R. Marchesini - S. Tonutti, Manuale di zooantropologia

S&F_n. 1 (2009) R. Marchesini ‐ S. Tonutti, Manuale di zooantropologia Meltemi, Roma 2007, pp. 263, € 19,50 Humanitas‐Animalitas: è forse questa la principale antinomia concettuale sulla quale l’umanesimo ha fondato la propria narrazione antropocentrica. L’umanizzazione dell’umano ha avuto luogo attraverso un graduale processo di separazione e differenziazione dell’anthropos dall’alterità animale. Il testo di Marchesini e Tonutti analizza le categorie e i pregiudizi che intessono la nostra tradizione: l’abisso che separa da sempre natura e cultura, animalità e umanità, la differenza ontologica che intercorre fra l’uomo e gli animali non umani, la discontinuità che un’intera tradizione ha intravisto e sancito tra il muto e deterministico orizzonte della natura e la libertà dell’ente dotato di parola, dell’umano come fabbricatore di simboli. Una differenza ontologica che, secondo gli autori, a partire da Darwin non trova alcun riscontro nelle scienze, fondandosi meramente sul «piano delle essenze» (p. 15). La zooantropologia, disciplina sorta durante la metà degli anni Ottanta, è «scienza descrittiva dell’interazione uomo‐animale» (p. 171), che, attraverso l’ausilio di discipline come l’etologia e l’antropologia, fa dell’antropo‐decentrismo il suo obiettivo, mettendo radicalmente in discussione i postulati fondanti la tradizione umanistica. Il testo illumina il lettore sul cammino che l’uomo ha percorso per stabilire il suo dominio sull’ente: la storia dell’ominazione si configura come una storia zoopoietica e zoomimetica, nell’ambito della quale l’animale si staglia come archetipo di ogni produzione umana, poiché l’ominide ne imita gli schemi comportamentali che gli consentono di sopravvivere in un ambiente ostile. Altra faccia dello specchio, su cui l’uomo proietta le proprie istanze, paure e bisogni, esso viene tuttavia gradualmente e definitivamente estromesso dalla dimensione di sovranità che l’ente dotato di linguaggio va costruendosi: diviene specchio oscuro, orizzonte del negativo, spazio della necessità da trascendere e allontanare, affinché l’umano emerga nella purezza di un isolamento incontaminato. L’uomo è allora sin dall’origine differente, mentre l’animale viene 135
RECENSIONI&REPORTS recensione relegato nella regione dell’indistinto. L’enorme varietà di configurazioni attraverso le quali l’animalità emerge viene racchiusa e limitata entro le anguste maglie di una sola parola: “animale”. Parola che, come sottolineato anche da Derrida, designa la lucertola quanto il cane. Come ogni forma di essenzialismo, questa narrazione rappresenta di fatto una «strategia di potere, perché reifica le differenze in tipi naturali, e attraverso questa “naturalità” attribuita li rende tabù di discussione, li ancora a una dimensione che sta al di sopra delle variazioni» (p. 61). Le scienze, di fatto, mettono in crisi questi postulati: l’etologia stabilisce «elementi di continuità fra il comportamento animale e quello umano» (p. 80); l’etologia umana «indaga sui fondamenti biologici di alcuni comportamenti umani, senza tuttavia incorrere nella trappola determinista» (p. 82); infine la zooantropologia inaugura un «concetto di cultura come ibridazione» (p. 83). Ciò vuol dire che l’umano e i suoi inediti manufatti culturali sono il frutto di un processo di contaminazione con l’alterità animale, laddove questa non è più interpretata, sulla scorta del modello umanistico, come mero oggetto passivo di manipolazione, bensì come partner attivo nell’ambito di una relazione di co‐produzione. Allora viene meno ogni pretesa distintiva, autarchica e separativa dell’uomo rispetto al resto dell’ente, poiché l’uomo è vincolato alla realtà animale «non solo perché darwinianamente legato da una condivisione di ascendenza, ma perché piegato sulle alterità animali nella costituzione stessa dei suoi predicati» (p. 167). Nondimeno gli autori sottolineano che tali traguardi non conducono affatto a una sorta di riduzionismo che, equiparando l’umano al mondo animale, lo riduca al proprio retaggio biologico, tutt’altro: la ricchezza della dimensione uomo è tale proprio in virtù della “referenzialità”, in virtù di un progressivo processo di «assunzione di qualità non umane» (p. 96), che comporta un incremento nell’uomo del «peso ontologico delle alterità» (p. 95). L’antropo‐decentrismo, così come il superamento dell’umanesimo che gli autori tentano di promuovere, non è perciò una deminutio dell’umano, bensì un «allargamento di soglia che non determina un aumento di dominio sul mondo ma un aumento di coniugazione al mondo» (p. 167). Il Pluriverso delineato dagli autori è caratterizzato da una «molteplicità di centri ontici» (p. 130) e tenta di superare una volta per tutte la dialettica, tipicamente metafisica, della centralità di un soggetto legiferante che impone le proprie regole a un mondo ridotto a oggetto. FABIANA GAMBARDELLA 136