante. E’ un testo di un filosofo inglese che si chiama Parfit che ha scritto “Ragioni e persone” (Reasons and persons) in cui, discutendo il problema dell’utilitarismo, si chiede se si siano mai stati rapportati questi problemi, al concetto di identità ed alla comprensione di che cosa è l’identità. Egli afferma: abbiamo due concezioni di identità: una è la concezione come proprietà intrinseca che un soggetto ha e che come tale è immodificabile, perché è la connotazione della sua personalità ed è l’idea religiosa, cattolica, di tutte le religioni, basata sul concetto di anima o di un’essenza privilegiata che in qualche modo fa da supporto all’identità; l’altra invece è la concezione, che io prediligo, dell’identità relazionale che apparenta il soggetto individuale al soggetto collettivo. Per me soggetto individuale è soggetto collettivo, fatto di reti fitte di relazioni che intrattiene con gli altri e che, di volta in volta, definiscono la sua identità. La scommessa dell’utilitarismo è tutt’altro da dare per scontata. Sotto questo aspetto, una cosa particolarmente interessante poi, è il problema del conflitto dei ricercatori. Silvano Tagliagambe Parlando di dialogo serrato e di tecnologia, la domanda che vorrei porre, a proposito di discontinuità tipiche della comunicazione scritta, della comunicazione epistolare. L’e-mail è un progresso o un regresso? Voce fuori microfono Io faccio un mestiere che non richiede l’uso delle e-mail. Faccio questo mestiere e penso di farlo abbastanza bene. Ho avuto, seppure blande, soddisfazioni. L’e-mail avrebbe un senso se si parlasse la stessa lingua, se ci si guardasse negli occhi, se non si avessero degli interessi sottostanti e principalmente se uno capisse quello che l’altro dice. Ma soprattutto queste sono condizioni che richiedono un rapporto di immediatezza assoluta, di simpatia, empatia, ed esso non può avvenire attraverso le e-mail. Non abbiamo più la nostra calligrafia. Noi abbiniamo il macrosegno ma non dominiamo i microsegni e attraverso i microsegni arriviamo ai macrosegni e quindi alle personalità. Tutto questo non c’è più perché si utilizza un linguaggio standardizzato che non è il nostro. Stiamo attenti alle e-mail perché queste sono come il telefonino che riduce il linguaggio al minimo indispensabile, alla stupidità. Stiamo attenti a non cadere nella stupidità, l’email è uno spaventoso strumento di semplificazione. Voce fuori microfono Forse gli SMS, ma l’e-mail è una lettera ordinaria. Silvano Tagliagambe Vengo all’ultima domanda che si aggancia ad alcune delle cose che stavo dicendo: come si arriva alle condivisione? Il passaggio dall’intersoggettività alla condivisione. La logica tradizionalmente, ha predicato l’esistenza di un punto di vista assoluto sul quale i diversi soggetti dovevano convergere, proprio sottoforma di costrizione all’assenso. Se vado a vedere le attuali ricerche di logica, almeno una parte significativa di queste, sono sistemi multiagenti in cui si da per scontato che sistemi e agenti che partono da orientamenti, valori, obiettivi differenti, possono anche non convergere su una posizione comune. E quindi l’ideale della convergenza su un unico punto di vista che è la logica predicare, è un ideale ormai obsoleto e da abbandonare. Quello che però possiamo fare se vogliamo salvare un tessuto di razionalità, è studiare attraverso il dialogo e l’interazione qual è lo sfondo condiviso che si riesce a fare emergere e costruire, non dalla costrizione all’assenso. I sistemi multiagenti sono sistemi logici che ti dicono su quali posizioni si può convergere e su quali non convergere, partendo da determinati punti di vista. Voce fuori microfono La condivisione è l’annullamento della dialetticità del pensiero. Commentando e criticando lo schema classico della comunicazione, quello di Jacobson (canale, messaggio, mittente, destinatario e via dicendo), Juri Lotman, le cui riflessioni sul dialogo secondo me, andrebbero assolutamente riprese e sviluppate, dice che questo schema, dimentica un fatto ben preciso, che la comunicazione è sempre traduzione dalla lingua del mittente alla lingua del destinatario, anche se la lingua naturale è la medesima. Quello che Lotman dice di interessante e di nuovo è questo: la comunicazione ha il massimo successo possibile nel momento in cui uno dei due soggetti implicati o tutti e due, costruiscono un modello dell’interlocutore ricalcato sulla base della loro immagine e del rapporto comunicativo. Questo cosa significa? Nel rapporto comunicativo ciò che riesce meglio è quello che appartiene alla fascia di condivisione già acquisita tra mittente e destinatario e quello che rimane fuori è la parte più originale, quella che il destinatario non riesce a tradurre nel proprio modello di interlocutore. Da questo punto di vista credo che il problema del dialogo, della comunicazione come essenza dialogica, debba essere ripensato in questi termini. Per non dare l’idea che io sia un fanatico, l’ultimo libro che ho scritto si intitola “il sogno di Dostoevskij” ed è il racconto di un’avventura ambientata nella Russia del 1800. Negli anni tra il 1860 e il 1870 comincia ad apparire un’ immagine dell’uomo basata su quella che era chiamata la logica a base riflessa. Questa immagine è costruita da uno scienziato che si chiama Secenov e che scrive nel 1863 un’ opera intitolata “Riflessi encefalici”, che rappresenta un tentativo di ridurre la psicologia alle sue basi fisiologiche. Tale opera, interpreta l’uomo come il risultato di meccanismi interni che non gli lasciano nessuno spazio di libertà. In questo libro cerco di raccontare, a proposito della parsimonia con cui ho usato il termine libertà oggi , che come risposte a questi temi, Dostoevskij scrive due romanzi con uno. Il primo è “ Memorie del sottosuolo”, pubblicato un anno dopo la pubblicazione di “Riflessi encefalici” ed il secondo è “ Delitto e castigo”. Nell’epistolare di Dostoevskij troviamo delle lettere in cui l’autore dice che questi romanzi sono stati scritti come sfida alle prospettive della logica e base riflessa di cui tra l’altro, in “Memorie del sottosuolo” dà un esempio. Nietzsche considera giustamente Dostoevskij, il vero inventore dell’inconscio perché le “Memorie del sottosuolo”, sono la descrizione di quello che Freud chiama l’inconscio. Silvano TagliaGambe Rispetto al rapporto qualità-quantità e metodologia democratica di valutazione, credo che il riferimento alla qualità come criterio di valutazione non c’entra. I criteri della qualità totale sono stati pensati come tentativo di riassorbire la stessa, dentro standard di valutazione quantitativi. La cosa più bella che abbia mai letto sulla qualità e sulla dialettica qualità-quantità, è il libro di Piercing, “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”. Se si vuol capire che cos’è la qualità, perché questa non può essere riassorbita all’interno di parametri che direttamente o indirettamente siano quantitativi, si deve leggere questo libro, che poi è un testo che rimanda all’inconscio; è un libro che spiega non tanto il viaggio con la motocicletta attraverso l’America, ma il cammino di un individuo che si ammala di schizofrenia e che trova soltanto alla fine, una forma di ricomposizione. Comunque lì secondo me, ci sono le più belle definizioni di qualità che uno possa trovare in assoluto circa i parametri di valutazione. Non a caso la sua ricerca ossessiva della qualità porta alla schizofrenia.