SCIA edilizia e responsabilità penale dei funzionari comunali

Monografie
ANTONELLO GUSTAPANE
SCIA edilizia e
responsabilità penale
dei funzionari comunali
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ANTONELLO GUSTAPANE
SCIA edilizia e
responsabilità penale
dei funzionari comunali
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Autore
Antonello Gustapane
Sostituto Procuratore presso la Procura della Repubblica di Bologna.
Professore a contratto in diritto penale-amministrativo presso SPISA Università di
Bologna.
Sommario
Capitolo Primo
LA SCIA NELL’ORDINAMENTO AMMINISTRATIVO ITALIANO
6
Capitolo Secondo
I COMPITI DI CONTROLLO DEL COMUNE SULLA SCIA
12
Capitolo Terzo
IL RESPONSABILE DELL’UFFICIO TECNICO COMUNALE QUALE P.U. AI FINI DELLA
LEGGE PENALE
16
Capitolo Quarto
LA VIOLAZIONE DEI DOVERI DI CONTROLLO SULLA SCIA QUALE ABUSO D’UFFICIO
24
Capitolo Quinto
CONTINUA: L’ABUSO PER VIOLAZIONE DI LEGGE O DI REGOLAMENTO
30
Capitolo Sesto
CONTINUA: L’ABUSO PER VIOLAZIONE DELL’OBBLIGO DI ASTENSIONE
42
Capitolo Settimo
CONTINUA: L’INTENZIONALITÀ DELLA CONDOTTA DI ABUSO
46
Capitolo Ottavo
CONTINUA: CONSUMAZIONE E CONCORSO DI PERSONE INTRANEE NEL REATO54
Capitolo Nono
CONTINUA: IL CONCORSO DEL PRIVATO E I RAPPORTI CON ALTRE FIGURE DI REATO
60
Capitolo Decimo
L’OMISSIONE DI RAPPORTO SULLA SCIA IRREGOLARE DA PARTE DEL RESPONSABILE
DELL’UFFICIO TECNICO COMUNALE
64
Capitolo Undicesimo
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
67
Capitolo Primo
LA SCIA NELL’ORDINAMENTO AMMINISTRATIVO ITALIANO
L’ampia diffusione che ha avuto in Italia negli ultimi tempi l’istituto della “segnalazione
certificata di inizio attività” (d’ora in avanti: SCIA) in materia edilizia rende molto attuale
il tema, sino ad ora scarsamente esplorato, di quale sia la responsabilità penale in cui
possono incorrere i pubblici amministratori nello svolgimento dei compiti di controllo
che gravano sul Comune destinatario della SCIA, in quanto ente pubblico preposto alla
gestione del territorio.
In proposito si deve osservare che, a partire dalla legge 241 del 1990 sul procedimento
amministrativo, l’ordinamento giuridico italiano, anche al fine di rendere più agevole
l’esercizio delle attività degli operatori privati, ha rimodellato l’organizzazione
amministrativa pubblica nel rispetto dei principi enunciati dagli artt. 2, 41, 42 e 97 Cost.,
prevedendo, tranne che in alcune materie di maggiore rilevanza sociale (come la difesa,
la sicurezza pubblica, la giustizia), forme di semplificazione dell’azione amministrativa,
tese ad assicurare l’effettiva tutela dell’interesse pubblico affidato alle cure della
Pubblica Amministrazione mediante il maggiore coinvolgimento del privato titolare di
una posizione giuridica soggettiva, qualificata in rapporto a tale interesse pubblico1.
All’art. 19 della legge n. 241 (come successivamente modificato, dapprima con il
decreto-legge n. 35 del 2005, poi con la legge n. 122 del 2010, ed infine con la legge
n. 106 del 2011) si è introdotta una modalità organizzativa semplificatrice, consistente
nel rendere più snelli i procedimenti di abilitazione all’esercizio di attività sottoposte
al controllo della Pubblica Amministrazione, di tipo imprenditoriale, commerciale,
artigianale, o edilizio, facendo assumere al privato, che intenda svolgere una di
quelle attività, la responsabilità di avviarla sulla base della presentazione di apposita
comunicazione, definita dapprima “denuncia di inizio attività”, poi “dichiarazione di inizio
attività”, ed infine “segnalazione certificata di inizio attività”, con la quale egli attesta il
possesso dei requisiti e dei presupposti, richiesti dalla legge o da atti amministrativi a
contenuto generale, per l’esercizio di quella iniziativa2.
In questo modo, alleviando il peso degli oneri richiesti per l’esercizio di quelle attività
Per la Corte Costituzionale, il principio di semplificazione dell’azione amministrativa rientra tra i principi
fondamentali dell’azione amministrativa ed è di diretta derivazione comunitaria ai sensi della Direttiva
2006/123/CE, sui servizi nel mercato interno, attuata in Italia con il decreto legislativo n. 59 del 2010 (da
ultimo sentenza 20-27 giugno 2012, n. 164, dove son richiamate le precedenti sentenze n. 336 del 2005
e n. 282 del 2009).
1
Sul punto, tra gli altri autori, si ricordano: Pajno, Gli artt. 19 e 20 della l. 241 prima e dopo la l. 24 dicembre
1993 n. 537. Intrapresa dell’attività privata e silenzio dell’amministrazione, in Dir. proc. amm., 1994, 30
ss.; Carbone, Rilascio della concessione edilizia. Denunzia di inizio attività, in Urb e app., 1997, 501 ss.;
Albamonte, Autorizzazione e denuncia di inizio attività, Milano, 2000; Travi, La denuncia di inizio attività
fra modelli generali e problemi pratici, in Urb. e app., 2002, 381 ss.; Giulietti, Attività privata e potere
amministrativo. Il modello della dichiarazione di inizio attività, Torino, 2008.
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7
e rendendo più semplice e più celere il controllo della Pubblica Amministrazione, si
è cercato di garantire al privato una maggiore fruibilità delle posizioni giuridiche,
costituzionalmente rilevanti, della libertà di iniziativa economica (art. 41 Costituzione)
e della proprietà privata (art. 42 Costituzione)3.
Riallacciandosi all’autorevole indirizzo del Consiglio di Stato4, l’elemento
caratterizzante dell’istituto in esame consiste «nella sostituzione dei tradizionali modelli
provvedimentali autorizzatori con un nuovo schema ispirato alla liberalizzazione delle
attività economiche private consentite dalla legge in presenza dei presupposti fattuali
e giuridici normativamente stabiliti», che permette l’inizio dell’attività senza che
occorra il preventivo consenso della Pubblica Amministrazione competente, «surrogato
dall’assunzione di auto-responsabilità del privato», che è insita nella segnalazione di
inizio attività5.
La semplificazione dell’azione amministrativa non comporta, però, alcuna attenuazione
dell’interesse pubblico, bensì l’adozione di modalità procedimentali che coinvolgono nelle
procedure di gestione dell’interesse pubblico il privato titolare di situazioni giuridiche
qualificate, in modo da permetterne una più facile fruibilità, preservando, al contempo, i
compiti di programmazione, di pianificazione e di controllo successivo svolti dalla Pubblica
Amministrazione sulle attività private incidenti sull’interesse pubblico amministrato6.
Una delle modalità di snellimento dell’agire amministrativo è, per l’appunto, la SCIA in
materia edilizia7, che è oggi disciplinata dagli artt. 19 della legge n. 241 del 1990 (come
successivamente modificato); 22 e 23 del decreto del Presidente della Repubblica n.
380 del 2001, contenente il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia (come modificato da ultimo con il decreto-legge n. 70 del 2011)8.
Sulla base del combinato disposto di tali norme (la prima a carattere generale, e le altre
due a carattere speciale), si può dire che la SCIA in materia edilizia è la dichiarazione con
Con profondità di analisi De Vergottini, Diritto costituzionale, Padova, 2010, ha sottolineato che le
disposizioni costituzionali «che riguardano proprietà e iniziativa economica sono l’evidenza della sintesi
operata dal costituente fra libertà e dirigismo interventista con una forte connotazione solidaristica che
tende a limitare e condizionare il potenziale espansivo della proprietà e iniziativa economica specialmente
private».
3
Espresso, dapprima, con il parere 19 febbraio 1987, n. 7, formulato dall’Adunanza genenale sul disegno
di legge confluito nella legge n. 241 del 1990; e poi con la sentenza 29 luglio 2011 n. 15, pronunciata in
Adunanza plenaria.
4
Nello stesso senso si vedano, pure: Consiglio di Stato, Sezione VI, 9 febbraio 2009, n. 717 e 15 aprile
2010, n. 2139; Sezione IV, 13 maggio 2010, n. 2919.
5
Secondo l’autorevole orientamento espresso da Acquarone, La denuncia di inizio attività. Profili teorici,
Milano, 2000.
6
Mazzarelli, Diritto dell’edilizia, Torino, 2004, 76, ha posto in rilevo come, nel corso degli anni, il legislatore
ha avvertito l’esigenza di introdurre forme di semplificazione, che, però, «non sempre hanno portato i
risultati creduti».
7
Liguori e Tuccillo, Denuncia di inizio attività, in Testo unico dell’edilizia (a cura di A. M. Sandulli), Milano,
2009, 378 ss.; A. M. Sandulli, Dalla dia alla scia: una liberalizzazione a rischio, in Riv. giur. edil., 2010, II,
465 ss.; Lamberti, Nell’edilizia vige ancora la dia?, in Urb. e app., 2010, 11, 1253 ss.
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8
la quale il titolare del diritto di proprietà, o di altro diritto reale, sull’immobile9 manifesta
al Comune, competente per territorio, la volontà di effettuare uno degli interventi
indicati nei commi 1, 2 e 3 dell’art. 22 testo unico edilizia in conformità «alle previsioni
degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia
vigente»10, che costituisce una delle forme di godimento del diritto vantato sull’immobile,
esercitabile nel rispetto dei limiti imposti dalla legge per assicurarne la funzione sociale,
ai sensi dell’art. 42 Costituzione.11.
Una precisa ricostruzione dei soggetti abilitati a presentare la SCIA in materia edilizia è stata fatta da
T.A.R. Puglia Bari, Sezione I, 18 giugno 2012, n. 1193, che ha evidenziato come, «ai fini della legittimazione
attiva al rilascio di titoli abilitativi nella materia edilizia, la giurisprudenza ritiene necessaria, sulla base degli
artt. 11 e 23 del d.p.r. 380/2011, la titolarità del diritto di proprietà, ovvero di altro diritto reale od anche
obbligatorio a condizione, in tale ultima ipotesi, del riconoscimento della disponibilità giuridica e materiale
del bene nonché della relativa potestà edificatoria (…).
Quanto al promissario acquirente, la tesi che ne riconosce la legittimazione non è affatto pacifica in
giurisprudenza, richiedendosi, anche in ipotesi di preliminare ad effetti anticipati, la specifica autorizzazione
del proprietario promissario venditore all’esercizio dello ius edificandi (…). Tale opzione esegetica risulta
ancor più corretta qualificando la relazione del promissario acquirente con l’immobile, anche in caso di
preliminare ad effetti anticipati, quale “detenzione qualificata” e non già come possesso, secondo la più
recente ricostruzione pretoria (ex multis Cass. Sez. un. 27 marzo 2008, n. 7930, Id., 11 marzo 2010, n.
4863)».
Si veda, pure, T.A.R. Calabria Reggio Calabria, 17 luglio 2012, n. 486, che ha affermato che l’Amministrazione
procedente ha pure il dovere di verificare, soprattutto in caso di specifica contestazione tra privati, «le
effettive condizioni di disponibilità del bene sul quale sono destinate ad incidere le opere di cui all’art. 6, co.
2, del d.p.r. 380/01, essendo il diritto reale sul bene una condizione di legge per poterne disporre».
9
Molto dettagliato è l’elenco contenuto nei commi 1, 2 e 3 dell’art. 22 testo unico edilizia degli interventi
realizzabili mediante SCIA:
- gli interventi non rientranti né tra quelli subordinati a permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10 del
medesimo testo unico; né tra quelli eseguibili senza alcun titolo abilitativo, ai sensi dell’art. 6 dello stesso
testo unico;
- «le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non
modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell’edificio e non violano
le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire», con la precisazione che, «ai fini dell’attività
di vigilanza urbanistica ed edilizia, nonché ai fini del rilascio del certificato di agibilità», la SCIA costituisce
«parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell’intervento principale» e può
essere presentata «prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori».
Possono, inoltre, essere realizzati, in alternativa al permesso di costruire, mediane SCIA:
a) gli interventi di ristrutturazione edilizia, previsti dall’art. 10, comma 1 lettera c), ossia «che portino un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento d’unità immobiliari,
modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superficie, ovvero che, limitatamente agli immobili
compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso»;
b) «gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica qualora siano disciplinati da piani
attuativi comunque denominati, ivi compresi gli accordi negoziali aventi valore di piano attuativo, che
contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, la cui sussistenza sia
stata esplicitamene dichiarata dal competente organo comunale in sede di approvazione degli stessi piani
o di ricognizione di quelli vigenti; qualora i piani attuativi risultino approvati anteriormente all’entrata in
vigore della l. 21 dicembre 2001, n. 443, il relativo atto di ricognizione deve avvenire entro trenta giorni
dalla richiesta degli interessati; in mancanza si prescinde dall’atto di ricognizione, purché il progetto di
costruzione venga accompagnato da apposita relazione tecnica nella quale venga asseverata l’esistenza di
piani attuativi con le caratteristiche sopra menzionate;
c) gli interventi di nuova costruzione qualora siano in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali
recanti precise disposizioni plano-volumetriche».
10
A proposito dell’evoluzione dalla DIA alla SCIA si veda: Lavermicocca, La SCIA e la sostituzione degli atti
della p.a., in Urb. e app., 10/2012, 993 ss.; Nasso, Dalla DIA alla SCIA: sulla strada del rinnovamento del
rapporto tra P.A. e privati, in Il nuovo dir. amm., 1/2012, 83 ss.; Galati, Sulla SCIA del cambiamento: storia
di un istituto in continua evoluzione all’insegna della (tentata) semplificazione, in La rivista nel diritto, 2012,
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9
L’art. 23 in commento disciplina la procedura sulla SCIA, stabilendo che, almeno
trenta giorni prima dell’effettivo inizio dei lavori, il proprietario dell’immobile, o il titolare
di altro diritto reale, presenta la SCIA, accompagnata da «una dettagliata relazione a
firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri
la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in
contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle
norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie».
A corredo di tale documentazione, il privato segnalatore, oltre a indicare l’impresa
affidataria per la realizzazione dei lavori, deve produrre le autocertificazioni, le
attestazioni, le asseverazioni e le certificazioni di tecnici abilitati relative alla sussistenza
dei requisiti e dei presupposti previsti dalla legge in sostituzione degli atti o dei pareri di
organi o di enti appositi, o dell’esecuzione di verifiche preventive la cui acquisizione sia
prevista dalla normativa vigente.
Per effetto del comma 1bis dell’art. 23, le dichiarazioni sostitutive non sono, però,
consentite:
I)
nei casi in cui insistano sull’immobile vincoli ambientali, paesaggistici o culturali
per la cui tutela si richiede che la realizzazione degli interventi in oggetto sia
subordinata al preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione previsti dalle
normative di protezione storico-artistica o paesaggistica-ambientale;
II) nei
casi in cui siano richiesti atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa
nazionale, alla pubblica sicurezza, all’immigrazione, all’asilo, alla cittadinanza,
all’amministrazione della giustizia, all’amministrazione delle finanze (ivi compresi
gli atti concernenti le reti di acquisizione del gettito, anche derivante dal gioco);
III) nei
casi in cui siano richiesti gli atti previsti dalla normativa per le costruzioni in
zone sismiche;
IV) nei
casi in cui siano richiesti atti imposti dalla normativa comunitaria.
In tutte queste ipotesi, ai sensi dei commi 3 e 4 dell’art. 23 in discussione, la SCIA
perde ogni effetto qualora il privato segnalatore non ottenga l’atto di assenso o il parere
favorevole previsti dalla normativa di settore.
Come correttamente rilevato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 164 del 2012,
la principale novità della normativa sulla SCIA consiste nel riconoscimento al privato, che
abbia presentato la segnalazione, della possibilità di iniziare immediatamente l’attività
(art. 19, comma 2, legge n. 241), restando pur sempre sottoposto ai poteri di controllo
successivo della Pubblica Amministrazione, per permettere i quali al privato segnalatore
è imposto l’obbligo di assumersi la responsabilità di presentare una segnalazione che,
per essere valida ed efficace, deve rispettare, non solo le formalità estrinseche stabilite
dall’ordinamento per rendere incontrovertibile la paternità della dichiarazione, ma anche
“il canone dell’autosufficienza contenutistica”, nel senso che essa deve contenere tutti
gli elementi necessari a verificare la sussistenza dei presupposti in fatto ed in diritto
1744 ss.; Criscenti, SCIA e tutela degli interessati, in Riv. dir. pubbl., 2012, 1 ss.; Scarcella, I titoli abilitativi
in edilizia dopo il decreto sviluppo: novità e riflessi penali, in Urb. e app., 1/2012, 31 ss.
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10
della legittimità dell’opera che si intende realizzare12.
Di conseguenza, dopo aver ricevuto la SCIA, al Dirigente o al Responsabile del
competente Ufficio del Comune spetta svolgere le molteplici e penetranti attività di
sindacato stabilite dai commi 3, 4 e 6bis dell’art. 19 della legge n. 241, e dal comma 6
dell’art. 23 del testo unico edilizia, ossia:
1) controllare che la SCIA, con i suoi documenti allegati:
• sia conforme tanto «alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente» (art. 22, comma 1, cit.),
quanto alle norme di sicurezza e a quelle igienico-sanitarie (art. 23, comma 1,
cit.);
• sia dotata degli atti di assenso o dei pareri favorevoli nei casi indicati dal comma
1bis dell’art. 23 cit.;
2) controllare l’autenticità e la veridicità delle autocertificazioni, delle attestazioni,
delle asseverazioni e delle certificazioni di tecnici abilitati relative alla sussistenza
dei requisiti e dei presupposti previsti dalla legge in sostituzione degli atti o dei
pareri di organi o di enti appositi, o dell’esecuzione di verifiche preventive la cui
acquisizione sia prevista dalla normativa vigente;
3) nel termine, perentorio, di trenta giorni dal ricevimento della SCIA13, qualora i
controlli appena indicati ai punti 1) e 2) abbiano avuto esito negativo, notificare al
privato segnalatore «l’ordine motivato di non effettuare il previsto intervento»; e,
qualora sia accertata la falsità dell’attestazione rilasciata dal professionista abilitato,
o delle altre dichiarazioni sostitutive, informare la Procura della Repubblica per i
profili di responsabilità penale ed il Consiglio dell’Ordine di appartenenza per i
profili di responsabilità disciplinare;
4) assumere, anche oltre il termine di trenta giorni dal ricevimento della SCIA, le
determinazioni in via di autotutela previste dagli artt. 21quinquies e 21nonies della
legge n. 241, che consistono:
• nella revoca in ogni tempo degli effetti della SCIA, salvo indennizzo, per
sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero per mutamento della situazione
di fatto o di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario;
• nell’annullamento d’ufficio, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei contro-interessati, degli effetti della SCIA, che in
precedenza non sia stata rimossa dall’organo adito in violazione di legge, o per
eccesso di potere o per incompetenza14;
12
T.R.G.A. Trento, 11 ottobre 2012, n. 295.
Per la natura perentoria del termine in questione si consideri Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 29
luglio 2011, n. 15.
13
Sul punto si rimanda a Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 29 luglio 2011, n. 15, che ha precisato
che il potere residuale di autotutela serve a consentire all’amministrazione competente «a porre rimedio
al mancato esercizio del doveroso potere inibitorio»; e comporta il rispetto dei principi generali in materia
di autotutela in riferimento: «alla necessità dell’avvio di un apposto procedimento in contraddittorio, al
rispetto del limite del termine ragionevole, e soprattutto, alla necessità di una valutazione comparativa, di
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11
5) assumere, in ogni tempo, le misure necessarie di tutela dal pericolo di un danno
per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza
pubblica o la difesa nazionale, previo motivato accertamento dell’impossibilità di
tutelare, comunque, l’interesse considerato mediante conformazione dell’attività
del privato segnalatore alla normativa vigente;
6) compiere le verifiche indicate nei punti da 1) a 5) su richiesta dei soggetti
controinteressati, che, in caso di inerzia da parte dell’organo comunale, possono
esperire unicamente l’azione contro il silenzio dell’amministrazione.
natura discrezionale, degli interessi in rilievo, idonea a giustificare la frustrazione dell’affidamento colpevole
maturato in capo al denunciante a seguito del decorso del tempo e della conseguente consumazione del
potere inibitorio».
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Capitolo Secondo
I COMPITI DI CONTROLLO DEL COMUNE SULLA SCIA
Da quanto si è sin qui detto, si desume che la gestione dell’interesse pubblico incidente
sugli interventi edilizi sottoposti a SCIA avviene secondo un modello semplificatorio
dell’azione amministrativa, consistente nell’efficacia legittimante immediata della
segnalazione effettuata dal privato, che, senza sostituirsi al permesso di costruire, «i
cui ambiti applicativi restano disciplinati in via generale dal d.p.r. n. 380 del 2001»,
agevola l’iniziativa economica (art. 41, I comma, Costituzione) e il godimento del diritto
di proprietà (art. 42 Costituzione), proteggendo il diritto del privato interessato «ad un
sollecito esame, da parte della Pubblica Amministrazione competente, dei presupposti
di diritto e di fatto che autorizzano l’iniziativa medesima»1.
Il privato segnalatore è titolare di una posizione soggettiva originaria, fondata,
direttamente ed immediatamente, sulla legge, a condizione che sussistano i presupposti
per l’esercizio dell’attività previsti dalla legge stessa, «e purché la mancanza di tali
presupposti non venga stigmatizzata dall’amministrazione con il potere di divieto da
esercitare nel termine di legge, decorso il quale si consuma, in ragione dell’esigenza di
certezza dei rapporti giuridici, il potere vincolato di controllo con esito inibitorio e viene
in rilievo il potere discrezionale di autotutela»2.
Il soggetto segnalatore, pertanto, da un lato, è portatore di un diritto soggettivo, «che lo
abilita a realizzare direttamente il proprio interesse, previa instaurazione di una relazione
con la pubblica amministrazione, ossia un contatto amministrativo, mediante l’inoltro»
della segnalazione; e dall’altro lato, è «titolare di un interesse oppositivo a contrastare le
determinazioni per effetto delle quali l’amministrazione, esercitando il potere inibitorio o
di autotutela, incida negativamente sull’agere licere» della segnalazione3.
La segnalazione certificata di inizio attività edilizia è, dunque, un atto di natura
esclusivamente privata volto a comunicare l’intenzione di intraprendere una delle
attività previste dall’art. 22, comma 1, 2 e 3, testo unico edilizia; e non idoneo ad
Corte Costituzionale, sentenza 20-27 giugno 2012, n. 164, che, nel rigettare le questioni di legittimità
costituzionale sollevate da varie regioni in relazione alle modifiche effettuate all’art. 19 legge n. 241 del
1990 dall’art. 49 legge n. 122 del 2010, ha precisato che la disciplina generale sulla SCIA è di competenza
statale ex art. 117, II e III comma, Costituzione, perché spetta allo Stato determinare livelli essenziali di
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Per
un interessante commento a tale sentenza si legga: Lamberti, La SCIA fra liberalizzazione e semplificazione,
in Urb. e app., 2013, 1, 10 ss.
1
2
Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 29 luglio 2011, n. 15.
Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 29 luglio 2011, n. 15.
Sul concetto di contatto amministrativo, inteso come il rapporto che si instaura tra Pubblica Amministrazione
e privato nell’ambito del procedimento e qualificabile come rapporto senza obbligo primario di prestazione,
si veda Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Roma, Dike, 2010, 184 ss.
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acquisire l’efficacia né di “provvedimento amministrativo a formazione tacita”; né di
titolo costitutivo, in quanto l’attività oggetto della segnalazione trova il suo fondamento
giuridico direttamente nell’art. 22 cit.4.
Detto in altri termini, la SCIA è uno strumento di semplificazione dell’azione
amministrativa, consistente in “un atto soggettivamente ed oggettivamente privato”,
cioè in una manifestazione di autonomia privata, con la quale l’interessato «certifica
la sussistenza dei presupposti in fatto ed in diritto allegati al presupposto del legittimo
esercizio dell’attività segnalata»; e comunica la volontà di iniziare tale attività in
modo conforme alla disciplina vigente, senza dover attendere il previo consenso della
Pubblica Amministrazione, che viene sostituito dall’atto di autoresponsabilità assunto
dal privato5.
Del resto, la natura privatistica della SCIA è ben espressa dal comma 6ter dell’art. 19
in esame, che stabilisce che la SCIA non costituisce un provvedimento tacito, sostitutivo
di quello ampliativo originariamente previsto dalla normativa, e non è direttamente
impugnabile dal soggetto contro-interessato6.
A quest’ultimo, all’opposto, in quanto «titolare di una posizione qualificabile come
interesse pretensivo all’esercizio del potere di verifica previsto dalla legge»7, si
riconosce, come si è detto sopra, il potere di sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti
all’amministrazione competente, e, in caso di inerzia, di esperire l’azione contro il silenzio
dell’amministrazione ai sensi dell’art. 31, commi 1, 2 e 3 decreto legislativo n. 104 del
20108.
In questo senso si veda Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 29 luglio 2011, n. 15, dove si è correttamente
evidenziato che la tesi di qualificare la SCIA come titolo abilitativo, «costituito da un’autorizzazione implicita
di natura provvedimentale che si perfeziona a seguito dell’infruttuoso decorso del termine previsto dalla
legge per l’adozione del provvedimento di divieto», è in contrasto con la disciplina contenuta negli artt.
20 e segg. del testo unico edilizia, che «distingue il modello provvedimentale del permesso di costruire
che si perfeziona con il silenzio assenso» ed il modulo della SCIA, che si fonda, invece, nell’inoltro «di
un’informativa circa l’esercizio dell’attività edificatoria», dotata di efficacia in via immediata legittimante e
sostitutiva di ogni provvedimento autorizzatorio comunque denominato.
Tale orientamento è stato poi ripreso da T.A.R. Puglia Bari, Sezione I, Sentenza 18 giugno 2012, n. 1193.
4
Così T.R.G.A. Trento, 11 ottobre 2012, n. 295. L’orientamento espresso dalla giurisprudenza è stato
condiviso in dottrina da Garofoli e Ferrari, Manuale di diritto amministrativo, Roma, IV ed., 2010, 646 ss.
5
Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2011, 1230, ha sottolineato come il legislatore, con le
modifiche introdotte con il decreto-legge 13 agosto 2011 n. 138, ha aderito «alla tesi della natura privatistica
della denuncia/segnalazione sostenuta dall’Adunanza Plenaria», così da escludere «la sussistenza di un
silenzio assenso direttamente impugnabile»; Gisondi, Per una interpretazione costituzionalmente orientata
del nuovo comma 6ter dell’art. 19 della L. 241/90, in Urbium, 2012, 1 ss.
Per un approfondito esame delle problematiche relative alla tutela del controinteressato prima dell’introduzione
del comma 6ter all’art. 19 della legge n. 241 si rimanda alle dotte osservazioni di E. Sticchi Damiani, La tutela
contro il silenzio della p.a. nel nuovo processo amministrativo, in AA.VV., Istituzioni, mercato e democrazia
(a cura di Amorosino, Morbidelli, Morisi), Torino, 2002, 705 ss.
6
7
Cfr. Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 29 luglio 2011, n. 15.
In proposito si richiama T.A.R. Veneto, 5 marzo 2012, n. 298, che ha affermato che «il rinvio operato dal
legislatore all’istituto del silenzio, non riduce in maniera significativa l’ambito di tutela del quale il terzo si
può giovare, considerato anche che quest’ultimo, pur trascorso il termine assegnato all’amministrazione
per l’esercizio del potere inibitorio, potrà sollecitare tramite diffida, oltre l’esercizio del potere di autotutela,
anche l’esercizio dei poteri sanzionatori e repressivi sempre spettanti all’amministrazione in materia edilizia,
fintantoché l’inerzia perduri e comunque non oltre un anno dalla scadenza del termine per l’adempimento,
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Il complesso dei poteri spettanti all’autorità comunale permette, quindi, di comprendere
che la liberalizzazione del settore edilizio operato con la SCIA ha una portata abbastanza
limitata.
Con l’introduzione di tale istituto, infatti, l’autoresponsabilità del privato resta, in ogni
caso, sottoposta al potere pubblico di controllo circa la sussistenza dei presupposti
richiesti dall’art. 22 testo unico edilizia per la realizzazione dell’intervento oggetto
della segnalazione certificata, in quanto si tratta di attività che, avendo ricadute sul
territorio, ontologicamente non può che restare subordinata al regime amministrativo
di tutela dell’interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio stesso, «assicurato
dagli strumenti di pianificazione urbanistica», ai quali spetta disciplinare «gli usi e le
trasformazioni della totalità del territorio comunale», stabilendo «le diverse destinazioni
d’uso (compresa quella commerciale) possibili in ogni area»9.
A differenza del passato, per gli interventi sottoposti a SCIA non si prevede «più
un assenso preventivo di stampo autorizzatorio», ma un controllo successivo alla
presentazione della segnalazione, «da esercitarsi entro un termine perentorio con
l’attivazione ufficiosa di un doveroso provvedimento teso alla verifica della sussistenza
dei presupposti di fatto e di diritto per l’esercizio dell’attività dichiarata»10.
Ciò comporta che, entro il termine stabilito dalla legge, ogni SCIA è sottoposta al
potere pubblico diretto a verificare la conformità a legge dell’attività denunciata e ad
adottare gli strumenti inibitori conseguenti alle violazioni eventualmente riscontrate.
La scadenza di tale termine, però, non consuma gli altri poteri assegnati alla Pubblica
Amministrazione, perché a quest’ultima compete, comunque, come sottolineato dalla
giurisprudenza amministrativa, il potere di inibire l’attività oggetto della segnalazione,
se la segnalazione contenga dichiarazioni inesatte o incomplete, in quanto il presupposto
indefettibile per la produzione di validi effetti giuridici è la completezza e la veridicità
delle dichiarazioni contenute nell’autocertificazione.
Nel complesso, pertanto, la SCIA presenta «minori garanzie procedimentali rispetto
ad un ordinario procedimento amministrativo attivato su istanza di parte e conclusosi
con un atto formale dell’Amministrazione»11, perché, nel perseguire le finalità di
potrà esperire l’azione di cui all’art. 31 c.p.a., richiamata dal comma 6ter dell’art. 19 l. 241/90». Interessante
è, pure, T.A.R. Lombardia, 12 aprile 2012, n. 73.
Secondo la precisa definizione fatta da Portaluri, voce Commercio, in Aa.Vv., Libro dell’anno del diritto
2013, Torino, 2013, 1 ss.
9
10
Come rilevato con molta perspicacia da Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 29 luglio 2011, n. 15.
T.R.G.A. Trento, 11 ottobre 2012, n. 295, dove si è pure precisato che «in caso di dubbi sull’esistenza dei
presupposti dichiarati nella denuncia/segnalazione di inizio attività ricevuta», la Pubblica Amministrazione,
può «chiedere chiarimenti o delucidazioni, allo scopo di completare la propria istruttoria con un conclusivo
provvedimento inibitorio in caso di definitivo accertamento dell’insussistenza di quei presupposti». Così pure
T.A.R. Puglia, Bari, sezione I, 18 giugno 2012, n. 1193, che ha affermato che il potere dell’Amministrazione
di inibire l’attività o di sospendere i lavori «non è equiparabile ad un potere di autotutela, poiché non vi è
alcun provvedimento su cui intervenire, ma ad un potere di verifica della non formazione della d.i.a., con
conseguente ordine di interruzione dei lavori, così come d’altronde normativamente previsto per l’ipotesi
di mendacio (vedi comma 3 art. 19 legge 241 del 90); per tale motivo, l’esercizio di tale potere non è
sottoposto al termine perentorio di trenta giorni, che presuppone invece che la d.i.a. sia completa nei suoi
elementi essenziali (…)».
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semplificazione e di accelerazione dell’azione amministrativa, deve rispettare l’interesse,
costituzionalmente rilevante (ex artt. 9 e 118 Costituzione), al controllo pubblico delle
attività antropiche esercitate sul territorio in modo da garantirne l’integrità e lo sviluppo
armonico, con la conseguenza che, nei casi di più grave lesione di tale bene pubblico,
l’affidamento ingenerato dalla SCIA viene superato dal riconoscimento alla Pubblica
Amministrazione del potere di incidere in autotutela sugli effetti prodotti, «pur dopo
l’esaurimento del breve termine concesso per vietare l’attività edilizia»12.
Corte Costituzionale, sentenza 16 luglio 2012, n. 218, in Urb. e app., 10 del 2012, 1005 ss., con nota di
Boscolo.
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Capitolo Terzo
IL RESPONSABILE DELL’UFFICIO TECNICO COMUNALE
QUALE P.U. AI FINI DELLA LEGGE PENALE
Lo svolgimento delle attività tanto di controllo quanto di rapporto al Pubblico Ministero
e all’organo di vigilanza professionale costituisce per il Dirigente o il Responsabile del
competente Ufficio del Comune un preciso dovere funzionale, la cui violazione può anche
essere penalmente sanzionabile nei casi previsti dal legislatore, nel rispetto del principio
di legalità delle fattispecie penali, stabilito dagli artt. 25 Costituzione e 1 codice penale1.
Per la corretta configurazione delle ipotesi di reato in questo caso contestabili, occorre,
prima di tutto, verificare se a tali soggetti vada riconosciuta anche nell’esercizio dei
compiti che, in tema di SCIA edilizia, spettano a quella stessa amministrazione pubblica
la qualifica di pubblico ufficiale ai sensi della legge penale, che certamente rivestono
nello svolgimento di altre attività del Comune, come tra poco si vedrà.
Come noto, gli artt. 357 e 358 codice penale, a seguito delle modifiche apportate
dapprima con gli artt. 17 e 18 della legge n. 86 del 1990, e poi con l’art. 4 della legge n.
181 del 1992, contengono le definizioni, agli effetti della legge penale, rispettivamente,
del pubblico ufficiale e dell’incaricato di pubblico servizio, che sono le uniche qualifiche
penalmente rilevanti dei soggetti che svolgono attività pubbliche.
Aderendo alla tradizionale tripartizione delle funzioni pubbliche in legislativa, giudiziaria
e amministrativa, gli articoli in esame identificano le funzioni ed i servizi pubblici secondo
il c.d. criterio funzionale-oggettivo, per il quale la funzione pubblica ed il servizio
Per la Corte Costituzionale, ordinanza 17 maggio 2006, n. 251, per il principio di legalità, fissato dall’art.
25, II comma, Costituzione, «solo il legislatore può, nel rispetto dei principi della Costituzione, individuare
i beni da tutelare mediante la sanzione penale e le condotte, lesive di tali beni, da assoggettare a pena,
nonché stabilire qualità e quantità delle relative pene edittali, secondo il principio nullum crimen, nulla
poena sine lege, cui si riconducono sia la riserva di legge vigente in materia penale, sia il principio di
determinatezza delle fattispecie penali, sia per il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici;
e che, al di fuori dei confini delle fattispecie di reato, come definiti dalla legge, riprende vigore il generale
divieto di incriminazione».
Sul punto ci si richiama al fondamentale insegnamento di Bricola, Teoria generale del reato, in Noviss.
Dig. It., Torino 7 ss., ora in Bricola, Scritti di diritto penale (a cura di Canestrari e Melchionda), Milano,
1997, 541 ss. che ha configurato il reato «come fatto lesivo di un valore costituzionalmente rilevante»,
in quanto la sanzione penale, a causa del “valore preminente” riconosciuto dalla Costituzione alla libertà
personale, «può essere adottata soltanto in presenza della violazione di un bene, il quale, sia pure non di
pari grado rispetto al valore (libertà personale) sacrificato, sia almeno dotato di rilievo costituzionale. Ossia:
l’illecito penale può concretarsi esclusivamente in una significativa lesione di un valore costituzionalmente
rilevante», così che il legislatore non solo deve assumere «a fondamento di una categoria di reati la tutela
di un bene costituzionalmente rilevante», ma ha pure «un preciso dovere di tutelare penalmente il valore
nella sua esatta dimensione costituzionale».
Sul dovere del legislatore di predisporre la tutela penale dei valori costituzionalmente rilevanti si vedano, poi,
le interessanti osservazioni di Fiandaca e Musco, Diritto penale, Bologna, Zanichelli, 1989, 27 ss.; Mazzacuva,
Diritto penale e Costituzione, in Aa.Vv. (a cura di Insolera, Mazzacuva, Pavarini, Zanotti), Introduzione al
sistema penale, Torino, 2006, 100 ss.; Gamberini, Riserva di legge, ivi, 129 ss.
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pubblico si individuano in base al carattere dell’attività oggettivamente esercitata2,
ossia facendo riferimento, non al rapporto di dipendenza tra il soggetto e la Pubblica
Amministrazione3, che di per sé non è un elemento individualizzante, «ma ai caratteri
propri dell’attività in concreto esercitata dal soggetto e oggettivamente considerata»4,
dimodoché la qualifica soggettiva di pubblico ufficiale e quella di incaricato di pubblico
servizio sussistono «per il fatto che il soggetto è titolare di una certa posizione giuridica
e svolge la corrispondente attività»5.
Per effetto delle due imprescindibili norme definitorie, la qualifica di pubblico ufficiale
va attribuita, oltre a colui che esercita una pubblica funzione legislativa o giudiziaria
(casi che chiaramente non rilevano nella presente ricerca), anche a colui che svolge una
pubblica funzione amministrativa, intendendosi per tale l’attività di amministrazione
«disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e caratterizzata dalla
formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione, o
dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi»6 (art. 357 codice
penale), mentre quella di incaricato di pubblico servizio è riconosciuta, in modo
residuale, a colui che, a qualunque titolo, adempie ad un servizio pubblico, ossia ad
un’attività «disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata
dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima, e con esclusione dello svolgimento di
semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale» (art.
358 codice penale).
Cercando in questa sede di ricostruire il significato delle norme alla luce dell’art. 97
Costituzione, che riserva alla legge di organizzare i pubblici uffici, determinando le sfere
di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari, con l’effetto che
eventuali atti autoritativi aventi un contenuto organizzatorio non possono che essere
adottati in attuazione di norme di legge7, si può dire che la funzione amministrativa
2
Fiandaca e Musco, Diritto penale – Parte speciale - I, Bologna, 2012, 171.
Secondo l’autorevole ricostruzione di Pagliaro, Principi di diritto penale – Parte speciale – Delitti dei pubblici
ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, Milano, 1995, 3, nel codice penale l’espressione “Pubblica
Amministrazione”, come oggetto di tutela, indica l’intera attività funzionale dello Stato e degli altri enti
pubblici. Uguali considerazioni sono espresse da Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione – I
delitti dei pubblici ufficiali, Milano, 2002, 5 ss.
3
4
Cassazione, Sezione V, 4 novembre 2008, n. 46310, in CED 242589.
Come attentamente osservato da Stortoni, Delitti contro la Pubblica Amministrazione, in Aa.Vv., Diritto penale
– Lineamenti di parte speciale, Bologna, Monduzzi, 2006, 70 ss., per il quale la Pubblica Amministrazione
di cui parla il codice penale è omnicomprensiva dell’intera organizzazione pubblica, facendo riferimento alle
tre sfere organizzative e funzionali dello Stato unitariamente inteso.
5
Come ricordato da Fiandaca e Musco, Diritto penale – Parte speciale - I, cit., 168, la formula riproduce
la proposta, che in sede redigente la Commissione giustizia della Camera fece propria senza sviluppare
un’analisi approfondita, avanzata in sede accademica, nel corso di un convegno di studi, da Severino Di
Benedetto, La riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione: soggetti, qualifiche, funzioni, in Aa.Vv.,
La riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione (a cura di Stile), Napoli, 1987, 29 ss.
Per un’attenta ricostruzione delle problematiche concernenti il concetto penale di pubblico ufficiale si rimanda
a: Pinucci, Le qualifiche soggettive, in Aa.Vv., I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione
(a cura di D’avirro), Padova, 1999, 1 ss.; Di Giovine, Pubblico ufficiale (dir. pen.), in Dizionario di diritto
pubblico, diretto da Cassese, Milano, 2006, 4782 ss.
6
7
Segreto e De Luca, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1995, 35;
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pubblica è l’attività di amministrazione regolata, alla pari del servizio pubblico, da
norme ordinarie di diritto pubblico8 o da connessi provvedimenti amministrativi, che
disciplinano l’organizzazione ed il funzionamento dello Stato e degli altri enti pubblici,
attribuendo una posizione di supremazia a tali soggetti, in quanto portatori di interessi
pubblici superiori9, rispetto ai componenti della comunità sociale10; e contraddistinta, a
differenza del servizio pubblico, dal formare e/o dal manifestare la volontà della pubblica
amministrazione; o dal suo estrinsecarsi per mezzo di poteri autoritativi o certifìcativi,
rispetto ai quali i soggetti privati si trovano in una situazione di soggezione agli effetti
prodotti11.
Secondo l’autorevole indirizzo della Suprema Corte di Cassazione, la qualifica di pubblico
ufficiale va conferita a quei soggetti che, a prescindere dalla loro posizione soggettiva
di pubblici dipendenti o di semplici privati, hanno il potere, nell’ambito di un’attività
regolata dal diritto pubblico, di formare e/o di manifestare la volontà della pubblica
amministrazione, oppure di esercitare, «indipendentemente da formali investiture,
poteri autoritativi, deliberativi o certificativi, disgiuntamente e non cumulativamente
Fiandaca e Musco, Diritto penale – Parte speciale - I, cit., 173.
Sulla nozione di norme di diritto pubblico si vedano le pregevoli pagine di: Pugliatti, Diritto pubblico e
privato, in Enc. Dir., XII, 1964, 696 ss., che ha sostenuto che la norma è di diritto pubblico quando tutela
direttamente un interesse pubblico; Lavagna, Istituzioni di diritto pubblico, Torino, 1985, 45 ss., per il quale
il diritto pubblico è la sfera «dell’ordinamento giuridico dello Stato relativa alla istituzione, organizzazione
ed azione delle autorità di governo in senso lato ed i rapporti di dette autorità, come tali, fra loro e con altri
soggetti giuridici, nei confronti dei quali esercitano poteri di supremazia; Martines, Diritto costituzionale,
Milano, 1990, 40 ss., che ha qualificato di diritto pubblico la norma che tutela in via immediata l’interesse
alla conservazione della società; Barile, Cheli e Grassi, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1995, 48,
secondo i quali appartengono alla sfera pubblicistica quei rapporti essenziali per il raggiungimento dei fini
statali, assegnati a soggetti particolarmente scelti, «in grado di curare soddisfacentemente gli interessi
affidati alla loro gestione», con l’esercizio di attività determinate nel contenuto e nelle finalità.
Pur con queste precisazioni, Manes, Le qualifiche soggettive agli effetti penali, in Davigo, Giordano, Manes,
Piccirillo e Woodcock, Corruzione e illegalità nella pubblica amministrazione, Roma, Aracne, 2012, 14,
ha definito ambigue e melliflue tali definizioni, in quanto basate su di una formula «totipotente, perché
è estremamente difficile – già sul piano normoteoretico – individuare con precisione le “norme di diritto
pubblico”, e distinguerle dalle “norme di diritto privato”».
8
Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, Padova, 1977, 8 ss., ha giustamente rilevato che nel diritto pubblico
la disuguaglianza è giustificata, nei limiti fissati dalla legge, «soltanto dal principio che gli interessi generali
o di maggior importanza per la conservazione e lo sviluppo della società devono prevalere sugli interessi
minori o appartenenti ai singoli».
9
Correttamente Torrente e Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 1990, 19, hanno osservato che
la formula di Ulpiano ius publicum est quod ad statum rei romanae spectat, privatum quod ad singulorum
utilitatem pertinet: sunt enim quaedam publice utilia quaedam privatim, nella moderna società di massa può
essere conservata solo in via orientativa e come criterio di massima, dovendo considerare tendenzialmente
pubblica «ogni disciplina che coinvolga non interessi marginali o di ristrette categorie di individui, ma intere
classi e collettività, a prescindere dal tipo di poteri o funzioni in cui quella disciplina si concreti».
10
Con profonda acutezza Galgano, Diritto privato, Padova, 1983, 15 ss., ha definito il diritto pubblico come
il sistema di norme, fissate dalla legge, «che regola i presupposti, le forme e i modi di esercizio della
sovranità, ossia della potestà di comando della quale sono investiti gli apparati dello Stato e gli altri enti
pubblici che concorrono con essi nell’esercizio della sovranità (…)».
Nello stesso senso Rescigno, Corso di diritto pubblico, Bologna, Zanichelli, 1990, che ha rilevato che il diritto
pubblico regola «i rapporti tra un soggetto dotato di un potere di comando e soggetti subordinati al primo,
cosicché questo può unilateralmente vincolare i secondi con un suo atto di volontà».
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19
considerati»12, essendo evidente, per il tenore letterale della norma, che tali requisiti
sono tra loro alternativi13.
In particolare, nel concetto di poteri autoritativi vanno ricompresi sia i poteri coercitivi
(come quelli di arresto, di perquisizione, di contestazione di violazioni, ecc.), rispetto
ai quali il privato si trova chiaramente in una posizione di sottoposizione al comando
espresso14; sia le attività consistenti o nella manifestazione di una potestà pubblica
discrezionale (ad es. le autorizzazioni amministrative)15, o nell’esercizio di una funzione
pubblica di controllo, perché in entrambi i casi il privato si trova su un piano non paritetico,
non di diritto privato, rispetto all’autorità che tale potere esercita, che ha la capacità di
«modificare le situazioni giuridiche altrui indipendentemente dal loro consenso»16.
La qualifica di pubblico ufficiale è stata, così, riconosciuta nelle materie dell’edilizia e
dell’urbanistica:
• al dipendente comunale, addetto alle pratiche riguardanti l’occupazione del suolo
pubblico, incaricato di controllare, anche mediante sopralluoghi e misurazioni, «il
puntuale rispetto dei limiti indicati nel titolo amministrativo»17;
• al capo Ufficio amministrativo dell’ufficio condono del Comune, che, oltre ad
esercitare poteri certificativi in ordine all’attività svolta, concorre nella formazione
della volontà dell’ente pubblico, «in relazione all’atto richiesto, attraverso l’iscrizione
della pratica, attività che implica non soltanto la ricezione e la raccolta materiale
dei documenti, ma anche una valutazione degli stessi ai fini della decisione»18;
• ai componenti dell’Ufficio tecnico comunale, perché l’attività svolta, sebbene di
natura tecnica e istruttoria, «partecipa alla formazione della volontà della Pubblica
12
Cassazione, Sezione unica, 27 marzo 1992, n. 7958, in Foro it., 1993, II, 386.
Cassazione, 16 novembre 1990, Seranza, in Cassazione penale, 1991, 1574; Cassazione, Sezione V, 26
giugno 1991, n. 8080, in Cassazione penale, 1992, 73.
Per una ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali in tema di pubblico ufficiale si vedano: Basile e
Capaldo, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1996; e soprattutto Manes,
Le qualifiche soggettive agli effetti penali, cit., 17, che ha criticato la tendenza della Cassazione a non
rivedere gli orientamenti definitori delle figure di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio alla
luce dei processi di privatizzazione e di liberalizzazione da tempo in atto in importanti settori dell’economia
italiana, che dovrebbero comportare il mancato riconoscimento della qualifica pubblicistica al servizio svolto
in assenza di un regime di monopolio o di riserva ed in mancanza di finanziamento pubblico a sostegno
delle diseconomie di quel servizio.
13
14
Fiandaca e Musco, Diritto penale – Parte speciale - I, cit., 175.
15
Cassazione, 6 giugno 1991, Toso, in Cassazione penale, 1992, 69.
Stortoni, Delitti contro la Pubblica Amministrazione, in Aa.Vv., Diritto penale – Lineamenti di parte
speciale, cit., 95. Così, pure, Pagliaro, Principi di diritto penale – Parte speciale – Delitti dei pubblici ufficiali
contro la Pubblica Amministrazione, cit., 10 ss. Plantamura, Le qualifiche soggettive pubblicistiche, in Cadoppi,
Canestrari, Manna e Papa, I delitti contro la pubblica amministrazione, Torino, 2008, 901, secondo cui gli
atti autoritativi sono «produttivi, unilateralmente, di effetti giuridici in capo ai loro destinatari, i quali,
evidentemente, vengono così a trovarsi su di un piano non paritetico, rispetto alla P.A.».
16
17
Cassazione, Sezione VI, 7 aprile 1993, n. 5331, in Cassazione penale, 1994, 1856.
18
Cassazione, Sezione VI, 8 marzo 1995, n. 7935, in Cassazione penale, 1996, 3666.
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Amministrazione, essendo strumentale al rilascio della licenza di costruzione»19;
• al dirigente dell’Ufficio tecnico comunale, al quale il Sindaco abbia conferito il
compito di accertare l’abusività di una costruzione20.
Sulla base di queste considerazioni, sembra incontestabile sostenere che al Dirigente
o al Responsabile del competente Ufficio del Comune, che intervenga in tema di SCIA
per esercitare quegli ampi poteri di controllo, di intervento inibitorio o di autotutela, e di
denuncia, previsti dagli artt. 19, comma 3, 4 e 6bis, della legge n. 241 e 23, comma 6,
testo unico edilizia, vada riconosciuta la qualifica di pubblico ufficiale, e non quella più
riduttiva di incaricato di pubblico servizio, perché, per il perseguimento del fondamentale
interesse pubblico al corretto assetto del territorio, esercita, inequivocabilmente, poteri
pubblici di imperio, rispetto alle quali il privato si trova in una posizione di soggezione.
Ciò precisato, si deve sottolineare che, al fine di garantire l’attuazione dei principi
costituzionali in materia di Pubblica Amministrazione, enunciati negli artt. 28, 54 e 97
Costituzione, e consistenti nella diretta responsabilità dei funzionari e dei dipendenti
pubblici per gli atti compiuti in violazione di diritti, nel dovere di adempiere le funzioni
pubbliche con disciplina e onore21, ed infine nell’organizzazione dei pubblici uffici
stabilita dalla legge in modo da assicurare il buon andamento e l’imparzialità della
amministrazione22, il legislatore ordinario penale prevede uno specifico statuto per la
Pubblica Amministrazione23, che implica un regime particolare per la responsabilità
penale dei soggetti che devono espletarne le funzioni nel rispetto delle regole prestabilite,
con l’obiettivo di proteggere in modo adeguato i diversi interessi pubblici offesi dalla
violazione dei doveri funzionali su di loro gravanti, garantendo al contempo un equilibrato
rapporto tra il sindacato svolto dall’autorità giudiziaria ordinaria sulle attività esercitate
dai pubblici funzionari e la funzionalità dell’azione della Pubblica Amministrazione, svolta
da quelli stessi soggetti24.
19
Cassazione, Sezione VI, 18 ottobre 1984, n. 10598, in Rivista penale, 1985, 742.
Cassazione, Sezione VI, 5 novembre 1998, n. 1407, in Cassazione penale, 2000, 390, che ha, pure,
precisato che tale dirigente ha l’obbligo di denunciare eventuali abusi perseguibili al Sindaco, che a sua
volta deve immediatamente informare l’autorità giudiziaria.
20
Una dotta analisi dell’importanza nel diritto penale del principio affermato dal II comma dell’art. 54
Costituzione è stata svolta da Tagliarini, Il concetto di pubblica amministrazione nel codice penale,
Milano, 1973, 136 ss., che ha sostenuto che l’endiadi “disciplina ed onore” va intesa come obbligo per il
funzionario pubblico di agire «nel rispetto della legalità e della rettitudine in modo tale che ogni cittadino
possa riconoscersi nell’azione della pubblica autorità e, conseguentemente, sentire, ancor prima e più che
manifestare, sentimenti di rispetto e di fiducia nell’azione dei pubblici poteri».
21
Per una compiuta analisi dei principi costituzionali sulla pubblica amministrazione si rimanda a De
Vergottini, Diritto costituzionale, Padova, 2012, 619 ss.
22
23
Fiandaca e Musco, Diritto penale – Parte speciale – I, cit., 156 ss.
La necessità di ricostruire i reati contro la pubblica amministrazione in senso conforme ai valori
costituzionali espressi in materia dalla Costituzione del 1948 è stata ben evidenziata da tempo da Bricola,
Tutela della pubblica amministrazione e principi costituzionali, in Temi, 1968, 563 ss., che ha, in particolare,
messo in risalto come la vigente Costituzione ha conferito «autonome caratteristiche e autonomi principi»
alle tre funzioni fondamentali dello Stato «e al tipo di procedimento prefissato per l’espletamento degli atti
connessi alle relative funzioni», così da porre in crisi il concetto unitario di Pubblica Amministrazione, che
era, invece, sotteso al codice penale del 1930, permeato dell’ideologia fascista, che rigettava il principio
liberale della separazione delle stesse funzioni, ridotto a mera ripartizione di competenze.
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21
A seconda della lesione prodotta ai beni pubblici coinvolti dalla condotta antidoverosa
assunta dai pubblici ufficiali nell’esercizio dei loro poteri in violazione della disciplina
in vigore, l’ordinamento penale prevede una pluralità di fattispecie, ricomprese,
principalmente, tra i delitti contro la pubblica amministrazione, di cui al capo I, del
titolo II, del libro II del codice penale, che, avendo come bene giuridico protetto «la
legale esplicazione dei pubblici poteri»25, tutelano l’interesse pubblico «alla probità,
alla riservatezza, all’imparzialità, alla fedeltà delle persone che esplicano attribuzioni di
interesse pubblico»26.
Vi sono, però, anche altre fattispecie, aventi parimenti ad oggetto l’uso di poteri
pubblici in contrasto con il loro regime giuridico, ricomprese o tra i delitti contro
l’attività giudiziaria, di cui al capo I del titolo III del libro II del codice penale, nei quali
si protegge l’interesse pubblico al corretto esercizio delle funzioni giudiziarie (v. art.
361 codice penale); oppure tra i delitti di falsità in atti, di cui al capo III, del titolo VII,
del libro II del codice penale, nei quali si garantisce l’interesse pubblico all’autenticità
e alla veridicità dei documenti, ed in particolare di quelli formati dai pubblici ufficiali
nell’esercizio delle funzioni certificative di cui sono titolari (v. artt. 476 ss. codice
penale)27.
Pur nella diversità degli interessi di volta in volta considerati meritevoli di tutela,
queste molteplici figure di reato sono accomunate dal minimo comune denominatore
costituito dal mancato rispetto da parte degli amministratori pubblici delle regole che
sovraintendono al corretto svolgimento delle loro funzioni, che integra l’elemento
caratterizzante dell’antigiuridicità dei diversi fatti illeciti tassativamente previsti dal
legislatore con specifico riguardo alla pubblica qualifica ricoperta, così da giustificare
una particolare carica di responsabilità penale in relazione alla gravità della violazione
dei pubblici doveri loro imposti dalla legge nell’organizzare i pubblici uffici «in modo che
siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione», secondo il
chiaro disposto costituzionale sopra richiamato28.
In tali ipotesi di reato, difatti, l’oggetto della tutela penale è l’interesse dello Stato
a che i poteri pubblici «non vengano usati in modo arbitrario ed abusivo ovvero
Nella stessa direzione si vedano pure: Tagliarini, Il concetto di pubblica amministrazione nel codice
penale, cit.; Severino Di Benedetto, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Le
qualifiche soggettive, Milano, 1983; Rampioni, Bene giuridico e delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione, Milano, 1984.
Secondo la brillante ricostruzione fatta da Stortoni, Delitti contro la Pubblica Amministrazione, in Aa.Vv.,
Diritto penale – Lineamenti di parte speciale, cit., 75 ss. Anche per Tagliarini, Il concetto di pubblica
amministrazione nel codice penale, cit., 142, i reati contro la Pubblica Amministrazione devono essere
interpretati nel senso di tutelare i valori costituzionali espressi in materia dalla Costituzione, ossia: «a)
la legale distribuzione ed il legale esercizio delle funzioni secondo competenza; b) il buon andamento; c)
l’imparzialità».
25
26
Antolisei, Manuale di diritto penale – Parte speciale – II, Milano, 1997, 261.
Si rimanda alle più ampie trattazioni svolte da Gustapane, Gli scritti anonimi tra giusto processo e
obbligatorietà dell’azione penale, in Ind. pen. n. 1 del 2010, 43 ss.; Id., Imitazioni e dissimulazioni
grafiche: profili penali e processual-penali, in Giust. pen., 2010, V, 178 ss.; ID, La disciplina degli scritti
anonimi nel diritto penale e nel diritto processulpenale italiano, in Aa.Vv., Le lettere anonime, Mesagne,
2011.
27
28
Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione – I delitti dei pubblici uffciali, cit., 10.
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22
per fini estranei a quelli tipici assegnati dalla legge ad ogni organo od ufficio»,
al fine di reprimere gli abusi «che possono sorgere nei rapporti intersoggettivi
fra amministrazione e cittadini, per il fatto di essere i funzionari della pubblica
amministrazione dotati di uno specifico potere d’imperio o di supremazia rispetto ai
privati»29.
Per prevenire ogni sindacato di merito sull’attività amministrativa da parte
dell’autorità giudiziaria penale, foriera del pernicioso effetto di determinare una
paralisi dell’azione dei pubblici amministratori, spaventati dal rischio di essere
ingiustamente inquisiti30, il legislatore ha previsto per coloro che sono investiti di
mansioni di interesse pubblico, e per i pubblici ufficiali in particolare, un determinato
regime penale, che contempla in modo tassativo le violazioni dei doveri funzionali
che integrano fattispecie di reato, specificamente modellate, per elementi costitutivi
e circostanziali e per trattamento sanzionatorio, in relazione alla gravità della
lesione arrecata ai beni giuridici del buon andamento e dell’imparzialità della
Pubblica Amministrazione, ed in taluni casi pure della fede pubblica e della corretta
amministrazione della giustizia.
I reati consistenti nella illegale esplicazione dei pubblici poteri sono, perciò, dei reati
propri, nei quali, secondo le regole generali, vi deve essere una stretta interrelazione
tra la condotta prevista dalla norma incriminatrice e la specifica situazione giuridica
rivestita dal soggetto agente, in quanto, «se la legge dispone che una certa azione
realizzi il reato solo se posta in essere da un particolare soggetto, è perché ritiene che
essa sia meritevole di pena proprio in ragione del suo autore», che impiega in modo
«anomalo, scorretto, illecitamente finalizzato ecc.» i poteri, le situazioni giuridiche e di
fatto «di cui egli dispone»31.
I pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio sono, quindi, perseguibili,
per l’esercizio dei poteri di cui sono titolari in contrasto con la disciplina giuridica
che li riguarda, soltanto nelle ipotesi di reato previste dal legislatore a tutela dei
valori o del buon andamento e dell’imparzialità della Pubblica Amministrazione,
o delle fede pubblica, o della corretta amministrazione della giustizia, con la
doverosa precisazione che tali fattispecie possono eventualmente concorrere
con altra ipotesi di reato posta a tutela di un bene giuridico diverso, quando
quest’ultimo può essere offeso anche dall’esercizio abusivo del potere pubblico,
come meglio si vedrà infra.
Ma in cosa consiste l’esercizio illecito delle potestà amministrative dal punto di vista
della legge penale?
Per rispondere correttamente a questa domanda, non si può che fare riferimento
al reato di abuso d’ufficio, previsto dall’art. 323 codice penale, come modificato
dalla legge n. 234 del 1997, che nel sistema penale italiano contiene il paradigma
29
Tagliarini, Il concetto di pubblica amministrazione nel codice penale, cit., 144.
Come ben messo in rilievo da Corte Costituzionale sentenza 11-18 marzo 1999, n. 69, che rigettò le
questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’art. 323 codice penale, come modificato dalla legge n.
234 del 1997.
30
Stortoni, Delitti contro la Pubblica Amministrazione, in Aa.Vv., Diritto penale – Lineamenti di parte speciale,
cit., 79.
31
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23
normativo delle condotte dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio,
che consistono nel compimento delle attribuzioni pubbliche in violazione delle
regole vigenti.
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Capitolo Quarto
LA VIOLAZIONE DEI DOVERI DI CONTROLLO SULLA SCIA
QUALE ABUSO D’UFFICIO
Al fine di delimitare il sindacato dell’autorità giudiziaria penale sulle condotte abusive
degli operatori pubblici (pubblici ufficiali o incaricati di servizio pubblico), la legge n.
234 del 1997, voluta con decisione dalla maggioranza delle forze politiche presenti in
Parlamento, in quel momento scosse dalle indagini sui fenomeni di degenerazione del
tessuto politico-amministrativo del Paese, che negli anni precedenti si erano sviluppate su
tutto il territorio nazionale, talora trasbordando in un non consentito controllo sul merito
dell’azione amministrativa, ha riscritto la fattispecie di cui all’art. 323 codice penale1,
trasformandola da reato di pura condotta e a dolo specifico in reato di evento e a dolo
intenzionale, utilizzando i seguenti termini: «Salvo che il fatto non costituisca un più
grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento
delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero
omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o
negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio
patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei
mesi a tre anni. - La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un
carattere di rilevante gravità»2.
Dall’attenta lettura del testo, si desume chiaramente che la norma mira, in primo
luogo, a tutelare i valori fondamentali, espressi dall’art. 97 Costituzione, del buon
andamento e dell’imparzialità della Pubblica Amministrazione3, che ha l’obbligo di agire
effettuando sempre, secondo le modalità legali di esercizio del potere, una valutazione
Un attento esame del reato di abuso di ufficio come disciplinato prima della legge n. 234 del 1997 è
stato svolto da Manes, Abuso d’ufficio e progetti di riforma: i limiti dell’attuale formulazione alla luce delle
soluzioni proposte, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1997, 4, 1202 ss.
1
Per Cassazione, Sezione II, 4 dicembre 1997, n. 1279, Tosches, il fine dichiarato della riforma del 1997
«è quello di limitare il controllo penale sull’attività dei pubblici amministratori entro confini compatibili con
il principio costituzionale della divisione dei poteri». La sentenza, una delle prime ad intervenire dopo la
riforma, è stata ben commentata da Tesauro, La riforma dell’art. 323 al collaudo della Cassazione, in Foro
it., II, 1998, 258 ss.
Secondo Seminara, Il nuovo delitto di abuso d’ufficio, in Studium iuris, 1997, 1251 ss., la riforma di cui
alla legge n. 234, perseguendo «esclusivamente l’obiettivo di delimitare l’azione giudiziaria (negli ultimi
anni davvero invadente e pervasiva) nei confronti dei pubblici funzionari», ha creato «una fattispecie
dichiaratamente volta alla tutela del “diritto della politica”», così da essere «espressiva di un grado di
conflittualità tra i poteri dello Stato che non può non condurre alla soccombenza del diritto stesso».
2
Cassazione, Sezione VI, 24 giugno 1998, n. 10136, Ottaviano e altro, per la quale l’interesse garantito
dalla norma, «continua a essere il bene giuridico tutelato dall’art. 97 Cost., ossia il buon andamento e
l’imparzialità della p.a.»; Cassazione, Sezione VI, 7 maggio 1998, n. 695, Verratti; Cassazione, Sezione VI,
2 ottobre 1998, n. 11984, Tilesi e altri;
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25
oggettiva degli interessi contrapposti, così da evitare discriminazioni o favoritismi4.
L’art. 323 codice penale, difatti, da un lato, prevede, come elemento oggettivo del
reato, l’esercizio dell’ufficio o del servizio pubblico in contrasto con norme di legge
o di regolamento o con l’obbligo giuridico di astensione, che costituisce violazione
della regola costituzionale del buon andamento dell’azione amministrativa; e dall’altro
lato, contempla, come evento del reato, l’intenzionale produzione di un danno o di un
vantaggio patrimoniale ingiusto, che comporta la lesione del principio costituzionale
dell’imparzialità dell’azione amministrativa5.
Secondo Pagliaro, soggetto passivo del reato in esame sarebbe esclusivamente il
titolare dell’interesse tutelato dalla norma come oggetto giuridico del reato, ossia la
Pubblica Amministrazione, con esclusione di colui che subisca un danno dal reato, che
diverrebbe eventualmente danneggiato civile, in quanto «la tutela della imparzialità
è una tutela della Pubblica Amministrazione», e solo indirettamente del privato6. E in
questo senso era intervenuta pure la Cassazione, nei primi tempi dell’entrata in vigore
della riforma del 1997, quando aveva sostenuto che nel reato in esame «la parte offesa
è solo la Pubblica Amministrazione, in quanto titolare dell’interesse protetto dalla norma
incriminatrice, rappresentato dal buon andamento, dall’imparzialità e dalla trasparenza
dell’azione dei pubblici ufficiali», con l’effetto che il privato che avesse «eventualmente
subito un danno ingiusto» era «semplicemente soggetto danneggiato, legittimato a
costituirsi parte civile nel processo penale, ma destinato a rimanere assente nella fase
delle indagini preliminari», e quindi non «legittimato a proporre opposizione avverso la
richiesta di archiviazione» presentata dal Pubblico ministero nei confronti di soggetto
indagato per il reato suddetto7.
Ben presto, però, si è affermato, sia in dottrina che in giurisprudenza, un diverso
e più corretto orientamento, che ha portato a ritenere che il reato in questione ha
un contenuto plurioffensivo, quando la condotta illecita è di tipo prevaricatrice, ossia
produttiva di un ingiusto danno, perché in tal caso, oltre a ledere i principi di imparzialità
e di buon andamento della Pubblica Amministrazione, esso offende, pure, l’interesse
del privato a non essere turbato nei suoi diritti costituzionalmente garantiti8, così che
quest’ultimo deve essere considerato soggetto passivo del reato, abilitato a presentare
Stortoni, Delitti contro la Pubblica Amministrazione, in Aa.Vv., Diritto penale – Lineamenti di parte speciale,
cit., 133 ss.
4
Così pure D’Avirro, L’abuso d’ufficio, in Aa.Vv. (a cura di D’avirro), I delitti dei pubblici ufficiali contro
la pubblica amministrazione, cit., 265 ss.; Fiandaca e Musco, Diritto penale – Parte speciale I, Bologna,
Zanichelli, 2012, 244 ss.
In senso difforme Pagliaro, Principi di diritto penale – Parte speciale – Delitti contro la Pubblica Amministrazione,
Milano, 1998, 229 ss., ha sostenuto che il bene tutelato è l’imparzialità della Pubblica Amministrazione
(intesa come interesse a che i poteri della Pubblica Amministrazione non siano adoperati per alterare il
diritto alla eguaglianza dei cittadini nei confronti della Pubblica Amministrazione), in quanto la fattispecie
dell’abuso di ufficio «richiede solo un evento di ingiusto vantaggio per sé od altri oppure di ingiusto danno
per altri, senza richiedere necessariamente il danno della Pubblica Amministrazione», elemento che invece
avrebbe permesso di configurare anche la lesione del bene del buon andamento.
5
6
Pagliaro, Principi di diritto penale – Parte speciale – Delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 231.
7
Cassazione, Sezione VI, 13 gennaio 1998, n. 17, Airò.
8
Benussi, Il nuovo delitto di abuso d’ufficio, Padova, 1998, 14 ss.
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opposizione all’eventuale richiesta di archiviazione avanzata dall’organo requirente9.
Quanto all’elemento oggettivo del reato, si rileva che, nella formulazione introdotta
nel 1997, l’abuso di ufficio è un reato proprio a condotta tipicizzata e causalmente
orientata a produrre l’evento ingiusto, perché l’elemento materiale del reato consiste
nella violazione delle modalità tipiche di svolgimento delle funzioni o del servizio fissate
dall’ordinamento giuridico con norme di legge o di regolamento, che è di per sé idonea
a provocare un ingiusto vantaggio patrimoniale per sé o per altri o un danno ingiusto
ad altri10.
Tali aspetti di novità, rispetto alla precedente disciplina, sono stati colti dalla Corte
Suprema, che ha evidenziato, sin dalle prime pronunce, che i compilatori della legge del
1997 «hanno cercato di perseguire l’obiettivo di limitare il controllo penale sull’operato
dei pubblici amministratori, anzitutto descrivendo le modalità tipiche attraverso le quali
la condotta incriminatrice deve produrre l’evento di danno o di vantaggio» ingiusto, ossia
la violazione di legge o di regolamento, ovvero l’inosservanza di un obbligo di astensione
in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto; «e poi modificando la
struttura oggettiva del reato, che hanno trasformato da delitto a consumazione anticipata
e a dolo specifico in delitto di evento»11.
Nello stesso senso, si è, pure, messo in rilievo che «la nuova norma di cui all’art. 323
c.p., da un lato, ha meglio definito la condotta tipica del pubblico agente e, dall’altro,
ha trasformato il delitto de quo da reato di mera azione in reato di azione e di evento.
Infatti, sotto il primo profilo, il legislatore ha sostituito la generica formula abusa del
suo ufficio con la descrizione di un comportamento non più a forma libera, ma vincolata:
la violazione di norme di legge o regolamento, oppure la violazione del dovere di
astensione. Sotto il secondo profilo, elemento essenziale della fattispecie materiale non
Cassazione, Sezione VI, 11 novembre 1998, Infantino; Cassazione, Sezione VI, 11 novembre 1998,
Messineo; Cassazione, 8 aprile 1999, n. 1236, Vitalone, «Il reato di abuso di ufficio (…) sussiste solo se,
per effetto di indebita condotta posta in essere mediante un comportamento tipico, il pubblico ufficiale
o l’incaricato di pubblico servizio abbiano effettivamente procurato a sé o ad altri un ingiusto profitto di
carattere patrimoniale ovvero abbiano arrecato ad altri un danno ingiusto (di natura non necessariamente
patrimoniale). Nell’attuale previsione, pertanto, il reato di abuso di ufficio non si configura come reato
formale di mera condotta, finalizzato a realizzare un pregiudizio per il privato, ma quale vero e proprio
reato di evento in cui la realizzazione dell’altrui danno ingiusto concreta il momento consumativo del
delitto in questione. Ne consegue che il soggetto al quale tale condotta abbia arrecato il predetto danno
riveste la qualità di persona offesa dal reato, legittimata, in quanto tale, a proporre opposizione avverso
la richiesta di archiviazione del Pubblico ministero ai sensi del combinato disposto degli artt. 408 e 410
c.p.p.»; Cassazione, Sezione VI, 1 aprile – 16 giugno 2003, n. 25891, ric p.o. Giunta in proc. Megna, in
Guida dir., 2003, 49, 74, «Nel caso di danno patrimoniale, si è in presenza di un reato plurioffensivo,
nel senso che, oltre alla Pubblica Amministrazione, assume il ruolo di persona offesa anche la persona
danneggiata: la quale, nel caso ne abbia fatto richiesta, deve essere avvisata ex art. 408 cpp della richiesta
di archiviazione presentata dal Pubblico ministero». Viceversa «nel caso di abuso di ufficio con evento di
vantaggio patrimoniale, l’interesse tutelato dalla norma è soltanto quello costituito dal buon andamento,
dall’imparzialità e dalla trasparenza del comportamento dei pubblici ufficiali. Poiché quindi l’unica persona
offesa è la Pubblica Amministrazione, il denunciante non ha diritto all’avviso ex art. 408 cpp»; Cassazione,
Sezione VI, 28 novembre 2007, n. 329, ric. Buglioli, in Guida dir., 2008, 7, 52; Cassazione, Sezione VI, 24
settembre 2008, n. 38135, p.o. Maiorca, in Guida dir., dossier 10, 2008, 65; Cassazione, Sezione VI, 16
dicembre 2010, n. 1231, Brandimarte, in Guida dir., 2011, 75.
9
Stortoni, Delitti contro la Pubblica Amministrazione, in Aa.Vv., Diritto penale – Lineamenti di parte speciale,
cit., 133 ss.
10
11
Cassazione, Sezione II, 4 dicembre 1997, n. 1279, Tosches.
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è più soltanto la condotta illegittima del pubblico ufficiale integrante l’abuso, ma altresì
l’ingiusto vantaggio patrimoniale che quella condotta procura o l’ingiusto danno che
essa arreca»12.
La condotta tipica si articola, pertanto, nei seguenti modi:
1. o come esercizio delle funzioni o del servizio in violazione di norme di legge o di
regolamento, ipotesi che si riferisce ad ogni situazione «in cui il funzionario eserciti
i suoi poteri violando disposizioni contenute in una legge o in un regolamento»13;
2. o come omessa astensione dall’esercizio delle funzioni e del servizio: o in presenza
di un interesse proprio o di un prossimo congiunto (ex art. 307 ult. comma codice
penale); o negli altri casi prescritti, si intende dalla legge o dal regolamento come
risulta dall’interpretazione sistematica dello stesso I comma, che ha delimitato la
violazione delle funzioni o del servizio sanzionabili in riferimento a situazioni di
fatto definite solo da tali fonti normative14.
Così strutturata, la fattispecie contemplata dall’art. 323 codice penale è un reato
commissivo (o di azione) a forma vincolata, perché la norma indica le modalità
con le quali l’azione deve estrinsecarsi, e consistenti in un uso non legittimo del
potere pubblico causalmente idoneo a produrre l’evento ingiusto, con l’effetto di
delimitare l’intervento dell’autorità giudiziaria penale nei confronti della pubblica
amministrazione, della quale si è voluto preservare l’ambito di discrezionalità della
propria azione.
Pertanto, sia che l’azione amministrativa si estrinsechi in un atto sia che si manifesti in
un fatto, in ogni caso è l’illegittimità dell’atto o del fatto a integrare l’elemento costitutivo
della fattispecie, che consiste nella strumentalizzazione oggettiva dell’ufficio, inteso
come il complesso delle facoltà e dei poteri di compiere un atto o un’azione giuridica
tesi a soddisfare un interesse pubblico.
12
Cassazione, Sezione VI, 27 aprile 1998, Celico.
Pagliaro, Principi di diritto penale – Parte speciale – Delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 239
ss., per il quale, «se si fosse voluto fare riferimento proprio al concetto tecnico di “violazione di legge” nel
diritto amministrativo, si sarebbe dovuta usare nel testo di legge tale esatta espressione e non quella,
altrimenti tecnica, di “violazione di norme di legge o di regolamento”».
13
Cassazione, Sezione VI, 17 ottobre 1997, n. 952, Vitarelli e altri, «L’attuale formulazione dell’art. 323, (...),
al fine di procedere a maggiore tipicizzazione della condotta del pubblico ufficiale, richiede specificamente
che questi abbia agito in violazione di leggi o di regolamenti; inoltre, essa configura un reato di evento,
postulando che il comportamento dell’agente abbia determinato un ingiusto vantaggio patrimoniale per
sé o per altri ovvero un danno ingiusto per altri, evento il cui verificarsi era invece indifferente ai sensi
della previgente previsione sanzionatoria, per la quale era sufficiente che al vantaggio o al danno fosse
finalizzata l’azione; infine, viene sempre richiesto il carattere patrimoniale per quanto concerne il vantaggio
ingiusto, mentre tale carattere, in precedenza, valeva solo a caratterizzare un’ipotesi più grave, prevista
nel comma 2».
Così pure Cassazione, Sezione VI, 12 agosto 1997, n. 8107, Cirio; Cassazione, Sezione VI, 7 maggio 1998,
n. 695, Verratti, «L’indebita condotta, posta in essere dall’agente mediante un comportamento tipico,
deve consistere nella violazione di norme di legge o di regolamento ovvero nella omissione dell’obbligo di
astensione in presenza di un interesse proprio (o di un proprio congiunto o negli altri casi prescritti) ed
occorre che da detta condotta derivi una lesione effettiva e non la mera esposizione a pericolo dell’interesse
garantito dalla norma, che continua ad essere il bene giuridico tutelato dall’art. 97 Cost. (il buon andamento
e la imparzialità della Pubblica Amministrazione)».
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Può, allora, dirsi che l’abuso è ontologicamente l’illegittimità dell’uso del potere di
azione giuridica causalmente orientato alla realizzazione dell’evento illecito15, ossia è lo
«sviamento del potere dal perseguimento dei fini pubblici, per i quali è assegnato, verso
le finalità private tipizzate nell’art. 323»16.
In questa direzione si è mossa la Corte di Cassazione, che ha sottolineato come
la legge n. 234 del 1997, al fine di superare i limiti della descrizione della fattispecie
delineata nella legge n. 86 del 1990, «nella quale l’elemento costitutivo consisteva
nell’avere il soggetto abusato dell’ufficio, condotta la cui concreta individuazione restava
affidata alla previa ricostruzione, non semplice e forzatamente priva di adeguata
certezza, delle linee caratterizzanti l’uso (corretto e fedele) dell’ufficio, quale parametro
di valutazione della sospetta parzialità», ha configurato «il parametro di apprezzamento
del carattere abusivo della condotta, individuandolo in modo tipizzato nella inosservanza
di precetti contenuti in due categorie specifiche di atti produttivi di regole», ossia la
legge e il regolamento, che sono categorie «chiaramente richiamate per il loro carattere
di maggior valore formale e di maggiore certezza rispetto alla molteplicità delle altre
possibili categorie».
Di conseguenza, l’elemento costitutivo del reato può consistere esclusivamente
«nella violazione di norme emanate con atti che abbiano i caratteri formali e il regime
giuridico» o della legge o del regolamento17, il cui richiamo, effettuato dall’art. 323
codice penale per specificare quali siano le regole di gestione degli interessi pubblici
che il pubblico amministratore deve rispettare, non si pone in contrasto con il principio
della riserva di legge in materia penale, stabilito dall’art. 25 Costituzione, perché tale
riserva, secondo la migliore dottrina18, deve essere intesa come solo tendenzialmente
assoluta, in modo da ammettere, per la definizione della fattispecie penale, il rinvio
a norme regolamentari «abilitate a introdurre mere “specificazioni tecniche” di uno
o più elementi già enucleati dalla norma primaria e sulla base di un criterio tecnico
dalla stessa indicato»19, come per l’appunto avviene nell’ambito dell’organizzazione
Manzione , Le forme di manifestazione della condotta, in Aa.Vv., Modifica dell’abuso d’ufficio e le
nuove norme sul diritto di difesa, Milano, 1997, 3 ss.; R usso, La violazione di legge e di regolamento,
ivi, 21 ss.
15
Pagliaro, Principi di diritto penale – Parte speciale – Delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit.,
240 ss. Nello stesso senso D’Avirro, L’abuso d’ufficio, in Aa.Vv. (a cura di D’Avirro), I delitti dei pubblici
ufficiali contro la pubblica amministrazione, cit., 265 ss. che ha osservato che il presupposto della
condotta di abuso di ufficio, ossia l’esercizio delle funzioni o del servizio, permette di ricomprendere
nella fattispecie penale ogni «trasgressione di un dovere inerente all’ufficio o al servizio, che si può
concretare in un atto o in un comportamento illegittimo». Parimenti Romano, I delitti contro la pubblica
amministrazione – I delitti dei pubblici uffciali, cit., 253 ss., per il quale l’abuso d’ufficio di cui all’art.
323 codice penale è un abuso di poteri, che «postula l’effettiva contestuale presenza dei poteri (…)» e
«deve inerire causalmente all’attività propria del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio e al
suo concreto esercizio».
16
Cassazione, Sezione VI, 2 ottobre 1998, n. 11984, Tilesi e altri, dove si è pure sostenuto che «Nonostante
la rilevanza delle modifiche, deve ritenersi che tra le norme succedutesi» in materia di abuso di ufficio
«esista un nesso di continuità e omogeneità (...). In sostanza, la norma sostituita e quella vigente sono
state emanate per punire forme in parte identiche e in parte analoghe di strumentalizzazione della funzione
o del servizio di natura pubblica per finalità personali o comunque private».
17
18
Bricola, Teoria generale del reato, cit., 42 ss.; Fiandaca e Musco, Diritto penale, cit., 52 ss.
19
Garofoli, Manuale di diritto penale, Roma, 2013, 47.
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dei pubblici uffici, dove, ai sensi dell’art. 97, II comma, Costituzione, si riconosce
alla Pubblica Amministrazione una potestà regolamentare da esercitare nei limiti
stabiliti dalle disposizioni adottate dal legislatore «in modo che siano assicurati il
buon andamento e l’imparzialità» dell’azione amministrativa.
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Capitolo Quinto
CONTINUA: L’ABUSO PER VIOLAZIONE DI LEGGE O DI
REGOLAMENTO
È bene precisare che l’inciso “violazione di norme di legge o di regolamento” esprime
un concetto più ampio di quello contenuto nell’espressione “violazione di legge” utilizzata
dagli artt. 26 regio decreto n. 1054 del 1924 (testo unico C. di S.) e 2 legge n. 1034 del
1971 (legge T.A.R.) per individuare i vizi di validità dell’atto amministrativo, in quanto
indica quale sia la fonte del diritto contenente la norma che non deve essere violata dal
comportamento del soggetto attivo del reato.
In altri termini, l’espressione definisce il parametro normativo di valutazione
dell’abusività della condotta del soggetto attivo del reato, facendo riferimento alle fonti
del diritto di produzione delle norme, ossia la legge o il regolamento1, che disciplinano in
modo cogente l’esercizio delle funzioni e dei servizi pubblici da parte dei pubblici ufficiali
o degli incaricati di pubblico servizio2.
Si deve, però, evidenziare, come ribadito anche di recente dalla Corte di Cassazione
per chiudere una questione a lungo dibattuta, che «il legislatore della novella non ha
inteso limitare la portata applicativa dell’art. 323 codice penale ai casi di violazione
di legge in senso stretto, avendo voluto far rientrare anche le altre situazioni che
integrano un vizio dell’atto amministrativo: dunque, anche le ipotesi di eccesso di
potere, configurabili laddove vi sia stata oggettiva distorsione dell’atto dal fine di
interesse pubblico che avrebbe dovuto soddisfare; e quelle di sviamento di potere,
riconoscibili se il potere pubblico è stato esercitato al di fuori dello schema che
Cassazione, Sezione VI, 16 ottobre 2012, n. 43476, Difeo e altri, «In tema di abuso di ufficio, i “regolamenti”
la cui violazione integra la condotta delittuosa sono quelli adottati secondo il modello previsto dalla legge
23 agosto 1988, n. 400, e quelli che trovino fondamento in ogni altra disposizione di legge che attribuisca
ad un organo il potere di adottare atti amministrativi a carattere generale. (Nella specie la Corte ha ritenuto
integrare la condotta di abuso d’ufficio la violazione delle prescrizioni dettate dal comandante del porto di
Barletta attinenti alla sicurezza portuale, in quanto espressione del potere riconosciutogli dall’art. 81 del
codice di navigazione e dall’art. 59 del relativo regolamento)».
1
Così Pagliaro, Principi di diritto penale – Parte speciale – Delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit.,
239 ss.; e nello stesso senso: Gambardella, Il controllo del giudice penale sulla legalità amministrativa,
Milano, 2002, 44; Seminara, Il nuovo delitto di abuso d’ufficio, cit., 1251 ss.. In senso contrario: Leoni, Il
nuovo reato di abuso d’ufficio, Padova, 1998, 52; Manna, Luci e ombre nella nuova fattispecie di abuso
d’ufficio, in Ind. pen., 1998, 13 ss.; Benussi, Il nuovo delitto di abuso d’ufficio, cit. 35, che hanno ritenuto
che l’espressione usata nell’art. 323 codice penale coincida con il vizio tipico dell’atto amministrativo.
Sembra opportuno ricordare che, come osservato, da Cassazione, Sezione VI, 13 maggio 2003, n. 27007,
Grassi, in Cassazione penale 2004, 1605, in base al nuovo testo, non può più seguirsi l’orientamento
espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza 19 febbraio 1965 n. 7 di considerare elemento materiale
del reato di abuso di ufficio, come formulato originariamente dal codice penale del 1930, pure la violazione
di istruzioni o di norme interne o di principi generali di diritto pubblico non espressamente indicati in norme
di legge o di regolamento.
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ne legittima l’attribuzione» 3, in quanto anche tale vizio dell’atto amministrativo si
Cassazione, Sezione VI, 12 giugno 2012, n. 25180, Rv. 253118, est. Aprile, imp. D’Emma.
La sussumibilità del vizio di eccesso di potere tra i parametri normativi di valutazione della correttezza o
meno della condotta dell’amministratore pubblico ai fini della configurabilità o meno del reato di abuso di
ufficio come riformato nel 1997 è stata a lungo dibattuta nella giurisprudenza di legittimità.
Nei primi anni successivi all’entrata in vigore della legge di riforma si era affermato un orientamento
decisamente contrario: Cassazione, Sezione VI, 29 ottobre 1997, n. 1470, Fedele, «Il campo delle
fattispecie penalmente rilevanti (...) risulta oggi circoscritto alle attività del pubblico ufficiale che si
risolvono in violazioni di legge o di regolamento, ovvero nell’inottemperanza all’obbligo di astensione in
presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, così escludendosi
dalla previsione delittuosa l’ipotesi di eccesso di potere quale deviazione del potere discrezionale dal fine
tipico dell’atto»; Cassazione, Sezione VI, 10 novembre 1997, n. 1163, Marconi; Cassazione, Sezione
II, 4 dicembre 1997, n. 1279, Tosches; Cassazione, Sezione VI, 17 febbraio 1998, n. 4075, Ferrante;
Cassazione, Sezione VI, 3 novembre 1998, n. 12793, Caldarola, in Cassazione penale, 1999, 3399 ss.;
Cassazione, Sezione VI, 8 novembre 2000, n. 12556, Gremmo e altri, in Guida dir., 2001, suppl. 2, 122;
Cassazione, Sezione VI, 3 aprile 2002, n. 6600, Gallina, in Cassazione penale, 2003, 510; Cassazione,
Sezione VI, 16 dicembre 2002, n. 1761, Sciannameo.
Negli stessi anni, però, si era formato, pure, un indirizzo favorevole a considerare il vizio di eccesso di
potere rilevante per la configurazione del reato in questione: Cassazione, Sezione VI, 25 febbraio 1998,
n. 5118, Percoco, «L’abuso richiesto per l’integrazione criminosa prevista e punita dall’art. 323 c.p.
deve intendersi come esercizio del potere per scopi diversi da quelli imposti dalla natura della funzione
pubblica di cui l’agente è investito; pertanto mancando l’elemento dell’esercizio del potere è da escludere
la configurabilità del reato»; Cassazione, Sezione VI, 9 febbraio 1998, Marinucci, in Cassazione penale,
1999, 1761, che aveva testualmente affermato «(…) se è vero (…) che la figura dell’innovato art. 323
c.p. prescinde dalle patologie dell’atto amministrativo, e che la condotta rimane integrata dall’ingiusto
vantaggio patrimoniale o dal danno ingiusto (...) procurato nello svolgimento delle funzioni in violazioni di
norme di legge o di regolamento, è altrettanto indiscutibile che la condotta da prendere in considerazione
deve inerire all’esercizio del potere attribuito dalla normativa di base dell’ufficio, di cui fa parte il pubblico
ufficiale. Ed allora, trattandosi di funzione, cioè di potere conferito in vista di uno scopo pubblico, il quale
costituisce del potere medesimo la “causa” intrinseca di legalità, appare all’evidenza che ricorra una
violazione di norme di legge non solo quando la condotta sia stata svolta in contrasto con le forme, le
procedure, con i requisiti richiesti, ma anche quando essa non si sia conformata al presupposto stesso
da cui trae origine l’attribuzione del potere, essendo caratterizzato questo, contrariamente all’autonomia
negoziale del diritto privato, dal vincolo di tipicità e di stretta legalità funzionale. - Non può essere
contraddetto il suddetto assunto rapportando la violazione della norma, che funzionalizza il potere, alla
figura di eccesso di potere ovvero dello sviamento di potere (riferiti – peraltro in modo alquanto disinvolto
– nel dibattito parlamentare di modifica legislativa dell’art. 323 alla categoria dei vizi del merito dell’atto),
e quindi, sulla base della ratio legislativa innovativa, concludere nel senso che l’irrilevanza di tali vizi
dell’atto rispetto alla fattispecie penale non può non comprendere l’illegalità in parola. - Invero, la suddetta
conclusione omette di considerare che il potere esercitato per un fine diverso da quello voluto dalla legge
(e quindi per uno scopo personale od egoistico, e comunque estraneo alla Pubblica Amministrazione), in
vista del quale esso è attribuito, si pone perciò da solo, fuori dallo schema di legalità, e rappresenta nella
sua oggettività offesa dell’interesse tutelato. - Il giudice penale, compiendo il suddetto accertamento,
non si interessa del formarsi dell’atto, ma del fatto concreto, quale risultato della condotta del pubblico
ufficiale, senza interferire nella autonomia della pubblica amministrazione, e senza inferire in materia
riservata alla dogmatica dell’atto amministrativo».
In questa direzione sono, poi, intervenute: Cassazione, Sezione VI, 15 maggio 1998 n. 5820, «Ai fini della
configurabilità del reato di cui all’art. 323 c.p., ricorre una violazione di legge non solo quando la condotta
sia stata svolta in contrasto con le forme, le procedure, i requisiti richiesti, ma anche quando essa non si
sia conformata al presupposto stesso da cui trae origine l’attribuzione del potere, caratterizzandosi per la
presenza del vizio rappresentato dall’eccesso di potere»; Cassazione, Sezione VI, 7/10/1999-15/2/2001,
n. 6190, ric. PG in proc. Rizzi e altro; Cassazione, Sezione VI, 10 dicembre 2001, n. 1229, Bocchiotti,
in Cassazione penale, 2003, 119 ss.; Cassazione, Sezione VI, 13 dicembre 2002, n. 1320, Ferrini, in
Cassazione penale, 1, 2004, 90; Cassazione, Sezione VI, 19 maggio 2004, n. 28389, Vetrella, in Guida
dir. 2004 n. 31, 8; Cassazione, Sezione II, 9 febbraio 2006, n. 7600, Scalera e altro, in Guida dir., 15,
2006, 69; Cassazione, Sezione VI, 13 febbraio 2006, n. 22242, Guglielmi e altri, in Guida dir., 33, 2006,
78 «Il reato di abuso d’ufficio connotato da violazione di legge è configurabile anche in caso di “sviamento
di potere”, cioè quando il comportamento dell’agente, pur formalmente corrispondente alla norma che
regola l’esercizio dei suoi poteri, è tenuto in assenza delle regioni d’ufficio che lo legittimerebbero e
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sostanzia in una violazione delle norme di legge che lo contemplano.
Si rileva, infatti, che, al di là del chiaro orientamento espresso dalle forze politiche che
approvarono la legge n. 234 di espungere dal reato in esame il vizio di eccesso di potere,
erroneamente ritenuto come idoneo a determinare un sindacato sul merito dell’azione
amministrativa da parte dell’autorità giudiziaria ordinaria, il I comma del nuovo art.
323 codice penale richiede, come condotta materiale, l’aver svolto le funzioni o i servizi
pubblici «in violazione di norme di legge o di regolamento», tra le quali non si possono
non ricomprendere, pure, l’art. 26 testo unico 26 giugno 1924 n. 1054, l’art. 6 testo
unico 3 marzo 1934 n. 383 e l’art. 3 legge 6 dicembre 1971 n. 1034, che qualificano
l’eccesso di potere come uno dei tipici vizi di legittimità dell’atto amministrativo4.
produce così intenzionalmente un danno alla persona offesa. (Fattispecie in cui il reato è stato ritenuto
relativamente a provvedimenti di trasferimento del personale in servizio presso un comune, sul rilievo,
tra l’altro, che trattatasi di trasferimenti ispirati a esigenze personalistiche degli agenti e non disposti
per esigenze di efficienza e di buona amministrazione); Cassazione, Sezione VI, 25 settembre 2009, n.
41402, D’Agostino e altri, in Guida dir., 2010, n. 2 Dossier, 88.
Il contrasto può dirsi definitivamente risolto con l’intervento della Cassazione a Sezione unica 29
settembre 2011, n. 155, Rossi e altri, che ha statuito che «ai fini della configurabilità del reato di abuso
di ufficio, sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale
sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti
orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito,
realizzandosi in tale ipotesi il vizio di sviamento di potere, che integra violazione di legge poiché lo stesso
non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l’attribuzione. (Fattispecie relativa
all’omessa riunione di trentacinque procedure esecutive complessivamente identiche quanto ai soggetti
ed all’oggetto, in ciascuna delle quali partecipavano in forma di intervento le medesime trentacinque
associazioni pignoranti, con conseguente abnorme lievitazione delle spese processuali liquidate dal
Giudice dell’esecuzione in favore delle associazioni creditrici facenti capo al coimputato, che agiva in
proprio, quale difensore, e a nome delle predette associazioni di cui era rappresentante e titolare)».
Secondo l’insegnamento di Pagliaro, Principi di diritto penale – Parte speciale – Delitti contro la Pubblica
Amministrazione, cit., 239 ss., la descrizione della condotta penalmente rilevante contenuta nel nuovo
testo dell’art. 323 codice penale permette di ritenere che lo stravolgimento dell’uso del potere discrezionale
per fini privati «è anch’esso una gravissima violazione di leggi e regolamenti e perciò deve essere punito
anche sotto la nuova legge», anche in considerazione che «per effetto della legge n. 241 del 1990 sul
procedimento amministrativo sono da iscrivere nella violazione di legge non poche figure prima ricondotte
all’eccesso di potere».
Per Pagliaro, allora, «l’abuso di potere comporta sempre uno sviamento del potere dalla causa tipica, per
la quale il potere stesso è conferito al pubblico ufficiale. Dove vi sia un atto amministrativo (...), l’atto in
questione ne risulta sempre viziato da eccesso di potere. Ma non è vera la reciproca: non ogni atto viziato
da eccesso di potere comporta un abuso d’ufficio. Ciò accade solo quando il pubblico ufficiale che compie
l’atto viziato non soltanto è consapevole del vizio, ma agisce al fine, richiesto dall’art. 323 codice penale, di
recare ad altri un danno o procurare a sé o ad altri un vantaggio».
Questo orientamento è stato condiviso da Cupelli, Il nuovo abuso d’ufficio, in CdC, 4/98, 279 ss.; D’Avirro,
L’abuso d’ufficio, in Aa.Vv. (a cura di D’Avirro), I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione,
cit., 265 ss.; Manna, Luci e ombre nella nuova fattispecie di abuso d’ufficio, cit, 24; Stortoni, Delitti contro
la Pubblica Amministrazione, in Aa.Vv., Diritto penale – Lineamenti di parte speciale, cit., 133 ss. che ha
ritenuto ricompreso nella dizione «violazione di legge o di regolamento» l’eccesso di potere sia per meglio
rispettare la ratio legis sia «perché sarebbe altrimenti ingiustificata la diversità di trattamento che verrebbe
a determinarsi tra i vari vizi dell’atto», con la precisazione, però, di considerare l’eccesso di potere con
un contenuto obiettivo, secondo i dettami del diritto amministrativo; Seminara, Il nuovo delitto di abuso
d’ufficio, cit., 1251 ss., , secondo cui l’eccesso di potere, (che è un vizio concernente «esclusivamente
l’atto come entità reale e obiettiva, al fine di verificare la corrispondenza del suo contenuto alla puntuale
realizzazione della funzione che gli è propria»), è tuttora ricompreso nell’elemento oggettivo del reato di
abuso di ufficio, che è «caratterizzato da una strumentalizzazione delle funzioni parimenti realizzabile in atti
vincolati o discrezionali, ove il fuoco del disvalore è incentrata su una distorsione del potere finalizzata ad
un ingiusto vantaggio o danno». Secondo Seminara, infatti, il tentativo compiuto dai compilatori della riforma
di far rientrare nella fattispecie penale solo i vizi estrinseci di legalità formale è fallito per molteplici ragioni:
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Dopo questa puntualizzazione, appare opportuno evidenziare che il parametro normativo
per la valutazione della regolarità o meno della condotta del pubblico amministratore
costituisce un presupposto di fatto per l’integrazione del delitto in discussione, nel senso
che il contenuto proprio della regola violata viene, non cristallizzato una volta e per
sempre con rinvio recettizio, ma richiamato dall’art. 323 codice penale in modo non
recettizio, per determinare la legittimità o meno del comportamento dell’agente pubblico
al momento della realizzazione del reato, che si consuma con il verificarsi dell’evento
ingiusto, come meglio si vedrà infra.
L’individuazione della norma, legislativa o regolamentare, disciplinante l’attività
pubblica svolta deve, perciò, essere effettuata dall’interprete in riferimento al momento
di commissione del reato di cui all’art. 323 codice penale, applicando la disciplina in vigore
al momento dell’esercizio da parte dell’agente della funzione pubblica o del servizio
pubblico oggetto di contestazione, che ha prodotto l’ingiusto vantaggio patrimoniale per
sé o per altri o l’ingiusto danno ad altri.
Logico corollario di questa asserzione è la conseguenza che, nel caso di una
modificazione successiva alla commissione del reato della regola di diritto pubblico
I) perché nel diritto amministrativo la nozione di violazione di legge «assume un’accezione totalizzante, in
grado di ricomprendere ogni possibile vizio dell’atto o del provvedimento amministrativo e dunque anche
l’eccesso di potere», essendo l’esercizio dell’attività amministrativa vincolato al principio di legalità come
integrato da quelli di imparzialità e di buon andamento; II) perché nell’art. 323 c.p. la nozione di violazione
di legge non è coincidente con il corrispondente vizio dell’atto amministrativo definito negli artt. 26 regio
decreto n. 1054 del 1926 e 2 legge n. 1034 del 1971, come si desume sia dal mancato riferimento
all’incompetenza, che è un vizio di violazione di legge; sia dal riferimento alla violazione dell’obbligo di
astensione che è uno dei vizi tipici di legge; III) perché diversi elementi sintomatici dell’eccesso di potere
sono stati normativizzati in espresse norme di legge così da diventare vizi di legge (art. 3 legge n. 241 del
1990; art. 13 testo unico n. 3 del 1957; art. 8 legge n. 70 del 1975; art. 1 l. n. 241 del 1990, ecc.);
In senso contrario, si devono, tra gli altri, citare: Patalano, Amministratori senza paura della firma con i nuovi
vincoli alle condotte punibili, in Guida dir., 29, 18 ss.; Forlenza, Necessario un check-up sulla giurisprudenza
per la diversa configurazione del delitto, ivi, 23 ss.; Manzione, Le forme di manifestazione della condotta, in
Aa.Vv., Modifica dell’abuso d’ufficio e le nuove norme sul diritto di difesa, cit., 3 ss.; Russo, La violazione di
legge e di regolamento, ivi, 21 ss.; Tellone, La violazione delle norme sulla competenza, ivi, 41 ss.; Della
Monica, La non configurabilità dell’abuso di ufficio per eccesso di potere, ivi, 61 ss., secondo cui la ratio
della riforma tende ad escludere l’eccesso di potere dal novero delle condotte sanzionabili, come si desume
dal tenore letterale dell’art. 323 codice penale, che, nella parte in cui parla di violazione di norme di leggi
o di regolamenti, vuole significare che il presupposto dell’abuso è l’inosservanza «di previsioni specifiche
durante il processo di formazione del provvedimento», così che l’abuso d’ufficio consiste nella violazione
di specifiche norme di comportamento, strumentalizzata al conseguimento di un risultato ingiusto, che
deve sostanziarsi in uno scopo privato perseguito a discapito della causa tipica del provvedimento; Fiandaca
e Musco, Diritto penale – Parte speciale I, Bologna, Zanichelli, 2012, 243 ss. , per i quali la dizione «in
violazione di norme di legge o di regolamento» esclude la rilevanza dell’eccesso di potere perché comporta
«la rilevanza penale dell’abuso soltanto nella misura in cui il giudice accerti che esiste una precisa norma
legislativa o regolamentare, della cui violazione il pubblico funzionario può essere chiamato a rispondere,
diversamente, cioè in assenza della violazione di puntuali norme, il reato non sarà configurabile». Si deve,
però, notare che gli stessi autori hanno ammesso che con la legge n. 241 alcune figure sintomatiche
dell’eccesso di potere sono da considerare violazione di legge.
In una posizione mediana si può collocare Gambardella, Il controllo del giudice penale sulla legalità
amministrativa, Milano, 2002, 298 ss., per il quale il giudice penale, in tema di abuso di ufficio, non
deve stabilire la ricorrenza del vizio di eccesso di potere – anche se svolge un’indagine in larga misura
sovrapponibile a quella che riguarda l’accertamento del vizio dell’atto – ma allo stesso resta comunque
assegnato, anche alla luce del nuovo modello scaturito dalla riforma del 1997, il potere-dovere di controllare
l’attività discrezionale della Pubblica Amministrazione, al fine di verificare l’eventuale violazione dei principi
di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa la cui violazione è idonea a integrare il requisito
costitutivo dell’art. 323 codice penale rappresentato dalla violazione di norme di legge.
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richiamata dall’art. 323 codice penale per parametrare la condotta del pubblico ufficiale
o dell’incaricato di pubblico servizio causativa dell’evento ingiusto, non si applicano i
principi sulla successione di leggi penali enunciati dall’art. 2 codice penale, perché «la
nuova legge di riferimento non introduce alcuna differente valutazione in relazione alla
fattispecie legale astratta disegnata dalla norma incriminatrice e al suo significato di
disvalore (rimanendo immutato il presupposto della violazione di legge)», ma introduce
una nuova disciplina dell’attività pubblica considerata, così da incidere «sulla concreta
applicazione futura della stessa norma incriminatrice, nel senso che la sussistenza del
requisito della violazione di legge va verificata alla luce della nuova regola»5.
Con specifico riguardo alla materia del governo e dell’assetto del territorio, si è, così,
affermato in giurisprudenza che, nel caso in cui l’abuso di ufficio sia stato contestato al
componente di Commissione edilizia comunale, che aveva espresso parere favorevole al
cambio di destinazione di un immobile realizzato in mancanza della concessione edilizia,
è irrilevante il fatto che il fabbricato avesse successivamente ottenuto la concessione
edilizia in sanatoria, in quanto «l’ingiustizia del vantaggio deve essere valutata con
riferimento alla situazione esistente all’epoca della condotta, conformemente alla ratio
della norma che è diretta ad assicurare la retta applicazione della legge al momento
delle scelte discrezionali del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio»6.
Nella giurisprudenza di legittimità si è, pure, affermato l’orientamento, condiviso da
autorevole dottrina7, di ritenere che, essendo il reato di cui all’art. 323 codice penale
causalmente orientato alla produzione di un evento di danno o di vantaggio patrimoniale
ingiusto, occorre che la norma violata non si limiti a dettare norme di principio o
genericamente strumentali alla regolarità dell’attività amministrativa8, ma vieti con
precisione il comportamento sostanziale dell’agente pubblico, nel senso di essere dotata
Così: Cassazione, Sezione VI, 15 gennaio 2003, n. 10656, Villani, in Cassazione penale, 2004, 3621, che
ha pure sostenuto che la norma di diritto pubblico richiamata dall’art. 323 codice penale «non si incorpora
nella norma penale e non va ad integrare la relativa fattispecie», con l’effetto che «la sussistenza di tale
requisito di fatto deve essere ricercata nel momento stesso del reato e la valutazione del giudice non può
che essere rapportata al contenuto che quella regola possedeva al tempo in cui il reato fu commesso».
Nello stesso senso sono, poi, intervenute: Cassazione, Sezione VI, 13 febbraio 2006, n. 22242, Guglielmi e
altri; Cassazione, Sezione VI, 9 novembre 2006, n. 41365, Fabbri e altri, in Guida dir., 2007, 7, 81, che ha
altresì affermato che «l’apprezzamento da parte del giudice di merito, della violazione di legge costituente
il presupposto del reato di cui all’art. 323 codice penale è questione di mero fatto, la cui valutazione è
censurabile in sede di giudizio di legittimità sotto il profilo esclusivo del vizio di motivazione, e non già sotto
quello di cui all’art. 606, co. I, lett. b), cpp)» (cfr. violazione di legge).
Si deve, però, notare, che in precedenza la Cassazione aveva, invece, affermato che le norme disciplinanti
le attività dei pubblici amministratori si configurano come integratrici del precetto penale: Cassazione,
Sezione VI, 17 ottobre 1997, n. 952, Vitarelli e altri; Cassazione, Sezione VI, 18 novembre 1998, n. 7817,
Benanti, in Cassazione penale, 2000, 2636, sulle quali ci si soffermerà in seguito.
5
6
Cassazione, Sezione VI, 7 aprile 1998, n. 4707, Fravili.
Secondo Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione – I delitti dei pubblici ufficiali, cit., 253 ss.
per la configurazione della fattispecie di cui all’art. 323 codice penale «è essenziale la violazione di norme
che abbiano un determinato rango formale e prescrivano modalità proprie delle attività della Pubblica
Amministrazione, che vincolino il pubblico agente ad un dato contegno», disciplinando «espressamente
funzioni e servizi, esigendone lo svolgimento entro un dato termine e/o con date modalità, nel rispetto dei
diritti e legittimi interessi di terzi», non apparendogli però sufficiente la mera violazione di principi generali
«cui pure deve conformarsi la Pubblica Amministrazione».
7
8
Cassazione, Sezione VI, 11 ottobre 2005, n. 12769, in Guida dir., 2006, 104.
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di uno specifico contenuto prescrittivo, la cui violazione determina la lesione di posizioni
soggettive sostanziali mediante la produzione di un evento ingiusto9, dovendo sempre
sussistere «un nesso di derivazione causale o concausale tra la violazione di legge o di
regolamento, posta in essere dall’agente, e l’evento»10.
Per evitare fuorvianti distorsioni interpretative, tese a conculcare l’effettiva portata
delle norme di rango costituzionale in un ordinamento, come quello italiano, oltretutto a
costituzione rigida, si deve precisare che, tra le disposizioni di legge elevabili a parametro
di valutazione dell’abusività della condotta dei pubblici amministratori, «vi è certamente
la Costituzione, che all’art. 97 impone di assicurare il buon andamento e la imparzialità
dell’amministrazione»11.
In proposito giova ricordare che, anche di recente, la Cassazione ha ribadito il proprio
orientamento, “oramai maggioritario”12, secondo cui il requisito della violazione di legge
indicato dall’art. 323 codice penale «ben può essere integrato anche solo dall’inosservanza
del principio costituzionale di imparzialità della Pubblica Amministrazione, per la parte in
cui esprime il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi ed impone al pubblico
ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di
immediata applicazione».
Secondo l’attenta ricostruzione operata dalla Corte di legittimità, l’art. 97 Costituzione,
pur dettando principi di natura programmatica, comunque presenta «un residuale
significato precettivo relativo all’imparzialità dell’azione amministrativa», che lo rende
«un parametro di riferimento per il reato» in questione.
Cassazione, Sezione VI, 28 aprile 1999, n. 9961, Nacci, in Cassazione penale, 2000, 2241 ss., «In tema
di abuso di ufficio, vengono in rilievo solo le violazioni di norme che si trovino in diretto rapporto causale
con il vantaggio o il danno previsti dall’art. 323 c.p., norme che, essendo specificamente orientate a
vietare il comportamento sostanziale del soggetto pubblico, dispiegano i loro effetti su posizioni soggettive.
Non integrano pertanto l’elemento materiale del delitto sopra indicato quei comportamenti che si
sostanziano nell’inosservanza di norme procedurali, destinate a svolgere la loro funzione solo all’interno del
procedimento senza incidere sulla fase decisoria di composizione del conflitto di interessi materiali, oggetto
della valutazione amministrativa».
9
Cassazione, Sezione VI, 4 marzo 1999, n. 6274, Jacovacci, in Cassazione penale, 2000, 2244 ss. Un
puntuale esame della giurisprudenza della Cassazione formatasi sul reato di abuso di ufficio come modificato
dalla legge del 1997 è svolto da Garofoli, Manuale di diritto penale – Parte speciale, I, Roma, 2013, 273 ss.
10
Pagliaro, Principi di diritto penale – Parte speciale - Delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 253
ss. La tesi è stata condivisa da: Padovani, L’abuso d’ufficio. La nuova struttura dell’art. 323 e l’eredità delle
figure criminose abrogate, in Legisl. pen., 1997, 741 ss.; Cupelli, Abuso d’ufficio e tipologia delle fonti:
sulla rilevanza penale della violazione di un “sistema di norme”, in Cassazione penale, 2001, 1013 ss.;
Gambardella, Il controllo del giudice penale sulla legalità amministrativa, Milano, 2002; Grosso, Condotte ed
eventi del delitto di abuso d’ufficio, in Foro it., 1999, V, 329 ss.; Manna, Luci e ombre nella nuova fattispecie
di abuso d’ufficio, cit, 24. In senso contrario: Benussi, Il nuovo delitto di abuso d’ufficio, cit., 34 ss.; Carmona,
La nuova figura di abuso di ufficio: aspetti di diritto intertemporale, Relazione tenuta nell’incontro di studio
sul tema “Giudice penale e pubblica amministrazione”, organizzato dal CSM, 19-21 marzo 1998; Manes,
Abuso d’ufficio, violazione di legge ed eccesso di potere, in Foro it., 1998, II, 258.
11
In precedenza alcune sentenze della Corte di Cassazione avevano escluso che l’art. 97 Costituzione
potesse essere considerato parametro normativo di riferimento per la sussistenza del reato di abuso di
ufficio, sul presupposto che la norma costituzionale avesse un contenuto esclusivamente programmaticoorganizzatorio, non idoneo a prescrivere specifici comportamenti ai singoli amministratori pubblici:
Cassazione, Sezione II, 4 dicembre 1997, n. 1279, Tosches; Cassazione, Sezione VI, 30 settembre 1998,
n. 1207, De Simone e altro.
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L’imparzialità richiamata nell’art. 97 Costituzione si sostanzia, difatti, nel divieto di
operare favoritismi, ossia nel dovere per la Pubblica Amministrazione di trattare nella
stessa maniera tutti i soggetti portatori di interessi tutelati, «conformando logicamente
i criteri oggettivi di valutazione alle differenziate posizioni soggettive».
In questo senso la Cassazione, con estrema sagacia, ha messo in luce l’aspetto bifasico
della regola dell’imparzialità enunciata dall’art. 97 Costituzione, osservando che, se da
un lato il principio ha “certamente una portata programmatica”, nella parte in cui si
riferisce all’organizzazione della Pubblica Amministrazione, così da non poter essere
rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 323 codice penale, in quanto
«deve necessariamente essere mediato dalla legge di attuazione»; dall’altro lato, lo
stesso principio, «riferito all’attività concreta della Pubblica Amministrazione, che ha
l’obbligo di non porre in essere favoritismi e di non privilegiare situazioni personali che
configgono con l’interesse generale della collettività», ha quei caratteri e quei contenuti
precettivi previsti dall’art. 323 codice penale, «in quanto impone al pubblico ufficiale
o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata
applicazione»13.
Altre norme sull’esercizio delle attività amministrative di portata generale, ma con
preciso contenuto prescrittivo, che possono pacificamente farsi rientrare tra i parametri
normativi richiesti dall’art. 323 codice penale per la sussistenza del reato di abuso di
ufficio sono:
• l’art. 13 testo unico n. 3 del 1957, che impone agli impiegati civili dello Stato di
curare «con diligenza e nel miglior modo l’interesse dell’Amministrazione per il
pubblico bene»14;
• l’art. 8 legge n. 70 del 1975, che sottopone i dipendenti degli enti locali all’obbligo
«di prestare la propria opera con diligenza e zelo»;
Cassazione, Sezione VI, 12 giugno 2012, n. 25180, Rv. 253118, est. Aprile, imp. D’Emma, dove si sono
richiamate, a sostegno dell’orientamento espresso: Cassazione, Sezione VI, 12 febbraio 2008, n. 25162,
Sassara, Rv. 239892; Cassazione, Sezione II, 10 giugno 2008, n. 35048, Masucci, Rv. 243183; Cassazione,
Sezione VI, 17 febbraio 2011, n. 27453, Acquistucci, Rv. 250422.
In questa direzione si vedano pure: Cassazione, Sezione V, 12 febbraio 1999, n. 3704, Sanna; Cassazione,
Sezione VI, 24 febbraio 2000, n. 4881, Genazzani, in Cassazione penale, 2003, 511; Cassazione, Sezione
VI, 26 febbraio 2002, n. 31895, Marcello, in Cassazione penale, 2003, 3380; Cassazione, Sezione VI, 2
aprile 2009, n. 19135, Palascino, in Guida dir., 2009, 23, 84 ss.; Cassazione, Sezione VI, 14 giugno 2012,
n. 41215, R.C. e Artibani, «In tema di abuso di ufficio, il requisito della violazione di legge può consistere
anche nella inosservanza dell’art. 97 Cost., nella parte immediatamente precettiva che impone ad ogni
pubblico funzionario, nell’esercizio delle sue funzioni, di non usare il potere che la legge gli conferisce per
compiere deliberati favoritismi e procurare ingiusti vantaggi ovvero per realizzare intenzionali vessazioni o
discriminazioni e procurare ingiusti danni».
13
Seminara, Il nuovo delitto di abuso d’ufficio, cit., 1251 ss. In giurisprudenza: Cassazione, Sezione V, 12
febbraio 1999, n. 3704, Sanna, ai fini della configurazione dell’elemento oggettivo del reato di cui all’art.
323 codice penale sono rilevanti sia l’art. 97 Costituzione «che codifica il principio che la condotta del
dipendente pubblico deve essere costantemente rivolta ad assicurare il buon andamento della Pubblica
Amministrazione»; sia l’art. 13 decreto del Presidente della Repubblica n. 3 del 1957 che stabilisce «che il
dipendente pubblico deve prestare tutta la sua opera nel disimpegno delle mansioni che gli sono affidate in
conformità delle leggi con diligenza ed in modo da assicurare sempre l’interesse dell’amministrazione per
il pubblico bene. Egli, inoltre, nei rapporti con i colleghi deve ispirarsi al principio di un’assidua e solerte
collaborazione. Pertanto sussiste il reato di abuso di ufficio con violazione di legge, (…), allorché il primario
dell’ospedale ponga in essere comportamenti di vessazione ed emarginazione dei medici del reparto che
non assecondano le proprie scelte volte a dirottare pazienti dall’ospedale ad una clinica privata.
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• l’art. 78 decreto legislativo n. 267 del 2000, contenente il testo unico degli enti
locali, che disciplina i doveri e la condizione giuridica degli amministratori locali
stabilendo, tra l’altro: «Il comportamento degli amministratori, nell’esercizio delle
proprie funzioni, deve essere improntato all’imparzialità e al principio di buona
amministrazione, nel pieno rispetto della distinzione tra le funzioni, competenze
e responsabilità degli amministratori di cui all’art. 77, comma 2, e quelle proprie
dei dirigenti delle rispettive amministrazioni. - Gli amministratori di cui all’art. 77,
comma 2, devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di
delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado.
L’obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere
generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione
immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi
dell’amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado. - I componenti la
giunta comunale competenti in materia urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici
devono astenersi dall’esercitare attività professionale in materia di edilizia privata
e pubblica nel territorio da essi amministrato. - (...) Al sindaco e al presidente della
provincia, nonché agli assessori ed ai consiglieri comunali e provinciali è vietato
ricoprire incarichi e assumere consulenze presso enti ed istituzioni dipendenti o
comunque sottoposti a controllo ed alla vigilanza dei relativi comuni e province»15.
Quanto, poi, alle norme di legge o di regolamento che disciplinano il procedimento
per la formazione e l’esternazione della volontà della pubblica amministrazione,
anche dal punto di vista del rispetto della competenza e delle serie procedimentali
di atti preparatori, consultivi, costitutivi ed integrativi dell’efficacia dell’atto, e delle
operazioni tecniche strumentali alla manifestazione della volontà amministrativa, si
può fondatamente ritenere che, essendo la fattispecie di cui all’art. 323 codice penale
casualmente orientata, la loro violazione può integrare il reato in discussione solo quando
è causalmente idonea a produrre l’evento ingiusto, come precisato dalla Cassazione16.
Cfr.: Cassazione, Sezione VI, 12 giugno 2012, n. 25180, D’Emma «In tema di abuso di ufficio, per gli
amministratori degli enti locali il dovere di imparzialità trae fondamento, oltre che, in via generale, dall’art.
97 Cost., anche dall’art. 78 d.lgs. n. 267 del 2000 (t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), per
cui la sua inosservanza integra il requisito della violazione di legge rilevante ai fini della configurabilità del
reato»; Cassazione, Sezione VI, 8 marzo 2012, n. 33880, Borinelli e altri «In tema di abuso di ufficio, la
mancata liquidazione di un mandato di pagamento da parte dei funzionari di banca preposti al servizio di
tesoreria per conto di un’amministrazione comunale integra una violazione del combinato disposto degli
artt. 209 e 217 l. 18/8/2000, n. 267».
15
Cassazione, Sezione VI, 28 novembre 1997, n. 11520, Fricano, per la quale «il mancato rispetto delle
regole del procedimento, anche solo sotto il profilo della mancata osservanza dell’ordine necessario di
successione degli atti, dà luogo al vizio di violazione di legge» penalmente rilevante ex art. 323 codice
penale;
Cassazione, Sezione VI, 27 ottobre 1999, n. 13341, Stagno D’Alcontres, in Cassazione penale, 2000, 124,
«A norma dell’art. 3 legge n. 241 del 1990 ogni provvedimento amministrativo, fatta eccezione per gli
atti normativi e per quelli a contenuto generale, deve essere motivato; e la necessità della motivazione
presuppone, poi, che il provvedimento medesimo rivesta la forma scritta: la violazione di tale disposizione
è idonea a integrare una violazione di legge, rilevante ai fini e per gli effetti della configurabilità del reato
di cui all’art. 323 c.p. (Fattispecie relativa al conferimento verbale e senza previa audizione e interpello del
Consiglio di amministrazione da parte di un’Università di incarichi professionali di consulenza e assistenza
legale a un professionista del libero foro)»;
Cassazione, Sezione VI, 28 aprile 2000 n. 7290, Catillo e altri, in Guida dir., 2000, 29, 85, «In un
procedimento amministrativo complesso, e cioè caratterizzato dal concorso di diversi atti amministrativi,
il pubblico ufficiale che abbia contribuito esclusivamente all’adozione di un atto legittimo, anche quando
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Con specifico riguardo al tema d’indagine, si osserva che decisamente consolidato è
l’orientamento giurisprudenziale che qualifica come rilevante per la sussistenza del reato
di abuso di ufficio la violazione delle norme che disciplinano i compiti degli amministratori
pubblici in materia di edilizia e di urbanistica, ossia, dapprima, il Sindaco ai sensi dell’art.
4 legge n. 47 del 1985; e poi, il responsabile dell’Ufficio tecnico comunale, a partire
dall’entrata in vigore dell’art. 107, comma 3 lettera g, del decreto legislativo n. 267
del 2000 (testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), che ha recepito e
unificato le normative precedenti (a partire dall’art. 51 legge n. 142 del 1990), stabilendo
che tutti gli interventi in materia di violazioni edilizie sono di competenza del Dirigente
responsabile dell’Ufficio tecnico comunale, nel solco del disegno complessivo che ha
inteso separare, nelle amministrazioni locali, l’attività di indirizzo e controllo, spettante
agli organi elettivi, dai compiti di gestione amministrativa affidati ai dirigenti17.
Nello specifico, ai sensi degli artt. 27 e 31 del testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia, contenuto nel decreto del Presidente della Repubblica
n. 380 del 2001, il Dirigente o il responsabile dell’Ufficio tecnico comunale è attualmente
titolare della posizione di garantire il corretto assetto dello sviluppo urbanistico del
Comune, esercitando la vigilanza «sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale
per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni
degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi», ed
avendo l’obbligo di intervenire «ogni qualvolta venga accertato l’inizio o l’esecuzione
questi si ponga in rapporto di causalità materiale col provvedimento finale, non può essere chiamato a
rispondere del reato di abuso di ufficio ipotizzabile per l’illegittimità del provvedimento finale, dipendente da
atti diversi, adottati nella complessa serie procedimentale, alla cui formazione egli non abbia in alcun modo
contribuito, essendo invece questi riconducibili alla determinazione di altri pubblico ufficiale. Diversamente
opinando, infatti, si giungerebbe ad un’affermazione di colpevolezza basata su una sorta di responsabilità
oggettiva, imputandosi all’agente che abbia operato nel rispetto delle norme di legge o di regolamento
l’illegittimità del comportamento altrui»; e similmente: Cassazione, Sezione VI, 4 maggio 2000, n. 8729,
Vitale, in Guida dir., 2000, 35, 55 ss.;
Cassazione, Sezione V, 2 febbraio 2001, n. 21947, Bertolini e altro, in Cassazione penale, 2002, 2746,
«Anche la formulazione di un parere consultivo, se in concreto espresso contra legem, può integrare la
condotta criminosa dell’abuso d’ufficio, quando sulla base delle risultanze processuali, sia stato accertato
che il provvedimento finale è frutto di un accordo criminoso e che, quindi, il parere espresso dal funzionario
autorizzato e comunque richiesto dall’organo investito della potestà decisionale si inserisce nell’iter criminoso
come un elemento atto ad agevolare la formazione di un atto illegittimo»; e ugualmente: Cassazione,
Sezione VI, 26 giugno 2001, n. 37410, D’Amato e altri; Cassazione, Sezione VI; 13 novembre 2003, n.
938, Oddo e altri;
Cassazione, Sezione VI, 13 febbraio 2006, n. 22242, Guglielmi e altri, in Guida dir., 2006, 30, 84, «Per
la sussistenza del reato di abuso d’ufficio la violazione di norme di legge rilevante è solo quella riferita a
disposizioni dotate di uno specifico contenuto prescrittivo, e, quindi, aventi un’incidenza diretta e immediata
sulla decisione amministrativa, tra le quali rientrano le norme che disciplinano la forma, il contenuto e la
causa dell’atto amministrativo e alla disciplina della competenza»;
Cassazione, Sezione VI, 17 gennaio 2012, n. 15948, Costa e altro, «Integra il delitto di abuso di ufficio
l’autorizzazione ad effettuare lavoro esterno, rilasciata a ricercatore universitario non confermato da parte di
un organo incompetente (nella specie il Direttore del dipartimento universitario, in luogo del Preside, come
previsto dal Regolamento universitario) ed in contrasto con il divieto di svolgimento di libere professioni o
attività esterne non saltuarie, previsto dagli artt. 1, co. primo, d.l. n. 57 del 1987 e 53, co. settimo, d.lgs.
n. 165 del 2001».
Cassazione, Sezione VI, 9 aprile 2003, n. 39087, Meloni, in Guida dir., 2004, n. 9, 74, che, per effetto
del principio riportato nel testo, ha rigettato il ricorso del pubblico ministero avverso una sentenza che
aveva mandato assolto il sindaco di un comune cui era stato addebitato di avere omesso scientemente di
intervenire ai sensi dell’art. 4 legge n. 47 del 1985, pur essendo a conoscenza di lavori edilizi intrapresi in
assenza di titolo concessorio.
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di opere eseguite senza titolo o in difformità della normativa urbanistica, attraverso
l’emanazione di provvedimenti interdittivi e cautelari»18.
Sin dalle prime pronunce intervenute dopo l’entrata in vigore della legge n. 234 del
1997, si è affermato,che nel procedimento amministrativo di rilascio di un titolo abilitativo
alla realizzazione di opere o allo svolgimento di attività coinvolgenti immobili, l’indagine
sulla conformità dell’immobile alla disciplina urbanistica costituisce un momento
istruttorio ineludibile, «espressamente previsto dal legislatore, sicché solo l’acquisizione
di dati positivi nel senso favorevole al richiedente consente il legittimo rilascio» del
provvedimento abilitativo, con la conseguenza che «l’inosservanza di tale procedimento
concreta (…) il vizio di violazione di legge rilevante ai sensi dell’art. 323 codice penale,
trattandosi di norme che impongono all’amministrazione comportamenti specifici e
puntuali la cui omissione ha l’effetto di procurare un vantaggio al beneficiario»19.
Integra, perciò, il reato di abuso di ufficio il rilascio da parte dell’amministratore
pubblico di un permesso abilitativo (prima licenza di costruire, poi concessione edilizia,
infine permesso di costruire) in violazione delle prescrizioni del piano regolatore, in
quanto tale condotta si pone in contrasto con la disciplina normativa primaria di settore,
che impone l’obbligo di conformarsi alle previsioni degli strumenti urbanistici, e si
configura come violazione di legge, «rilevante ai fini e per gli effetti dell’art. 323 c.p.»20.
Ha, difatti, osservato la Cassazione che l’art. 323 codice penale, volendo punire
solo la condotta dell’amministratore pubblico che sia caratterizzata dall’inosservanza
sostanziale di norme introdotte da leggi o da regolamenti («non essendo sufficiente
quella formale o procedimentale»), e che sia idonea a produrre un danno ingiusto o
ingiusto vantaggio patrimoniale, tipicizza la fattispecie di reato, in parte «con elementi
naturalistici determinati da espressioni e modi di uso comune»; ed in parte, «con rinvio
alla valutazione posta da norme di legge o di regolamento che fungono da mediazione
per la delimitazione materiale e di fatto, eliminando ogni incertezza della fattispecie»,
norme che devono essere violate.
Nel caso delle attività edilizie ed urbanistiche, «la mediazione conoscitiva e tipizzante,
effetto del rinvio operato con i termini “violazione di legge”, a partire dall’attività
abilitatoria svolta dall’amministratore pubblico, è certa per il contenuto e incidente
esaustivamente sulla connotazione materiale della condotta vietata (…)».
«(…) Di conseguenza, consumandosi la mediazione dell’elemento normativo, fissato
dalla legge» per i titoli abilitativi edilizi, «all’interno di un circuito normativo di fonti
primarie, l’apparato descrittivo degli strumenti urbanistici si definisce in funzione di
presupposto di fatto della norma di legge violata che delimita la possibilità» di rilascio
18
Cassazione, Sezione III, 26 gennaio 2011, n. 9281, Bucolo.
Cassazione, Sezione VI, 12 gennaio 1999, Dogali, a proposito del procedimento amministrativo di rilascio
di licenza di commercio, che deve essere conforme agli strumenti urbanistici in vigore.
19
Cassazione, Sezione VI, 11 maggio 1999, n. 8194, Fravili, a partire dalla quale la Cassazione ha corretto
l’iniziale assunto, sostenuto da Cassazione, Sezione VI, 2 ottobre 1998, n. 11984, Tilesi e altri, che aveva
escluso che la violazione degli strumenti urbanistici da parte dell’amministratore pubblico preposto al
rilascio di un titolo edilizio potesse integrare un vizio rilevante ai fini della configurazione del reato di abuso
di ufficio, perché lo strumento urbanistico non poteva costituire parametro di apprezzamento del carattere
abusivo della condotta, non avendo né la forma né l’efficacia della legge o del regolamento, gli unici atti
produttivi di regole richiamati dall’art. 323 codice penale.
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del titolo da parte dell’amministrazione competente «alla conformità alle previsioni
degli strumenti urbanistici, così che non possono restare margini di incertezza sulla
individuazione della condotta vietata»21.
Il reato di abuso di ufficio può, quindi, essere integrato dalla condotta del pubblico
amministratore posta in essere in violazione degli strumenti urbanistici, perché, «se è
pur vero che gli strumenti urbanistici (piano regolatore, programma di fabbricazione,
piano di recupero, ecc.) non rientrano nella categoria dei regolamenti, ma in quella
degli atti amministrativi generali, la violazione delle relative previsioni rappresenta solo
il presupposto di fatto della violazione della normativa legale in materia urbanistica22,
prevista dagli artt. 31 legge n. 1150 del 1942, 1 e 4 legge n. 10 del 1977 e ora 12 del
decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, secondo i quali ogni intervento
edilizio deve essere conforme alle previsioni degli strumenti urbanistici (ed in particolare
del piano regolatore generale e dei regolamenti edilizi)23, così che è a quest’ultima
Cassazione, Sezione VI, 11 maggio 1999 n. 8194, Fravili, le cui affermazioni sono state, successivamente,
riprese da Cassazione, Sezione VI, 9 luglio 1998, n. 1078, Maccan; Cassazione, Sezione VI, 16 ottobre
1998 n. 1354, Lo Baido; Cassazione, Sezione VI, 24 giugno 1998, n. 393, Migliaccio; Cassazione, Sezione
VI, 14 marzo 2000 n. 6247, Sisti e altri, in Guida dir., 2000 – 27, 72; Cassazione, Sezione VI, 15 giugno
2000 n. 9422, in Guida dir., 2000, 37, 64.
21
22
Cassazione, Sezione VI, 25 gennaio 2007, n. 11620, Bagnato e altro.
Cassazione, Sezione VI, 8 ottobre 2003, n. 708, Fraticelli. Simili considerazioni si ritrovano pure in:
Cassazione, Sezione VI, 7 maggio 1998, n. 695, Verratti e altri, «Sussiste il reato di abuso d’ufficio nel
caso di “adozione di una delibera comunale di approvazione di una convenzione con un privato con la quale
l’ente territoriale consentiva la costruzione di un edificio in spregio alle norme urbanistiche in cambio della
cessione di un’area al Comune, da asservire all’uso pubblico”»;
Cassazione, Sezione VI, 1 luglio 1998, n. 9116, Egidi. «Integra gli estremi del reato di abuso di ufficio
il comportamento del vice-sindaco che rilasci all’occupante abusivo di locali condominiali (stenditoio e
lavatoio), contro la volontà dei condomini (che avevano ottenuto provvedimento giudiziale di rilascio
passato in giudicato), la concessione edilizia in sanatoria ai sensi dell’art. 31 della legge n. 47 del 1985.
Tale provvedimento, infatti, attribuisce al beneficiario un vantaggio ingiusto, suscettibile di apprezzamento
economico, e non può essere dato in favore dell’occupante abusivo, nonostante la concessione in sanatoria
possa essere conseguita, oltre che da tutti coloro che hanno diritto a richiedere la concessione edilizia o
l’autorizzazione, anche da ogni altro soggetto interessato, in quanto l’ordinamento è caratterizzato da
intrinseca coerenza e non può da una parte sanzionare una condotta come violatrice della legge e dall’altra
apprestarle tutela»;
Cassazione, Sezione VI, 6 ottobre 1999, n. 13794, Callaci e altro, «È idonea a integrare l’elemento materiale
del reato previsto dall’art. 323 c.p., sotto il profilo della violazione di norme di legge, la condotta del Sindaco
che abbia rilasciato la concessione edilizia senza il rispetto del piano comprensoriale, e quindi in aperto
contrasto con lo strumento urbanistico generale. E ciò in quanto detta condotta viola il combinato disposto
degli artt. 1 e 4 della l. 28 gennaio 1977 n. 10 e 31 l. 17 agosto 1942 n. 1150, norme alle quali il pubblico
ufficiale è tenuto ad adeguarsi, osservando le previsioni dello strumento urbanistico in vigore nel territorio
comunale»;
Cassazione, Sezione VI, 18 ottobre 1999, n. 13331, Selvini, in Cassazione penale, 2000, 123 ss., «In
tema di abuso di ufficio, costituisce violazione di legge la condotta dell’Assessore comunale che autorizza
un privato ad esercitare l’attività di deposito autovetture in area (in particolare, zona C) sita all’interno
del Parco Ticino. Tale provvedimento contrasta infatti con l’art. 11 comma 3 l. reg. Lombardia 22 marzo
1980, n. 33, che vieta nella predetta zona del parco “l’insediamento di nuovi impianti produttivi” (...)
Inoltre la predetta condotta è in contrasto con l’art. 13 l. 6 dicembre 1991, n. 394 (legge quadro sulle aree
protette), che subordina il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi nell’area del parco a
preventivo nulla osta dell’Ente parco (nella specie mancante). Infine, avendo il nuovo impianto comportato
una trasformazione di un immobile preesistente, adibito a stoccaggio di materiali edili, risulta violata anche
la l. 29 giugno 1939, n. 1497 – richiamata dall’art. 1 lett. f) della l. 8 agosto 1985 n. 431 – che nelle
aree sottoposte a vincolo paesaggistico vieta ogni modificazione che rechi pregiudizio all’aspetto esteriore
dell’immobile»;
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normativa che deve farsi riferimento per ritenere concretata la violazione di legge quale
dato strutturale della fattispecie delittuosa ex art. 323 cp»24.
«Né può ravvisarsi alcuna violazione dei principi di tassatività e di legalità
nell’integrazione del precetto penale da parte di un provvedimento amministrativo,
quando la legge determini con sufficiente specificazione, come fanno le norme innanzi
richiamate, il fatto cui è riferita la sanzione penale»25.
Sviluppando questo indirizzo interpretativo, la Corte di Cassazione ha ritenuto la
sussistenza del reato di abuso:
• nel caso di rilascio di una concessione edilizia costituente variante di precedente
concessione illegittima, in quanto la concessione di varianti a concessioni illegittime
costituisce lo sviluppo necessario dell’originaria attività illecita26;
• nel caso di rilascio di titolo abilitativo, senza i richiesti pareri e le necessarie
autorizzazioni, in pendenza di una richiesta di condono edilizio per una costruzione
edilizia accessoria (porticato) a un precedente fabbricato abusivo sul quale veniva
a inserirsi, in quanto il titolo poteva essere legittimamente concesso «solamente
nel corso dell’istruttoria di apposito procedimento di rilascio di concessione edilizia
in sanatoria dell’abuso preesistente»27.
Cassazione, Sezione VI, 4 marzo 1999, n. 6274, Jacovacci, in Cassazione penale, 2000, 2244, «Integra
gli estremi del reato di abuso di ufficio, (...) il comportamento dell’amministratore comunale che rilasci
autorizzazioni in precario per la realizzazione di manufatti non connotati dal requisito della provvisorietà
o da quello della pertinenzialità. È, invero, ravvisabile, in siffatta condotta non solo la violazione della
normativa in tema di rilascio di autorizzazioni gratuite (art. 48 l. 5 agosto 1978, n. 457 e 7 del d.l. 23
gennaio 1982, n.9) avuto, soprattutto, riguardo al carattere non precario delle opere, ma anche della l. n.
10 del 1977, che, a fronte del dovere di chi voglia edificare di munirsi della concessione edilizia, prevede il
dovere dell’organo comunale competente di provvedere a norma dell’art. 4 di detta legge, con la procedura
e con gli effetti di cui all’art. 31 l. 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modificazioni ed integrazioni, in
conformità delle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi».
24
Cassazione, Sezione VI, 25 gennaio 2007, n. 11620, Bagnato e altro.
Cassazione, Sezione VI, 8 ottobre 2003, n. 708, Fraticelli, fattispecie in cui era applicabile la legge
regionale Abruzzi del 12 aprile 1983 n. 18.
25
26
Cassazione, Sezione VI, 18 novembre 1999, n. 910, Giansante, in Cassazione penale, 2000, 123.
27
Cassazione, Sezione VI, 30 ottobre 1998, n. 1169, Favale, in Cassazione penale, 2000, 2245.
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Capitolo Sesto
CONTINUA: L’ABUSO PER VIOLAZIONE DELL’OBBLIGO DI
ASTENSIONE
Nel proseguire l’esame dell’elemento oggettivo del reato in discussione, si osserva
che la condotta incriminata, consistendo, come si è sopra visto, nell’uso illegittimo del
potere di azione giuridica, può realizzarsi mediante omissione quando la legge, come nel
caso della SCIA (v. supra par. 1), non ricollega degli effetti giuridici equivalenti all’atto
amministrativo alla condotta omissiva (come, invece, avviene, nei casi del silenziorifiuto o del silenzio-accoglimento, nei quali il silenzio è una forma di esercizio del potere
amministrativo).
Essendo reato di danno causalmente orientato alla produzione di un evento antigiuridico,
l’art. 323 codice penale si combina con la disposizione accessoria del II comma dell’art.
40 codice penale, secondo cui non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di
impedire, equivale a cagionarlo1, dimodoché la condotta abusiva può configurarsi anche
in forma omissiva, quando, ricorrendo gli ulteriori requisiti indicati nell’art. 323 codice
penale, sul pubblico amministratore «gravi l’obbligo di impedire l’evento di vantaggio
patrimoniale o di danno»2.
Perciò, il rifiuto indebito di compiere un atto d’ufficio posto in essere in modo da
arrecare un danno ingiusto o un vantaggio patrimoniale ingiusto integra il reato de quo,
dovendo applicarsi l’art. 323 codice penale, in quanto norma più grave rispetto all’art.
328 codice penale, che contempla il reato di “rifiuto di atti d’ufficio – omissione”.
Facendo applicazione di questi principi, si può ritenere che il reato di abuso di ufficio
può essere ipotizzato a carico del Responsabile dell’Ufficio tecnico comunale che abbia
omesso consapevolmente di svolgere l’attività di vigilanza sul territorio e di adottare i
provvedimenti di sua competenza per reprimere un abuso edilizio, in quanto la violazione
di una norma di legge, richiesta dalla norma incriminatrice, è ravvisabile nell’art. 4 legge
n. 47 del 1985 sul “controllo dell’attività urbanistico-edilizia”, come successivamente
modificato dall’art. 27 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, che
impone a tale funzionario «di esercitare la vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia nel
territorio comunale e di ordinare, tra l’altro, l’immediata sospensione dei lavori in caso
di attività in contrasto con norme di legge e/o di regolamento e con le prescrizioni degli
strumenti urbanistici»3.
La figura di abuso d’ufficio modificata nel 1997 prevede, inoltre, quale elemento
oggettivo, pure la violazione dell’obbligo di astenersi o in presenza di un interesse
1
Pagliaro, Principi di diritto penale – Parte speciale – Delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 253 ss.
2
Cassazione, Sezione VI, 22 novembre 1999, Battista, in Cassazione penale, 1999, 3286 ss.
3
Cassazione, Sezione VI, 7 dicembre 2000, n. 6192, Cattani, in Guida dir., 2001, 93.
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proprio o di un prossimo congiunto, intendendo per interesse ogni posizione di vantaggio
personale, «anche non economica e del tutto affettiva, quale la finalità di favorire altri,
quando da ciò derivi per l’agente una situazione» positiva «nella sfera personale delle
sue relazioni sociali ed amicali»4; oppure negli altri casi prescritti, quando l’agente abbia
intenzionalmente procurato a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad altri
un danno ingiusto5.
Per la configurazione del delitto, allora, «non è sufficiente che il pubblico ufficiale abbia
emesso un atto violando il proprio dovere di astensione, ma è necessario che tale atto
abbia arrecato un indebito vantaggio patrimoniale» perché se invece «l’atto è conforme
al trattamento riservato a tutte le altre istanze di identico contenuto presentate dagli
altri cittadini non è idoneo a configurare l’illecito»6.
Ciò vuol dire che, «ai fini dell’integrazione del reato (...), anche nel caso di violazione
dell’obbligo di astensione, è necessario che a tale omissione si aggiunga l’ingiustizia»
dell’evento ingiusto deliberato, «con conseguente duplice distinta valutazione da parte
del giudice che non può far discendere l’ingiustizia del vantaggio» patrimoniale o del
danno «dalla illegittimità del mezzo utilizzato»7.
Giustamente Romano ha evidenziato che l’art. 323 codice penale fa riferimento «ad
un c.d. conflitto di interessi potenziale o virtuale», perché le situazioni di conflitto alle
quali si riferisce la norma devono essere identificabili a priori, «cioè prima dell’atto o
dell’operazione da compiere: l’interesse del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico
Cassazione, Sezione VI, 19 novembre 1997, Cappabianca, «Nella previsione del novellato art. 323 codice
penale, (...), l’interesse proprio – in presenza del quale il pubblico ufficiale ha l’obbligo di astensione, che
già non derivi da specifica disposizione – non solo non deve essere inteso come il vantaggio di natura
patrimoniale, la cui realizzazione perfeziona il delitto di abuso d’ufficio; ma non è neppure sinonimo di lucro
o di utilità, per cui comprende ogni interesse personale, anche non economico e del tutto affettivo, quale la
finalità di favorire altri quando da ciò derivi per l’agente una situazione di vantaggio nella sfera personale
delle sue relazioni sociali ed amicali».
Correttamente, Pagliaro, Principi di diritto penale – Parte speciale – Delitti contro la Pubblica Amministrazione,
cit., 243 ss., ha messo in rilievo che la formula utilizzata «interesse proprio o di un prossimo congiunto»
dalla norma in esame esclude la possibilità di configurare «il reato quando il pubblico agente non si astenga
in presenza di un interesse zonale che lo coinvolga». Così pure Cupelli, Il nuovo abuso d’ufficio, in C.d.C.,
4/98, 279 ss.
4
Cassazione, Sezione VI, 30 gennaio 2001, n, 30109, «Il mancato rispetto del dovere di astensione non
produce di per sé responsabilità penale in ordine al reato di abuso d’ufficio, essendo altresì necessario che
il comportamento dell’agente sia rivolto a procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale».
Con la consueta profondità di analisi, Pagliaro, Principi di diritto penale – Parte speciale – Delitti contro la
Pubblica Amministrazione, cit., 243 ss., ha osservato che, con la nuova formulazione dell’art. 323 codice
penale, si è corretto l’errore dell’originaria stesura del reato di interesse privato in atti d’ufficio previsto
dall’art. 324 codice penale, abrogato dalla legge n. 86 del 1990, che comportava la punizione del soggetto
che, senza sfruttare l’ufficio, avesse semplicemente agito in una situazione nella quale l’interesse pubblico
coincideva con il suo interesse privato.
5
Cassazione, Sezione VI, 12 febbraio 2003, n. 17628, Pinto, in Cassazione penale, 2004, 4, 1247 ss., avente
ad oggetto il caso del Sindaco che, in violazione del dovere di astensione, aveva riconosciuto all’istanza di
sospensione di pagamento presentata dalla moglie l’esenzione dall’imposta di bollo conformemente a tutte
le altre istanze presentate da altri cittadini.
6
Cassazione, Sezione VI, 21 febbraio 2003, n. 11415, Gianazza, in Cassazione penale, 2004, 866, relativa
alla violazione del dovere di astensione da parte di un Assessore comunale che aveva partecipato alla
delibera con cui veniva liquidato il compenso al fratello per prestazioni professionali, compenso comunque
corrispondente al dovuto.
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servizio o del terzo, da determinarsi in rapporto al contenuto dell’atto o dell’operazione
stessi, deve presentarsi ex ante quale visibile fattore inquinante, il cui effetto pratico
paventabile (…) è un ingiusto vantaggio patrimoniale per il soggetto pubblico o altri, o
un ingiusto danno, patrimoniale o no, a terzi»8.
L’espressione utilizzata dall’art. 323 codice penale è, quindi, leggibile secondo la
Cassazione «nel senso che la norma ricollega l’obbligo di astensione a due ipotesi
distinte e alternative: quella dell’obbligo di carattere generale, derivante dall’esistenza
di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, e quella della verificazione dei singoli
casi in cui l’obbligo sia prescritto da altre disposizioni di legge che vengono richiamate
in via generale. Tale richiamo – esteso secondo lo schema della norma penale in bianco,
anche alle norme speciali di futura emanazione – delinea, invero, un sistema in cui
l’ipotesi di carattere generale e quelle particolari risultano armonizzate grazie a un
effetto parzialmente abrogante che esclude ogni possibile contrasto. Ciò nel senso che,
in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, la “facoltà” di astensione
eventualmente prevista da una norma speciale viene abrogata e sostituita dall’obbligo»
di astensione derivante, appunto, dalla presenza di un interesse proprio o di un prossimo
congiunto9.
Applicando questi assunti alle materie dell’edilizia e dell’urbanistica, la Cassazione ha
statuito:
• che «integra il reato di abuso di ufficio sotto il profilo della violazione di legge (art.
279 del testo unico n. 383 del 1934), con specifico riferimento all’inottemperanza
del dovere di astensione, la condotta dell’amministratore comunale che partecipi
alla deliberazione di approvazione di variante del piano regolatore, qualora si
profili un interesse concreto proprio di un prossimo congiunto, nonostante l’atto in
questione abbia la natura di atto amministrativo di carattere generale (nella specie,
a seguito dell’approvazione della variante, divenivano edificabili alcuni terreni di
proprietà dei congiunti dell’amministratore comunale)10;
• che, poiché il reato in discussione “è strutturato come fattispecie di evento”, non
integra il reato in esame la condotta di un componente di una Commissione edilizia
comunale che non si astenga dal partecipare a riunioni di tale organo in cui sono
trattate pratiche alle quali egli abbia interesse, qualora il parere espresso dalla
Commissione sia conforme agli strumenti urbanistici vigenti, non potendo tale
condotta determinare alcun ingiusto vantaggio patrimoniale»11;
8
Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione – I delitti dei pubblici ufficiali, Milano, 2002, 253 ss.
Cassazione, Sezione VI, 19 ottobre 2004, n. 7992, Evangelista, in Guida dir., 2005, n. 18, 74, dove si è
sostenuto, con riferimento all’art. 52 codice di procedura penale, che prevede la facoltà di astensione del
Pubblico ministero quando esistono gravi ragioni di convenienza, che, in presenza di un interesse proprio
o di un prossimo congiunto, detta facoltà di astensione, è abrogata e sostituita dall’obbligo di astensione.
Anche per la migliore dottrina i “casi prescritti” che determinano obbligo di astensione devono essere fissati
da norme di legge o di regolamento: Padovani, L’abuso d’ufficio. La nuova struttura dell’art. 323 e l’eredità
delle figure criminose abrogate, cit., 741 ss.; Fiandaca e Musco, Diritto penale – Parte speciale I, cit., 244
ss.; D’Avirro, L’abuso d’ufficio, in Aa.Vv. (a cura di D’Avirro), I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione, cit., 265 ss.
9
10
Cassazione, Sezione VI, 23 settembre 1998 n. 2662, Brescia.
11
Cassazione, Sezione VI, 25 marzo 1998, n. 5966, Urso.
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• che «il Consigliere comunale non ha il dovere di astenersi da delibere di approvazione
di piani regolatori generali, trattandosi di atto finale di un procedimento complesso
in cui confluiscono e si compensano molteplici interessi collettivi o individuali,
sicché il voto espresso dal singolo amministratore non riguarda una specifica
prescrizione ma il contenuto generale dell’atto», sussistendo, invece, «il dovere
di astensione, ed è conseguentemente configurabile il reato, in caso di mancata
astensione, qualora si tratti di partecipazione a delibere su opposizioni al piano
regolatore generale riconducibili a interessi personali sia propri dell’amministratore
sia di un prossimo congiunto»12;
• che «è configurabile il delitto di abuso d’ufficio nel comportamento del Sindaco
che, allo scopo di favorire un proprio parente, pur avendo ricevuto dai vv.uu.
un verbale di accertamento e denuncia di un’opera abusiva, omette l’immediata
adozione dell’ordinanza di sospensione dei lavori»13.
L’insieme dei ragionamenti sin qui svolti, permette di giungere alla conclusione che,
alla pari delle altre norme disciplinanti i poteri dei pubblici amministratori in materia di
edilizia e di urbanistica che si sono sopra analizzate, anche gli artt. 19 legge n. 241,
22 e 23 testo unico edilizia, nella parte in cui definiscono compiutamente le attività
di controllo che i funzionari comunali hanno l’obbligo di svolgere sulla SCIA edilizia,
presentano un contenuto precettivo, idoneo a renderli sussumibili ex art. 323 codice
penale come parametro di valutazione dell’abusività o meno della loro condotta, in
quanto la loro violazione può comportare la lesione dei diritti reali di cui sono titolari,
rispettivamente, o il privato segnalatore o il privato contro-interessato, lesione che
costituisce, come si è più volte detto, l’evento del reato.
12
Cassazione, Sezione VI, 15 febbraio 2000, n. 11600, in Cassazione penale, 2003, 511.
13
Cassazione, Sezione VI, 12 luglio 2002, n. 3380, Marrapodi.
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Capitolo Settimo
CONTINUA: L’INTENZIONALITÀ DELLA CONDOTTA DI
ABUSO
L’elemento psicologico del reato costituisce uno degli aspetti più controversi della
riforma operata con la legge n. 234 del 1997, che, per la prima volta nella storia
dell’ordinamento giuridico italiano, ha espressamente previsto, mediante l’utilizzo
dell’avverbio “intenzionalmente” 1, il dolo generico intenzionale, figura sino a quel
momento solo elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, nella quale l’evento del
reato è perseguito quale lo scopo finale della condotta2.
Come si desume in modo palese dal dibattito parlamentare, l’obiettivo perseguito
dal legislatore con l’utilizzazione di quella locuzione, certamente non pleonastica o
ridondante, è stato di limitare, con l’elevare l’intensità del dolo richiesto per l’integrazione
del reato, la sfera di operatività della norma ad ipotesi prefissate in modo tassativo,
«nella prospettiva di non penalizzare in via residuale ogni attività amministrativa,
soltanto perché la stessa si presenti viziata da violazione di legge o di regolamento»,
in modo da escludere la rilevanza penale «di attività e prassi amministrative contra
ius, scelte come mezzo per il raggiungimento di uno scopo ritenuto meritevole», che
restano, invece, sottoposte unicamente al sindacato del giudice amministrativo3.
La novità introdotta dal legislatore comporta che, poiché la struttura dell’abuso
di ufficio è stata trasformata da reato di pura condotta a dolo specifico, come era
nella precedente formulazione, in reato di evento, l’elemento soggettivo ora richiesto
assume una connotazione articolata e complessa, perché è generico con riferimento
alla condotta, consistendo nella coscienza e nella volontà di violare norme di legge o
di regolamento ovvero di non osservare l’obbligo di astensione, nello svolgimento della
pubblica funzione o del pubblico servizio; ed è intenzionale rispetto all’evento ingiusto
Come osservato da D’Avirro, L’abuso d’ufficio, in Aa.Vv. (a cura di D’Avirro), I delitti dei pubblici ufficiali
contro la pubblica amministrazione, cit., 265 ss., l’avverbio intenzionalmente riprende il progetto di riforma
proposto dalla Commissione Morbidelli nominata nel 1996 dal Ministro della giustizia Caianiello.
1
Cassazione, Sezione VI, 8 ottobre 2003, n. 708, Mannello, in Guida dir., 2004, 14, 74 ss., dove si
è precisato che «in tema di elemento soggettivo del reato, possono individuarsi vari livelli crescenti di
intensità del dolo. Nell’azione posta in essere con accettazione del rischio dell’evento, si richiede all’agente
un’adesione di volontà, maggiore o minore, a seconda che egli consideri maggiore o minore la probabilità
di verificazione dell’evento; in tali ipotesi, il dolo va qualificato come eventuale. Nel caso di evento ritenuto
altamente probabile o certo, l’agente non si limita ad accettare il rischio, ma accetta l’evento stesso, cioè
lo vuole e con un’intensità maggiore di quella precedente: si è in presenza del dolo c.d. diretto, che, a sua
volta, assume connotazioni di differente gravità. Deve, infatti, distinguersi fra un evento voluto come mezzo
necessario per raggiungere uno scopo finale, ed un evento perseguito come scopo finale: nella prima ipotesi,
si ha il dolo diretto in senso stretto o di secondo grado, nella seconda, il dolo intenzionale o diretto di primo
grado, in forza del quale assume rilievo determinante la rappresentazione dell’evento normativamente
previsto nella struttura dell’illecito» (cfr. Cassazione, Sezioni unite, 12 ottobre 1993, Cassata).
2
3
Cassazione, Sezione VI, 8 ottobre 2003, n. 708, Mannello, cit.
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di vantaggio patrimoniale o di danno4, che deve essere voluto dal reo come lo scopo
primario e finale della propria condotta illegittima5.
Avendo incentrato oggettivamente il disvalore della fattispecie incriminatrice sul
verificarsi dell’evento ingiusto, l’art. 323 codice penale impone dal punto di vista
dell’elemento soggettivo, che il soggetto agisca proprio per perseguire l’evento contra
ius normativamente previsto in modo alternativo6, e, cioè, che l’agente abbia una volontà
diretta univocamente verso tale risultato, che è lo scopo, il fine precipuo, l’obiettivo
mirato da lui perseguito con la sua condotta7.
Il pubblico amministratore, pertanto, deve agire con la coscienza e la volontà di fare
un uso non legittimo dei poteri inerenti alla funzione o al servizio svolto, per procurare
o un ingiusto vantaggio patrimoniale per sé o per altri o un danno ingiusto per altri, che
deve essere lo scopo perseguito in via primaria, diretta ed immediata8, anche se non in
via esclusiva9.
Cassazione, Sezione VI, 27 giugno 2007, n. 35814, De Girolamo e altri, in Guida dir. 2007, 77; e similmente
Cass, Sez. VI, 8 ottobre 2003, n. 708, Mannello, cit.
4
Russo, La violazione di legge e di regolamento, in Aa.Vv., Modifica dell’abuso d’ufficio e le nuove norme sul
diritto di difesa, cit., 21 ss.
5
6
Cassazione, Sezione VI, 8 ottobre 2003 n. 708, Mannello, cit.
Macrillò, Il dolo, in Aa.Vv., La modifica dell’abuso d’ufficio e le nuove norme sul diritto di difesa, cit.75
ss.; D’Avirro, L’abuso d’ufficio, in Aa.Vv. (a cura di D’Avirro), I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione, cit., 265 ss.;
7
Cassazione, Sezione VI, 4 maggio 1998, Scaccianoce, «Per la consumazione del reato di abuso (…), nel
caso in cui il risultato dell’azione delittuosa consista nel cagionare ad altri un danno ingiusto, non basta che
tale danno sia conseguenza naturale della condotta posta in essere dall’agente per un fine diverso, ma è
indispensabile che esso sia conseguenza diretta ed immediata del comportamento dell’agente, e quindi da
costui voluto quale obiettivo del suo operato, come si evince dalla presenza dell’avverbio intenzionalmente
utilizzato dal legislatore nella configurazione della fattispecie astratta del reato»; e così pure: Cassazione,
Sezione VI, 7 maggio 1998, n. 9983, Verratti e altri; Cassazione, Sezione V, 21 ottobre 1998, D’Asta;
Cassazione, Sezione V, 17 dicembre 1998, pres. Cerqua, rel. Liuzzo; Cassazione, Sezione VI, 18 ottobre
1999, Selvini, in Cassazione penale, 2000, 123 ss.
8
Cassazione, Sezione VI, 2 aprile 1998, n. 7487, Sanguedolce, «Il dolo del reato di abuso di ufficio è
integrato da un comportamento intenzionale del pubblico ufficiale che procuri a sé o ad altri un ingiusto
vantaggio, senza che sia necessario il perseguimento in via esclusiva del fine privato, requisito non richiesto
(...) dal testo della norma» in vigore.
Si deve ricordare che, in alcune pronunce, la Cassazione ha, per un periodo, ritenuto che l’evento ingiusto
dovesse essere l’obiettivo avuto di mira dall’agente pubblico con la propria condotta illecita in via esclusiva:
Cassazione, Sezione VI, 22 novembre 2002, n. 42839, Casuscelli Di Tocco, Guida dir., 2003, 11, 96 ss.;
Cassazione, Sezione VI, 6 maggio 2003, n. 33068, Cangini, in Guida dir., 2003, 43, 60 ss.
Per un attento commento a tali sentenze si veda: Forlenza, Legittimo l’interesse pubblico perseguito se gli atti
rientrano tra le funzioni dell’agente, in Guida dir., 2003, 43, 64 ss., che ha criticato questa interpretazione
dell’art. 323 codice penale, osservando che «risulterebbe forse da sottoporre a verifica l’affermazione
secondo la quale, oltre che immediata e diretta, la finalità di vantaggio o di danno ingiusto deve essere
esclusiva, caratteristica che non sembra essere desumibile in modo così sicuro dalla disposizione e che,
inoltre, comporta una decisa limitazione (fin quasi ad annullarli) dei casi in cui il reato è configurabile, oltre
a una forte incertezza nell’individuazione dei fatti concretamente punibili».
Secondo Forlenza «l’indagine richiesta dalla presenza dell’avverbio intenzionalmente dovrebbe riguardare
solo il rapporto tra la condotta posta in essere dall’agente e il fine che egli ha inteso perseguire, fine che non
è solo il traguardo definitivo della sua condotta, ma anche il presupposto, l’elemento efficiente della stessa.
Se poi attraverso tale condotta, si sia raggiunto anche un risultato conforme all’interesse pubblico, ovvero
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Appare, così, non del tutto razionale la scelta del legislatore del 1997 di aver richiesto
per l’integrazione del reato una forma particolarmente grave di dolo, che di per sé
esprime una forte ribellione alla legalità da parte del pubblico amministratore; e nello
stesso tempo di aver abbassato considerevolmente i limiti edittali, portandoli dalla pena
compresa tra i due e i cinque anni di reclusione, prevista dall’art. 13 della legge n. 86
del 1990 nell’ipotesi di cui al II comma dell’art. 323 codice penale, che il fatto fosse
stato «commesso per procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale»; ad
una pena compresa tra i sei mesi ed i tre anni di reclusione, aumentabile di un terzo nel
caso ricorra la circostanza aggravante che il vantaggio o il danno abbiano «un carattere
di rilevante gravità».
Per effetto delle pene previste, la legge n. 234 del 1997 non ha più consentito, per
le indagini in materia di abuso d’ufficio, né l’utilizzazione del mezzo investigativo delle
intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche o di altre telecomunicazioni
anche informatiche o telematiche, che è di estrema importanza per ricostruire gli
effettivi rapporti intercorrenti tra il pubblico amministratore ed il soggetto privato,
indebitamente favorito o discriminato dal primo; né la possibilità di adottare adeguate
misure coercitive, pur in presenza di esigenze cautelari e di gravi indizi di reità,
prevedendo esclusivamente il ricorso alla misura interdittiva della sospensione dalle
funzioni o dal servizio per la durata non superiore a due mesi, adottabile da parte
del Giudice per le indagini preliminari, su richiesta del Pubblico ministero, dopo aver
interrogato l’indagato, secondo una forma di garanzia del diritto di difesa dell’indagato
introdotta unicamente in favore dei pubblici amministratori.
L’incongruenza tra l’accentuata intensità del dolo richiesto per l’integrazione della
fattispecie in esame e il complesso sanzionatorio previsto è stata, in parte, colmata
dall’art. 1, comma 75 lettera p), della legge 6 novembre 2012, n. 190, che ha elevato
la pena stabilita per l’ipotesi semplice, portandola da un minimo di un anno ad un
massimo di quattro anni di reclusione, così da consentire l’adozione anche delle misure
coercitive, qualora ricorrano, nel caso concreto, i gravi indizi di reità e le esigenze
cautelari stabiliti dagli artt. 273 e ss. codice di procedura penale, ma mantenendo
fermo il divieto delle intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni, che l’art. 266,
I comma lettera b), codice di procedura penale consente soltanto per i delitti contro la
pubblica amministrazione «per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore
nel massimo a cinque anni determinata a norma dell’art. 4» codice di procedura penale,
ossia senza tenere conto dell’aumento di pena previsto per le circostanze generiche.
Dopo aver fatto questa precisazione, per evitare possibili fraintendimenti in tema
di elemento soggettivo, appare d’uopo chiarire, in primo luogo, che il pubblico
amministratore può addurre, per escludere la sussistenza del dolo nel reato qui
analizzato, «l’ignoranza di circostanze di fatto, anche attinenti all’ufficio, ma non già
quella delle norme che regolano lo svolgimento delle proprie funzioni»10 per la regola
fondamentale nell’ordinamento giuridico italiano «secondo cui la mancata o erronea
conoscenza della disciplina che regola la materia non può essere addotta da chi svolga
tale risultato costituiva un obiettivo concorrente dell’agente, ciò non dovrebbe assumere alcun rilievo ai fini
della configurabilità del delitto ex art 323 codice penale».
Si deve notare che successivamente la Cassazione ha mutato orientamento nel senso riportato nel testo
infra.
10
Cassazione, Sezione VI, 17 ottobre 1997, n. 952, Vitarelli e altri
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professionalmente una determinata attività»11. Tali norme, perciò, devono considerarsi
«implicitamente richiamate dalla legge penale ad integrazione dell’ipotesi criminosa,
per cui la non conoscenza delle stesse sarebbe relativa alla suddetta legge, e quindi
irrilevante»12.
Ai sensi, infatti, dell’art. 47 codice penale, «legge diversa dalla penale è quella destinata
in origine a regolare rapporti giuridici di carattere non penale e non esplicitamente
incorporata in una norma penale o da questa non richiamata anche implicitamente»,
cosicché, «deve essere considerato errore sulla legge penale, e quindi inescusabile,
sia quello che cade sulla struttura del reato, sia quello che incide su norme, nozioni e
termini propri di altre branche di diritto, introdotte nella norma penale a integrazione
della fattispecie criminosa». Questo avviene certamente con le disposizioni legislative
regolanti l’operato e i doveri delle varie tipologie di pubblici ufficiali o di incaricati di
pubblici servizi, che non possono avere «natura di norme extrapenali, poiché l’art.
323 codice penale, obbligando al rispetto delle leggi e dei regolamenti nell’esercizio
del pubblico ufficio, recepisce, anche se in modo non recettizio, le regole riguardanti
l’attività dei singoli pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio»13.
Chiarito questo aspetto, si deve rilevare che giurisprudenza e dottrina sono concordi nel
ritenere che l’avverbio «intenzionalmente» è, in buona sostanza, un rafforzativo del dolo
generico, enunciato per escludere la configurabilità del reato, per difetto dell’elemento
soggettivo, non solo se si è in presenza di dolo eventuale14, connotato dalla accettazione
del rischio del verificarsi dell’evento, che si rappresenta in termini di mera possibilità di
un determinato risultato quale conseguenza di una determinata condotta15; ma anche
in presenza del dolo diretto, «caratterizzato dalla rappresentazione dell’evento come
verificabile con elevato grado di probabilità o addirittura con certezza, ma non come
obiettivo perseguito. Per l’integrazione del reato, è, invece, richiesto il dolo intenzionale,
11
Cassazione, Sezione III, 25 marzo 2004, n. 19566, D’Ascanio e altri.
12
Cassazione, Sezione VI, 17 ottobre 1997, n. 952, Vitarelli e altri
Cassazione, Sezione VI, 18 novembre 1998, n. 7817, Benanti, cit., intervenuta a proposito della valutazione
della conoscenza della normativa regolante le concessioni di alloggi demaniali da parte dell’intendente di
finanza.
L’orientamento non è, però, condiviso da Fiandaca e Musco, Diritto penale – Parte speciale I, cit. 244 ss.,
per i quali il dolo richiede che l’agente «si renda conto sia di violare norme di legge o regolamento ovvero
obblighi di astensione, sia dell’ingiustizia che deve accompagnare il vantaggio o il danno: ogni errore in
proposito, purché vertente su valutazioni normative extrapenali, esclude la volontà colpevole». Nello stesso
senso è intervenuto pure Stortoni, Delitti contro la Pubblica Amministrazione, in Aa.Vv., Diritto penale –
Lineamenti di parte speciale, cit., 133 ss.
13
Pagliaro, Principi di diritto penale – Parte speciale – Delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 238
ss.
14
Cassazione, Sezione VI, 19 gennaio 1998, n. 5116, Pancheri e altri, «Il dolo è diretto quando l’agente
si rappresenta con certezza gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice, rendendosi conto che la
propria condotta sicuramente la integrerà. Il dato caratterizzante è che la realizzazione del fatto illecito
non costituisce lo scopo per il quale il soggetto agisce (atteggiamento psicologico, questo, che realizza
invece l’ipotesi del dolo intenzionale), ma consiste soltanto in uno strumento necessario perché raggiunga
il diverso obiettivo perseguito. Il dolo diretto, caratterizzato dalla chiara e sicura rappresentazione delle
conseguenze della condotta, si distingue dunque nettamente anche dal dolo eventuale, che è connotato
dalla rappresentazione in termini di mera possibilità di un determinato risultato quale conseguenza di una
determinata condotta».
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inteso come rappresentazione e volizione dell’evento di danno (altrui) o di vantaggio
patrimoniale (proprio o altrui), quale conseguenza diretta e immediata della condotta
dell’agente ed obiettivo primario da costui perseguito»16, ossia che «l’agente abbia avuto
di mira uno degli elementi tipici presi in considerazione dalla norma, alternativamente
o congiuntamente, cioè l’ingiusto vantaggio patrimoniale per sé o altri e/o il danno
ingiusto per altri»17.
Così concepita, è evidente che l’intenzionalità restringe notevolmente il campo di
applicazione della norma incriminatrice, perché rende penalmente punibili esclusivamente
quelle condotte ispirate, in via immediata, dalla prava voluntas del favoritismo privatistico
o della discriminazione arbitraria, e che sono proiettate ad assicurare ed assicurano la
realizzazione di tali eventi, venendo, in particolare, richiesto «un acclarato e provato
grado di partecipazione dell’agente al reato, commisurabile sia al quantum del fatto, sia
al quantum di coscienza dello stesso, essendosi voluto escludere l’evocazione del dolus
in re ipsa, connesso alla mera illegittimità dell’atto amministrativo o del comportamento
del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio»18.
Intenzionalità, però, «non significa esclusività del fine che deve animare l’agente, ma
preminenza data all’evento tipico rispetto al pur concorrente interesse pubblico, che
finisce con l’assumere un rilievo secondario e, per così dire, “derivato” o “accessorio”19.
Si è, così, affermato, in un’ipotesi di abuso di ufficio relativa all’affidamento di incarichi
di progettazione preliminare a professionisti esterni all’amministrazione comunale, per
l’avvio di appalti per la realizzazione di opere di riqualificazione urbana finanziate con fondi
comunitari, che «l’intenzionalità del dolo non è esclusa dalla compresenza di una finalità
pubblicistica nella condotta del pubblico ufficiale, dovendosi ritenere necessario, per
escludere la configurabilità dell’elemento soggettivo, che il perseguimento del pubblico
interesse costituisca l’obiettivo principale dell’agente, con conseguente degradazione
del dolo di danno o di vantaggio da dolo di tipo intenzionale a mero dolo diretto od
eventuale»20.
Portando sino alle estreme conseguenze questi principi, la Corte di Cassazione è giunta
ad affermare che «se il detto evento tipico è una semplice conseguenza accessoria
dell’operato dell’agente che persegue, invece, in via primaria, l’obiettivo dell’interesse
pubblico», difetta il dolo intenzionale, in quanto l’evento tipico, pur essendo certamente
voluto, non può dirsi intenzionale, occupando una posizione defilata e rappresentando
16
Cassazione, Sezione VI, 8 ottobre 2003, n. 708, Mannello, cit.
Cassazione, Sezione V, 2 febbraio 2001, n. 21947, Bertolini e altro. Similmente: Cassazione, Sezione VI,
2 ottobre 1997, n. 9357, Angelo; Cassazione, Sezione VI, 22 dicembre 1997, n. 1192, Urso; Cassazione,
Sezione V, 10 settembre 1998, n. 11847, Panariello.
17
18
Cassazione, Sezione VI, 8 ottobre 2003, n. 708, Mannello, cit.
Cassazione, Sezione VI, 27 giugno 2007, n. 35814, De Girolamo e altri, cit. L’indirizzo è stato, poi,
ripreso pure da: Cassazione, Sezione VI, 31 maggio 2007, n. 42647, Croce e altro, in Guida dir., 2007, 50,
91; Cassazione, Sezione VI, 10 gennaio 2008, n. 12281, Rigola, in Guida dir., 2008, 15, 92; Cassazione,
Sezione VI, 29 aprile 2009, n. 21165, in Guida dir., 2009 n. 26, 81; Cassazione, Sezione VI, 17 novembre
2009, n. 4979, Ratti e altro, in Guida dir., 2010, 11, 92; Cassazione, Sezione II, 14 giugno 2012, n. 26625,
Bonanni e altro, in Guida dir. 2012, n. 42, 100.
19
20
Cassazione, Sezione VI, 19 dicembre 2011, n. 7384, Porcari e altri.
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soltanto un effetto secondario della condotta posta in essere per perseguire l’interesse
pubblico, che in realtà occupa «una posizione di supremazia nella mente del pubblico
ufficiale (o dell’incaricato di pubblico servizio), al quale l’ordinamento affida effettivamente
la cura di quell’interesse pubblico»21.
Per evitare il rischio di confrontarsi con inafferrabili motivazioni interne al reo, la Corte
ha precisato che, poiché «violare la legge col risultato consapevole di recare un ingiusto
vantaggio è di regola un favoritismo, l’elemento volontario del privilegio così reso può
ritenersi recessivo a condizione che la stessa legge indichi come meritevole in grado
primario il concomitante fine» pubblico perseguito «e in questo senso orienti il giudice a
declassare a evento voluto, ma non intenzionale, il vantaggio recato»22.
Purché «non sia acquisito un rapporto personalistico tra l’agente ed il beneficiato,
tale da ricondurre a pretesto il perseguimento (…) del fine pubblico», deve trattarsi, ha
sottolineato la Cassazione, di un interesse pubblico «di preminente rilievo, riconosciuto
dall’ordinamento e idoneo ad oscurare il concomitante favoritismo privato, degradato
ad elemento privo di valenza penale», con l’effetto che non hanno alcun rilievo: - il “fine
privato, per quanto lecito”; - il fine collettivo; - il fine privato di un ente pubblico; - il
fine politico, «il quale per definizione non ha ancora trovato una collocazione positiva,
pur quando, si intende, esso sia ben invocato e non corrisponda invece, come spesso è
dato riscontrare, a fini personali di soggetti cd. politici»23.
Seguendo tale indirizzo, la Corte ha ritenuto non responsabile del reato di cui all’art. 323
codice penale l’amministratore di un Comune che aveva procurato un ingiusto vantaggio
Cassazione, Sezione VI, 8 ottobre 2003, n. 708, Mannello, cit. Così pure: Cassazione, Sezione VI, 22
novembre 2002, n. 42839, Casuscelli Di Tocco, Guida dir., 2003, 11, 96 ss., dove si è precisato «che il
pubblico ufficiale deve poter perseguire tale fine e che cioè è proprio a lui o anche a lui ne sia commessa la
cura e che non abbia usurpato attribuzioni o compiti propri di altre pubbliche entità»; Cassazione, Sezione
VI, 26 aprile 2006, n. 21123, Grecchi e altro, in Guida dir., 2006, 32, 100.
Questa linea interpretativa è stata condivisa pure da Corte Costituzionale, ordinanza 17 maggio 2006, n.
251, secondo cui «non è sufficiente che l’imputato abbia perseguito il fine pubblico accanto a quello privato
affinché la sua condotta, ancorché illecita dal punto di vista amministrativo, non sia soggetta a sanzione
penale, ma è necessario che egli abbia perseguito tale fine pubblico come proprio obiettivo principale;
con conseguente degradazione del dolo di danno o di vantaggio da dolo di tipo intenzionale a mero dolo
diretto (semplice previsione dell’evento) od eventuale (mera accettazione del rischio della verificazione
dell’evento)».
21
Cassazione, Sezione VI, 22 novembre 2002, n. 42839, Casuscelli Di Tocco, cit.. La stessa linea si ritrova
pure in: Cassazione, Sezione IV, 11 settembre 2002, n. 38498, Lenoci, in Cassazione penale, 2003, 8-9, 89
ss.; Cassazione, Sezione VI, 6 maggio 2003, n. 33068, Cangini, in Guida dir., 2003, 43, 60 ss.
22
Cassazione, Sezione VI, 22 novembre 2002, n. 42839, Casuscelli Di Tocco, cit. Nello stesso senso si veda
pure Cassazione, Sezione IV, 11 settembre 2002, n. 38498, Lenoci, in Cassazione penale, 2003, 8-9, 89
ss., «In tema di abuso di ufficio, (…), l’uso dell’avverbio intenzionalmente per qualificare il dolo ha voluto
limitare il sindacato del giudice penale a quelle condotte del pubblico ufficiale dirette, come conseguenza
immediatamente perseguita, a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad arrecare un ingiusto
danno. Ne deriva che, qualora nello svolgimento della funzione amministrativa, il pubblico ufficiale si prefigga
di realizzare un interesse pubblico legittimamente affidato all’agente dall’ordinamento, pur giungendo alla
violazione di legge e realizzando un ingiusto danno al privato, deve escludersi la sussistenza del reato.
(Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che correttamente fosse stata esclusa, per difetto dell’elemento
soggettivo, la configurabilità del reato di abuso di ufficio a carico di un Provveditore agli studi il quale,
per ritenute imprescindibili esigenze di buon andamento del servizio, aveva disposto il trasferimento di
un insegnante, investito delle funzioni di Consigliere comunale, da un istituto scolastico ad un altro, in
violazione del divieto normativo di siffatti provvedimenti, in assenza del consenso dell’interessato)».
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patrimoniale ad un imprenditore rilasciandogli un certificato di abitabilità e di agibilità
di un complesso turistico, in violazione delle norme in materia urbanistica e sanitaria,
che imponevano il previo rilascio di concessione edilizia in sanatoria, subordinata a
nulla osta ambientale. E ciò sul rilievo che tale amministratore, così facendo, aveva
perseguito il fine pubblico dello sviluppo del turismo di quel Comune, avendo adottato
delle decisioni che non erano frutto di un collegamento personale tra lui ed i titolari del
complesso beneficiato e che comunque avevano ad oggetto una situazione nella quale
tale complesso turistico si trovava che era comune praticamente a tutti i villaggi turistici
della zona24.
Per cercare di meglio definire la portata della norma incriminatrice, la Cassazione
ha elaborato un canovaccio degli elementi sintomatici dai quali è desumibile il dolo
intenzionale richiesto, partendo dall’osservazione che, ai fini della sussistenza del reato
di cui all’art. 323 codice penale, «assume rilievo non solo l’atto o il comportamento
del pubblico ufficiale singolarmente valutato, ma altresì ogni altro elemento che,
apparentemente estrinseco all’atto o al comportamento, consenta comunque una
verifica maggiormente significativa e, pertanto, anche gli atteggiamenti antecedenti,
contestuali e successivi all’attività che di per sé realizza l’abuso»25.
La Corte ha sostenuto che i criteri di individuazione dell’intenzionalità della condotta
illecita si possono far consistere: «a) nell’evidenza della violazione di legge, come
tale perciò immediatamente riconoscibile dall’agente; b) nella specifica competenza
professionale dell’agente, tale da rendergli anch’essa, senza possibile equivoco,
riconoscibile la violazione; c) nella motivazione del provvedimento, nel caso in cui essa
sia qualificabile come meramente apparente o come manifestamente pretestuosa; d)
nei rapporti personali accertati tra l’autore del reato e il soggetto che dal provvedimento
illegittimo abbia tratto ingiusto vantaggio patrimoniale»26, non venendo, però, richiesta la
dimostrazione della collusione dell’amministratore pubblico «con i beneficiari dell’abuso,
essendo sufficiente la verifica del favoritismo posto in essere con l’abuso dell’atto di
ufficio»27.
Si è, così affermato che, nel caso di abuso di ufficio consistente nell’illegittimo
rilascio di una concessione edilizia, è esente da vizio di motivazione la sentenza che
desuma la sussistenza della consapevole e concertata intenzione di porre in essere
un comportamento illegittimo nell’interesse altrui, dalla macroscopicità della violazione
edilizia, dalla competenza professionale dell’imputato quale ingegnere, dai pregressi
24
Cassazione, Sezione VI, 22 novembre 2002, n. 42839, Casuscelli Di Tocco, cit.
25
Cassazione, Sezione VI, 17 ottobre 1997, n. 952, Vitarelli e altri.
26
Cassazione, Sezione VI, 9 novembre 2006, n. 41365, Fabbri e altri.
Cassazione, Sezione VI, 18 novembre 1999, Giansante, in Cassazione penale, 2000, 123.
Interessante è anche Cassazione, Sezione VI, 27 giugno 2007, n. 35814, De Girolamo e altri, cit., nella
parte in cui si è detto che «(…) La prova dell’intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza
che la volontà dell’imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno
ingiusti e tale certezza non può desumersi esclusivamente dal comportamento non iure tenuto dall’agente,
ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, che evidenzino l’effettiva ratio ispiratrice del
comportamento, quali la specifica competenza professionale dell’agente, l’apparato motivazionale su cui
riposa il provvedimento, i rapporti personali tra l’agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento
ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno».
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rapporti intercorsi tra le parti relativi alla costruzione di un muro che doveva essere di
cinta ma che aveva assunto fin dall’inizio le caratteristiche di muro di sostegno, dalle
modalità, estremamente veloci ed in ore notturne, di effettuazione della costruzione,
dall’abnorme comportamento del pubblico amministratore «che, annullata una
precedente concessione poiché l’immobile ricadeva in zona preclusa, rilasciava tuttavia
una nuova concessione»28.
Cassazione, Sezione VI, 13 febbraio 1998, n. 4815, Lanza, formulata in riferimento all’operato di un
Sindaco, ma ora riferibile, per le ragioni dette sopra, al Responsabile dell’Ufficio tecnico comunale.
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Capitolo Ottavo
CONTINUA: CONSUMAZIONE E CONCORSO DI PERSONE
INTRANEE NEL REATO
Venendo al momento consumativo del reato, si rileva che, a differenza dell’art. 323
codice penale previgente, il legislatore del 1997 ha configurato l’abuso di ufficio come
fattispecie non più di pericolo ma di danno, in quanto richiede, per la sua consumazione,
che venga effettivamente procurato a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale
ovvero arrecato ad altri un danno ingiusto1, «quali conseguenza della condotta tipica»2,
«così da spostare in avanti la realizzazione della fattispecie»3, con l’ulteriore effetto di
far decorrere il termine di prescrizione dalla realizzazione di uno degli eventi ingiusti
previsti4.
Essendo un reato di evento, l’abuso d’ufficio si materializza istantaneamente con la
realizzazione dell’ingiusto vantaggio patrimoniale o del danno ingiusto5, che «devono
1
Cassazione, Sezione VI, 22 novembre 1999, Battista, in Cassazione penale, 1999, 3286 ss.
2
Cassazione, Sezione VI, 7 maggio 1998, n. 695, Verratti.
3
Cassazione, Sezione V, 10 settembre 1998, n. 11847, Panariello.
4
Cassazione, Sezione VI, 30 aprile 1999, n. 10230, Cianetti, in Cassazione penale, 2000, 2245.
Cassazione, Sezione VI, 1 giugno 1998, Lauro e altro, per la quale integra l’ingiusto vantaggio patrimoniale
la retribuzione relativa all’incarico di componente di una commissione di collaudo conferito illegittimamente;
Cassazione, Sezione VI, 24 ottobre 1997, n. 11984, Todini, «In tema di abuso di ufficio, qualora il vantaggio
patrimoniale consista nella illegittima attribuzione di denaro per effetto dell’atto concretante l’abuso, non
è necessario che il beneficiario consegua materialmente il pagamento, perché nel concetto di vantaggio
patrimoniale rientra anche l’accrescimento del patrimonio conseguente al sorgere dei presupposti del diritto
di credito. Ne consegue che il reato deve ritenersi consumato con il venire ad esistenza della deliberazione,
non solo con riferimento al precedente testo della norma dell’art. 323 codice penale, ma anche con riguardo
al nuovo testo della disposizione» (così pure Cassazione, Sezione V, 14 marzo 2000, n. 5105, De Marco e
altro, in Guida dir., 2000 - 23, 77);
Cassazione, Sezione VI, 20 aprile 2001, n. 23195, Orfeo, «Correttamente viene ravvisato il reato di abuso
d’ufficio nella condotta di un pubblico dipendente (sottufficiale della Arma dei carabinieri) il quale abbia
fatto uso per scopi estranei al servizio dell’autovettura in sua dotazione e abbia impiegato per mansioni
improprie il personale dipendente: non è dubitabile, infatti, che questi in violazione delle norme riguardanti
l’impiego delle risorse umane e materiali assegnate al suo ufficio, abbia intenzionalmente conseguito
un ingiusto vantaggio patrimoniale, equivalente al valore forza-lavoro impiegata, all’ammortamento pro
tempore del veicolo usato e al prezzo del carburante abusivamente consumato»;
Cassazione, Sezione V, 5 novembre /2001, n. 1732, Pezzarossa, in Cassazione penale, 2002, 1645 ss., «In
tema di abuso d’ufficio, il requisito dell’ingiusto vantaggio patrimoniale ricorre non solo quando l’abuso sia
volto a procurare a sé o ad altri, in via immediata, denaro o altre utilità materiali, ma anche quando l’intento
dell’agente sia quello di creare una situazione più favorevole, rispetto a quella esistente, per il complesso
dei rapporti giuridici a carattere patrimoniale facenti capo ad un determinato soggetto. (Nel caso di specie
la Suprema Corte ha ritenuto che il fatto di diventare, senza merito, professore ordinario di prima fascia,
costituisse, per i soggetti favoriti, un indubitabile vantaggio proprio sul piano professionale ed economico
oltre che scientifico. Il prestigio acquisito con la nomina riverbera, infatti, i suoi effetti sull’aumento della
clientela privata e sulla credibilità e sulla possibilità di pretendere onorari notevolmente più elevati)».
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essere specificamente voluti dallo stesso agente e debbono essere posti in essere in
rapporti di diretta, ancorché non esclusiva, derivazione dalla violazione di norme ovvero
dalla violazione del divieto di astensione»6, con l’effetto che il tentativo è ipotizzabile in
relazione alla condotta abusiva che non riesca a produrre uno dei due eventi ingiusti per
circostanze indipendenti dalla volontà dell’agente, qualora ricorrano «tutti i presupposti
e le condizioni di cui all’art. 56 codice penale»7.
Le due ipotesi alternative di evento ingiusto si caratterizzano in senso naturalistico,
perché devono essere il risultato giuridicamente rilevante prodotto dalla condotta
abusiva ad essi causalmente orientata, che si pone come un quid esterno al soggetto
agente ed incidente sulla realtà fenomenica.
Dal punto di vista sistematico si deve sottolineare che tale evento ingiusto, che è un
requisito di illiceità speciale, esprime il disvalore su cui si incentra la dimensione lesiva
della fattispecie8, in modo da rispettare il principio di materialità per il quale «il fatto
tipico, per corrispondere all’esigenza di discriminare in termini di rigorosa certezza tra
la sfera del penalmente rilevante e quella del penalmente irrilevante, dovrebbe essere
costituito soltanto da elementi obiettivi, perché soltanto il riferimento ad una realtà
esterna può assicurare un tale risultato»9.
Con la modifica della previsione normativa in termini di reato di evento, si è certamente
rimediato all’aspetto più criticato delle figure del reato di abuso di ufficio contenute tanto
nel codice Rocco quanto nella legge n. 86 del 1990, che, trovando l’ostilità della dottrina
più sensibile alle esigenze di garanzia delle libertà individuali, fondavano l’antigiuridicità
essenzialmente sul dolo specifico, ossia sullo scopo di recare a sé o ad altri un vantaggio
ingiusto o ad altri un danno ingiusto.
Si era, difatti, osservato che «far dipendere la materia del comando o del divieto da un
atteggiamento soggettivo» rendeva precaria «la funzione garantistica del fatto tipico», e
rischiava «di orientare il senso della repressione punitiva verso l’atteggiamento interiore
del soggetto», perché la sua punibilità non dipendeva più, essenzialmente, da ciò che
egli aveva realizzato, «ma anche dai contenuti della coscienza»10.
Per l’art. 323 codice penale vigente, il danno o il vantaggio perseguiti devono essere
6
Cassazione, Sezione VI, 24 giugno 1998, n. 10136, Ottaviano.
Cassazione, Sezione VI, 24 giugno 1998, n. 10136, Ottaviano e altro; Cassazione, Sezione VI, 4 maggio
2011, n. 20094, Miscia, «Integra il delitto di tentato abuso d’ufficio, e non quello di peculato, la condotta
di un ispettore di Polizia di Sato che, utilizzando il fax in dotazione dell’ufficio, richieda all’A.C.I. notizie ed
informazioni sulle autovetture di lusso immatricolate in una data provincia, al fine di procurare un ingiusto
vantaggio patrimoniale al coniuge, procacciatore d’affari presso un’agenzia di assicurazioni, che avrebbe
potuto ottenerle solo previo pagamento (evento non verificatosi per l’intervento dei superiori che avevano
intercettato il fax)».
7
Si veda in particolare: Cassazione, Sezione VI, 24 maggio 2011, n. 36020, Rossattini, «Ai fini del
perfezionamento del reato di abuso d’ufficio non assume alcun rilievo, stante la sua natura di reato di
evento, l’adozione di atti amministrativi illegittimi da parte del pubblico ufficiale agente, ma unicamente il
concreto verificarsi (reale o potenziale) di un ingiusto vantaggio patrimoniale che il soggetto attivo procura
con i suoi atti a sé stesso o ad altri, ovvero un ingiusto danno che quei medesimi atti procurano a terzi».
8
9
Padovani, Diritto penale, Padova, 1995, 129 ss.
10
Ibidem, 129 ss.
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ingiusti, nel senso che devono essere prodotti: - non iure, ossia in assenza di una
causa di giustificazione così da non essere giustificati in alcun modo dall’ordinamento
giuridico; - e contra ius, ossia essere incidenti ingiustificatamente su una situazione
giuridica soggettiva riconosciuta e protetta dal diritto, così da doversi ritenere ingiusto
il danno o il vantaggio patrimoniale che non spettano secondo l’ordinamento giuridico11.
Da qui la conseguenza che l’abuso d’ufficio consiste nell’atto o nel comportamento
illegittimo posto in essere in modo da realizzare un danno o un vantaggio ingiusto,
dimodoché la fattispecie considerata presenta il requisito della doppia ingiustizia sia
della condotta e sia dell’evento12, «nel senso che ingiusta deve essere la condotta,
perché connotata da violazione di legge o di regolamento ovvero da omessa astensione
nei casi previsti, e ingiusto deve essere l’evento di vantaggio patrimoniale proprio o di
altri ovvero di danno ad altri»13.
Ciò comporta che la valutazione dell’ingiustizia dell’evento deve essere tenuta distinta
e autonoma da quella che riguarda il mezzo impiegato, perché è possibile, come
rilevato dalla Corte Suprema, «che il reato in esame non rimanga integrato se, pur
essendo illegittimo il mezzo impiegato, l’evento di vantaggio o di danno non sia di per
sé ingiusto. Questa conclusione trova conforto sia nel dato letterale, che fa riferimento
all’illegittimità della condotta e alla ingiustizia dell’evento, sia nella ratio della norma, che
mira a sottrarre alla sanzione penale quelle ipotesi in cui, sia pure attraverso un’attività
amministrativa illegittima, si realizza un evento di per sé legittimo»14.
Secondo la Cassazione, però, l’affermazione non ha un valore assoluto, perché solo
tendenzialmente l’ingiustizia della condotta «si riverbera causalmente sull’evento,
rendendolo ingiusto», in quanto può anche accadere che tale determinismo eziologico
non si verifichi, «come quando l’evento (il danno del terzo o il vantaggio proprio o
altrui) corrisponda a una posizione soggettiva meritevole di essere giuridicamente
tutelata, quale ad es. un potere della pubblica amministrazione, un diritto soggettivo o
un interesse legittimo del terzo o del soggetto attivo considerato nello status di pubblico
ufficiale o di incaricato di pubblico servizio»15.
11
Così Cassazione, Sezione VI, 17 ottobre 1997, n. 952, Vitarelli e altri.
12
Pagliaro, Principi di diritto penale – Parte speciale – Delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 260.
Cassazione, Sezione VI, 30 settembre 1998, n. 1207, De Simone e altro, dove si è affermato che «nella
specie, il vantaggio conseguito dall’imputato è sicuramente ingiusto, in quanto in capo al predetto non
sussisteva alcuna posizione soggettiva, giuridicamente tutelata, ad ottenere l’aggiudicazione dell’appalto e
la conseguente opportunità di guadagnare, ma solo un interesse di fatto che, in quanto tale, non è idoneo
a impedire il propagarsi dell’illegalità del mezzo sull’evento e a recidere quindi il nesso di causalità tra la
prima e il secondo».
Nella stessa direzione sono poi intervenute pure le seguenti pronunce: Cassazione, Sezione VI, 14 dicembre
1998, n. 1709, Rossomandi; Cassazione, Sezione VI, 25 marzo 1998, n. 5966, Urso; Sezione VI, 17
dicembre 1998, pres. D’Avossa, in Guida dir., 1999, 19; Cassazione Sezione VI, 26 novembre 2002, n. 62,
De Lucia, in Cassazione penale 2003, 3791; Cassazione, Sezione VI, 13 gennaio 2000, n. 2264, Sanna;
Cassazione, Sezione VI, 12 marzo 2004, n. 22423, in Guida dir., 2004 n. 25, 96; Cassazione, Sezione VI,
24 ottobre 2007, n. 46838, Tatavitto, in Guida dir. 2008, 6, 58; Cassazione, Sezione VI, sent. 24 aprile
2008, n. 27936, Simone; Cassazione, Sezione V, 2 dicembre 2008, n. 16895, D’Agostino, in Guida dir.,
2009, 4, 85 ss.
13
14
Cassazione, Sezione VI, 30 settembre 1998, n. 1207, De Simone e altro.
15
Cassazione, Sezione VI, 30 settembre 1998, n. 1207, De Simone e altro.
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Il vantaggio ingiusto deve avere contenuto patrimoniale in via diretta e non
semplicemente mediata16, mentre il danno ingiusto arrecato ad altri non necessariamente
deve avere contenuto patrimoniale, potendo anche consistere in costrizioni prive di
giustificazioni17.
Adattando alle materie dell’edilizia e dell’urbanistica i principi che si sono appena
enucleati sul momento consumativo del reato in discussione, la Cassazione ha stabilito
che, quando la condotta abusiva abbia determinato l’indebito rilascio di un titolo
abilitativo efficace, «sussiste l’evento del vantaggio patrimoniale ingiusto, sostanziatesi
nel fatto che il beneficiario del provvedimento incriminato ha acquisito una potenzialità
edificatoria che amplia il complesso dei rapporti giuridici attivi a carattere patrimoniale a
esso pertinenti»18, con l’effetto che il reato si realizza nel momento del venire ad esistenza
giuridica del titolo, in quanto è questo ad ampliare la sfera dei diritti patrimoniali del
soggetto beneficiato19.
Viceversa se il titolo illegittimo è inefficace (ad esempio, perché subordinato ad
autorizzazione paesaggistica), non avendo la capacità di produrre alcun effetto, non
dà luogo all’evento del reato di abuso di ufficio, che richiede l’effettiva lesione del bene
giuridico protetto «e non la mera messa in pericolo»; ma può integrare la figura del
Cassazione, Sezione VI, 29 ottobre 2003, n. 44759, Rizzi, in Cassazione penale, 2005, 1574; Cassazione,
Sezione VI, 5 febbraio 2008, n. 24663, Ceglie e altro; Cassazione, Sezione VI, 14 aprile 2008, n. 18748,
Del Gaudio; Cassazione, e specificamente:
Sezione V, 2 febbraio 2001, n. 21947, Bertolini e altro, «Poiché il vantaggio patrimoniale si configura in tutti
i casi in cui l’abuso è finalizzato a creare una situazione favorevole alla situazione economica di un soggetto,
ne consegue che il reato di abuso di ufficio deve ritenersi consumato con il venire a esistenza della delibera
abusiva oggetto di incriminazione, anche indipendentemente dalla circostanza che il soggetto beneficiario
ne tragga poi un effettivo incremento economico»;
Cassazione, Sezione VI, 19 marzo 2012, n. 27604, Tafuri, «Per l’oggettiva configurabilità del reato di
abuso di ufficio è necessario che l’ingiusto vantaggio patrimoniale sia conseguenza diretta della condotta
abusiva (Nella specie, la Corte ha escluso la configurabilità del reato a carico di un assessore comunale al
bilancio cui era stato contestato di aver occultato il disavanzo di un comune per impedire la declaratoria del
dissesto, con conseguente vantaggio patrimoniale consistito nel permanere nella funzione ricoperta, non
prevedendo l’art. 248, comma quinto, t.u.e.l. alcuna automatica decadenza a seguito del dissesto, ma solo
una possibile declaratoria di incompatibilità, conseguente, però, ad eventuale giudizio contabile)».
16
Cassazione, Sezione VI, 4 febbraio 2003, n. 9970, in Cassazione penale, 2004, 7-8, 2345. Così pure:
Cassazione, Sezione VI, 19 maggio 2004, n. 28389, Vetrella; Cassazione, Sezione VI, 26 giugno 2003, n.
35127, Ippolito; Cassazione, Sezione VI, 1 dicembre 2003, n. 729, Tessitore, in Cassazione penale, 2005,
2964; Cassazione, Sezione VI, 15 gennaio 2004, n. 4945, Ottaviano, in Cassazione penale, 2005, 50;
Cassazione, Sezione VI, 17 ottobre 2007, n. 40891, Colazzo.
17
Cassazione, Sezione VI, 2 aprile 2001, n. 16241, Ruggeri, che ha ravvisato la configurabilità del reato
di cui all’art. 323 codice penale, nel rilascio di una concessione edilizia in sanatoria illegittima, in quanto
contrastante con le previsioni del piano regolatore generale, precisando che restava un post factum
non rilevante la circostanza che il soggetto beneficiato avesse successivamente rinunciato a sfruttare
tale vantaggiosa posizione soggettiva, attivandosi per ottenere il condono edilizio anziché usufruendo
direttamente della concessione in sanatoria illegittima.
18
Cassazione, Sezione VI, 25 gennaio 2007, n. 11620, Bagnato e altro, in Guida dir., dossier 4, 63 e
ss.: «Il reato di abuso d’ufficio si consuma al momento del conseguimento dell’ingiusto vantaggio, con la
precisazione che quando la condotta abusiva abbia determinato l’indebito rilascio di una concessione edilizia
(ora, del permesso di costruire) il momento a tal fine rilevante non è quello della realizzazione della nuova
costruzione ma è quello del rilascio del titolo che rappresenta il momento ampliativo della sfera dei diritti
patrimoniali del soggetto beneficiato».
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tentativo di tale reato, qualora ricorra l’elemento soggettivo di dolo intenzionale20.
La Cassazione ha, inoltre, correttamente sostenuto che, qualora dal rilascio di
titolo abilitativo illegittimo o dal mancato esercizio dei poteri di vigilanza disciplinati
dagli artt. 27 e 31 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 derivi
l’inizio o l’esecuzione di opere illecite, perché prive di titolo o difformi dalla normativa
urbanistica, si può configurare il concorso formale tra il reato di abuso d’ufficio e il
reato di concorso in costruzione abusiva21, in quanto, con tali comportamenti, vengono
aggrediti beni giuridici diversi, ossia, da un lato, il buon andamento e l’imparzialità della
Pubblica Amministrazione, tutelati dalla fattispecie prevista dall’art. 323 codice penale;
e dall’altro, il corretto sviluppo dell’assetto urbanistico del territorio, protetto dall’art. 44
decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001.
Perciò, anche il pubblico amministratore, che con il comportamento abusivo suddetto
abbia dato un contributo causale «rilevante e consapevole (sotto il profilo del dolo
o della colpa)» alla realizzazione dell’opera non conforme agli strumenti urbanistici
vigenti, concorre, da estraneo, ex artt. 110 e ss. codice penale, nel reato urbanistico,
“proprio” dei soggetti che, in relazione all’attività edilizia, rivestono una determinata
posizione giuridica o di fatto, ossia il committente, il costruttore ed il direttore dei lavori,
in quanto tale figura di reato non esclude la possibilità del concorso da parte di soggetto
diverso dai destinatari degli obblighi previsti dagli artt. 6 e ss. del decreto del Presidente
della Repubblica n. 380 del 2001, che, con la sua condotta, «abbia posto in essere la
condizione operativa della violazione di quegli obblighi»22.
Illuminati, allora, dalla giurisprudenza formatasi sino ad ora sul reato di abuso di
ufficio nel settore del governo e dell’assetto del territorio, si può, tranquillamente,
affermare che la realizzazione o l’inibizione dell’opera edilizia fatta oggetto di SCIA da
parte del privato segnalatore, che presenta sempre un indubbio contenuto economico (in
quanto incidente sul patrimonio del titolare del diritto di proprietà o di altro diritto reale
sull’immobile), possono atteggiarsi come evento ingiusto del reato di abuso di ufficio,
sia sotto forma di ingiusto vantaggio patrimoniale, quando il pubblico amministratore
ometta di intervenire, nonostante l’opera sia in contrasto con gli strumenti urbanistici
vigenti; sia sotto forma di danno ingiusto, quando il pubblico amministratore la inibisca,
pur essendo essa conforme alla disciplina urbanistica in vigore.
Appare opportuno precisare che, qualora Il Dirigente o il Responsabile dell’Ufficio
Tecnico Comunale, nell’esercizio illegittimo dei compiti di controllo sulla SCIA edilizia,
si avvalga anche del contributo istruttorio di altri componenti dell’Ufficio, si deve fare
Cassazione, Sezione VI, 30 aprile 1999, n. 12928, Mautone. Analoghe affermazioni sono contenute
in Cassazione, Sezione VI, 26 marzo 1999, pres. Pisanti, in Cassazione penale, 2000, 2246, «Il rilascio
di una concessione edilizia relativa a lavori che richiedono l’autorizzazione paesaggistica è efficace solo
dopo l’esaurimento della procedura riguardante il rilascio dell’autorizzazione in questione. Ne consegue
che una concessione edilizia rilasciata in assenza dell’autorizzazione paesaggistica non è illegittima ma
solo inefficace. Non si può configurare allora il delitto di abuso di ufficio giacché difetta nel caso di specie
l’evento: vale a dire il conseguimento dell’ingiusto vantaggio patrimoniale quale conseguenza diretta e
voluta del rilascio della concessione ad aedificandum». Similmente: Cassazione, Sezione VI, 24 giugno
1998, n. 10136.
20
21
Cassazione, Sezione VI, 10 gennaio 2000, n. 1609, Rovito.
Cassazione, Sezione III, 26 gennaio 2011, n. 9281, Bucolo, che ha ripreso il principio affermato da
Cassazione, Sezione III, 21 settembre 1988, n. 9961.
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applicazione delle regole generali sul concorso di persone nel reato enunciate negli
artt. 110 e ss. codice penale, valutando con molta attenzione il contributo causale e
l’elemento psicologico di ciascuno dei funzionari intervenuti.
Trattandosi di svolgimento di funzione pubblica di controllo sulla legittimità
dell’attività edilizia esercitata dal privato, l’abuso di ufficio può essere configurato non
solo in relazione all’atto conclusivo della procedura avviata con la presentazione della
SCIA, ma anche in riferimento alle attività ad esso prodromiche di tipo consultivo,
o preparatorio, o consistenti in operazioni tecniche strumentali alla manifestazione di
volontà amministrativa (come i controlli svolti per misurare l’opera edilizia), che vanno ad
inserirsi in quella procedura «come momento qualificante rispetto alle determinazioni da
assumere con il provvedimento conclusivo dell’iter amministrativo», così da poter essere
ritenute idonee «a orientare le scelte della pubblica amministrazione e a contribuire,
dunque, all’evento di danno o di vantaggio considerato dalla norma incriminatrice di cui
all’art. 323 c.p.», a condizione che anche tali attività siano a loro volta intrinsecamente
illegittime23, e siano il frutto dell’accordo criminale intercorrente con il funzionario
abilitato a formulare l’atto finale24.
Quest’ultimo aspetto è stato attentamente sviluppato dalla Corte di Cassazione,
osservando che «in un procedimento amministrativo complesso, e cioè caratterizzato
dal concorso di diversi atti amministrativi, il pubblico ufficiale che abbia contribuito
esclusivamente all’adozione di un atto legittimo, anche quando questi si ponga in
rapporto di causalità materiale col provvedimento finale, non può essere chiamato a
rispondere del reato di abuso di ufficio ipotizzabile per l’illegittimità del provvedimento
finale, dipendente da atti diversi, adottati nella complessa serie procedimentale, alla cui
formazione egli non abbia in alcun modo contribuito, essendo invece questi riconducibili
alla determinazione di altri pubblici ufficiali.
Diversamente opinando, infatti, si giungerebbe ad un’affermazione di colpevolezza
basata su una sorta di responsabilità oggettiva, imputandosi all’agente che abbia operato
nel rispetto delle norme di legge o di regolamento l’illegittimità del comportamento
altrui»25.
Il principio è stato affermato da Cassazione, Sezione VI, 26 giugno 2001, n. 37410, D’Amato e altri, in
riferimento ad un atto di natura consultiva.
23
Cassazione, Sezione V, 2 febbraio 2001, n. 21947, Bertolini e altro, in Cassazione penale, 2002, 2746,
«Anche la formulazione di un parere consultivo, se in concreto espresso contra legem, può integrare la
condotta criminosa dell’abuso d’ufficio, quando sulla base delle risultanze processuali, sia stato accertato
che il provvedimento finale è frutto di un accordo criminoso e che, quindi, il parere espresso dal funzionario
autorizzato e comunque richiesto dall’organo investito della potestà decisionale si inserisce nell’iter criminoso
come un elemento atto ad agevolare la formazione di un atto illegittimo».
Similmente Cassazionr, Sezione VI, 13 novembre 2003 – 19 gennaio 2004, n. 938, Oddo e altri, «Anche
la formulazione di un parere consultivo, se espresso contra legem, può integrare la condotta del reato
di abuso d’ufficio, nel caso in cui si accerti che il provvedimento finale sia stato frutto di accordo, con la
conseguenza che il predetto parere si inserisce nell’iter criminis come elemento diretto ad agevolare la
formazione di un atto illegittimo e in grado di far conseguire un ingiusto vantaggio».
24
Cassazione, Sezione VI, 28 aprile 2000, n. 7290, Catillo e altri; Cass, sez. VI, 4 maggio 2000, n. 8729,
Vitale, in Guida dir., 2000 – 35, 55 ss., «La pura e semplice formulazione di un parere (non vincolante)
di fronte a un atto sul quale la competenza a decidere spetta ad altro organo non può, sotto il profilo
psicologico, costituire concorso morale di chi esprime il parere con i soggetti preposti all’adozione della
delibera finale illegittima, in quanto la rappresentazione dell’atto conclusivo (e della sua illiceità) esula dai
compiti propri di chi esprime il parere».
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Capitolo Nono
CONTINUA: IL CONCORSO DEL PRIVATO E I RAPPORTI CON
ALTRE FIGURE DI REATO
A questo punto, sorge spontanea la domanda di quale sia la posizione che ricopre
nella fattispecie il privato beneficiato dal rilascio illegittimo di un permesso di costruire
o, comunque, da un comportamento contra ius dell’amministratore pubblico teso ad
ampliare le sue posizioni giuridiche su un bene immobile.
Da tempo la giurisprudenza di legittimità si è orientata nel dire che, pur essendo un
reato proprio, il privato può concorrere nel reato secondo i canoni previsti dagli artt.
110 e ss. codice penale, ma il concorso non può, di certo, ravvisarsi con la «semplice
e sola istanza relativa ad un atto che, nel concreto, risulti illegittimo e, nonostante
ciò, venga adottato: va infatti considerato che il privato, contrariamente al pubblico
funzionario, non è tenuto a conoscere le norme che regolano l’attività di quest’ultimo,
nè, soprattutto, è in grado di rappresentarsi le situazioni attinenti all’ufficio che possono
condizionare la legittimità dell’atto richiesto».
Non gravando sul privato l’obbligo giuridico di impedire l’evento1, il concorso del
c.d. extraneus nel reato commesso dal pubblico ufficiale (o dall’incaricato di pubblico
servizio) può configurarsi, secondo i principi generali, con riguardo a qualsiasi forma di
partecipazione, anche solo morale, «del destinatario del vantaggio il quale non si limiti
alla mera accettazione di quest’ultimo», e, quindi, anche sotto forma di determinazione,
di istigazione “(eventualmente anche a mezzo di intermediari)” e di accordo criminoso.
La prova, quindi, che un atto amministrativo illegittimo, o, comunque, un comportamento
illegittimo del pubblico amministratore sia il risultato di collusione tra privato e pubblico
funzionario non può farsi derivare dalla mera coincidenza tra la richiesta del primo e la
scelta pubblica operata in modo illegittimo dal secondo, «essendo invece necessario che
il contesto fattuale, i rapporti personali tra le parti o altri dati di contorno dimostrino
che la presentazione della domanda è stata preceduta, accompagnata o seguita dalla
conclusione di un’intesa col pubblico funzionario o, comunque, da pressioni dirette a
sollecitarlo ovvero a persuaderlo» al compimento di quella scelta illegittima2.
Se, poi, la collusione tra privato e pubblico amministratore si sia spinta sino a
sostanziarsi nella dazione, o anche solo nella promessa di consegna, di denaro o di altra
utilità da parte del primo e in favore del secondo (o di altra persona a questo collegata),
1
Pagliaro, Principi di diritto penale – Parte speciale – Delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 260 ss.
Cassazione, Sezione VI, 17 ottobre 1997, n. 952, Vitarelli e altri; e così, pure: Cassazione, Sezione VI,
25 febbraio 2003, n. 15116, Gueli, in Cassazione Penale, 2004, 3194; Cassazione, Sezione VI, 14 ottobre
2003, n. 43020, Pandolfelli, in Guida dir., 2004, 2, 97 ss.; Cassazione, Sezione VI, 1 dicembre 2003, n.
2844, Celiano, in Cassazione penale, 2005, 49; Cassazione, Sezione VI, 21 ottobre 2004, n. 43205, Cutino
e altro.
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vengono a configurarsi altre fattispecie penali, ossia la concussione (ex art. 317 codice
penale, come modificato dall’art. 1, comma 75 lettera d), legge n. 190 del 2012, «il
pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a
dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito
con la reclusione da sei a dodici anni»)3 o la corruzione per un atto contrario ai doveri
d’ufficio (ex art. 319 codice penale, come modificato dall’art. 1, comma 75 lettera g),
legge n. 190 del 2012, «il pubblico ufficiale, che, per omettere o ritardare o per aver
omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un
atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o
ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da quattro a otto anni», prevedendosi,
ex art. 321 codice penale la punibilità anche di chi «dà o promette al pubblico ufficiale…
il denaro o altra utilità»)4, che, per proteggere il buon andamento e l’imparzialità della
Pubblica Amministrazione dalla venalità dei suoi rappresentanti, reprimono, entrambe,
il mercimonio della funzione pubblica o del servizio pubblico, distinguendosi a seconda
del rapporto intercorrente tra l’agente pubblico ed il privato, e prevedendo, rispetto al
reato di abuso d’ufficio, un trattamento sanzionatorio più grave qualora il mercimonio
sia finalizzato all’uso non legittimo dei pubblici poteri.
In tali casi, non può farsi applicazione dell’art. 323 codice penale, che, usando la
formula “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”, configura l’abuso d’ufficio
come reato sussidiario rispetto ai reati più gravemente puniti, nel senso che la norma,
per il principio di specialità di cui all’art. 15 codice penale, non è applicabile: - quando
l’uso illegittimo dei poteri pubblici sia circostanza aggravante di altra fattispecie, purchè
quest’ultima sia sanzionata più severamente5; - quando tale uso costituisca elemento,
Cass., Sez. VI, 3 dicembre 2012, n. 3251, Roscia, «In tema di concussione, la costrizione, che costituisce
l’elemento oggettivo della fattispecie, così come modificata dall’art. 1, comma 75, legge 6 novembre 2012,
n. 190, implica l’impiego da parte del pubblico ufficiale della sola violenza morale, che consiste in una
minaccia, esplicita o implicita, di un male ingiusto, recante alla vittima una lesione patrimoniale o non
patrimoniale. (In motivazione la Corte ha precisato che il concetto di costrizione non ricomprende l’utilizzo
della violenza fisica, incompatibile con l’abuso di qualità o di funzioni)».
In dottrina, sulle modifiche introdotte dalla legge n. 190 del 2012, si rimanda a Garofoli, Manuale di diritto
penale – Parte Speciale – I, Roma, Nel diritto editore, 2013, 182 ss.
3
Dupuis, La corruzione, Padova, 1995; Stortoni, La disciplina penale della corruzione: spunti e suggerimenti
di diritto comparato, in Ind. Pen., 1998, 1051 ss.; Del Gaudio, Corruzione, in Dig. disc. pen., Agg., I, Torino,
2000, 108 ss.; Garofoli, Manuale di diritto penale – Parte Speciale – I, cit., 219 ss.
4
Cassazione, Sezione VI, 1 ottobre 2003, n. 49536, Donno e altri, in Cassazione penale, 2005, 2965, «Deve
escludersi, in applicazione della regola della specialità sancita dall’art. 15 c.p., il concorso formale del reato
di abuso di ufficio con quelli, più gravi, di violenza privata e lesioni, aggravati entrambi ex art. 61 n. 9 c.p.».
Cassazione, Sezione VI, 13 dicembre 2007, n. 2974, Guerriero; Cassazione, Sezione VI, 7 ottobre 2008,
n. 42801, Zarantonello, dove si è precisato che «… il delitto di abuso di ufficio si caratterizza per essere
un reato il cui oggetto giuridico va individuato nell’interesse a che la persona investita di una pubblica
funzione o di un servizio pubblico, nel compimento di atti o di comportamenti relativi al proprio servizio
o funzione, assicuri il normale funzionamento dell’amministrazione, esercitando le proprie funzioni nel
“rispetto delle norme di legge o di regolamento”; con la conseguenza che è proprio l’ingiustizia dell’evento
danno o vantaggio patrimoniale – “intenzionalmente” cagionato mediante violazione di norme di legge o di
regolamento – ad attribuire rilevanza penale alla condotta dell’agente. Qualora, invece, il comportamento del
pubblico ufficiale si concretizzi nella violazione di una norma penale generale diretta a sanzionare chiunque
commetta il fatto ad essa previsto (es. percosse, lesioni, minacce, ingiuria), si configura unicamente tale
ipotesi di reato, eventualmente aggravata dall’art. 61 c.p., n. 9, quando il fatto è stato commesso anche
con l’abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione pubblica esercitata. In tal caso,
infatti, l’evento della condotta contra ius non costituisce alcunché di ulteriore rispetto alla fattispecie tipica
realizzata, e il “comportamento” di abuso è assorbito ed esaurito in quest’ultima fattispecie, che si pone
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62
a seconda dei casi, oggettivo o soggettivo, di altro reato punito con pena maggiore6.
Nell’ipotesi in cui l’esercizio illegittimo dei poteri pubblici da parte del pubblico ufficiale
o dell’incaricato di pubblico servizio sia il fine avuto di mira con l’accettazione della
promessa o la ricezione di denaro o di altra utilità per sé o per altri effettuata dal privato,
si deve fare applicazione o della fattispecie di concussione o di quella di corruzione c.d.
propria (ossia per atto contrario ai doveri d’ufficio)7, che si distinguono tra loro, oltre
che per le modalità della condotta, anche per l’atteggiamento delle volontà del soggetto
pubblico e del privato, e conseguentemente per il tipo “di rapporto che si instaura tra i
due soggetti”.
Mentre nella corruzione le due volontà si incontrano su un piano pressoché paritario,
ciascuna perseguendo, in modo deviato ma libero, il risultato cui il soggetto tende,
nella concussione, invece, il pubblico operatore «strumentalizza la propria autorità e il
proprio potere per coartare la volontà del soggetto, facendogli comprendere che non ha
come lex specialis rispetto a quella di cui all’art. 323”, con l’effetto, tratto da Cass., Sez. III, 14 febbraio
2011, n. 25709, Battaglia e altri, “che il delitto di lesioni personali volontarie aggravate dalla qualità di
pubblico ufficiale e dal nesso teleologico, assorbendo i reati di abuso di ufficio e di perquisizione arbitraria,
è procedibile di ufficio e non a querela di parte. (Nella specie, un maresciallo dei carabinieri, nell’eseguire
una perquisizione per la ricerca di stupefacenti, aveva volontariamente percosso la vittima, provocandole
delle lesioni)».
Sulla base del principio di consunzione, la giurisprudenza di legittimità ha escluso il concorso del reato
contemplato dall’art. 323 codice penale con quelli più gravi, rispettivamente previsti: dall’art. 314 codice
penale (peculato: v. Cassazione, Sezione VI, 13 maggio 1998, n. 8494, Agnello; Sezione VI, 08/12306);
dall’art. 319 (corruzione: v. Cassazione, Sezione I, 1 ottobre 1998, Saccani; Cassazione, Sezione VI, 7
maggio 1998, n. 1680, Casiccia; Cassazione, Sezione VI, 16 novembre 1999, n. 13939, Iollo e altri); dall’art.
353, capoverso, codice penale (turbata libertà degli incanti commessa dal pubblico ufficiale preposto alla
gara: v. Cassazione, Sezione VI, 28 aprile 1999, n. 9387, Merio; Cassazione, Sezione VI, 11 dicembre
2002, n. 14380, Gallitelli, in Cassazione penale, 2004, 862); dall’art. 640, II comma n. 1, codice penale
(truffa aggravata ai danni di un ente pubblico: Cassazione, Sezione V, 22 giugno 2000, n. 9618, Gamba, in
Guida dir., 2000, n. 41, 111; dall’art. 326 codice penale (rivelazione del segreto di ufficio: v. Cassazione,
Sezione VI, 9 giugno 1997, Palumbo, in Cassazione penale, 1999, 541).
Controversa è, invece, la giurisprudenza in ordine ai rapporti intercorrenti tra il reato di abuso d’ufficio e
la falsità in atto pubblico, in quanto, da un lato, si è sostenuto che, sempre per il principio di consunzione,
«nel limite in cui l’abuso si ritenga commesso con la condotta di falso in atto pubblico che integra reato
più grave, vi è assorbimento e non concorso formale di reati» (così: Cassazione, Sezione V, 21 ottobre
1998, D’Asta; Cassazione, Sezione V, 19 maggio 2004, n. 2778, Piccirillo, in Cassazione penale, 2006, 81;
Cassazione, Sezione V, 10 novembre 2005, n. 11147, Cama); dall’altro lato, si è, parimenti, affermato che
«i due reati offendono beni distinti (il primo mira a garantire la genuinità degli atti pubblici; il secondo tutela
l’imparzialità e il buon andamento della Pubblica Amministrazione) e possono concorrere tra loro, essendo
altresì configurabile il nesso teleologico, qualora il falso sia consumato per commettere l’abuso»(così:
Cassazione, Sezione V, 1 febbraio 2000, n. 3349, Palmegiani e altri; Cassazione, Sezione V, 5 maggio 1999,
n. 7581, Graci, in Cassazione penale, 2000, 2240).
In una posizione mediana si è pure sostenuto che «il reato di abuso di ufficio non è assorbito dal reato di
falso ideologico, perché la clausola di consunzione contenuta nella proposizione iniziale dell’articolo 323
cp vale allorché vi sia una completa riproduzione degli elementi costitutivi del reato di abuso in quelli di
un’altra fattispecie più grave» (Cassazione, Sezione VI, 30 gennaio 2001, n. 30109); e che «in ragione
dell’inciso “salvo che il fatto non costituisca più grave reato” contenuto nella formulazione dell’art. 323 cp,
quando l’abuso è commesso con la stessa condotta del falso in atto pubblico, che integra reato più grave,
vi è assorbimento e non concorso di reati; per contro, è configurabile il concorso di reati se si ravvisi nella
condotta del pubblico ufficiale anche un’altra azione abusiva, contestuale ma distinta da quella integrante il
falso» (Cassazione, Sezione V, 19 maggio 2004, n. 27778, Piccirillo,in Guida dir., 2004 n. 30, 104).
6
Per un’approfondita analisi del reato di corruzione, anche in una prospettiva comparatistica, si veda:
Manes, L’atto d’ufficio nelle fattispecie di corruzione, in Riv. it. dir. e proc pen., 2000, 3, 926 ss.
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alternative rispetto all’aderire all’ingiusta richiesta, sicchè lo stato d’animo del privato
è caratterizzato da senso di soggezione rispetto alla volontà percepita come dominante
(metus publicae potestatis)»8.
Pertanto, qualora «la posizione di preminenza prevaricatrice del pubblico ufficiale abbia
creato uno stato di timore tale da escludere la libera determinazione della volontà del
privato, in conseguenza dell’abuso della qualità o dei poteri del primo», è configurabile
il delitto di concussione, e non quello di corruzione, pure se l’atto oggetto di mercimonio
da parte del pubblico ufficiale sia illegittimo e contrario ai doveri d’ufficio ed il privato
versi già in una situazione di illiceità e sia consapevole dell’illegittimità dell’atto9.
Si può, quindi, concludere che il Dirigente Responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale,
che, in conseguenza della promessa di dazione o della dazione effettiva di denaro o altra
utilità, faccia un uso dei poteri di controllo in materia di SCIA edilizia non conforme ai
dettami degli artt. 19 della legge n. 241 del 1990, 22 e 23 del decreto del Presidente della
Repubblica n. 380 del 2001, per avvantaggiare indebitamente o il privato segnalatore o
il privato contro-interessato, risponde a titolo o di concussione o di corruzione propria,
a seconda che abbia o meno coartato la volontà del privato, da cui riceve, anche per
interposta persona, l’ingiusto vantaggio per sé o per altri, venendo l’abuso d’ufficio,
per la clausola di consunzione sopra esposta, assorbito in una delle due fattispecie
concretamente commesse.
Il principio enunciato è ormai da tempo consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte, come ben
espresso da Cassazione, Sezione VI, 98/5116. In dottrina: Albamonte, I delitti di concussione e corruzione
nella l. 26 aprile 1990 n. 86, in Cassazione Penale, 1991, 903; Gianniti, Corruzione e concussione. Riflessioni
sui caratteri differenziali, in Giur. It., 1995, IV, 33; Bersani, Criteri distintivi tra concussione e corruzione:
proposte per una ulteriore riforma e ruolo della giurisprudenza, in Riv. Pen., 1995, 941; Garofoli, Manuale
di diritto penale – Parte speciale, I, cit. 182 ss.
8
Cassazione, Sezione VI, 09/9528. Nello stesso senso si vedano, pure: Cassazione, Sezione VI, 93/8651;
Cassazione, Sezione VI, 95/4169.
In materia di controlli sulla SCIA, appare calzante il richiamo alla giurisprudenza consolidatasi in tema di
verifiche fiscali effettuate da personale della Guardia di Finanza: «In tema di corruzione per atto contrario
ai doveri di ufficio, nel caso in cui il compenso indebito venga corrisposto dal privato al pubblico ufficiale
appartenente alla G di F in occasione di una verifica fiscale presso un’impresa privata per l’omissione di
accertamenti relativi a violazione delle norme fiscali da parte dell’imprenditore controllato, non è necessario
individuare il singolo atto contrario ai doveri di ufficio, essendo la verifica fiscale un procedimento complesso,
avente ad oggetto una molteplicità di atti, ragione per cui rileva la finalizzazione dell’azione» (Cassazione,
Sezione VI, 25 giugno 1998, n. 11307, in Cassazione penale, 1999, 3128; Cassazione, Sezione VI, 3
novembre 1998, n. 12357, in Cassazione penale, 1999, 3129).
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Capitolo Decimo
L’OMISSIONE DI RAPPORTO SULLA SCIA IRREGOLARE DA
PARTE DEL RESPONSABILE DELL’UFFICIO TECNICO COMUNALE
Per completare il panorama dei profili di responsabilità penale prospettabili in
tema di SCIA edilizia nei confronti del funzionario pubblico competente, si deve
ricordare che, come si è visto sopra, ricevuta la SCIA, a quest’ultimo spetta, tra gli
altri adempimenti, pure di fare rapporto alla Procura della Repubblica, competente in
relazione al territorio su cui sorge l’opera oggetto della segnalazione, qualora accerti la
falsità delle attestazioni rilasciate dai professionisti abilitati e/o delle altre dichiarazioni
autocertificanti, asseveratrici o sostitutive presentate, falsità che di per sé può essere
oggetto, a seconda dei casi, di uno dei reati, perseguibili d’ufficio, previsti dagli artt.
481 per falsità ideologica in certificati commessa da persona esercente un servizio di
pubblica utilità, 483 per falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, 495
codice penale per falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sull’identità
o su qualità personali proprie o di altri, e 19, comma 6, legge n. 241 per falsità in
segnalazione di inizio attività.
In caso di violazione di questo adempimento, è configurabile la violazione dell’art. 361,
comma I, codice penale, che punisce, con la pena della multa da euro 30 ad euro 516,
il pubblico ufficiale che abbia omesso o ritardato di denunciare al Pubblico Ministero, o
ad altra Autorità che a quello abbia l’obbligo di riferire1, il fatto nel quale siano visibili le
apparenze di un reato perseguibile d’ufficio (come nei casi appena indicati)2, e che abbia
appreso la notizia nell’esercizio delle sue funzioni3.
Il Responsabile dell’Ufficio tecnico comunale è, perciò, vincolato, dal momento in cui
è in grado di individuare, nei documenti presentati dal privato segnalatore, gli elementi
Per altra autorità alla quale può essere fatta dal pubblico ufficiale denuncia con effetto liberatorio, si
intende, oltre a quella di polizia giudiziaria, un’autorità che abbia col soggetto un rapporto in virtù del
quale l’informativa ricevuta valga a farle assumere l’obbligo medesimo in via primaria, come avviene nelle
organizzazioni di tipo gerarchico che vincolano all’informativa interna, riservando a livelli superiori i rapporti
esterni (Cassazione, Sezione VI, 11 ottobre 1995, n. 11597, in Cassazione penale, 1997, 72).
1
2
Cassazione, Sezione VI, 24 maggio 1978, n. 14195.
Cfr.: Cassazione, Sezione VI, 2 luglio 2012, n. 29836, Bellavista e altri, «Non è configurabile il delitto di
omessa o ritardata denuncia nei confronti di un appartenente alla Polizia di Stato che venga a conoscenza
di notizie relative ad un fatto di reato a seguito di conversazione di natura privata, svoltasi al di fuori
dell’esercizio delle funzioni e non connessa in alcun modo ad esse (In motivazione, la Corte ha rilevato
come gli appartenenti alla Polizia di Stato, non essendo quest’ultima una struttura militare, non possono
ritenersi in servizio permanente effettivo fuori dall’esercizio delle funzioni)».
In dottrina: Brunelli, Omessa denuncia di reato, in Aa.Vv., I delitti contro l’amministrazione della giustizia,
Torino, 1996, 1 ss.; Piffer, Art. 361, in Aa.Vv., Codice penale commentato, a cura di Marinucci e Dolcini,
Parte speciale, Milano, 1999, 7 ss.
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di uno dei suddetti reati4, all’obbligo di presentare un rapporto che, ai sensi dell’art.
347 codice di procedura penale, deve contenere la descrizione degli accertamenti svolti,
l’indicazione degli elementi essenziali del fatto e degli altri elementi raccolti, l’indicazione
delle fonti di prova reperite e delle generalità del reo.
Sul punto la Cassazione ha, da tempo, precisato che «l’obbligo della denuncia deve
avere ad oggetto non la generica indicazione di fatti suscettibili di essere valutati sotto
il profilo di una rilevanza penale o l’informale e burocratica trasmissione di atti dal cui
esame successivo possano emergere estremi concreti di reato, ma la prospettazione
specifica di un fatto che, nelle sue linee essenziali, così come già risulta accertato,
costituisce illecito perseguibile d’ufficio»5.
Coordinando l’art. 347 codice di procedura penale., che disciplina l’obbligo di riferire
la notizia di reato, con l’art. 361 codice penale, si desume che le espressioni adoperate
dall’art. 347 codice di procedura penale, che usa la locuzione “senza ritardo” al comma I
e l’avverbio “immediatamente” al comma III, a seconda della gravità dei reati commessi,
pur se non impongono termini precisi e determinati, indicano, in ogni caso, un’attività
da compiere in un margine ristretto di tempo, e cioè non appena possibile, tenuto conto
delle normali esigenze di un ufficio pubblico onerato di un medio carico di lavoro.
Da ciò consegue che il termine di trenta giorni, previsto dall’art. 19 legge n. 241 e
dall’art. 23 testo unico edilizia, ai fini della notifica al privato segnalatore dell’ordine
motivato di non effettuare il previsto intervento, non vale per l’adempimento dell’obbligo
di rapporto alla competente Procura della Repubblica, che deve, invece, essere fatto non
appena l’ufficiale comunale competente abbia riscontrato gli elementi della sussistenza
di un reato perseguibile d’ufficio nella documentazione prodotta dal privato segnalatore6.
E si tenga presente che l’eventuale sussistenza di cause di estinzione del reato o di non
punibilità, diverse dalla insussistenza del fatto, relative al reato da denunciare, non
esentano dall’obbligo del rapporto, perché esse possono essere valutate e riconosciute
solo dall’autorità giudiziaria7.
Il delitto di omessa denuncia di reato è reato istantaneo, in quanto il termine di
adempimento dell’obbligo giuridico è unico, finale e non iniziale, decorso il quale il
soggetto agente non è più in grado di tenere utilmente la condotta comandata: il delitto
si consuma allorché il pubblico ufficiale apprende del fatto di reato, momento che segna
anche il dies a quo della prescrizione8. Questo significa che la denuncia è sempre omessa,
4
Cfr.: Cassazione, Sezione VI, 7 maggio 2009, n. 27508, in CED 244528.
Cassazione, Sezione VI, 19 maggio 1985, n. 5499, in Giur. pen., 1986, II, 4; Cassazione, Sezione V, 4
aprile 2008, n. 26081, Martinelli, «L’omissione o il ritardo del pubblico ufficiale nel denunciare i fatti di reato
idonei ad integrare il delitto di cui all’art. 361 c.p., si verifica solo quando il pubblico ufficiale sia in grado di
individuare, con sicurezza, gli elementi di un reato, mentre, qualora egli abbia il semplice sospetto di una
possibile futura attività illecita, deve, ricorrendone le condizioni, semplicemente adoperarsi per impedire
l’eventuale commissione del reato ma non è tenuto a presentare denuncia»; Cassazione, Sezione VI, 7
maggio 2009, n. 27508, Rizzo.
5
6
Cassazione, Sezione VI, 10 marzo 2007, n. 18457, in CED, 236501.
7
Cassazione, 4 febbraio 1985, Lunghi, in Cassazione penale, 1986, 910.
Cassazione, Sezione VI, 16 giugno 2000, n. 8746, in Cassazione penale, 2001, 2364; Cassazione,
Sezione VI, 5 giugno 2002, n. 28124, Bortot, «In tema di omessa denuncia di reato da parte del pubblico
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anche quando venga effettuata in ritardo, perché la norma in commento parifica agli
effetti penali la denuncia tardiva alla omissione di denuncia9.
L’elemento soggettivo del reato in questione consiste nella consapevolezza e
volontarietà dell’omissione di denuncia, allorché si sia verificato il presupposto da cui
deriva l’obbligo di informare l’autorità giudiziaria, ossia la conoscenza da parte del
pubblico ufficiale del fatto costituente reato perseguibile d’ufficio maturata a causa
dell’esercizio delle sue funzioni.
È, quindi, estraneo alla nozione del dolo di omissione il motivo che induca il soggetto,
su cui grava l’obbligo di informazione, ad astenersene, sicché è irrilevante che questi
ritenga che l’informativa della notizia di reato di cui sia venuto a conoscenza competa
ad altro pubblico ufficiale, ovvero supponga che l’informativa medesima sia stata da
questi già formata.
Infatti l’errore in cui il soggetto possa incorrere, al riguardo, non esclude la volontarietà
dell’omissione, ma concerne semmai la sua illegittimità ed è, pertanto, penalmente
inescusabile10.
ufficiale, l’intervenuta abolizione del reato presupposto, a seguito di intervento legislativo, non incide sulla
configurabilità del delitto di cui all’art. 361 c.p., dovendosi escludere l’applicabilità del principio stabilito
dall’art. 2 co. 2 c.p. (fattispecie in cui era intervenuta l’abrogatio criminis della contravvenzione di cui all’art.
221 T.U.L.S. la cui denuncia era stata omessa dal pubblico ufficiale)».
9
Cassazione, Sezione VI, 14 maggio 1981, n. 9632, in Cassazione penale, 1982, 1987.
10
Cassazione, Sezione VI, 5 novembre 1998, n. 1407, in Cassazione penale, 2000, 386.
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Capitolo Undicesimo
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
All’esito della ricostruzione sin qui operata, si può conclusivamente osservare che la
violazione dei compiti di controllo e di rapporto imposti dalla vigente normativa in tema di
SCIA edilizia ai funzionari comunali, incidendo su beni pubblici di rilevanza costituzionale,
quali la gestione del territorio, la pubblica fede, il buon andamento e l’imparzialità della
Pubblica Amministrazione, è correttamente inquadrabile nelle fattispecie penali poste
a tutela di tali beni, ossia, a seconda dei casi, la concussione, la corruzione propria,
l’abuso d’ufficio e l’omessa denuncia di reato, che servono a rafforzare la garanzia
che la SCIA, quale forma di semplificazione dell’azione amministrativa, non si possa
mai tradurre in un distorto strumento di alterazione del corretto assetto urbanistico,
realizzato mediante false attestazioni da parte degli operatori privati e violazioni del
dovere di adempiere correttamente alle funzioni assegnate da parte dei pubblici ufficiali
intervenuti.
E questo perché la semplificazione dell’azione amministrativa in materia edilizia
comporta, non l’attenuazione della protezione dell’interesse pubblico al corretto
assetto del territorio, ma la corresponsabilizzazione del privato titolare di posizioni
giuridiche socialmente funzionalizzate nel procedimento amministrativo di gestione
di quell’interesse pubblico, con la parallela responsabilizzazione del pubblico ufficiale
nelle attività di controllo sulle attività economiche private incidenti sul territorio, che
possono essere intraprese, non solo per soddisfare legittimi interessi privati, ma anche
per concorrere a realizzare quello stesso interesse pubblico.
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