Pillole di Letteratura Italiana
a cura del prof. C. Baldi
n.7
> ERMETISMO E DINTORNI
Il termine Ermetismo viene usato dalla critica letteraria per sottolineare un implicito carattere
di oscurità e indecifrabilità che caratterizzò una corrente poetica che raggiunse il suo apice
nell’ambiente fiorentino tra gli anni Trenta e Quaranta, in un clima di intimidazione e
repressione spietata di ogni forma di pensiero critico e di cultura non allineata con la retorica
fascista. I poeti ermetici manifestarono la tendenza alla fuga dall’impegno e dalla realtà
chiudendosi nel proprio universo interiore, alla ricerca delle radici profonde delle proprie
inquietudini. La poesia doveva essere “pura”, cioè libera da condizionamenti etici e politici o da
fini educativi. Sul piano stilistico e formale si opposero sia alla magniloquenza e alla retorica
dannunziana che all’ironia discorsiva di stampo decadente e crepuscolare, proponendo uno
stile essenziale, spesso oscuro, impenetrabile (appunto ermetico) e una lingua fortemente
connotata simbolicamente mediante l’uso dell’analogia: le parole si fanno evocative di stati
d’animo, non sono più uno strumento manipolabile di comunicazione di concetti; la parola
viene così spogliata dei riferimenti alla realtà e all’esperienza per rimandare a una dimensione
misterica e intimistica. Il tono è sommesso e raccolto, ma il linguaggio è raffinato e
allusivo. A questo movimento aderirono, per una fase più o meno lunga della loro produzione,
poeti quali Alfonso Gatto (1909-76), Vittorio Sereni (1913-83), Sergio Solmi (1899-1981) e
Mario Luzi (1914-2005). In particolar modo il poeta siciliano Salvatore Quasimodo (1901-68),
vincitore del Nobel per la Letteratura nel 1959, ne rappresentò la voce più autorevole. Nelle
liriche inserite nella prima raccolta “Acque e terre” (1930), come ad esempio “Ed è subito
sera”, lo stile, pur risentendo degli studi classici, mostra i caratteri peculiari di questa fase
ermetica: la sintassi è spezzata, spesso priva di nessi logici, frequente è l’uso della analogia e
delle costruzioni ellittiche in cui la parola si carica di significati oscuri. Dopo l’esperienza della
Seconda guerra mondiale la poesia di Quasimodo riscopre una funzione civile, entrando in una
seconda fase, che potremmo definire neorealistica: la forma si fa più comunicativa e sciolta, i
toni intimistici vengono abbandonati a favore di una poesia che denuncia più esplicitamente i
mali sociali. Anche Alfonso Gatto, come Quasimodo, dopo una iniziale adesione nelle forme
all’ermetismo, se ne distaccò dal secondo dopoguerra, abbracciando l’impegno politico e civile
e concentrandosi, infine, sul tema della morte.
Punto di riferimento per la corrente dell’Ermetismo fu l’opera di Giuseppe Ungaretti (18881970) ed Eugenio Montale (1896-1981), che già da più di un decennio avevano affrontato i
temi del male di vivere, della memoria e della fugacità del tempo, della solitudine e
dell’incomunicabilità dell’uomo contemporaneo anche attraverso innovazioni formali e
stilistiche (in Ungaretti: l’impiego frequente di spazi bianchi, pause, l’abolizione della
punteggiatura, la sintassi frammentata e spesso nominale, l’uso di versi liberi, spesso costituiti
da una sola parola; in Montale: l’uso di versi lunghi legati da inarcature, la trama fonica delle
parole usate e la poetica degli oggetti, che assurgono mediante la tecnica del correlativo
oggettivo, a simboli di situazioni esistenziali). Entrambi i poeti, forse i maggiori esponenti
della poesia italiana del Novecento, espressero una visione tragica dell’esistenza, però
trasmessa attraverso un linguaggio semplice e la rappresentazione di oggetti presenti nella
vita quotidiana. Ambedue restituiscono centralità alla parola, al di là dei limiti imposti dalla
punteggiatura, dalla sintassi, dalla metrica. Se il primo però si apre al colloquio con gli altri
uomini e alla riflessione sull’insensatezza della guerra, il secondo vive il dramma della
condizione umana da un punto di vista non storico ma esistenziale, ed è proteso alla ricerca
di un “varco” contro l’angoscia e il male di vivere, verso l’essenza delle cose, nella speranza
che riannodando il filo dei ricordi possa presentarsi uno spiraglio di salvezza, un’alternativa ad
un’impossibile, perché “divina”, indifferenza.
Distanti dalle posizioni dell’ermetismo si mantennero anche altre due voci poetiche importanti
di questo periodo, quelle di Vincenzo Cardarelli (1887-1959), dallo stile elegante e rigoroso,
quasi “neoclassico”, e di Umberto Saba (1882-1957). Quest’ultimo, convinto assertore di
una poesia “onesta”. Nel “Canzoniere”, una sorta di diario in versi, in cui confluisce tutta la
sua produzione poetica, il tono dimesso scava nell’interiorità e nelle esperienze quotidiane
restituendo una visione dell’esistenza che, quantunque amara e dolorosa, è espressione di un
forte attaccamento alla vita, all’amore per la propria donna e per la città di Trieste. Saba
rimase fedele a un ideale di poesia tradizionale, ancorata alle cose semplici e reali rese
attraverso un linguaggio limpido, concreto, talvolta prosaico.