Introduzione
Per un paese in crisi come l’Italia, la dimensione europea è,
sia politicamente sia economicamente, essenziale. Tanto
più importante, quindi, è il ruolo che l’Europa nel suo
complesso riuscirà a giocare nel contesto internazionale, in
una fase d’imponente redistribuzione del potere e del prestigio che allontana sempre di più le relazioni internazionali dall’assetto che avevano mantenuto negli ultimi secoli.
Il tema della nostra pubblicazione, L’Europa in seconda fila, richiama proprio il ruolo apparentemente declinante
del continente europeo. Non che il declassamento dell’Europa sia una vicenda degli ultimi anni. Tutto all’opposto: da
una prospettiva storica di lungo periodo, non c’è dubbio che
la fine della centralità europea avesse già costituito la vicenda fondamentale dell’ultimo secolo. Così come non c’è dubbio che la fine della Guerra fredda avesse già aperto una
nuova fase di questa detronizzazione. Se, infatti, già dopo le
due guerre mondiali, l’Europa aveva perduto il proprio ruolo di centro d’irraggiamento di istituzioni e conflitti, nel
mondo della Guerra fredda essa era rimasta pur sempre il
fronte principale dello scontro, cioè il luogo nel quale si sarebbe combattuta, in caso di guerra, la battaglia decisiva, e
nel quale, nel frattempo, non se ne poteva combattere nessuna. Quello che continuava a essere possibile fuori
dell’Europa, continuava a non esserlo in Europa; il che consentiva agli europei di percepire ancora il vecchio continente
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L’Europa in seconda fila
come uno spazio separato e, sebbene non più come protagonista ma come posta in gioco, più importante degli altri.
Gli ultimi vent’anni hanno spazzato via anche questo
residuo di centralità. Oltre a pesare molto meno di cento
anni fa in termini di potere (diplomatico, militare, economico, culturale), l’Europa conta meno di vent’anni fa nei calcoli strategici degli altri. È la dura verità che, per una volta,
l’amministrazione Bush disse ai governanti e alle opinioni
pubbliche europee già nel 2001. Ed è, contrariamente alle
illusioni dei giorni della sua elezione, quello che lo stesso Barack Obama ha ribadito, anche recentemente, con la politica
del Pivot to Asia.
Per tutte queste ragioni, l’Europa dovrà lottare per
non finire in seconda fila. E non potrà farlo che a partire
dalla forma istituzionale che si è data negli ultimi decenni,
quella dell’Unione Europea, a maggior ragione in quanto lo
scivolamento nella gerarchia del potere e del prestigio internazionale ha costituito, sin dal principio, una delle preoccupazioni alla base del processo d’integrazione – un processo
sospinto, questo sì, dalla volontà di non ricadere negli orrori
delle due guerre mondiali ma, allo stesso tempo, dalla consapevolezza che, divisi tra loro, gli stati europei sarebbero
stati sempre meno in grado di reggere la competizione con
giganti del calibro degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica,
in origine, e oggi anche di Cina, India e delle altre grandi potenze economiche emergenti.
Tutta la prima parte del volume ruota, appunto, attorno alla condizione attuale dell’Europa: dell’Unione nel
suo complesso, prima di tutto, ma poi anche dei singoli stati
e, in particolare, dei loro regimi politici democratici. Il capitolo di Mario Deaglio osserva il regresso relativo dell’Europa in termini di peso produttivo, ossia di percentuale del
prodotto lordo delle varie aree geo-economiche del pianeta
sul totale mondiale, così come di peso finanziario, misurato
con il potere di mercato delle Borse valori dell’economia
globale, e di capacità d’innovazione tecnologica. Il capitolo
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Introduzione
di Franco Bruni si concentra, invece, sui rischi di frammentazione dell’Eurozona che possono derivare dalla diversità
dei rischi percepiti sui mercati interbancari circa le condizioni di liquidità e solvibilità delle banche dei diversi paesi; e,
contro questi rischi, sui progetti di unione bancaria europea,
miranti a de-nazionalizzare le banche per dare all’euro una
rete di circolazione dove liquidità e credito possano viaggiare senza l’intoppo di differenze nelle regole bancarie, nei criteri e severità delle vigilanze sulla correttezza e i rischi delle
banche, nelle modalità di gestione delle crisi bancarie. Il capitolo di Sergio Romano sposta l’attenzione dal versante
economico a quello politico, per proporre una riflessione
generale sull’inconsistenza della politica estera e di sicurezza
europea e sulle conseguenze che essa produce sulla riconoscibilità dall’esterno di un’identità europea comune; fino a
suggerire l’adozione dello status della neutralità per consentire finalmente all’Europa di “contare di più”. Infine, il capitolo di Alberto Martinelli riguarda il malessere crescente
delle democrazie rappresentative: un fenomeno non soltanto
europeo, naturalmente, ma che, in Europa, si mischia con la
disaffezione nei confronti delle stesse istituzioni comunitarie
e l’ascesa dei partiti e dei movimenti nazional-populisti ed
euro-scettici.
Per comprendere quale posizione occupa l’Europa nelle relazioni internazionali, tuttavia, occorre anche confrontare la sua condizione con quella degli altri principali protagonisti della politica e dell’economia internazionale. È quello che fanno gli ultimi tre capitoli della prima parte di questo Rapporto. Il primo di essi, di Alessandro Colombo, si
concentra sull’attore, gli Stati Uniti, stabilmente al vertice
della gerarchia del potere e del prestigio internazionale dalla
Seconda guerra mondiale a oggi ma, da alcuni anni a questa
parte, intralciato da una perdita di orientamento della politica estera e, sullo sfondo, da una diminuzione della disponibilità a tradurre (nel bene e nel male) il proprio potere in
egemonia. Gli altri due capitoli, di Paolo Magri e Alessan-
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L’Europa in seconda fila
dro Pio, guardano invece ai paesi in ascesa. Il primo si concentra sui principali, i ben noti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica): un insieme molto eterogeneo di paesi,
con una limitata capacità di operare insieme a livello globale
ma, in compenso, con una capacità già sviluppata di operare
da possibili pivot delle rispettive regioni di appartenenza.
L’altro osserva la seconda linea dei paesi emergenti, quelli
che più recentemente sono stati etichettati come CIVETS
(Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia e Sud Corea - o Sudafrica per quelli che non lo includono nei
BRICS): paesi di dimensioni significative che, negli ultimi
anni, hanno registrato una solida performance economica,
iniziando ad affermarsi come attori importanti, sia pure con
valenza regionale o tematica, a livello internazionale.
Nella seconda parte del volume, il baricentro si sposta
invece sulla politica estera italiana: “la politica estera di un
paese in crisi”, come recita il titolo del capitolo di Sergio
Romano, suggerendo sin dall’inizio sia i vincoli che pesano
sulle scelte anche strategiche del nostro paese (in termini di
debolezza istituzionale, incertezza politica, scarsità di risorse
ecc.), sia le condizioni di un possibile rilancio, a cominciare
dal risanamento politico, istituzionale ed economico interno.
Sebbene da angolature e con sensibilità diverse, tutti e tre i
capitoli muovono dal riconoscimento di questa condizione.
Il primo capitolo, di Sergio Romano, ricostruisce le debolezze della politica estera italiana attuale quale prodotto di
un’evoluzione ormai ventennale, nel corso della quale il profilo internazionale del nostro paese è stato sempre più pregiudicato dalle debolezze del quadro politico e istituzionale
interno. Gli altri due capitoli cambiano la prospettiva in duplice senso: tornando dal terreno politico a quello economico e osservando, invece che le radici della crisi, alcune delle
possibili risposte. Il capitolo di Franco Bruni analizza le reazioni dell’Italia ai vincoli e alle raccomandazioni europee,
nel quadro di un tentativo di spostare la concertazione «dalle quantità alle qualità, dai parametri “stupidi” alle politiche
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Introduzione
intelligenti, dall’austerità numerica alle riforme per la crescita: un tentativo che nel 2013 ha avuto insufficiente successo,
sia nei fatti che nell’opinione della gente e degli analisti, e
che si è quasi invertito a fine anno». Quello di Fabrizio Onida, da parte sua, offre una descrizione critica delle politiche
pubbliche a sostegno dell’internazionalizzazione delle imprese.
Proprio la crisi, nel frattempo, ha definito anche il
contesto della politica estera italiana dell’ultimo anno. Intanto, ha continuato a pesare sull’Italia la crisi economica
iniziata con le cadute di Borsa dell’agosto 2007 e, da allora,
destinata a subire una serie di “mutazioni genetiche” capaci
di fare sentire i propri effetti, oltre che sulla finanza e
sull’economia, anche sulla struttura sociale e sulla politica
interna e internazionale di quasi tutti i paesi del mondo. A
maggior ragione poiché, come ricorda Mario Deaglio nel
suo capitolo, se l’Europa appare complessivamente in regresso, all’interno dell’Europa l’Italia appare in fase di relativo regresso rispetto agli altri paesi del continente, «quasi
l’ombelico della crisi globale». In secondo luogo, è continuato anche nell’ultimo anno il processo di disarticolazione di
alcune delle aree regionali di riferimento della politica estera
italiana, il Nord Africa e il Vicino Oriente, per effetto della
guerra civile siriana e dei suoi contraccolpi in Libano (dove
l’Italia mantiene un consistente contingente militare), del
colpo di stato militare in Egitto, dei rischi di collasso dello
stato in Libia oltre che della crescente instabilità politica in
Turchia. Infine e, per certi versi, soprattutto, è proseguito il
deterioramento degli equilibri politici e istituzionali interni
al paese, contrassegnato dal nuovo stallo seguito alle elezioni politiche di febbraio e dal ricorso obbligato a un governo
di larghe intese, reso ancora più fragile dalla debolezza dei
partiti politici chiamati a parteciparvi.
Stretta fra questi tre insiemi di vincoli, la politica estera del nuovo governo Letta ha cercato (come quella dei precedenti governi) un equilibrio tra la promozione degli inte-
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L’Europa in seconda fila
ressi nazionali particolari dell’Italia e l’obiettivo di vedersi
riconosciuto un «ruolo di azionista significativo e responsabile del sistema globale» – come il ministro degli Esteri Emma Bonino ha definito la tradizionale preoccupazione
dell’Italia per la perdita di posizioni e, quindi, per il riconoscimento da parte degli altri attori.
Sul tavolo europeo, questo ha significato il tentativo
di portare al centro dell’agenda comunitaria temi sensibili
per il nostro paese quali la gestione dei flussi migratori attraverso il Mediterraneo o, sul piano economico, lo spostamento delle priorità dal risanamento alla crescita; la conferma del tradizionale sostegno al cammino europeo dei
paesi dei Balcani e della Turchia; la continuazione del solido
rapporto con la Federazione russa, confermato dal Vertice
bilaterale di Trieste a novembre. Al contempo, l’Italia non
ha smesso di perseguire la politica di risanamento concordata in sede europea, in modo da rafforzare la propria posizione di fronte ai partner.
Sugli altri tavoli regionali, pur continuando a cooperare strettamente con gli alleati in tutti i contesti multilaterali di appartenenza, l’Italia ha espresso posizioni proprie – e
non sempre in accordo con quelle degli altri, Stati Uniti
compresi – sull’opportunità di una ripresa dei rapporti con
l’Iran e, soprattutto, sulla crisi siriana, opponendosi
all’eventualità di un intervento militare e insistendo sul perseguimento di una soluzione diplomatica del conflitto. Mentre, in materia di sicurezza energetica, nel 2013 l’Italia ha siglato un importante accordo con Grecia e Albania per la costruzione del Trans Adriatic Pipeline (TAP), attraverso il
quale potrà giungere direttamente in Italia il gas azero.
Nello sforzo di evitare il rischio di non agganciare la
possibile ripresa economica dei prossimi mesi, inoltre, particolare rilievo ha assunto quella che il ministro degli Esteri
Bonino ha riassunto nella formula di “diplomazia della crescita” e nei suoi due obiettivi essenziali: quello di «portare
l’Italia nel mondo, sostenendo l’export e il percorso d’in-
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Introduzione
ternazionalizzazione delle nostre imprese»; e quello gemello
di «portare il mondo in Italia, attraverso una politica coerente per l’attrazione di investimenti». A questo riguardo, il
nuovo governo ha varato alla fine dell’anno un “Piano Destinazione Italia”, diretto a creare maggiori certezze e a
semplificare le procedure che frenano gli investimenti italiani ed esteri, attraverso interventi coordinati su giustizia, fisco, burocrazia, autorizzazioni e credito alle imprese.
Infine, la politica estera italiana del 2013 ha dovuto
confrontarsi con le grandi questioni rimaste aperte dagli
scorsi anni: prime fra tutte, il difficile disimpegno
dall’Afghanistan e la questione ancora irrisolta dei due Marò incarcerati in India. Ma non ha potuto evitare le stesse
fragilità e le stesse tensioni che l’avevano già intralciata negli
ultimi anni: la frizione latente tra la politica di promozione
dei diritti umani e la politica “mercantilistica” verso i paesi
esportatori di energia, esplosa anche nell’ultimo anno
nell’affare Shalabayeva; la vulnerabilità di qualunque obiettivo di lungo periodo al tempo brevissimo dell’instabilità politica interna; soprattutto, in un contesto di costante diminuzione delle risorse, la difficoltà di rispettare la “regola aurea” della politica estera, cioè la necessità di tenere in equilibrio impegni e risorse.
A.C.
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