ECC.MO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO - ROMA Ricorso Nell’interesse del Consiglio Nazionale Forense (C.F. 80409200583), con sede legale in Roma, Via Arenula, 71,CAP 00186, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, Prof. Avv. Guido Alpa, rappresentata e difesa, in virtù della procura apposta a margine del presente atto e della deliberazione del […] n. […] del Consiglio (che si deposita agli atti del giudizio), dagli Avv.ti Proff. Angelo Clarizia (C.F. CLRNGL48P06H703Z), Vincenzo Cerulli Irelli (C.F. CRLVCN47C28H501X), Giuseppe Colavitti (C.F. CLVGPP70L27B354I), Guido Greco (C.F. GRCGDU46S18 C351B), Roberto Mastroianni (C.F. MSTRRT64M03D086J), MRBGPP44S16A390N) Giuseppe e Federico Morbidelli Tedeschini (C.F. (C.F. TDSFRC48A24H501P), e presso il primo elettivamente domiciliato in Roma, alla Via Principessa Clotilde, n.2, ove chiede riceversi ogni eventuale notifica e/o comunicazione, anche a mezzo telefax al numero 06/32609846, oppure al seguente indirizzo di posta elettronica certificata: [email protected]; contro il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro e legale rappresentante pro tempore; per l’annullamento, previa, se del caso, sottoposizione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 9 del d.l. n. 1/2012 del Decreto del Ministero della Giustizia del 20 luglio 2012, n. 140, pubblicato in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 195 del 22 agosto 2012, Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le 1 professioni regolamentate vigilate dal Ministero della Giustizia, ai sensi dell’art. 9 del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, nella parte in cui disciplina i parametri per la liquidazione giurisdizionale dei compensi degli avvocati; di ogni altro provvedimento presupposto, connesso e/o consequenziale ancorché non conosciuto dalla ricorrente, ove lesivo, con riserva di motivi aggiunti. FATTO Con l’articolo 9 del decreto legge n. 1 del 24 gennaio 2012, Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività, parzialmente emendato dalla legge di conversione n. 27 del 24 marzo 2012 il governo ha “abrogato le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico” (comma 1) e tutte “le disposizioni vigenti che, per la determinazione del compenso del professionista, rinvia[va]no alle tariffe”. L’abrogazione delle tariffe professionali, annunciata come la maggiore innovazione introdotta dalla disposizione in esame, ha una mera valenza simbolica, in quanto, come riconosciuto dal Governo nella relazione illustrativa, lo scardinamento del sistema tariffario era già stato realizzato con l’abolizione dell’obbligatorietà dei minimi tariffari introdotta oltre cinque anni fa con il d.l. c.d. Bersani del 4 luglio 2006, n. 223, convertito in l. 4 agosto 2006, n. 248. La predetta disposizione ha determinato esclusivamente l’abolizione anche dei vincoli massimi determinando, dunque, soltanto conseguenze negative sui consumatori e sui privati dal momento che il professionista potrà pattuire qualunque compenso con il cliente. Il quarto comma della predetta disposizione introduce l’obbligo di pattuizione per iscritto del compenso al momento del conferimento dell’incarico professionale, stabilendo che il professionista è tenuto ad 2 illustrare al cliente il grado di complessità dell'incarico, le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento fino alla conclusione dell'incarico, nonché i dati della polizza assicurativa per i danni provocati nell'esercizio dell'attività professionale. La legge di conversione ha inoltre introdotto al medesimo comma l’obbligo di rendere nota al cliente la misura del compenso con un preventivo di massima, che deve essere adeguata all'importanza dell'opera, indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi. Il secondo comma dell’art. 9, in evidente contraddizione con quanto stabilito dal primo comma, reintroduce la predeterminazione di griglie liquidatorie stabilendo che, “nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante”. In tale prospettiva, il legislatore dell’emergenza reintroduce le tariffe abrogate, eliminando l’intervento necessario del Consiglio Nazionale Forense dal procedimento di determinazione delle tariffe. Tale mortificazione dell’autonomia del Consiglio Nazionale Forense risulta incompatibile sia con l’art. 33, comma 5, Cost. (come si vedrà in seguito), sia con il principio di sussidiarietà orizzontale enunciato all’art. 118, comma 4, della Costituzione, essendo tale organo per la propria composizione in grado di determinare efficacemente ed autonomamente le regole di dettaglio della riforma delle professioni. Il prefato art. 9, oltre ad essere irragionevole ed inconferente rispetto alle finalità di liberalizzazione e d’incentivazione dell’economia oggetto del decreto legge, non specificità/peculiarità ha della tenuto in alcuna professione forense considerazione rispetto alle la altre professioni liberali, riconosciuta sia a livello europeo che nazionale, come si vedrà in dettaglio più avanti. 3 La giurisprudenza sovranazionale, infatti, ha ritenuto che in virtù dell’esigenza imperativa della buona amministrazione della giustizia è giustificato un trattamento diverso degli avvocati rispetto ad altri professionisti (Corte Giust. U.E., 12.07.1984, causa 107/83, Klopp, Racc. 1611). In particolare la Corte di Giustizia, ha considerato compatibile con il Trattato l’imposizione di specifici requisiti al prestatore in forza di norme sull’esercizio della professione, in tema di organizzazione, qualificazione, deontologia, controllo e responsabilità (Corte Giust. U.E., 3.12.1974, causa 33/74, Van Binsbergen, Racc. 1299; 27.06.2006, causa C-305/05, Ordre des barreaux francophones et germanophones, Racc. 5305 ; 3.02.2011, causa C-359/09, Ebert). In tale prospettiva, con riferimento alla specifica situazione italiana e, in particolare, alle tariffe professionali, i Giudici di Lussemburgo hanno affermato che la fissazione di onorari (anche minimi) consente di evitare che gli avvocati svolgano - in un contesto come quello del mercato italiano, caratterizzato dalla presenza di un numero estremamente elevato di avvocati – una concorrenza che si traduca nell’offerta di prestazioni al ribasso, con il rischio conseguente di un peggioramento della qualità dei servizi forniti (Corte Giust. U.E., 5.12.2006, Cause riunite C-94/04 e C202/04, Cipolla, Racc. 11421), considerando, dunque, legittima la normativa la previgente normativa italiana sugli onorari (Corte Giust. U.E., 29.03.2011, causa C-565/08, Repubblica Italiana;19 febbraio 2002, causa C-35/99, Arduino). Del resto tali considerazioni sono state ribadite anche dal legislatore europeo. In tema di tariffe professionali obbligatorie, il Parlamento, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria, si è dichiarato favorevole ad una conciliazione della concorrenza con un certo livello di regolamentazione, 4 da modularsi in riferimento alle specificità delle diverse professioni: più precisamente, ha ritenuto gli Stati membri autorizzati a stabilire tariffe obbligatorie, purché queste siano poste a tutela dell’interesse generale e non di quello della professione (Risoluzione sulle tabelle degli onorari e le tariffe obbligatorie per talune libere professioni, in particolare per gli avvocati, e sulla particolarità del ruolo e della posizione delle libere professioni nella società moderna del 5 aprile 2001). Recentemente con la Risoluzione del Parlamento europeo sulle professioni legali e l'interesse generale nel funzionamento dei sistemi giuridici del 23 marzo 2006, sulla base del presupposto che la concorrenza dei prezzi non regolamentata tra i professionisti legali conduce a una riduzione della qualità del servizio prestato, a detrimento dei consumatori, ha invitato “la Commissione a non applicare le norme sulla concorrenza dell'Unione europea in materie che, nel quadro costituzionale dell'UE, sono lasciate alla competenza degli Stati membri, quali l'accesso alla giustizia, che include questioni quali le tabelle degli onorari che i tribunali applicano per pagare gli onorari agli avvocati”, ritenendo che “le tabelle degli onorari o altre tariffe obbligatorie per avvocati e professionisti legali, anche per prestazioni stragiudiziali, non violino gli articoli 10 e 81 del trattato, purché la loro adozione sia giustificata dal perseguimento di un legittimo interesse pubblico e gli Stati membri controllino attivamente l'intervento di operatori privati nel processo decisionale”. In tale prospettiva è evidente che l’ordinamento sovranazionale non considera con disvalore la fissazione di onorari. Anzi, in base alle predette considerazioni la determinazione degli onorari degli avvocati è considerato uno strumento utile per evitare la riduzione della qualità dei servizi legali prestati a detrimento dei consumatori. Le specificità e le peculiarità della professione è riconosciuta anche dal testo fondamentale che disciplina l’ordinamento forense, il Regio 5 Decreto Legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito in legge 22 gennaio 1934, n. 36. In particolare, l’art. 57 del regio decreto legge, in virtù della particolarità della professione forense, prevede che i criteri per la determinazione degli onorari e delle indennità dovuti agli avvocati e ai procuratori siano stabiliti ogni biennio con deliberazione del Consiglio Nazionale Forense, organo rappresentativo della categoria degli avvocati, e successivamente approvati dal Ministero della Giustizia, previa consultazione obbligatoria del Consiglio di Stato. La particolarità della professione forense rispetto alle altre professioni rispetto alle altre professioni liberali trova del resto conferma anche nel fatto che è all’esame del Parlamento un’iniziativa di riforma – in fase molto avanzata giacché approvata alla Camera dei Deputati il 31.10.2012 ed attualmente all’esame del Senato – contenuta nel p.d.l. C3900, a firma del Sen. Giuliano e altri, recante “Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”, dichiaratamente conforme ai principi europei di liberalizzazione e semplificazione di una professione regolamentata. Detta riforma evidenzia anzitutto la particolarità dell'ordinamento forense rispetto alle altre professioni regolamentate, sottolineando la "specificità della funzione difensiva" e la "primaria rilevanza giuridica e sociale dei diritti alla cui tutela essa è preposta" (art. 1, comma 2, lett. a) e prescrivendo "l'obbligo della correttezza dei comportamenti e la cura della qualità ed efficacia della prestazione professionale" (art. 1, comma 2). Quanto al compenso professionale, ne stabilisce la determinazione mediante accordo pattuito per iscritto con il cliente all’atto del conferimento dell’incarico e pone a carico del difensore l’obbligo di rendere noto “il livello della complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento 6 alla conclusione dell’incarico”, e prevedendo che, “quando all’atto dell’incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi, e nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell’interesse dei terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge”, si applicano i parametri indicati ogni due anni con decreto del Ministero della Giustizia su proposta del CNF di cui all’art. 1, comma 3 (art. 13, comma 6). La modifica introdotta con il prefato articolo 9 risulta, dunque, illogica, irragionevole e priva di giustificazione poiché da un lato, non sussistano ragioni perché tale riforma sia stata prevista dal legislatore dell’emergenza, in assenza della necessaria sistematicità ed organicità che dovrebbe caratterizzare una modifica così radicale, mentre, dall’altro, è stata violata, in assenza di alcuna ragione giustificatrice, l’autonomia della professione forense. Le gravi criticità finora sollevate caratterizzano anche il decreto ministeriale adottato in attuazione dell’art. 9 del d.l. n. 1/2012, che è invalido sia per illegittimità derivata dall’incostituzionalità della norma di riferimento, sia in via diretta per vizi propri. Con il D.P.R. del 20 luglio 2012, n. 140, pubblicato sulla G.U.R.I. in data 22 agosto 2012, il governo ha dettato, infatti, i parametri relativi alla liquidazione giurisdizionale del compenso del professionista. Tuttavia, la disciplina regolamentare adottata è disancorata dalle disposizioni di legge di cui dovrebbe rappresentare la diretta attuazione, mortificando l’autonomia costituzionale riconosciuta agli ordini professionali ed introducendo disposizioni ultra vires rispetto a quanto previsto dal prefato art. 9. La disciplina normativa introdotta dall’articolo 9, commi 1 e 2 del decreto legge n. 1 del 2012 convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 7 1, comma 1, L. 24 marzo 2012, n. 27 e le disposizioni contenute nel decreto del Ministro della Giustizia del 20 luglio 2012, n. 140 appaiono, la prima, manifestamente incostituzionale e, la seconda, palesemente illegittima sotto diversi profili in quanto lesiva degli interessi del Consiglio Nazionale Forense che rappresenta tutti gli avvocati italiani, e dunque per legge e per statuto ne difende la professione e con essa il decoro, la dignità, la funzione istituzionale e costituzionale. Pertanto il prefato decreto è impugnato per i seguenti motivi di DIRITTO *** I. Illegittimità derivata dall’illegittimità costituzionale dell’art. 9 del d.l. n. 1/2012 – Violazione dell’art. 77, comma 2, della Costituzione Preliminarmente all’analisi dei vizi “interni” di legittimità del decreto impugnato, appare opportuno rilevare che l’art. 9, comma 2, del d.l. n. 1/2012, in base al quale è stato adottato l’impugnato Decreto del Ministero della Giustizia, è palesemente incostituzionale e la sua applicazione risulta, dunque, gravemente illegittima e ingiusta. Segnatamente, la predetta disposizione è incostituzionale in quanto adottata in assenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza prescritti dall’art. 77, comma secondo, della Costituzione della Repubblica italiana per derogare alla regola generale secondo cui il potere normativo spetta in via generale al Parlamento. La Corte Costituzionale, infatti, fin dalla pronuncia n. 29/1995, ha ammesso la possibilità di scrutinare il vizio dei presupposti costituzionali del decreto legge anche dopo la conversione in legge (n. 29/1995; n. 330/1996; n. 398/1998, cons. dir. n. 3; n. 341/2003; n. 6,178,196, 285 e 299 del 2004; n. 2, 62, 272 del 2005), ritenendo che la mancanza dei requisiti della necessità ed urgenza concreta una vera e propria carenza di potere. In particolare, con la pronuncia del 23 maggio 2007, n. 171, la Corte 8 ha annullato la disposizione di un decreto legge, in quanto “l’utilizzazione del decreto legge – e l’assunzione di responsabilità che ne consegue per il governo secondo l’art. 77 della Costituzione – non può essere sostenuta dall’apodittica enunciazione dell’esistenza delle ragioni di necessità e di urgenza”. Le attribuzioni di poteri normativi al Governo “hanno carattere derogatorio rispetto all’essenziale attribuzione al Parlamento della funzione di porre norme primarie nell’ambito delle competenze dello Stato centrale”(cons. dir. parr. 6 e 3). Alla luce di tale pronuncia appare, pertanto, evidente che il decreto legge n. 1 del 2012, ed in particolare l’art. 9 del predetto decreto, viola l’art. 77 della Costituzione per la chiara e manifesta mancanza dei presupposti della necessità ed urgenza. L’indicazione nel preambolo del richiamato decreto (“Ritenuta la straordinarietà ed urgenza di emanare disposizioni per favorire la crescita economica e la competitività del Paese, al fine di allinearla a quella dei maggiori partner europei ed internazionali, anche attraverso l'introduzione di misure volte alla modernizzazione ed allo sviluppo delle infrastrutture nazionali, all'implementazione della concorrenza dei mercati, nonché alla facilitazione dell'accesso dei giovani nel mondo dell'impresa”) si riduce ad una mera clausola di stile, priva di alcuna efficacia legittimante la disciplina imposta dalla prefata disposizione, in relazione alla liquidazione giudiziale dei compensi del professionista. La Corte costituzionale afferma costantemente che il sindacato sulla legittimità dell'adozione, da parte del Governo, di un decreto-legge deve limitarsi alla «evidente mancanza» dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza richiesti dal secondo comma dell'art. 77 Cost., rimanendo invece la valutazione del merito delle situazioni di urgenza nell'ambito della responsabilità politica del Governo nei confronti delle Camere, chiamate a decidere sulla conversione in legge del decreto (ex plurimis, tra le più 9 recenti, sentenze n. 83 del 2010, n. 128 del 2008, n. 171 del 2007, n. 285 del 2004). Non è dato comprendere, sotto il profilo della razionalità e ragionevolezza delle scelte politiche, per quale motivo sia stata assoggettata a decretazione d’urgenza una materia che – come esposto in narrativa – è da anni totalmente liberalizzata e quindi, per definizione, non prevede alcuna limitazione all’accesso dei giovani al mondo dell’impresa (si pensi alla abolizione dei minimi tariffari introdotta dal d.l. 226/2006; quella sì con comprensibile decretazione d’urgenza). Inoltre, è evidente che la disposizione de qua non concerne in alcun modo la crescita economica e la competitività del paese, dal momento che si limita da un lato ad abolire le previgenti tariffe professionali – che, com’è stato già ribadito, in seguito al decreto Bersani non erano più vincolanti – sostituendole con parametri elaborati sempre dal medesimo Ministero della Giustizia, e, dall’altro, a stabilire la rilevanza primaria dell’accordo tra libero professionista e cliente, già prevista all’art. 2233 del Codice Civile. L’unica differenza, dal punto di vista normativo, risiede nella mancata partecipazione al procedimento di adozione dei parametri del Consiglio nazionale forense che in base alla previgente disciplina, deliberava i criteri per la determinazione degli onorari e delle indennità dovute agli avvocati e ai procuratori in materia giudiziale e stragiudiziale, successivamente approvati dal Ministero della Giustizia (si cfr. il combinato disposto dell’art. 1, della legge 7 novembre 1957, n. 1051 e dell’art. 1 della legge 3 agosto 1949, n. 536). Ictu oculi, dunque, la prefata disposizione non presenta alcuna esigenza particolare di straordinaria necessità ed urgenza né è volta a favorire né la crescita economica né la competitività del paese. Ma vi è di più. La norma de qua rappresenta anche una c.d. norma intrusa, in quanto introduce una “nuova” disciplina in materia di liquidazione dei compensi professionali in un decreto legge relativo a 10 misure volte alla modernizzazione ed allo sviluppo delle infrastrutture nazionali, all'implementazione della concorrenza dei mercati, nonché alla facilitazione dell'accesso dei giovani nel mondo dell'impresa. I nuovi parametri, invero, non concernono né le infrastrutture nazionali, né la concorrenza dei mercati, né la facilitazione dell’accesso dei giovani nel mondo dell’impresa, ma si limitano a prevedere che il potere di regolamentazione degli onorari degli avvocati sia esercitato dal Ministero esautorando il ruolo dei Consigli nazionali delle diverse libere professioni. Del resto l’estraneità della norma censurata rispetto alla materia disciplinata nel testo in cui è inserita, risulta evidente dalla mancanza di ogni motivazione in merito alle ragioni di necessità ed urgenza poste alla sua base, sia nel preambolo del decreto legge, sia nella relazione governativa al c.d. decreto liberalizzazioni. In merito alla disposizione de qua, infatti, nella relazione illustrativa governativa non è possibile desumere alcuna indicazione in merito alle ragioni di necessità ed urgenza poste a fondamento dell’art. 9, comma 2, né esplicitamente (nella descrizione relativa alla specifica disposizione), né implicitamente (nella lunga introduzione della relazione governativa), Le uniche considerazioni che riguardano i servizi professionali – e nella specie la professione forense – chiariscono, infatti, che, a partire dal 2006, e in particolare dall’abolizione delle tariffe minime, vi è stata una flessione degli aumenti degli onorari. In realtà, le uniche criticità sollevate nella medesima relazione che, seppur latamente, possono riguardare gli avvocati concernono la lentezza della giustizia civile, considerata un ostacolo al funzionamento dei mercati ed indice negativo per l’iniziativa economica privata. Tuttavia, è evidente, la norma de qua non interviene sulla velocizzazione o la semplificazione della giustizia civile, ma unicamente sugli onorari dei professionisti che, tra l’altro, erano già stati liberalizzati 11 con il d.l. n. 223/2006. Né del resto le misure introdotte con i commi primo e secondo dell’art. 9 “rientrano nella complessiva e generalizzata opera di revisione del quadro normativo e regolamentare che, ai diversi livelli di governo e di competenza e senza distinzione tra categorie, interessi e settori economici, elimini le molte e ingiustificate situazioni di barriere all’accesso e le rendite di posizione ancora esistenti”. In tale prospettiva la disposizione de qua è incostituzionale, anche, perché estranea ed eterogenea rispetto all’oggetto e alle finalità del decreto legge, in quanto si tratta di una norma che disciplina il potere di adottare i parametri di riferimento per le liquidazioni giudiziali dei compensi degli avvocati e non concerne la liberalizzazione della professione forense. La Corte Costituzionale, con la recente pronuncia n.22 del 2012, “ha individuato, tra gli indici alla stregua dei quali verificare «se risulti evidente o meno la carenza del requisito della straordinarietà del caso di necessità e d’urgenza di provvedere» la «evidente estraneità» della norma censurata rispetto alla materia disciplinata da altre disposizioni del decreto legge in cui è inserita (sentenza n. 171 del 2007; in conformità sentenza n. 128 del 2008). La giurisprudenza sopra richiamata collega il riconoscimento dell'esistenza dei presupposti fattuali, di cui all'art. 77, secondo comma, Cost., ad una intrinseca coerenza delle norme contenute in un decreto-legge, o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico. La urgente necessità del provvedere può riguardare una pluralità di norme accomunate dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate, ovvero anche dall'intento di fronteggiare situazioni straordinarie complesse e variegate, che richiedono interventi oggettivamente eterogenei, afferenti quindi a materie diverse, ma indirizzati all'unico scopo di approntare rimedi urgenti a situazioni straordinarie venutesi a determinare. Da quanto detto si trae la conclusione che la semplice immissione 12 di una disposizione nel corpo di un decreto-legge oggettivamente o teleologicamente unitario non vale a trasmettere, per ciò solo, alla stessa il carattere di urgenza proprio delle altre disposizioni, legate tra loro dalla comunanza di oggetto o di finalità. Ai sensi del secondo comma dell'art. 77 Cost., i presupposti per l'esercizio senza delega della potestà legislativa da parte del Governo riguardano il decreto-legge nella sua interezza, inteso come insieme di disposizioni omogenee per la materia o per lo scopo. L'inserimento di norme eterogenee all'oggetto o alla finalità del decreto spezza il legame logico-giuridico tra la valutazione fatta dal Governo dell'urgenza del provvedere ed «i provvedimenti provvisori con forza di legge», di cui alla norma costituzionale citata. Il presupposto del «caso» straordinario di necessità e urgenza inerisce sempre e soltanto al provvedimento inteso come un tutto unitario, atto normativo fornito di intrinseca coerenza, anche se articolato e differenziato al suo interno. La scomposizione atomistica della condizione di validità prescritta dalla Costituzione si pone in contrasto con il necessario legame tra il provvedimento legislativo urgente ed il «caso» che lo ha reso necessario, trasformando il decreto-legge in una congerie di norme assemblate soltanto da mera casualità temporale. L'art. 15, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri) - là dove prescrive che il contenuto del decreto-legge «deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo» - pur non avendo, in sé e per sé, rango costituzionale, e non potendo quindi assurgere a parametro di legittimità in un giudizio davanti a questa Corte, costituisce esplicitazione della ratio implicita nel secondo comma dell'art. 77 Cost., il quale impone il collegamento dell'intero decreto-legge al caso straordinario di necessità e urgenza, che ha indotto il Governo ad avvalersi dell'eccezionale potere di esercitare la funzione legislativa senza previa 13 delegazione da parte del Parlamento” (Corte Cost., 16.02.2012, n. 22). Alla luce dei richiamati principi risulta, dunque, in contrasto con l’art. 77 della Costituzione la commistione e la sovrapposizione, nel decreto legge, di oggetti e finalità eterogenei in ragione di presupposti diversi. Le disposizioni estranee alla ratio unitaria del decreto che presentano profili autonomi di necessità ed urgenza dovrebbero essere, dunque, contenuti in atti normativi urgenti del potere esecutivo distinti e separati, al fine di preservare la necessaria omogeneità e coerenza del decreto legge. In tale prospettiva, nessun dubbio residua in merito all’illegittimità dell’art. 9, commi 1 e 2, del d.l. n. 1/2012, laddove si prevedono la abrogazione della tariffa professionale degli avvocati e l’attribuzione al Ministero della Giustizia della potestà regolamentare in materia di determinazione dei parametri relativi alla liquidazione giudiziale dei compensi degli avvocati, in quanto non corrispondono né all’oggetto né alle finalità del decreto legge di liberalizzazione dei mercati ed incentivazione della crescita dell’economia italiana. Ma vi è di più. Anche in base alla ricostruzione del Governo, la predetta misura non sarebbe in grado di avere effetti positivi se non “nel lungo periodo”, ossia “nell’arco di vent’anni”, “attraverso un intervento a largo spettro sui settori interessati” (così recita la relazione illustrativa governativa). In tale prospettiva è evidente che difettano i presupposti della necessità e dell’urgenza, trattandosi di disposizioni volte a porre rimedio a “mali antichi del nostro sistema economico” a medio-lungo termine (così si legge nell’introduzione della relazione illustrativa governativa del decreto legge). Del resto l’assoluta insussistenza dei predetti presupposti si desume anche da due ulteriori considerazioni. Innanzitutto, lo stesso art. 9 prevede che la nuova disciplina sarà 14 efficace soltanto dalla data di entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2 o, comunque, dopo il centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto. Tale ritardo nell’entrata in vigore della novella - oltre a costituire una violazione dell’art. 15 della legge n. 400 del 1988 - in base alla quale i decreti legge devono contenere norme d’immediata applicazione, conferma ancora una volta l’assenza di alcuna ipotesi straordinaria di necessità o urgenza alla quale porre rimedio nell’immediatezza. In secondo luogo, presso le Camere sono in corso di trattazione molteplici progetti di legge dell’ordinamento della professione forense, tra i quali il testo A.C.3900-A già approvato dalla Camera e in corso di trattazione innanzi al Senato (testo che prevede, oltre ad una disciplina organica della professione, la introduzione di parametri applicabili in caso di liquidazione giudiziale dei compensi adottati dal Ministero della Giustizia, previo parere del Consiglio Nazionale Forense e delle Commissioni parlamentari competenti). In conclusione, nessun dubbio residua in merito alla circostanza che la previsione dell’abolizione delle tariffe professionali e l’attribuzione al Ministero della Giustizia della potestà regolamentare in materia di determinazione dei parametri relativi alla liquidazione giudiziale dei compensi professionali, previste ai commi primo e secondo dell’art. 9 del d.l. n. 1 del 2012, sono costituzionalmente illegittime in quanto adottate in chiara e manifesta mancanza dei presupposti di necessità ed urgenza prescritti dall’art. 77 della Costituzione della Repubblica italiana. Né del resto la circostanza che il Parlamento abbia convertito il decreto legge può sanare la predetta illegittimità costituzionale. Secondo gli insegnamenti della Corte, infatti, la legge di conversione non ha efficacia sanante, poiché il difetto dei presupposti della straordinaria necessità ed urgenza configurano un vizio formale del procedimento normativo, nella 15 forma della carenza di potere, trasmissibile alla legge di conversione. Nella pronuncia n. 171 del 2007, infatti, la Consulta ha escluso l’efficacia sanante della conversione, in quanto ammettere che la legge di conversione sani in ogni caso i vizi dei presupposti del decreto legge comporterebbe uno stravolgimento del sistema costituzionale delle fonti e di produzione normativa attribuendo al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto all’adozione delle fonti primarie. A nulla varrebbe eccepire l’introduzione delle modifiche al testo dell’art. 9 del d.l. n. 1/2012 in sede di conversione. La Corte costituzionale, infatti, con la recente sentenza n. 355 del 2010, si è riservata lo scrutinio in merito alla sussistenza dei presupposti di necessità e urgenza anche sugli emendamenti “aggiunti” in sede di conversione dal Parlamento purché omogenei rispetto al contenuto del decreto legge. In tale prospettiva, dunque, pretestuose e prive di fondamento sono le eccezioni in merito alle irrilevanti modifiche introdotte in sede di conversione. Per tali motivi, si chiede, dunque, a codesto Ecc.mo T.a.r., ritenuta la rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell’art. 9 del d.l. n. 1/2012 per violazione del riparto costituzionale della competenza normativa, e segnatamente per l’assenza dei presupposti prescritti dall’art. 72 Cost. per l’esercizio della decretazione d’urgenza, di sospendere il presente giudizio e rimettere gli atti alla Corte costituzionale. *** II. Illegittimità derivata per ulteriori profili di illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, del d.l. n. 1/2012 – Violazione del principio di legalità ex art. 97 Costituzione – Violazione dell’art. 17 della l. 400 del 1988 Il Decreto del Ministero della Giustizia n. 140/2012 è illegittimo in via derivata per illegittimità costituzionale dell’art. 9 del d.l. n. 1 del 2012 16 che, nell’attribuire al Ministero della Giustizia il potere di determinare i parametri per la liquidazione giudiziale del compenso del professionista, ha omesso di stabilire i limiti, i parametri o quanto meno i principi ai quali la potestà regolamentare avrebbe dovuto conformarsi. L’esercizio della potestà regolamentare, infatti, deve essere preceduto dall’indicazione legislativa dei criteri e dei limiti per il suo esercizio. Tuttavia, nel decreto de quo mancano i parametri normativi di riferimento, segnatamente nell’art. 9 del decreto legge n. 1 del 2012. La normativa di rango primario si è limitata ad attribuire al Ministero della Giustizia la potestà di determinare i parametri per la liquidazione giudiziale dei compensi degli avvocati senza illustrare neppure sommariamente o genericamente i criteri ed i limiti che avrebbero dovuto guidare l’esercizio di tale potestà. Secondo la consolidata giurisprudenza amministrativa “nell’ipotesi di regolamenti di esecuzione o di attuazione, dove una previgente disciplina legislativa non può non esservi, occorre osservare che senza dubbio l’ordinata attuazione del sistema delle fonti auspica che tale esercizio venga espressamente previsto da legge, nonché attraverso l’indicazione di criteri e limiti” (Cons. St., IV, 28 febbraio 2012 n. 120). L’indicazione a livello primario dei criteri e dei limiti dell’esercizio regolamentare è, dunque, necessaria al fine di conformare l’azione amministrativa e di consentire il sindacato giurisdizionale. Altrimenti quando – come nel caso di specie – non è possibile desumere i suddetti criteri e limiti all’esercizio della potestà regolamentare dalle norme primarie, risulta impedito il sindacato giurisdizionale sull’atto amministrativo. Ne consegue, dunque, anche sotto tale profilo, l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1 e 2, del decreto legge n. 1 del 2012 nella 17 parte in cui ha omesso di individuare in modo puntuali i criteri, i principi ed i limiti che vincolano l’esercizio della potestà attribuita al Ministero della Giustizia di determinazione dei parametri per la liquidazione giudiziale dei compensi degli avvocati. *** III. Illegittimità derivata per ulteriori profili di illegittimità costituzionale dell’art. 9 del d.l. n. 1/2012 – Violazione del principio di sussidiarietà; Violazione degli artt. 33, comma 5, e 118, comma 4, della Costituzione L’art. 9, commi 1 e 2, del d.l. n. 1/2012 ed il d.m. n. 140/2012 in quanto attuativo della predetta disposizione, appaiono altresì illegittimi per violazione del principio di sussidiarietà costituzionalmente imposto e garantito dall’art. 118, comma 4 laddove, con riferimento alla professione forense, vanificano le prerogative e l’autonomia dei Consigli degli Ordini professionali e del Consiglio Nazionale Forense attribuendo al Ministero della Giustizia il potere d’imporre unilateralmente i parametri per la remunerazione dell’attività professionale. Gli ordini professionali – e, in particolare, gli ordini degli avvocati – sono enti autonomi a carattere associativo, com’è stato espressamente riconosciuto, in relazione agli ordini degli avvocati, sia dalla giurisprudenza ordinaria (Cass. SS.UU., 26 maggio 2004, n. 10137) che amministrativa (T.a.r. Lazio, Roma, Sez. I, 19 novembre 2004, n. 13554). Il Consiglio Nazionale Forense, “tutela un interesse pubblicistico” e svolge altresì “un ruolo di rappresentanza […] delle diverse articolazioni associative” (Corte Cost., 27 maggio 1996, n. 171). Alla luce del riconoscimento della natura di ente associativo autonomo dei Consigli dei rispettivi ordini, nonché dell’attribuzione ad essi di funzioni pubblicistiche, l’unilaterale imposizione da parte del Ministero, stabilita all’art. 9, commi 1 e 2, dei parametri di remunerazione, senza che 18 sia stata garantita l’adeguata partecipazione degli enti rappresentativi della categoria professionale appare in contrasto con il principio di c.d. sussidiarietà orizzontale e con l’art. 97 Cost., posto a presidio del principio del giusto procedimento. È evidente, infatti che i Consigli degli Ordini ed i Collegi professionali, per la loro natura e composizione, avrebbero dovuto essere posti in condizione di partecipare adeguatamente alla fissazione delle regole per la determinazione giudiziale delle rispettive attività professionali. Partecipazione che, del resto, era espressamente garantita nella normativa previgente, in base alla quale “i criteri per la determinazione degli onorari e delle indennità dovute agli avvocati [erano] stabiliti ogni biennio con deliberazione del Consiglio nazionale forense” successivamente oggetto di approvazione da parte del Ministero della Giustizia (art. 1 della legge del 3 agosto 1949 n. 536; art. 57 del Regio decreto legge del 27 novembre 1933, n. 1578). La potestà normativa statale trova, dunque, un indubbio limite nel rispetto del principio di sussidiarietà orizzontale, ed anche nel principio di buon andamento, che presuppone la congruità e l’efficacia dell’azione amministrativa mercé la partecipazione di ogni centro istituzionalerappresnetativo di interessi qualificato ad interloquire in seno alla procedura. Né può escludersi l’applicazione dell’art. 118, comma 4, della Costituzione per la mera circostanza che in questo caso si tratta di enti pubblici e non di associazioni private. Sempre la richiamata pronuncia n. 171 del 1996 della Corte Costituzionale accomuna gli uni e le altre nel quadro del “pieno riconoscimento della libertà di associazione […], che è oggetto di salvaguardia costituzionale”: sicché davvero non sussistono ragioni per escludere gli ordini professionali (“enti autonomi associativi”) dalla garanzia del principio di sussidiarietà orizzontale. 19 Principio che risulta nella specie violato per mancanza della benché minima necessarietà, proporzionalità e ragionevolezza dell’intervento governativo. La natura autonoma e rappresentativa degli ordini professionali comporta che tali enti sono gli unici in grado di assicurare una conoscenza delle problematiche e delle esigenze connesse alla determinazione dei compensi professionali idonea ad assicurare la migliore ponderazione degli interessi da regolare con atto normativo da emanarsi a cura del Ministero. In tale prospettiva, dunque, l’imposizione unilaterale da parte del Ministero dei parametri di retribuzione degli avvocati, in assenza della necessaria partecipazione degli Ordini professionali e del Consiglio Nazionale Forense nel procedimento di determinazione degli stessi, risulta irragionevole oltre che lesivo del principio di sussidiarietà orizzontale e del principio di buon andamento. *** IV. Illegittimità derivata per ulteriori profili di illegittimità costituzionale dell’art. 9 del d.l. n. 1/2012 – Violazione del principio di irretroattività; Violazione degli artt. 3 e 24 ; L’art. 41 del Decreto Ministeriale contiene una espressa norma di diritto intertemporale, in base alla quale “le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore”, ossia il giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, id est: il 23 agosto 2012. La relazione ministeriale nulla aggiunge in merito alla corretta interpretazione della disposizione. Tuttavia, alla luce del chiaro disposto normativo, appare evidente che il regolamento, ai fini dell’applicabilità ai giudizi pendenti, indica quale parametro di riferimento non il momento in cui è stata effettivamente posto in essere ciascun atto da parte del professionista, ovvero la data in cui 20 l’attività difensiva è terminata, ma il momento in cui il giudice deve provvedere a liquidare il compenso per la prestazione di assistenza giudiziale svolta. Ciò determina l’applicazione retroattiva della disciplina introdotta con il D.M. n. 140/2012 ai giudizi instaurati ed alle attività svolte nel vigore delle precedenti tariffe professionali, essendo irrilevante il referente temporale dell’attività compiuta. Ai sensi del Regolamento, infatti, rileva esclusivamente la data della quantificazione giudiziale del compenso spettante al professionista. L’effetto retroattivo dell’abrogazione delle tariffe professionali e dell’applicazione del nuovo regime in materia di liquidazione giudiziale dei compensi degli avvocati si desume senza possibilità di differenti interpretazioni dall’art. 9, commi primo, secondo e quinto dell’art. 9 del D.L. n. 1/2012. Il primo comma della disposizione in esame ha espressamente abrogato “le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico”. Il secondo comma stabilisce che, “nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante”. Al quinto comma, si afferma che “sono abrogate le disposizioni vigenti che, per la determinazione del compenso del professionista, rinviano alle tariffe”. L’effetto retroattivo dell’abrogazione delle tariffe e l’applicazione del nuovo regime della liquidazione giudiziale dei compensi degli avvocati anche ai processi in corso ed all’attività già svolta ed esaurita prima della sua entrata in vigore sono illegittimi per violazione dei principi di irretroattività, di certezza del diritto e del legittimo affidamento dei cittadini. 21 La Corte costituzionale, con sentenza n78 del 2012, ha riconosciuto al divieto di retroattività della legge valore fondamentale di civiltà giuridica, stabilendo che il legislatore possa emanare norme retroattive soltanto laddove “la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti “motivi imperativi di interesse generale”, ai seni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)”. La Consulta, oltre a tale presupposto, ha individuato ulteriori “limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi attinenti alla salvaguardia, oltre che dei principi costituzionali, di altri fondamentali valori di civiltà giuridica, posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto d’introdurre ingiustificate parità di trattamento; la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (sentenza n. 209 del 2010, citata, punto 5.1., del Considerato in diritto)” (così, recentemente, Corte cost., 2 aprile 2012, 78). Secondo il Giudice delle leggi, dunque, l’art. 3 della Costituzione, nello stabilire il principio di uguaglianza e, quindi, di ragionevolezza delle scelte del legislatore impone di salvaguardare la certezza dell’ordinamento, in funzione dell’affidamento dei privati, che devono poter orientare le proprie condotte, confidando che ad esse non saranno applicate norme non vigenti e, quindi, non conoscibili al momento in cui hanno agito. Alla luce di tali principi è evidente che le norme legislative e regolamentari censurate, con la loro efficacia retroattiva, ledono sia il canone generale di ragionevolezza, soprattutto tra avvocati che hanno 22 svolto le medesime prestazioni nello stesso arco temporale, in quanto introducono un’ingiustificata disparità di trattamento, sia la tutela dell’affidamento legittimo degli avvocati che, quando hanno accettato l’incarico ed hanno effettuato la relativa attività difensiva, hanno confidato di ottenere un compenso superiore sulla base delle tariffe professionali vigenti. Rispetto alla delineata finalità di garantire la liberalizzazione del mercato delle professioni, è evidente che la retroattività dell’abrogazione delle tariffe e dell’applicazione del nuovo regime non ha alcuna utilità, rappresentando un mezzo inadeguato e sproporzionato rispetto allo scopo, dal momento che i principi del nuovo regime basato sull’autonomia negoziale del rapporto tra professionista e cliente non risultano neppure applicabili ai giudizi pendenti (potendo trovare attuazione esclusivamente prima della proposizione della domanda giudiziale, anteriormente all’instaurazione del giudizio). In tale prospettiva, risulta irragionevole la scelta del legislatore di applicare retroattivamente il nuovo regime basato sull’autonomia negoziale in relazione ad azioni già proposte ed in corso di esecuzione rispetto alle quali oramai non è più possibile stipulare alcun accordo. Le parti, infatti, non sono poste in una posizione di parità dal momento che i clienti, nel caso non si dovesse raggiungere l’accordo, sanno che il compenso verrà liquidato in base al nuovo regime. La disciplina de qua, oltre ad essere irragionevole, viola anche il principio di eguaglianza e parità di trattamento. A causa dell’applicazione retroattiva del nuovo regime, infatti, a due avvocati che hanno posto in essere le medesime attività nello stesso periodo, potrebbero essere applicati due regimi differenti soltanto perché uno è stato più solerte dell’altro nel richiedere il pagamento, ovvero perché 23 la pronuncia relativa al giudizio seguito da uno dei due è stata pubblicata prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina. In ultimo, appare evidente che la violazione del principio della certezza del diritto e del legittimo affidamento dei privati dal momento che l’efficacia retroattiva dell’abrogazione e, in particolare, l’applicazione del nuovo regime della liquidazione giudiziale dei compensi degli avvocati ai giudizi in corso ed alle attività difensive pregresse (anche se già concluse), rendono asimmetrico il rapporto contrattuale tra il professionista ed il cliente in quanto, determinando la diminuzione del corrispettivo, modificano l’equilibrio economico del sinallagma contrattuale. Tra l’altro l’applicazione retroattiva della disciplina sopravvenuta ai giudizi incardinati prima dell’entrata in vigore del D.M. comporta una riduzione dei compensi degli avvocati, a fronte di incarichi già espletati, o, comunque, accettati prima della modifica legislativa, pregiudicando la posizione economica e l’affidamento dei professionisti. Tale mutamento dei compensi in corso d’opera comporta un mutamento dell’equilibrio contrattuale precedentemente concordato tra le parti, a dispetto delle valutazioni effettuate dalle parti al momento della proposizione della domanda, mentre in passato é sempre stato pacifico che ogni innovazione tariffaria trova applicazione esclusivamente agli adempimenti successivi all’entrata in vigore della stessa. Del resto, il diritto e la misura del compenso del professionista sorgono e si determinano al momento dell’accettazione dell’incarico o al più tardi al momento stesso del compimento delle singole attività. Intervenire retroattivamente su tale compenso significa non solo incidere su un diritto quesito, ma anche alterare arbitrariamente gli effetti di un rapporto esaurito a danno, nel caso di specie, degli avvocati, poiché il nuovo regime prevede compensi assai più bassi rispetto alle tariffe stabilite dal D.M. dell’8 aprile 2004. 24 Tale alterazione alla stregua della giurisprudenza costituzionale e comunitaria viola il principio fondamentale dell’affidamento. Sul piano del diritto interno, infatti la Corte Costituzionale ha chiarito sin dalla sentenza n. 349 del 1985 che il principio della certezza del diritto e il connesso principio della tutela dell’affidamento del cittadino costituiscono “valori” riconosciuti dalla Costituzione, che il legislatore è tenuto a rispettare (si cfr. anche nn. 882 del 1988; 155 del 1990; 390 del 1995; 211 del 1997; 229 del 1999; 416 del 1999, nonché gli spunti contenuti nelle sent. nn. 210 del 1971 e 36 del 1985). Il Giudice delle Leggi ha così chiarito che l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica costituisce “elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto” (n. 349/1985); ha qualificato tale affidamento come “principio che, quale elemento essenziale dello Stato di diritto, non può essere leso da norme con effetti retroattivi che indicano irragionevolmente su situazioni regolate da leggi precedenti” (n. 555/2000); ha confermato che, in linea generale, “l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica – essenziale elemento dello Stato di diritto – non può essere leso da disposizioni retroattive, che trasmodino in regolamento irrazionale di situazioni sostanziali fondate su leggi anteriori” (così n. 446/2002). Sul piano del diritto comunitario la Corte di Lussemburgo ha chiarito che il principio del legittimo affidamento si sostanzia nella legittima aspettativa, riconosciuta a ciascun soggetto operante in tale ordinamento, a che non si realizzi un’irragionevole modificazione del quadro giuridico (ex multis, Cort. Giust. U.E., 14 settembre 2006, cause c181/04 e 183/04, Elmeka NE). In conclusione, appare evidente la violazione dell’art. 3 della Costituzione, poiché la norma censurata, facendo retroagire la disciplina, 25 non rispetta i principi generali di eguaglianza, di ragionevolezza e del legittimo affidamento. *** V. Illegittimità derivata dall’illegittimità costituzionale dell’art. 9 del d.l. n. 1/2012 – Violazione del principio di irretroattività; Violazione dell’art. 117 della Costituzione – Violazione dell’art. 6 della CEDU L’art. 9, commi 1, 2 e 5, del D.L. n. 1/2012 e l’art. 41 del D.M. n. 140/2012 sono costituzionalmente illegittimi anche per contrasto con l’art. 117, primo comma, della Costituzione e, in particolare, all’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo come interpretato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Invero, la giurisprudenza della Corte costituzionale è oramai costante nel ritenere che le norme della CEDU, nel significato loro attribuito dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, integrino, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, comma 1, Cost, nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (a partire dalle pronunce della Corte cost., nn. 348 e 349 del 2007; recentemente ex plurimis, Id., 1 del 2011, nn. 138, 187 e 196 del 2010). La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha più volte affermato che il principio della preminenza del diritto e il concetto di processo equo sanciti dall’art. 6 della CEDU ostano al potere legislativo di regolamentare con nuove disposizioni dalla portata retroattiva diritti risultanti da leggi in vigore, salvo che per imperative ragioni d’interesse generale (Cfr. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. II, 7 giugno 2011, Agrati vs Italia; Sez. II, 31 maggio 2011, Maggio vs Italia; Sez. V, 11 febbraio 2010, Javaugue vs. Francia; Sez. II, 10 giugno 2008, Bortesi vs Italia). L’intervento del legislatore con efficacia retroattiva, in quanto interferisce con l’amministrazione della giustizia ovvero pregiudica 26 l’affidamento dei cittadini deve essere, quindi, giustificato da motivi imperativi d’interesse generale. Con riferimento alla disciplina in esame non è dato ravvisare alcun motivo imperativo d’interesse generale idoneo a giustificare l’effetto retroattivo del nuovo regime della liquidazione giudiziale dei compensi degli avvocati. Ne consegue, dunque, che l’art. 9, commi 1, 2 e 5 del D.L. n. 1/2012 e l’art. 41 del D.M. n. 140/2012 violano l’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea, come interpretata dalla Corte di Strasburgo. L’applicazione retroattiva dei nuovi parametri alle prestazioni professionali effettuate prima dell’entrata in vigore del predetto decreto non viola esclusivamente l’art. 6 della CEDU, ma anche il principio del “rispetto dei beni” stabilito all’art. 1, comma 1, del protocollo Addizionale n. 1 alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. In base a quanto dichiarato dalla Corte di Strasburgo nel giudizio Pressos Compania Naviera S.A. (sentenza del 20 novembre 1995, ricorso n. 17849/91) la decurtazione di diritti di credito già sorti nella sfera giuridica dei danneggiati (nel caso di specie si trattava dell’illegittimità di una legge che disponeva la decurtazione dei risarcimenti dovuti a terzi per incidenti verificatisi anteriormente all’entrata in vigore della medesima legge) costituisce un’indebita ingerenza nel diritto al “rispetto dei beni”, equivalendo in sostanza ad una confisca senza indennizzo del bene costituito dalla quota, così decurtata, del credito stesso. Alla luce di tale principio, risulta evidente che la decurtazione dei compensi per le prestazioni professionali già effettuate disposta dal Decreto impugnato risulta in contrasto con il principio del “rispetto dei beni” enucleato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. *** 27 VI. Violazione dell’art. 2233 del Codice Civile – Violazione dei principi generali di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato nell'opera professionale – Eccesso di potere per sviamento di potere, irragionevolezza manifesta e illogicità, nonché per disparità di trattamento Ferme le predette, assorbenti censure di illegittimità costituzionale, che si confida codesto ecc.mo Tribunale vorrà sollevare dinanzi alla Consulta, il regolamento in epigrafe presenta numerosi vizi di legittimità anche in via autonoma. In via preliminare si deduce l’illegittimità del predetto decreto per sviamento di potere, in quanto risulta ictu oculi evidente che l’operazione complessiva compiuta dal Ministero ha avuto come unico obiettivo l’abbattimento sistematico dei valori di cui alla precedente tariffa forense del 2004. Un abbattimento di più del 35% dei compensi degli avvocati immotivato, ingiustificato e del tutto incoerente con le finalità della norma attributiva della potestà regolamentare, che avrebbero dovuto limitarsi a favorire la liberalizzazione delle professioni ed una semplificazione del sistema dei compensi in funzione di una maggiore trasparenza. Del resto, la circostanza che il Ministero abbia perseguito tale obbiettivo in violazione della funzione di liberalizzazione del mercato delle libere professioni per la quale era stata attribuita la potestà regolamentare ai sensi dell’art.9 del d.l. n. 1 del 2012 emerge, con tutta evidenza, dalla stessa relazione ministeriale, laddove è stato specificatamente chiarito che i parametri sono stati “adattati” in considerazione “del problema dell’aumento dei costi legali anche sotto l’aspetto dell’incidenza degli stessi sul reddito medio reale degli utenti, e, dunque, pure in rapporto al valore, e cioè al costo di acquisto, dei beni della vita contesi, così da 28 evitare che, in frizione con i principi costituzionali, «il ricorso alla giustizia possa diventare privilegio per pochi»”. In tale prospettiva, è evidente lo sviamento di potere in cui è incorso il Ministero che dietro l’apparente schermo della liberalizzazione, ha imposto l’abbassamento delle tariffe di oltre il 35% come emerge dalle tabelle allegate. La nuova disciplina regolamentare delle tariffe è orientata, infatti, da esigenze di mero risparmio di spesa, anziché dalla finalità di garantire al cittadino la migliore risposta in termini di funzionalità del sistema giudiziario e della professione forense per soddisfare le esigenze di efficienza della giustizia. Ma vi è di più. L’introduzione di parametri estremamente bassi contraddice sia l’art. 2233 c.c., secondo cui il compenso deve essere adeguato all’importanza dell’opera ed al decoro della professione, sia lo stesso art. 9 D.L. 1/2012, che richiama anch’esso l’importanza dell’impegno profuso. Del resto, la riduzione immotivata e inusitata dei parametri di riferimento della liquidazione giudiziale contraddice non soltanto i predetti riferimenti normativi, ma la stessa relazione ministeriale illustrativa redatta dal Ministero della giustizia ed allegata all’impugnato decreto, in base alla quale “i punti di riferimento [per la liquidazione] in sede giudiziale divengono quindi: importanza e complessità dell’opera e, implementando la chiave sistemica dell’art. 9 rispetto all’ultimo inciso del secondo comma dell’art. 2233 c.c., il pregio della stessa, che riflette in termini giustificativi il razionale rilievo del decoro della professione” (pag. 2). Tuttavia è evidente che il decoro della professione non è garantito con tariffe eccessivamente basse che non valorizzano né l’importanza, né la complessità dell’assistenza legale. 29 Tale riduzione comporta la violazione non solo dell’art. 4 della Costituzione, che tutela il diritto al lavoro, ma anche la violazione del principio della retribuzione sufficiente di cui all’art. 36 della Costituzione. *** VII. Violazione dei principi generali di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato nell'opera professionale – Eccesso di potere per sviamento, irragionevolezza manifesta e illogicità, nonché per disparità di trattamento Non si può fare a meno di rilevare che i parametri tariffari introdotti non rispettano neppure i sistemi di calcolo degli stessi descritti nella relazione illustrativa. Applicando, infatti, le modalità di determinazione di tali parametri indicati nella relazione illustrativa, gli importi avrebbero dovuto essere maggiori rispetto a quelli determinati nel Decreto ministeriale. Nella relazione illustrativa al decreto si legge: di “prendere le mosse dalla precedente tariffa quale orientamento razionale rispetto all’attività forense e, al contempo, quale momento di raccordo tra il precedente sistema e quello nuovo nella lata chiave degli usi finora invalsi” (pag.6). In particolare, si dichiara di aver “proceduto innanzi tutto ad aggiornare la precedente tariffa del 2004 – quale mero termine di riferimento nei sensi sopra illustrati – tenendo conto degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per l’intera collettività, e in specie, della componente Professioni liberali, con un aumento del 24,1%”. Nel dettaglio la relazione illustrativa, puntualizza che l’adeguamento ISTAT: “a) non è stato operato per intero, posto che, come rilevabile già da quanto prima specificato, l’indice ISTAT (componente professioni liberali) aprile 2009-aprile2012 è del 29,3% (contro il 24,1% applicato) con una differenza di oltre il 5% (cfr., sempre, in www.istat.it); 30 b) è stato contenuto, come pure già illustrato, proprio in funzione dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità sopra spiegati, in ragione della tutela dei valori, storicamente contestualizzati sul piano economico, inerenti all’accesso alla giustizia; c) è stato contenuto (anche in questo caso si tratta di un tema già affrontato nella iniziale relazione) dalla fusione tra diritti, onorari e indennità, sia pure parzialmente bilanciata dalla considerazione che questa fusione ha avuto nella determinazione del valore medio di liquidazione (su cui vedi infra); d) è stato poi ulteriormente contenuto dall’assorbimento della voce propria delle precedenti tariffe, data dalle spese forfettarie (mentre si è visto che ora le spese saranno liquidate giudizialmente, in difetto d’accordo, solo in quanto attestate). Da ultimo si deve notare come nella determinazione degli importi si è mirato a contenere l’attuale rapporto medio ponderale tra costi legali concretamente sostenuti e valore del bene oggetto della lite giudiziaria, rilevato secondo gli indici doing business della Banca Mondiale” (v. infra). È evidente, dunque, che secondo quanto illustrato nella relazione ministeriale il compenso degli avvocati previsto dai nuovi “parametri” avrebbe dovuto essere maggiore del compenso determinato sulla base delle vecchie tariffe (D.M. 8 maggio 2004), in quanto si basava su tali importi maggiorati dell’indice ISTAT (seppur non operato per intero). Ma così non è. I valori medi dei parametri sono, infatti, di molto inferiori rispetto agli importi medi determinati in base al combinato disposto degli artt. 1 e 14, del Capitolo I, del D.M. 8 maggio 2004, secondo il quale il compenso degli avvocati era costituito dagli onorari e dai diritti, oltre ad un rimborso forfettario delle spese generali in ragione del 12,5 per cento sull'importo degli onorari e dei diritti ripetibile dal soccombente. 31 Come emerge dalle tabelle allegate i compensi medi previsti dal nuovo Regolamento sono di almeno un terzo più bassi rispetto agli importi medi determinati in base al vecchio regime. Tale decurtazione dei compensi liquidati in sede giudiziale in favore del difensore della parte vincitrice, oltre ad essere illegittima per violazione di legge e per contraddittorietà, è altresì illogica ed irragionevole, in quanto anziché garantire che tutti possano agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, rende più difficoltoso l’esercizio dell’azione giudiziale ai piccoli consumatori ed ai privati cittadini in evidente violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione. Con la liquidazione d’importi irrisori a favore del professionista, infatti, l’unica conseguenza che si è determinata è di scoraggiare ogni iniziativa volta a tutelare i diritti dei consumatori, degli utenti e dei privati meno abbienti favorendo obiettivamente, al contrario, le grandi imprese e le pubbliche amministrazioni. È innegabile, infatti, che tali categorie svantaggiate spesso agivano a tutela delle proprie azioni, anche per importi di dimensioni non notevoli, garantendo al professionista che li assisteva il compenso unicamente attraverso la liquidazione giudiziale delle spese e degli onorari. Tale prassi risultava particolarmente consolidata nell’ambito dei giudizi avverso le contravvenzioni al Codice della Strada, nelle opposizioni ai procedimenti esecutivi proposti dalle società che garantiscono l’erogazione dei servizi essenziali, ovvero in relazione alle questioni relative a richieste pretestuose di soggetti privati. Tuttavia, alla luce della decurtazione dei compensi e delle spese giudiziali liquidati da parte degli organi giudiziali in base ai nuovi parametri introdotti dal decreto impugnato tale prassi non potrà più essere proseguita e i consumatori saranno svantaggiati in quanto il proprio diritto 32 di difesa e di tutela della propria posizione giuridica soggettiva sarà estremamente oneroso. *** VIII. Violazione e falsa applicazione dell’art. 9, d.l. n. 1/2012. Violazione dell’art. 23 Cost. Eccesso di potere per irragionevolezza ed illogicità. Violazione dei principi di irretroattività, della certezza del diritto e del legittimo affidamento. L’art. 41 del decreto impugnato contrasta ulteriormente con il principio di irretroattività – e, più in generale di ragionevolezza, di certezza del diritto e di legittimo affidamento – in quanto si limita ad abrogare le tariffe professionali senza distinguere tra quanto dovuto per onorari professionali e quanto dovuto per diritti. Secondo la consolidata giurisprudenza della Cassazione, “Il giudice, quando liquida le spese processuali e, in particolare, i diritti di procuratore e gli onorari dell'avvocato, deve tenere conto che i primi sono regolati dalla tariffa in vigore al momento del compimento dei singoli atti, mentre per i secondi vige la tariffa in vigore al momento in cui l'opera è portata a termine e, conseguentemente, nel caso di successione di tariffe, deve applicare quella sotto la cui vigenza la prestazione o l'attività difensiva si è esaurita” (Cass., II, 15 giugno 2001, n. 8160). Come emerge dalla relazione illustrativa al provvedimento impugnato, i diritti non sono stati resi oggetto di abrogazione, ma uniformati agli onorari sotto la medesima logica della liquidazione del compenso. Come già visto, l’art. 41 del Decreto Ministeriale contiene una espressa norma di diritto intertemporale, in base alla quale “le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore”. In tal modo la disciplina del compenso, comprensiva di onorari, diritti e spese generali, trova una indistinta applicazione retroattiva, 33 privando i professionisti di un vero e proprio diritto acquisito al momento della prestazione del singolo atto, in palese contrasto con la citata giurisprudenza della Cassazione e, quindi, con il consolidato diritto vivente. Poiché la pretesa ai diritti matura istantaneamente in correlazione con il compimento delle singole attività svolte in esecuzione del mandato professionale, tale diritto risulta inciso e sostanzialmente vanificato in virtù della retroazione degli effetti del regolamento che detto diritto estingue, in assenza di alcuna norma di rango primario che ciò consenta, e quindi in palese violazione dei surrichiamati principi di irretroattività e certezza dei rapporti giuridici, nonché del divieto sancito dall’art. 23 Cost. che stabilisce la regola ineludibile secondo cui ogni onere personale o patrimoniale non può essere che imposto in base ad una esplicita disposizione di legge ordinaria. *** IX. Violazione e falsa applicazione dell’art. 9 del d.l. n. 1/2012; Eccesso di potere per irragionevolezza, illogicità, carenza e/o erroneità dei presupposti, contraddittorietà difetto ed d’istruttoria, arbitrarietà; travisamento Violazione del di principio fatti, di soccombenza; Il decreto de quo risulta altresì illegittimo in quanto introduce, mediante la fonte regolamentare, nuove figure di sanzione pecuniaria e/o disciplinare, in assenza di alcuna base legislativa. In particolare, il decreto impugnato stabilisce, all’art. 1, comma 6, che “l’assenza di prova del preventivo di massima di cui all. art. 9, d.l. n. 1/2012 costituisce elemento di valutazione negativa da parte dell’organo giurisdizionale per la liquidazione del compenso”. Analogamente l’art. 4, comma 6, stabilisce che “costituisce valutazione negativa, in sede di liquidazione giudiziale del compenso, 34 l’adozione di condotte abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli”. Parimenti , l’art. 10 del medesimo decreto prevede che, “nel caso di responsabilità processuale ai sensi dell'articolo 96 del codice di procedura civile, ovvero, comunque, nei casi d'inammissibilità o improponibilità o improcedibilità della domanda, il compenso dovuto all'avvocato del soccombente è ridotto, di regola, del 50 per cento rispetto a quello liquidabile a norma dell'articolo 11”. Come è noto, la previsione di singole fattispecie di illeciti disciplinari è demandata alla legge e ai codici deontologici (recanti per gli avvocati “norme giuridiche vincolanti nell’ambito dell’ordinamento di categoria”: cfr. Cass. Sez. Un., 6 giugno 2002, n. 8225). Occorre precisare, al riguardo, che, con riferimento alla disciplina relativa agli avvocati – ai quali è affidato dalla legge il compito dell’assistenza tecnica necessaria all’espletamento della funzione giurisdizionale, sul regolare esercizio della quale possono incidere, in certa misura, alcuni provvedimenti disciplinari, quali la sospensione o la radiazione – la Corte costituzionale ha ribadito “che l’esercizio della funzione disciplinare nell’ambito del pubblico impiego, della magistratura e delle libere professioni si esprime con modalità diverse, che caratterizzano i relativi procedimenti a volte come amministrativi, altre volte come giurisdizionali, in relazione alle predette peculiarità – derivanti anche da ragioni storiche – proprie dei diversi settori ovvero in rispondenza a scelte del legislatore, la cui discrezionalità in materia di responsabilità disciplinare spazia entro un ambito molto ampio” (cfr. sentenza n. 505/1995). Allo stesso modo la Cassazione ha avuto modo di chiarire che, nel caso dell’ordinamento forense, le previsioni legislative possono essere integrate e precisate da fonti di rango infralegislativo, individuate nelle regole di deontologia dettate dai singoli ordinamenti professionali, vincolanti per i propri iscritti, quale espressione 35 di autogoverno della professione e di autodisciplina dei comportamenti dei professionisti (cfr. Cass. Sez. Un. n. 12723/1995). Dunque, individuato nel principio di legalità e nell’autonomia dei singoli ordinamenti professionali il limite entro cui possono essere istituite nuove figure di sanzione disciplinare, la scelta del Governo di introdurre con norma secondaria dette sanzioni rappresenta il primo e radicale vizio di cui risultano inficiate le disposizioni regolamentari in commento. Ma – come già anticipato – l’istituzione di nuove figure di sanzione disciplinare risulta addirittura priva di base legislativa autorizzante. Ed invero, nel caso di specie la potestà regolamentare de qua è stata conferita al Ministero della Giustizia solo per determinare i parametri per la liquidazione dei compensi, senza alcun riferimento alla introduzione di nuove fattispecie di rilevanza disciplinare. Pertanto, la mancata previsione di un’espressa autorizzazione all’istituzione di nuove figure di sanzione disciplinare, comuni a tutte le professioni, consente di ritenere gli artt. 1, comma 6, 4, comma 6, e 10 del Decreto gravemente illegittimi poiché esorbitanti le disposizioni della base legislativa su sui è fondato. Ma vi è di più. Anche laddove, infatti, Codesto Ecc.mo Tribunale ritenesse che tali disposizioni non configurano nuove figure di sanzione disciplinare, ma esclusivamente una mera potestà attribuita al Giudice di liquidare un importo “punitivo” al fine di sanzionare la mancata presentazione del preventivo, o l’adozione di condotte abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli, o la proposizione di una domanda inammissibile o improponibile o improcedibile, esse risultano comunque illegittime in quanto prive di alcuna base legislativa. 36 È evidente, infatti, che con tali previsioni il Ministero ha introdotto, senza alcuna copertura da parte della norma attributiva della potestà regolamentare, nuove sanzioni nei confronti degli avvocati soccombenti. Nessun dubbio del resto residua in merito alla volontà punitiva delle previsioni de quibus, dal momento che nella relazione illustrativa il Ministero espressamente individua la ratio nella ragione di evitare “l’esercizio professionalmente inappropriato dei diritti processuali”. Tuttavia, tale finalità sanzionatoria non poteva essere perseguita attraverso il regolamento de quo, in quanto essa non è contemplata tra i poteri attribuiti al Ministero della Giustizia dall’art. 9 del d.l. n. 1/2012. Le previsioni de quibus risultano, inoltre, non soltanto prive di alcun fondamento normativo, ma anche in contrasto con le norme che stabiliscono il principio di soccombenza, in quanto prevedono la diminuzione della liquidazione dei compensi da parte della parte soccombente al difensore della parte vittoriosa. Del resto tali disposizioni appaiono in contrasto con le indicazioni fornite dal d.l. n. 1/2012 in quanto, introducendo elementi di valutazione ex post, rischiano di vanificare l’esigenza che informa l’operazione di revisione dei criteri di remunerazione di “rendere chiaro fin dall’inizio nel rapporto tra professionista e cliente il corrispettivo per l’attività da svolgere”. Ma vi sono ulteriori specifici profili di illegittimità che riguardano le predette disposizioni. Innanzitutto, l’art. 4, comma 6, del D.M. 140/2012 è illegittimo in quanto, nell’attribuire al giudice il potere sanzionatorio di diminuire la liquidazione del difensore, non chiarisce l’incidenza della valutazione negativa dell’omessa prova del preventivo sulla liquidazione del compenso. La predetta previsione attribuisce, infatti, al giudice della liquidazione un potere assolutamente discrezionale senza stabilire i 37 parametri ed i limiti in base ai quali esercitare tale potestà di determinare la diminuzione dei compensi. In secondo luogo, l’art. 10 del D.M. 140/2012 è viziato da ulteriori illegittimità sia nella parte in cui disciplina i compensi in relazione alla responsabilità processuale aggravata, sia nella parte in cui si riferisce alle c.d. pronunce di rito. Con riferimento alla prima ipotesi la disciplina de qua è, infatti, illogica, irragionevole e non proporzionata, poiché la previsione della riduzione del 50% non è connessa alla sussistenza di un’effettiva responsabilità in capo al professionista, ma semplicemente all’ipotesi in cui la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, anche quando tale condotta non sia in alcun modo riconducibile a responsabilità del difensore. Parimenti illegittima è anche l’applicazione della predetta decurtazione dei compensi nell’ipotesi di pronunce di rito, in quanto la previsione non tiene in alcuna considerazione che possono verificarsi, e frequentemente si verificano nella prassi, pronunce d’inammissibilità od’improcedibilità che possono rivelarsi per il cliente ancor più satisfattive di una pronuncia di accoglimento (ad esempio, nel processo amministrativo, per l’impugnazione di un provvedimento del quale sia riconosciuta e accertata la non lesività per il ricorrente, eventualmente prospettata in via subordinata negli scritti difensivi, oppure qualora nel corso di un giudizio relativo all’impugnazione di un provvedimento amministrativo ovvero alla proposizione di un’azione avverso l’inerzia della p.a. quest’ultima elimini gli effetti dell’atto impugnato in autotutela, ovvero adotti l’atto richiesto o, ancora, allorché sia cessata la materia del contendere). Del resto le pronunce di rito possono dipendere anche da réevirements giurisprudenziali, dall’introduzione di riforme normative, 38 ovvero dall’adozione di un nuovo atto amministrativo da parte dell’amministrazione. *** X. Violazione degli artt. 10 e 14 del Codice di Procedura Civile; Violazione dell’art. 2233 del Codice Civile; Violazione dei principi generali di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato nell'opera professionale; Eccesso di potere per irragionevolezza manifesta e illogicità. Ai sensi dell’art 5 del Decreto impugnato, “ai fini della liquidazione del compenso, il valore della controversia è determinato a norma del codice di procedura civile avendo riguardo […] nei giudizi per pagamento di somme di denaro, anche a titolo di danno, alla somma attribuita alla parte vincitrice e non alla somma domandata”. Quindi, nei giudizi per il pagamento di somme, il valore della causa che i giudici devono porre a fondamento delle proprie liquidazioni non si determina in base al valore del petitum, bensì prendendo a riferimento esclusivamente la somma finale concretamente attribuita alla parte vincitrice. Tale previsione è evidentemente illegittima, per violazione degli artt. 10 e ss. del Codice di Procedura Civile e dell’art. 2233 del Codice Civile, nonché per eccesso di potere nelle figure sintomatiche dell’irragionevolezza manifesta e dell’illogicità. Innanzitutto, la predetta previsione viola le norme del Codice di Procedura Civile (dalla stessa richiamate) in materia di determinazione del valore della controversia. L’art. 10 del C.P.C. stabilisce infatti – con ciò codificando un principio giusprocessualistico di tradizione secolare - che “il valore della causa, ai fini della competenza, si determina dalla domanda a norma delle disposizioni seguenti”. Il successivo art. 14 stabilisce che “nelle cause 39 relative a somme di danaro o a beni mobili, il valore si determina in base alla somma indicata o al valore dichiarato dall'attore”. In base alla normativa codicistica, dunque, ai fini del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente, il valore della controversia deve essere fissato sulla base del criterio del "disputatum" (ossia di quanto richiesto nell'atto introduttivo del giudizio ovvero nell'atto di impugnazione parziale della sentenza). È evidente dunque che il criterio del decisum (fondato sulla somma al pagamento della quale è stata condannata la parte soccombente), previsto dal decreto impugnato, è contra ius. La predetta disposizione, invero, viola anche l’art. 2233 del Codice Civile, in base al quale la misura del compenso della prestazione d’opera intellettuale del difensore “deve essere adeguata all'importanza dell'opera e al decoro della professione”. L’applicazione del c.d. criterio del decisum non consente, infatti, di prendere in considerazione l’effettiva importanza dell’opera del professionista e l’utilità effettivamente percepita dall’assistito con la decisione conclusiva della controversia, in evidente violazione del principio generale di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato nell'opera professionale. Del resto, è del tutto illogico ed irragionevole determinare il valore della controversia esclusivamente sulla base della somma effettivamente attribuita alla parte vincitrice, poiché l’accoglimento parziale della domanda potrebbe, da un lato, dipendere anche da eventi indipendenti dall’assistenza del difensore della parte vincitrice ( la compensazione di crediti che il soccombente vanta nei confronti della parte vincitrice), mentre da un altro lato, potrebbe scaturire da condotte successive all’instaurazione della lite sostanzialmente satisfattive dell’interesse dell’assistito, le cui ragioni siano state, quindi, riconosciute ed ammesse dal convenuto proprio 40 a seguito del radicarsi del processo (ad esempio, un adempimento spontaneo intervenuto, nel corso del processo, ad opera della parte debitrice, convenuta in giudizio). In tali casi la determinazione del valore della controversia sulla base della somma attribuita alla parte vincitrice effettivamente prestata non avrebbe alcuna giustificazione né risulterebbe adeguata all’importanza dell’opera effettivamente prestata dal professionista. In conclusione, l’importanza dell’attività difensiva prestata dal professionista deve essere valutata con riferimento al valore complessivo della controversia e, conseguentemente, la disposizione de qua, che determina il valore della controversia applicando il criterio del decisum, è senz’altro illegittima. *** P.Q.M. SI CONCLUDE per l’accoglimento del ricorso, previa - se del caso - rimessione delle questioni di legittimità costituzione dell’art. 9 del D.L. n. 1/2012 alla Corte Costituzionale per contrarietà con l’art. 77, comma 2, 3, 24, 35, 97, 117, comma 1, e 118, della Costituzione, con ogni conseguenza di legge anche in ordine al pagamento delle spese e competenze del giudizio, ivi compreso contributo unificato. I sottoscritti avvocati dichiarano che l’assolvimento del contributo unificato è dovuto nella misura di Euro 600,00, trattandosi di ricorso giurisdizionale di valore indeterminabile. Roma, 6 novembre 2012 41