Gazzetta
F O R E N S E
Bimestrale
Anno 7 – Maggio – Giugno 2013
direttore responsabile
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n. registraz. tribunale
N. 21 del 13/03/2007
finito di stampare da
360o ‑ Roma – nel luglio del 2013
SOMMARIO
Editoriale
[ A cura di Roberto Dante Cogliandro ]
Diritto e procedura civile
Responsabilità del chirurgo estetico: profili civili e penali
Alessandra Gallina
Formalismo testamentario, testamento nuncupativo e l’nterpretazione del testamento
Stefano Maria Russo
9
21
L’intervento delle Sezioni Unite sulla disciplina applicabile all’esecutorietà
dei provvedimenti camerali di modifica delle condizioni di divorzio
Nota a Cass. civ., sez. un., 26 aprile 2013, n. 10064
Tonia Raia
26
Il diritto del minore al risarcimento del danno da nascita con malformazione congenita
Nota a Cassazione civile, III sez., sentenza 2 ottobre 2012 n. 16754
Michele Palagano
35
Rassegna di legittimità [A cura di Corrado D'Ambrosio]
52
Rassegna di merito [A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa]
63
In evidenza
Corte di Cassazione, Sezioni Unite sentenza 27 febbraio 2013, n. 4847, Pres., Rel.
In evidenza
Tribunale Di Santa Maria Capua Vetere, Sezione Lavoro, Giud. A. Grammatica
54
60
Diritto e procedura penale
La Cassazione “giudice dei diritti”
69
Clelia Jasevoli
Diffamazione a mezzo Internet con particolare riferimento a “Facebook”
78
Jacopo Meini
Il caso punta Perotti: tra misura amministrativa e sanzione penale
80
Vittorio Sabato Ambrosio
I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali
85
A cura di Angelo Pignatelli
Rassegna di legittimità [
Rassegna di merito [
A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ]
A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ]
95
98
Diritto amministrativo
Attribuzione dei compensi ai membri di organi collegiali
(consiglio di amministrazione e collegio sindacale) di aziende speciali ed istituzioni 111
Francesco Rinaldi e Luigi Molvetti
Il sistema normativo delle immissioni acustiche
(Legge 447/95 e Dpcm 14.11.1997)
114
Marialetizia Margarita
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture
(d.lgs. 12 Aprile 2006, n.163 e ss. mm.)
121
A cura di Almerina Bove
Diritto tributario
L’abuso del diritto nel sistema tributario: evoluzione legislativa e giurisprudenziale
127
Clelia Buccico
Diritto internazionale
Debiti di gioco tra sistemi di common law e civil law
137
Diana Ferrara
Rassegna di diritto comunitario
141
A cura di Francesco Romanelli
Questioni
[ A cura di Mariano Valente ]
Se in tema di prescrizione di danni lungo‑latenti il dies a quo inizi a decorrere dalla piena
consapevolezza delnesso eziologico tra il fatto e l’evento o in virtù del principio dell’ordinaria
145
diligenza. / Federica Arbitrio
Quando il giudice penale accerta la mancanza in concreto dei presupposti oggettivi e/o sog‑
gettivi di una fattispecie di reato, deve assolvere utilizzando la formula «il fatto non sussiste»
o «il fatto non è previsto dalla legge come reato»? Il caso dell’art. 12‑quinquies del D.L. 08.06.1992
147
n. 306. / Giacomo Romano
La domanda di manleva proposta da un condominio, o comunque da un ente di gestione,
che sia volta a far accertare l’esclusiva responsabilità del Ministero chiamato in causa per i
danni derivanti dal silenzio serbato dalla Soprintendenza sull'istanza di autorizzazione ai lavori
di manutenzione avanzata dallo stesso condominio, va intentata davanti al G.O. o davanti al
151
G.A.? / Elia Scafuri
Recensioni
Le disposizioni testamentarie, Utet Giuridica, 2012 A cura di Gabriele Burlarelli
159
Gazzetta
F O R E N S E
●
Il piano giustizia
che non decolla
● Roberto Dante Cogliandro
Notaio
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 3
5
Sono passati più di due mesi da quando il Ministro di Giusti‑
zia ha presentato alle Camere il suo programma organico ed
ambizioso di ammodernamento del pianeta giustizia. Si va dallo
svuotamento delle carceri alla razionalizzazione della carcerazio‑
ne preventiva, dall’edilizia giudiziaria alla riforma dell’accesso
alle professioni; dalla velocizzazione della giustizia civile allo
smaltimento dell’annoso contenzioso pendente dinanzi ai vari
uffici giudiziari. Si è partiti con l’accorpamento degli uffici giudi‑
ziari esistenti sul territorio e sulla creazione di nuovi distretti
giudiziari, provvedimenti per la verità ereditati dall’attuale mini‑
stro dal precedente governo Monti. A tal uopo il Ministro Can‑
cellieri, con un fare da poliziotto, si è subito imbattuta in un
duro scontro con l’avvocatura che aveva osato chiedere un legit‑
timo confronto su limature da farsi all’attuazione della soppres‑
sione di sedi giudiziarie e relativamente alla localizzazione dei
nuovi tribunali sul territorio nazionale. Il Ministro con un fare
eccessivamente decisionista sembra non essersi resa conto che il
pianeta giustizia è fatto di diverse anime portatrici di innumere‑
voli interessi (avvocatura, giudici, amministrativi, personale au‑
siliare, localismi) che se non ben miscelati rischiano di comporre
una miscela esplosiva. E pertanto la stessa scelta dell’ubicazione
di una nuova sede giudiziaria spesso corrisponde ad una compen‑
sazione di un qualche maltolto al comune o all’area geografica,
corrispondendo a ben altre dinamiche rispetto alla sola edilizia
giudiziaria. Di questo il Ministro sembra non tenerne conto e di
non considerare che la creazione di una sede in un posto anzicché
in un altro spesso vuol dire anche rilancio di una area depressa,
di una zona che economicamente con l’arrivo di un Tribunale può
creare un certo indotto del commercio e dei servizi. Un solo
esempio che valga per tutti è quello riferito all’area di Castel
Capuano dove fino a qualche anno fa sorgevano gli uffici giudi‑
ziari partenopei. Tale area è oggi urbanisticamente e commercial‑
mente morta senza che se ne discuta di un piano comunale di
rilancio. Dunque la scelta dell’ubicazione di nuova sede giudizia‑
ria è cosa delicatissima non solo per il ministero di competenza
ma anche per il comune e gli enti che ospitano il polo giudiziario.
Scelte frettolose rischiano poi di diventare un boomerang per
tutti. Altro aspetto di cui si discute è il cosiddetto piano svuota
carceri. Il nostro Paese è stato più volte richiamato e multato
dagli organismi internazionali di controllo per l’eccesivo sovraf‑
follamento delle carceri ed il loro pessimo stato di conservazione.
A tal uopo il Ministro è impegnato in una aspra battagli parla‑
mentare per limitare in primis l’eccessivo uso della carcerazione
preventiva ed allo stesso tempo di provvedimenti prescrizioni che
limitino le pena nei livelli minimi sanzionatori. Due sfide ardue
se non s’intende passare per provvedimenti d’indulto già nel pas‑
sato utilizzati in via eccezionale. Infine l’annoso problema della
lentezza del processo civile, uno dei motivi di allontanamento
degli investitori stranieri dal nostro paese. Qui in passato gli in‑
terventi sono stati tampone e mai organici (cfr nuovo rito socie‑
tario, poi risultato fallimentare, tribunale delle imprese che non
sta dando alcun frutto quanto alla celerità ed infine l’obbligato‑
rietà della conciliazione poi dichiarata incostituzionale dalla
Corte Costituzionale) non risolvendo alla radice la proverbiale
lentezza dei giudizi che finiscono per favorire come vuol dirsi che
ha potenzialmente torto rispetto a chi vanta pretese. Insomma è
proprio su questo ultimo aspetto che si gioca il futuro comunita‑
rio il nostro paese. Ed allora si abbia il coraggio di razionalizzare
integralmente il settore con interventi decisivi e radicali. La
conciliazione può essere certamente uno di questi.
Diritto e procedura civile
Responsabilità del chirurgo estetico: profili civili e penali
Alessandra Gallina
Formalismo testamentario, testamento nuncupativo e l’nterpretazione del testamento
Stefano Maria Russo
9
21
L’intervento delle Sezioni Unite sulla disciplina applicabile all’esecutorietà
dei provvedimenti camerali di modifica delle condizioni di divorzio
Nota a Cass. civ., sez. un., 26 aprile 2013, n. 10064
Tonia Raia
26
Il diritto del minore al risarcimento del danno da nascita con malformazione congenita
Michele Palagano
35
Rassegna di legittimità [A cura di Corrado D'Ambrosio]
52
Rassegna di merito [A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa]
63
In evidenza
Corte di Cassazione, Sezioni Unite sentenza 27 febbraio 2013, n. 4847, Pres., Rel.
In evidenza
Tribunale Di Santa Maria Capua Vetere, Sezione Lavoro, Giud. A. Grammatica
54
60
civile
Nota a Cassazione civile, III sez., sentenza 2 ottobre 2012 n. 16754
Gazzetta
9
F O R E N S E
Responsabilità
del chirurgo estetico:
profili civili e penali
● Alessandra Gallina
Avvocato
Sommario: Premessa – 1. A) Profili civili relativi alla respon‑
sabilità del chirurgo estetico: Diritto alla salute – 2. Natura
giuridica della responsabilità del chirurgo estetico: natura
contrattuale della prestazione – 2.1 Obbligazione di mez‑
zi – 2.2 Obbligazione di risultato – 3. Consenso informa‑
to – 4. Omissione del dovere di informazione e responsabilità
civile – 5. Conclusioni – 6. B) Profili penali relativi alla re‑
sponsabilità del chirurgo estetico: Legittimazioni e scriminan‑
ti dell’attività medico chirurgica in generale ed estetica in
particolare – 7. Consenso informato – 8. Consenso carente o
incompleto e responsabilità penale – 8.1 Responsabilità pe‑
nale dell’operatore sanitario in assenza di consenso informa‑
to in ipotesi di intervento chirurgico con esito fausto – 8.2 Re‑
sponsabilità penale dell’operatore sanitario in assenza di
consenso informato in ipotesi di intervento chirurgico con
esito infausto – 9. Responsabilità penale dell’operatore sani‑
tario in presenza di consenso informato: a) colpa; b) evento;
c) nesso di causalità – 10. Conclusioni.
Premessa
Nel presente elaborato si tratteranno le tematiche salienti
relative alla responsabilità del medico chirurgo in generale e
del chirurgo estetico in particolare, anche alla luce della legge
189/2012.
Infatti, se è vero che alcuni tratti costituiscono un comune
denominatore per entrambe le figure professionali, è altrettan‑
to vero che talvolta, nel caso del medico – chirurgo estetico, si
vengono a delineare aspetti così peculiari da determinare, in
materia di responsabilità, una diversa interpretazione e appli‑
cazione della disciplina.
Non si può, infatti, prescindere dalla natura degli inter‑
venti di chirurgia estetica, ancorati ad un concetto di salute
più ampio e completo rispetto a quello tradizionale.
Si tratta di interventi, che, a volte, possono apparire super‑
flui, determinati più che da una esigenza reale, dalla sola vo‑
lontà del paziente.
Questa concezione, sebbene come vedremo possa essere
considerata in buona parte superata, ha influenzato notevol‑
mente la disciplina relativa alla medicina estetica.
Sotto il profilo della responsabilità civile, particolare rilie‑
vo ha avuto l’inquadramento di tale attività nell’ambito delle
obbligazioni di risultato, con tutte le conseguenze connesse ad
una simile interpretazione.
Gradualmente, tale scelta è stata superata dalla stessa
giurisprudenza che, escludendo la sussistenza implicita di un
patto di garanzia del risultato, si è orientata nel senso di una
responsabilità aggravata o paraoggettiva del chirurgo in gene‑
rale, desumendo la sussistenza di una colpa in assenza del
conseguimento del risultato.
In tale quadro, assume particolare rilievo il consenso in‑
formato che diviene uno strumento attraverso il quale defini‑
re il contenuto della prestazione del chirurgo in generale ed
estetico in particolare.
Per tale ragione, in materia di chirurgia estetica, il consen‑
so è particolarmente rilevante e deve essere maggiormente
dettagliato.
La giurisprudenza ha identificato nella mancata prestazio‑
ne del consenso una responsabilità di natura contrattuale
sussistente sempre, persino a prescindere dalla correttezza o
meno della prestazione medica.
civile
●
10
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Sotto il profilo della responsabilità penale, se la legittima‑
zione della chirurgia estetica è la stessa della chirurgia in
generale (legittimazione che trova le propria ragione nel dirit‑
to alla salute, costituzionalmente garantito), diversa è, invece,
la norma che scrimina tale attività.
L’attività di chirurgia estetica è infatti, riconducibile
all’art. 51 c.p., ossia al consenso dell’avente diritto, e non
all’art. 50 c.p., ossia all’esercizio di un diritto.
Tale considerazione implica il riconoscimento di un par‑
ticolare rilievo, anche in tale sede, del consenso informato che
deve essere particolarmente specifico e dettagliato.
Nelle ipotesi in cui il consenso non venga prestato, sarà
necessario verificare la eventuale sussistenza degli elementi
tipici di una fattispecie di reato.
Nelle ipotesi in cui l’intervento sia riuscito, il mancato
consenso non sarà di per se elemento costitutivo di reato,
esso potrà, tuttavia, determinare una richiesta risarcitoria in
sede civile.
Nelle ipotesi in cui l’intervento non sia riuscito, si confi‑
gurerà, invece, il reato di lesioni colpose o di omicidio colpo‑
so, con la precisazione che la colpa, però, non potrà ravvisar‑
si esclusivamente nel mancato onere di informazione.
Nelle ipotesi in cui il consenso sia stato prestato, qualora
l’intervento non sia riuscito, si configurerà una forma di re‑
sponsabilità penale, ogniqualvolta ricorrano i presupposti
della colpa, dell’evento e del nesso di causalità tra la condotta
e l’evento, così come avviene per la responsabilità del chirur‑
go in genere.
Vi è solo da osservare che, in materia di trattamenti este‑
tici, gli inestetismi non sono considerati l’evento lesivo neces‑
sario ai fini della configurabilità del reato di lesioni, poiché
non rientrano nel concetto di malattia.
1. A) Profili civili relativi alla responsabilità del chirurgo estetico:
diritto alla salute.
Il diritto alla salute, sancito dall’art. 32 della Costituzione
è divenuto un diritto assoluto, espressione di un vero e proprio
status, non più coincidente semplicemente con l’assenza di
malattie, ma con una vera e propria condizione di benessere
psico – fisico dell’individuo, una conditio in assenza della
quale la vita perde valore poiché decurtata di alcune sue im‑
prescindibili caratteristiche.
In altri termini, così come asserito dalla Suprema Corte,
“la funzione tipica dell’ars medica, individuata nella cura del
paziente al fine di vincere la malattia ovvero di ridurre gli
effetti pregiudiziali o di lenire la sofferenza che produce sal‑
vaguardando o tutelando la vita, non esclude la legittimità
della chirurgia estetica che, a prescindere dalle turbe psico‑
logiche legate ad aspetti sgradevoli del proprio corpo, tende
a migliorare l’estetica”, favorendo quel benessere psico – fisi‑
co che oggi deve considerarsi “salute”.
In tal modo si è assistito ad una evoluzione da una conce‑
zione restrittiva della medicina estetica, che inizialmente non
veniva legata alla cura di una patologia e, quindi, era consi‑
derata di minor rilievo sociale, ad una concezione più ampia
che le riconosce dignità e legittimità.
La salute, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sani‑
tà, è uno stato di benessere fisico, psichico, mentale e sociale
che deriva da una dimensione vitale dei valori della persona
e che si collega alla somma delle funzioni naturali riguardan‑
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
ti il soggetto nel suo ambiente di vita, aventi rilevanza econo‑
mica, biologica, sociale, culturale ed estetica.
2. Natura giuridica della responsabilità del chirurgo estetico:
natura contrattuale della prestazione.
La prestazione medica si ricollega ad un accordo tra me‑
dico e paziente e, comunque, tra la Struttura ospedaliera
presso cui viene svolta la prestazione e il paziente stesso.
E ciò, ovviamente, sia che si parli di attività medico chi‑
rurgica in generale, sia che si parli di attività chirurgica di
natura estetica in particolare.
Tale assunto è stato sempre pacifico, (e quindi espressione
di un orientamento dottrinale e giurisprudenziale uniforme),
nelle ipotesi di operatore sanitario che eserciti privatamente
la prestazione al di fuori di una struttura pubblica.
Nell’ipotesi di operatore sanitario inserito in una struttu‑
ra organizzata, la giurisprudenza, oggi pure unanime sul
punto, in passato, si è mossa su strade antitetiche.
Fino a qualche anno fa, un orientamento riteneva sussi‑
stente una responsabilità aquiliana e non contrattuale, in
quanto il contratto di cure veniva stipulato tra l’ente ospeda‑
liero e il paziente, mentre nessun vincolo veniva posto in es‑
sere tra il paziente e il medico.
A tale tesi si obiettava che il medico non poteva essere
equiparato, in sede di responsabilità, ad un qualsiasi terzo che
con la propria condotta avesse inciso sulla sfera giuridica del
paziente.
Infatti, tra medico, (sia pure dipendente pubblico), e pa‑
ziente si instaura pur sempre un rapporto in virtù del quale il
paziente si affida alle cure del medico ed il medico accetta di
prestargliele.
Inoltre, si obiettava come la responsabilità del medico
sarebbe stata esclusa ogniqualvolta il paziente non avesse ot‑
tenuto il risultato positivo oggetto della prestazione. Infatti,
in tal caso, non si sarebbe delineato un danno effettivo in re‑
lazione alla situazione quo ante suscettibile di risarcimento in
sede di responsabilità extracontrattuale, ma solo un mancato
raggiungimento del risultato sperato suscettibile di risarcimen‑
to esclusivamente in sede di responsabilità contrattuale.
Vi era poi un altro orientamento, che riteneva sussistente
una responsabilità contrattuale anche nelle ipotesi di opera‑
tore sanitario pubblico dipendente per effetto dell’art. 28
Cost., poiché la responsabilità del medico, al pari di quella
dell’ente, ha radice nella “non diligente esecuzione della pre‑
stazione”.
A tale tesi si obiettava che il richiamo all’art. 28 Cost. era
insufficiente a dirimere la questione: tale norma infatti attie‑
ne l’an respondeatur ma non il quomodo respondeatur, sta‑
bilito dalle norme ordinarie, le quali prevedono sia la respon‑
sabilità aquiliana, sia quella contrattuale.
La questione è stata risolta dalla Suprema Corte che ha
optato per la natura sempre contrattuale del rapporto medi‑
co‑paziente, sia in caso di operatore sanitario che agisca pri‑
vatamente, sia nel caso di operatore sanitario che intervenga
quale dipendente, nell’ambito di una struttura pubblica.
Gli Ermellini hanno evidenziato come il rapporto tra
medico pubblico dipendente e paziente, pur non scaturendo
formalmente da alcun contratto, nei fatti si atteggia però
come un vero e proprio rapporto giuridico, nel quale ciascuna
parte vanta diritti e obblighi nei confronti dell’altra.
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
Ed infatti il medico, in tale ipotesi, non è soltanto sogget‑
to all’obbligo del neminem ledere, ma, in virtù della coscien‑
za sociale e dei principi propri dell’ordinamento giuridico, è
obbligato, altresì, ad attivarsi, sino al limite dell’apprezzabile
sacrificio, per mettere a disposizione del paziente la propria
competenza professionale.
Ciò significa che la prestazione del medico verso il pazien‑
te, sia che si tratti di medico privato, sia che si tratti di medi‑
co dipendente pubblico, ha ad oggetto non il mero astenersi
da una condotta lesiva, ma l’obbligo di compiere un facere
infungibile.
La Suprema Corte ha fatto, pertanto, discendere, dalla
identicità della prestazione, la identicità della disciplina, con‑
cludendo che anche il medico pubblico dipendente, in caso di
colpa professionale, debba essere chiamato a rispondere del
danno a titolo di responsabilità contrattuale. Si tratta di una
responsabilità da contatto sociale che ha delle ricadute diret‑
te, sul piano degli oneri probatori, così come evidenziato
dalla Corte di Cassazione: “il paziente che agisce in giudizio
deve provare il contratto ed allegare l’inadempimento del
sanitario restando a carico del debitore l’onere di provare
l’esatto adempimento”.
Più avanti vedremo se ed in che termini l’art. 3 della legge
189/2012, modifichi tale prospettiva.
Allo stato, quindi, il rapporto tra medico e paziente è in‑
quadrabile nella disciplina del contratto di prestazione di
opera professionale.
In tali ipotesi si instaura chiaramente un contratto di
prestazione d’opera professionale che trova la propria regola‑
mentazione nelle norme di cui al capo V del Codice Civile,
che disciplinano la stipulazione di un contratto di opera in‑
tellettuale, regolato agli artt. 2229 e 2238 c.c. e caratterizza‑
to dalla bilateralità, dalla consensualità, dalla sinallagmati‑
cità e, solitamente, dal titolo oneroso.
Non sono previsti particolari oneri formali ed anzi, nella
prassi, la forma usuale è quella verbale.
La disciplina del contratto di opera intellettuale deve, poi,
essere integrata dalle leggi professionali specifiche per ciascu‑
na attività, nonché dalle regole deontologiche (in particolare
dal Codice di deontologia medica).
In tale contratto le obbligazioni assunte dal professionista
sono:
• obbligazioni di mezzi;
• obbligazioni di risultato.
Si è a lungo disquisito circa la natura giuridica delle ob‑
bligazioni assunte dal chirurgo estetico: se, infatti, per certi
aspetti, essa era quasi connaturata alla natura stessa della
prestazione l’obbligazione di risultato, per altri non poteva
non rilevarsi la abnormità di una simile ricostruzione, che
portava a conseguenze discutibili e, certamente, non oppor‑
tune.
2.1. Obbligazione di mezzi.
In linea generale si ritiene che la responsabilità del medico
nei confronti del paziente rappresenti una obbligazione di
mezzi: il medico risponde quindi della adeguatezza del proprio
comportamento professionale e non dei risultati raggiunti.
Nella obbligazione di mezzi trova applicazione la norma
di cui all’art. 1176 c.c., per cui il debitore (ossia il medico)
deve provare che il suo comportamento è stato diligente.
2 0 1 3
11
Ne deriva che l’inadempimento del professionista alla
propria obbligazione non può essere ipso facto desunto dal
mancato raggiungimento del risultato utile, ma deve essere
valutato alla stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell’at‑
tività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza
di cui all’art. 1176, co. c.c., che deve valutarsi con riguardo
alla natura dell’attività esercitata.
L’espressione di tale diligenza qualificata è la perizia, in‑
tesa come conoscenza e applicazione di quel complesso di
regole tecniche proprie della categoria professionale di appar‑
tenenza: nello specifico si tratta delle leges dell’ars medica
tese a perimetrare l’ambito del c.d. rischio consentito e, per
l’effetto, l’ambito di liceità dell’intervento.
In definitiva, in tema di responsabilità medica, l’inadem‑
pimento va valutato alla stregua del dovere di diligenza che si
deve accertare in relazione ad ogni singola fattispecie, rappor‑
tando la condotta effettivamente tenuta alle circostanze
concrete in cui la prestazione deve svolgersi e valutando tale
condotta in maniera complessiva.
La norma di cui all’art. 2236 c.c. pone, poi una limitazio‑
ne di responsabilità nelle ipotesi in cui debbano essere affron‑
tati problemi tecnici di particolare complessità.
In questi casi, la responsabilità del prestatore di opera
viene circoscritta alle sole ipotesi di dolo o colpa grave.
Si tratta di una limitazione relativa esclusivamente alla
imperizia e non all’imprudenza o alla negligenza, con la con‑
seguenza che la condotta del medico può essere censurata
anche sotto il profilo della colpa lieve, quando l’errore sia il
frutto di negligenza e imprudenza.
È opportuno, a questo punto, rilevare come l’art. 3 della
Legge 189 dell’8 novembre 2012, abbia stabilito che “l’eser‑
cente le professioni sanitarie che, nell’ambito dello svolgimen‑
to delle proprie attività, si attiene alle linee guida e buone
pratiche accreditate dalla comunità scientifica, non risponde
penalmente per colpa lieve. In tali casi, resta fermo l’obbligo
di cui all’art. 2043 c.c.. Il Giudice, anche nella determinazio‑
ne del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui
al primo periodo.”.
È necessario osservare come tale disposizione, se contiene
effettivamente una innovazione in materia penale, (compor‑
tando, come vedremo, una vera e propria depenalizzazione
nelle ipotesi in cui il sanitario abbia operato in presenza di
linee guida e sia ravvisabile una colpa professionale lieve), in
realtà, in ambito civilistico, per la parte che qui interessa, non
comporti di fatto alcuna innovazione o modificazione della
situazione preesistente.
Infatti, il riferimento all’art. 2043 c.c., in una materia in
cui la responsabilità sanitaria si colloca ormai pacificamente
nell’ambito di quella contrattuale, sembra rendere, di fatto
inapplicabile il relativo disposto.
È opportuno, allora, chiedersi se il legislatore abbia, con‑
sapevolmente o per dimenticanza, suggerito l’adesione al
modello di responsabilità civile medica così come disegnato
anteriormente al 1999, in cui in assenza di contratto il pazien‑
te poteva richiedere il danno ex art. 2043 c.c.
Il Tribunale di Varese, ha osservato infatti, come un simi‑
le modello contribuisca a realizzare la finalità perseguita dal
legislatore (ossia il contrasto alla medicina difensiva), in quan‑
to viene alleggerito l’onere probatorio del medico e viene
fatto gravare sul paziente anche l’onere di offrire dimostra‑
civile
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12
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
zione giudiziale dell’elemento soggettivo di imputazione di
responsabilità.
Ha osservato, inoltre, come l’adesione a tale modello abbia
come effetto anche quello di ridurre i tempi di prescrizione
(non più 10 anni, ma 5).
In altri termini, il richiamo all’art. 2043 c.c. sembra sal‑
vaguardare la posizione del medico, spostando sul paziente
l’onere probatorio e riducendo i tempi di prescrizione.
In ogni caso, è doveroso evidenziare come, anche una si‑
mile adesione, debba riguardare sempre e soltanto le ipotesi
in cui il medico sia un dipendente pubblico, ossia le ipotesi in
cui manchi un rapporto contrattuale diretto tra paziente e
sanitario.
2.2. Obbligazioni di risultato
In materia di chirurgia estetica (ma anche nelle ipotesi di
trapianto ai capelli, di sterilizzazione, di cure odontoiatriche),
sembrava, invece, più corretto parlare, di obbligazioni di ri‑
sultato.
Nelle obbligazioni di risultato si applica l’art. 1218 c.c.,
per cui non è sufficiente che il debitore (il medico) abbia ado‑
perato la diligenza necessaria, ma è necessario il raggiungi‑
mento del risultato.
La prestazione obbligatoria del medico estetico, infatti,
per taluni aspetti sembrerebbe comportare non soltanto una
diligente osservanza del comportamento pattuito, ma anche
il diritto all’effettivo soddisfacimento dell’interesse creditorio
(ossia quello del paziente), assunto come contenuto essenziale
ed imprescindibile della prestazione.
In altri termini, indipendentemente dalla diligenza utiliz‑
zata per il raggiungimento del risultato avuto di mira, per
potersi parlare di adempimento della prestazione, diviene
fondamentale la piena realizzazione dello scopo voluto dal
paziente.
In tali ipotesi, l’interesse dedotto nel contratto è il conse‑
guimento di un certo risultato utile e non soltanto l’interesse
ad una mera prestazione diligente o l’interesse a non subire
danni ingiusti.
Un simile orientamento, inizialmente, appariva in linea
con una obiettiva evoluzione dell’attività del medico e degli
interessi sottesi al rapporto di cura.
La scelta di un intervento non necessario ma utile solo al
fine di determinare un miglioramento estetico non poteva non
essere strettamente connessa al conseguimento di quello spe‑
cifico risultato.
Una simile tesi, con il tempo, non è più parsa in linea con
la rinnovata idea di salute, comprensiva non solo del benesse‑
re fisico ma anche di quello psichico, legato anche alla soddi‑
sfazione derivante dalla accettazione del proprio aspetto fisi‑
co.
Inoltre, non è parso corretto riconoscere la responsabilità
di un chirurgo estetico in relazione ad un risultato legato non
alla correttezza della prestazione, ma a fattori fisiologici o
patologici peculiari al paziente stesso e non sempre prevedi‑
bili.
Ed infatti, sul piano pratico, si assisteva ad una significa‑
tiva riduzione del margine di difesa riconosciuto al chirurgo
estetico che in tali ipotesi, finiva per addossarsi effetti di di‑
ritto o di fatto dallo stesso non dipendenti, ma che venivano
imputati al medico, sic et simpliciter, in quanto tale.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
Infine, non appariva corretto ipotizzare insito, nel rappor‑
to stesso, un patto di garanzia del risultato estetico con il
proprio paziente.
Infatti, è da escludere che, nel normale rapporto fisiologi‑
co tra medico e paziente, possa in via automatica, ritenersi
insito uno speciale patto di risultato che obblighi il chirurgo,
in modo assoluto, al conseguimento del risultato.
Un eventuale patto di garanzia del risultato estetico deve
essere sempre espressamente previsto.
Per ovviare ad un simile ostacolo, è intervenuta la giuri‑
sprudenza che, affermando il principio della c.d. responsabi‑
lità aggravata o paraoggettiva ha, di fatto, superato, renden‑
dola superflua, la distinzione tra obbligazioni di mezzo ed
obbligazioni di risultato.
Secondo tale principio, la responsabilità del medico, pur
non potendo essere desunta ipso facto dal mancato raggiun‑
gimento del risultato utile, fa i conti con una diligenza quali‑
ficata che si trasforma in presunzione di responsabilità laddo‑
ve il risultato non venga conseguito (c.d. responsabilità aggra‑
vata o paraoggettiva).
Affermando quest’ultimo principio, si valutava la diligen‑
za non solo come criterio oggettivo e generale e, quindi, come
parametro di imputazione del mancato adempimento, ma
anche come criterio di determinazione del contenuto dell’ob‑
bligazione.
In tal modo, il mancato raggiungimento del risultato, sia
che si trattasse di chirurgia ordinaria, sia che si trattasse di
chirurgia estetica, diventava un chiaro indizio di colpa medi‑
ca.
La colpa medica veniva, in tali ipotesi, a sfiorare la dimen‑
sione oggettiva della responsabilità, salva la prova di aver
eseguito la propria prestazione con la dovuta diligenza.
È interessante osservare l’orientamento evolutivo della
S.C. nelle ipotesi in cui l’inadempimento (ossia il mancato
raggiungimento del risultato estetico voluto) veniva addotto
per far valere il risarcimento del danno.
Inizialmente la giurisprudenza ha ritenuto che spettasse
alla paziente l’onere della prova relativo al mancato adempi‑
mento dell’obbligazione da parte del medico; successivamen‑
te la Suprema Corte ha stabilito che il creditore (ossia il pa‑
ziente) dovesse provare l’esistenza del titolo ma che spettasse
al debitore (ossia al medico) provare di aver adempiuto alla
propria obbligazione.
Infine, la Suprema Corte ha alleggerito ulteriormente il
carico probatorio della paziente stabilendo che fosse sufficien‑
te la contestazione dell’aspetto colposo dell’attività medica,
secondo le cognizioni ordinarie di un non professionista, ri‑
levando in particolare:
• omessa informazione sulle possibili conseguenze dell’in‑
tervento;
• adozione di tecniche non sperimentate sede di protocolli
ufficiali;
• mancata conoscenza della evoluzione della metodica in‑
terventistica;
• negligenza (intesa come violazione di regole sociali);
• imprudenza (intesa come violazione di modalità imposte
da regole sociali per l’espletamento di certe attività);
• imperizia (intesa come violazione di regole tecniche di
settori determinati della vita di relazione).
3. Consenso Informato
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
Alla luce di tali considerazioni, sembra opportuno spo‑
stare l’attenzione dall’inquadramento tradizionale della
prestazione del medico estetico quale obbligazione di mezzo
o di risultato, ad un piano diverso che privilegi la fase della
definizione del contenuto della prestazione del chirurgo
estetico.
La definizione del contenuto della prestazione è contenu‑
ta nell’informazione che il sanitario deve al proprio paziente
ed al quale, quest’ultimo, presta il proprio consenso.
In tal modo, si potrà stabilire a quale opera il sanitario è
chiamato e quali siano i confini di responsabilità che derivano
dall’obbligazione che ha assunto.
In altri termini, l’attenzione si dovrebbe spostare sulla
corretta e completa informazione del paziente e sulla presta‑
zione cosciente del consenso al trattamento al quale si deve
sottoporre.
Il consenso informato trova la sua origine ed il suo fonda‑
mento:
• nell’art. 32 Cost.: tutela la salute come diritto fondamen‑
tale (al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge
nessuno può essere sottoposto ad un trattamento sanitario
contro la propria volontà);
• nell’art. 13 Cost.: tutela la libertà personale come inviola‑
bile, (con particolare riguardo alla salvaguardia dell’inte‑
grità fisica e psichica della persona);
• nel Codice di deontologia medica del 1998, che attribuisce
al medico l’obbligo di rendere al paziente la più serena e
idonea informazione sulla diagnosi, sulle prospettive te‑
rapeutiche, sulle conseguenze della terapia e della manca‑
ta terapia, imponendo al sanitario il dovere di rispettare
la reale ed effettiva volontà del paziente;
• nella Costituzione europea del 29 ottobre 2004, dove si
prevede espressamente che nell’ambito della medicina e
della biologia debbano essere rispettati: il consenso libero
ed informato della persona interessata, secondo modalità
di legge. In particolare si evidenzia la necessità che il pro‑
fessionista informi il paziente dei benefici, delle modalità
di intervento, dell’eventuale possibilità di scelta tra le di‑
verse tecniche operatorie, e, infine, dei rischi prevedibili
in sede post operatoria.
Secondo altro orientamento, il fondamento del consenso
informato troverebbe collocazione solo ed esclusivamente
nella necessità pratica di rendere edotto il paziente circa le
eventuali complicanze ed effetti collaterali negativi che pos‑
sono scaturire da un intervento, al fine di consentire allo
stesso la valutazione comparativa tra i vantaggi e gli svantag‑
gi all’intervento stesso inerenti.
In ogni caso, a prescindere dal fondamento, si può affer‑
mare che il diritto al consenso informato rappresenta un di‑
ritto inviolabile della persona, in quanto espressione del dirit‑
to di autodeterminazione.
È infatti, come vedremo, il principio che scrimina, in am‑
bito penale, l’attività medico chirurgica di natura estetica
(art. 50 c. p. sancisce la non punibilità di chi lede un diritto o
lo mette in pericolo con il consenso di chi può validamente
disporne).
Il consenso è l’atto con il quale il paziente accetta che gli
venga praticato un trattamento terapeutico, apprendendone
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13
il limiti e le finalità, accogliendone i rischi, le possibili com‑
plicanze e gli esiti. È necessario che sia personale, informato,
consapevole esplicito e complesso.
Solitamente è dato in forma scritta, attraverso la sotto‑
scrizione di un modulo: è necessario che tale sottoscrizione,
effettuata per finalità probatorie, non avvenga in modo auto‑
matico e burocratico ma che segua ad una vera e propria illu‑
strazione dettagliata da parte dello stesso sanitario.
Centrale diviene, quindi, il consenso informato che, in
materia di trattamenti chirurgici di natura estetica, dovrebbe
essere considerato in modo più attento e rigoroso, probabilmen‑
te per la natura non indispensabile del trattamento stesso.
La ragione per la quale un paziente che subisca un inter‑
vento di chirurgia ordinaria debba avere diritto ad una infor‑
mazione meno accurata rispetto ad un paziente che scelga di
sottoporsi ad un intervento di natura estetica, risiede nel
fatto che, in quest’ultimo caso, trattandosi di un intervento
non indispensabile, è necessario un vaglio più attento circa i
vantaggi e gli svantaggi connessi con tale operazione e con le
conseguenti possibilità di riuscita.
Nell’ipotesi di chirurgia generale si persegue la guarigione
da infermità o, quanto meno, l’attenuazione delle sintomato‑
logie relative alle patologie sofferte, per tanto, il dovere di
informazione è limitato ai possibili rischi ed effetti delle tera‑
pie suggerite o degli interventi chirurgici proposti.
Nell’ipotesi di chirurgia estetica si persegue un migliora‑
mento dell’aspetto fisico, in vista di un migliore presentarsi
nella vita di relazione o nella propria attività professionale,
per tanto il dovere di informazione non è limitato alla pro‑
spettazione dei possibili rischi del trattamento suggerito, ma
concerne anche la conseguibilità o meno, attraverso un deter‑
minato intervento, del miglioramento estetico perseguito dal
cliente in relazione alle esigenze della vita professionale e di
relazione.
Nel corso degli anni si sono, infatti, susseguite una serie
di pronunce giurisprudenziali ed elaborazioni dottrinali che
hanno ulteriormente affinato il concetto di informazione
funzionale al concetto di consenso in medicina estetica.
In tale prospettiva evolutiva, l’informazione deve essere il
più completa possibile, deve trattare ogni aspetto della cura
proposta, deve prospettare alternative terapeutiche, rischi,
esiti a distanza e complicanze.
Sempre in materia di chirurgia estetica si deve, inoltre,
rilevare come per la Suprema Corte, l’obbligo di informazione
abbia consistenza diversa, a seconda che l’intervento miri al
miglioramento estetico del paziente ovvero alla ricostituzione
delle “normali” caratteristiche fisiche.
Nel primo caso il medico deve prospettare realisticamen‑
te le possibilità di ottenimento del risultato perseguito, nel
secondo caso deve rendere, altresì, edotto il paziente circa gli
eventuali possibili effetti collaterali che rischiano di rendere
vana l’operazione.
In particolare, in un caso relativo a un’operazione corret‑
tamente eseguita avente ad oggetto la rimozione di tatuaggi
dal contenuto osceno e ripugnante, la Suprema Corte ha af‑
fermato la responsabilità del medico per non aver informato
il paziente circa gli esiti cicatriziali conseguenti a tale inter‑
vento.
civile
Gazzetta
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D i r i t t o
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4. Omissione del dovere di informazione e responsabilità civile
In ogni caso, l’omissione di tale dovere di informazione
genera in capo al medico, nel caso di verificazione dell’evento
dannoso, una duplice forma di responsabilità, tanto contrat‑
tuale tanto aquiliana.
Si può identificare una ipotesi di responsabilità aquiliana
laddove si osservi che in assenza di consenso o in presenza di
un consenso inadeguato, l’attività del medico si presenti come
un’attività illecita non giustificata.
La Suprema Corte ha optato, però, per la natura contrat‑
tuale della responsabilità conseguente al dovere di informa‑
zione in considerazione del fatto che l’onere del consenso in‑
formato sorge dopo l’esaurimento della preliminare fase
diagnostica e, quindi, dopo che è stato concluso il contratto
di opera professionale tra medico e paziente, rientrando,
dunque, nel complesso iter dell’attività e della prestazione
professionale.
Ciò consente un termine prescrizionale più lungo (10 anni)
e un onere probatorio meno rigoroso.
Nell’ipotesi in cui la prestazione sanitaria, pur corretta‑
mente eseguita, abbia determinato un danno, e sia stato vio‑
lato l’obbligo di informazione, il principio del consenso infor‑
mato diviene una tecnica argomentativa per addossare al
medico il rischio intrinseco all’intervento, eseguito secondo
le regole dell’arte, ma proposto senza un’adeguata prospetta‑
zione delle sue possibili conseguenze negative.
Ma vi è di più.
La Cassazione civile ha chiarito, infatti, che sussiste una
responsabilità del chirurgo estetico anche a seguito di inter‑
vento o trattamento perfettamente riuscito, qualora lo stesso
non abbia reso con completezza tutte le informazioni relative
al trattamento, ove queste fossero state idonee ad incidere
sulla volontà del paziente, di sottoporsi o meno al trattamen‑
to stesso.
La Suprema Corte, ha evidenziato, cioè, la sussistenza di
una responsabilità del chirurgo estetico, a prescindere dalla
correttezza o meno della prestazione medica.
La mancata prestazione del consenso diviene un’autonoma
fonte di responsabilità risarcitoria.
Ad essere risarcito è un danno alla salute che, per poter
essere ascritto al comportamento del medico, necessita della
prova:
• dell’assenza o insufficienza dell’informazione in merito ai
rischi del trattamento;
• della circostanza che il paziente, debitamente informato,
non si sarebbe sottoposto all’operazione stessa, escluden‑
do il materializzarsi del rischio.
Secondo le Sezioni Unite della Suprema Corte spetta al
sanitario l’onere di provare di aver assolto a tale onere.
Il creditore è tenuto infatti a provare l’esistenza del titolo,
ma non l’inadempienza dell’obbligato.
Del resto, almeno per quanto concerne il dovere di infor‑
mazione, il principio di riferibilità della prova vuole che il
relativo onere venga posto a carico del soggetto nella cui
sfera si è prodotto l’inadempimento e che è quindi in possesso
degli elementi utili per paralizzare la pretesa creditoria.
Tale onere probatorio sarà adempiuto attraverso la pro‑
duzione del modulo di consenso sottoscritto dal paziente.
Tuttavia, si intravede la possibilità dell’ingresso di prove
orali tese a dimostrare che, nonostante la sottoscrizione del
c i v i l e
Gazzetta
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documento, il paziente non fosse stato reso effettivamente
edotto della natura, delle conseguenze e dei rischi dell’inter‑
vento.
Per contro, in assenza di un documento scritto la prova
sarà assolta solo tramite l’interrogatorio del paziente e del
medico e la testimonianza di terzi presenti al momento del
fatto.
5. Conclusioni
In quest’ottica, è quanto mai evidente che, per poter affer‑
mare la responsabilità del medico chirurgo estetico, in sede
civile, si dovrà accertare:
• la natura dell’intervento del professionista: si dovrà stabi‑
lire, cioè, se si tratti di un intervento comune o che affron‑
ti problemi tecnici di particolare complessità;
• la condotta del medico in ordine al dovere di informazio‑
ne:
• negli interventi di chirurgia meramente estetica l’informa‑
zione (e quindi il consenso) dovrà attenere non solo ai
possibili rischi ed effetti delle terapie suggerite o dagli
interventi chirurgici proposti, ma anche della concreta
realizzazione del miglioramento estetico perseguito dal
paziente in relazione alle esigenze della vita personale e di
relazione;
• negli interventi di chirurgia ricostruttiva l’informazione
(e quindi il consenso) dovrà contenere, altresì, gli eventua‑
li possibili effetti collaterali che rischiano di rendere vana
l’operazione;
3) la condotta del medico in caso di negligenza imperizia
e imprudenza:
• nel caso degli interventi di routine, la condotta del chirur‑
go dovrà essere caratterizzata da negligenza imperizia e
imprudenza lieve o grave;
• nel caso di interventi caratterizzati da problemi tecnici
particolarmente complessi, la condotta dovrà essere ca‑
ratterizzata da negligenza o imprudenza lieve o grave e da
imperizia soltanto grave;
• verificazione dell’evento, ossia l’aggravamento delle con‑
dizioni del paziente o il mancato raggiungimento del ri‑
sultato sperato, (così come descritto nel consenso), o la
sussistenza di effetti collaterali idonei ad annullare il ri‑
sultato raggiunto (quando non indicati nel consenso stes‑
so);
• la sussistenza del nesso causale tra la condotta del medico
e l’evento.
6. B) Profili penali relativi alla responsabilità del chirurgo
estetico: legittimazione e scriminanti dell’attività medico‑chi‑
rurgica in generale ed estetica in particolare.
L’attività medico chirurgica in generale e quella estetica
in particolare, possono determinare eventi (come lesioni o,
addirittura, morte del paziente) che integrano gli estremi di
fattispecie penali ben determinate (lesioni colpose o omicidio
colposo).
In altri termini, è indubbio che l’attività medica, in se
considerata, anche quando non determini l’evento morte, e
persino quando sia raggiunto il risultato voluto, è comunque
idonea a comportare delle alterazioni anatomiche e/o funzio‑
nali all’organismo, che possono implicare una lesione perso‑
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
nale, anche grave o gravissima con o effetti collaterali che
possono essere ricondotti nell’ambito del concetto di malattia
rilevante nel reato di lesioni.
Nasce, dunque, l’esigenza di individuare la legittimazione
allo svolgimento di attività di per se idonee a determinare
esiti lesivi o addirittura fatali e la possibilità, in determinati
casi, di escludere la configurazione di fattispecie di reato.
Indubbiamente l’attività sanitaria in generale, può consi‑
derarsi un’attività giuridicamente autorizzata in virtù della
indiscussa ed acquisita utilità sociale, stante la natura di
pubblico servizio dalla stessa rivestita, così come si desume
dall’art. 32 Cost. (“La Repubblica tutela la salute come fon‑
damentale diritto dell’individuo e interesse della collettività.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento
sanitario, se non per disposizione di Legge. La legge non può
in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della per‑
sona umana”) e da tutta la legislazione che riconosce, disci‑
plina, favorisce e finanza tale attività.
Del resto, il nostro ordinamento giuridico consente, ex
art. 5 c.c., che l’individuo possa liberamente disporre del pro‑
prio corpo, a meno che gli atti di disposizione cagionino una
diminuzione permanente dell’integrità fisica ovvero siano al‑
trimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon co‑
stume.
In tale quadro rientra certamente anche l’attività di chi‑
rurgia estetica.
Come già evidenziato in precedenza, l’originaria idea
della chirurgia estetica come attività medica di minor rilievo
sociale poiché legata a ragioni di mera apparenza, può rite‑
nersi superata proprio alla luce della rinnovata e ampliata
nozione di salute che riconosce anche la necessità di una co‑
struita e conquistata armonia tra psiche e accettazione del
proprio aspetto esteriore che, in mancanza, può determinare
malattie non meno gravi di quelle invalidanti il corpo.
In tale ottica, devono considerarsi leciti anche gli inter‑
venti chirurgici rivolti ad ottenere la modificazione del proprio
aspetto, così da perseguire una maggiore fiducia in se stessi e
migliorare, di conseguenza, il rapporto con gli altri, a prescin‑
dere dalla presenza di una specifica situazione di natura pa‑
tologica.
Il nostro ordinamento penale prevede e disciplina alcune
specifiche cause di esclusione del reato, indicate come cause
di giustificazione o scriminanti, in presenza delle quali un
fatto, altrimenti previsto come reato, tale non è perché la
legge lo impone o lo consente.
L’attività medico chirurgica in generale viene fatta solita‑
mente rientrare tra le c.d. scriminanti tacite, istituto giuridico
unanimemente accolto nell’ordinamento penale vigente e
comprendente tutte quelle cause di giustificazione non altri‑
menti positivamente codificate.
Vi è però chi ha evidenziato come l’attività medico chirur‑
gica terapeutica, sia scriminata, in linea di principio, sulla
base del criterio contenuto nell’art. 51 c.p. in tema di adem‑
pimento di un dovere.
Diversamente, il trattamento chirurgico meramente este‑
tico, avendo ad oggetto trattamenti dettati, in particolare
misura, da volontaria decisione ed iniziativa del paziente,
trova la causa di giustificazione nel consenso dell’avente di‑
ritto ex art. 50 c.p.
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7. Consenso informato
In nessun caso il sanitario può intervenire prescindendo
dal consenso valido ed informato del paziente, fatta eccezio‑
ne per le sole ipotesi espressamente previste dalla normativa
in caso di assoluta, urgente e inderogabile necessità terapeu‑
tica.
In tale ottica il consenso di cui all’art. 50 c.p., viene a
costituire un mero presupposto della scriminante di cui
all’art. 51 c.p., nelle ipotesi in cui i trattamenti non siano né
urgenti, né obbligatori.
Il consenso dell’avente diritto distingue tra:
• atti non vantaggiosi per la salute che sono consentiti nei
limiti in cui non producono diminuzioni permanenti ex
art. 5 c.c.;
• atti vantaggiosi per la salute per i quali non opera il limi‑
te dell’art. 5 c.c. perché prevale la norma di ordine costi‑
tuzionale, ossia l’art. 32 Cost.;
• atti vantaggiosi per i terzi (trapianti o trasfusioni) che
sottostanno anch’essi al limite dell’art. 5 c.c., salvo speci‑
fiche disposizioni che consentono diminuzioni permanen‑
ti della propria integrità fisica a vantaggio di terzi, come
la normativa del trapianto del rene.
Nelle ipotesi di trattamenti estetici, quindi, la scriminan‑
te applicata è quella dell’art. 50 c.p. (consenso dell’avente di‑
ritto), purché si rimanga nell’alveo dell’art. 5 c.c. (atti di di‑
sposizione del proprio corpo che non cagionino una diminu‑
zione permanente dell’integrità fisica ovvero che non siano
contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume).
Il corretto adempimento dell’obbligo di informazione
appare essere, allo stato, l’unico strumento positivamente
previsto dalla normativa in vigore idoneo ad escludere la
sussistenza di una vera e propria responsabilità penale in capo
al medico (non solo medico chirurgo in generale, ma anche
chirurgo estetico in particolare) e ciò, soprattutto, nelle ipo‑
tesi in cui non si raggiunga il risultato previsto.
In altri termini, laddove il consenso non vi sia stato poiché
non vi è stata una preventiva informazione o perché questa è
stata parziale o equivoca o falsa, la lesione che l’intervento
terapeutico ha procurato, non può ritenersi scriminata e,
dunque, rimane illecita.
Abbiamo già analizzato il valore del consenso informato
in materia di chirurgia estetica sotto il profilo della responsa‑
bilità civile, ed a quella analisi ci si riporta integralmente.
Può essere sufficiente, in questa sede, ricordare come il
consenso debba essere personale, reale e libero e come, ogni‑
qualvolta il titolare si trovi nell’impossibilità materiale o
giuridica di poterlo effettivamente prestare (perché ad esem‑
pio, minorenne, incapace o perché in coma), lo stesso debba
essere prestato dal legale rappresentante dell’ammalato.
In altri termini il consenso, per essere valido, deve essere
manifestato in maniera esplicita al sanitario ed in modo uni‑
voco; deve essere espresso personalmente da colui che deve
sottoporsi all’intervento sanitario, in quanto titolare del bene
giuridico protetto (nessuna efficacia giuridica può riconoscer‑
si alla volontà espressa dai familiari del malato, tranne nei
casi di esercizio della potestà dei genitori o della tutela); deve
provenire da soggetto giuridicamente capace, in grado cioè di
intendere e di volere e che abbia l’età idonea a poter disporre
di quel diritto; deve formarsi liberamente ed essere immune
da vizi; deve essere prestato prima dell’inizio del trattamento
civile
Gazzetta
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medico chirurgico; può essere revocato dal paziente in ogni
momento; deve essere preceduto da una adeguata informazio‑
ne del paziente, in particolare sulla conoscenza della malattia
e dei rischi che lo stesso comporta.
In materia di trattamenti estetici, anche in materia penale,
ovviamente è interessante osservare come il consenso acquisti
un significato ulteriore e debba, quindi, essere connotato da
un quid pluris che lo renda più specifico e più dettagliato.
La Suprema Corte ha affermato “il consenso informato
non può ovviamente esaurirsi nella comunicazione del nome
del prodotto che verrà somministrato o di generiche infor‑
mazioni ma deve investire – soprattutto nei trattamenti che
non sono diretti a contrastare una patologia ma finalità
esclusivamente estetiche che si esauriscono dunque in trat‑
tamenti non necessari se non superflui – gli eventuali effet‑
ti negativi della somministrazione in modo che sia consen‑
tito al paziente di valutare congruamente il rapporto co‑
sti – benefici del trattamento e di mettere comunque in
conto l’esistenza e la gravità delle conseguenze negative
ipotizzabili” e ancora “…tale consenso implica la piena
conoscenza della natura dell’intervento medico e/o chirur‑
gico, della sua portata ed estensione, dei suoi rischi, dei
risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative,
con la precisazione che, nel caso di interventi di chirurgia
estetica, in quanto non finalizzati al recupero della salute in
senso stretto, l’informazione deve essere particolarmente
precisa e dettagliata”.
In altri termini, il consenso non solo deve essere completo,
con l’indicazione necessaria delle tecniche e degli eventuali
materiali da utilizzarsi per l’operazione, ma devono essere
sempre elencati sia i rischi che i benefici che possono derivare
da eventuali e potenziali complicazioni ed esiti.
Inoltre, per ciò che concerne il periodo seguente l’inter‑
vento, deve essere indicata la condotta o gli specifici accorgi‑
menti che il medico deve rispettare nel periodo post operato‑
rio affinché si possa facilitare il miglior risultato possibile ed
ottenere il massimo beneficio.
Devono, inoltre, essere indicati eventuali fattori estranei
alla professionalità del chirurgo, potenzialmente idonei ad
incidere sull’esito dell’intervento.
8. Consenso carente o incompleto e responsabilità penale.
Dopo aver precisato in che termini un consenso possa
dirsi validamente prestato, dobbiamo comprendere cosa ac‑
cade, nelle ipotesi in cui il consenso sia carente o totalmente
assente e, quindi, l’attività medico chirurgica venga ad essere
considerata arbitraria.
È necessario esaminare tale aspetto sotto il profilo della
responsabilità penale.
Infatti, se dal punto di vista dell’informazione, anche in
materia di trattamenti estetici, è doveroso osservare come gli
elementi richiesti siano identici, sia sotto il profilo civilistico
che sotto il profilo penale, dal punto di vista delle conseguen‑
za e, quindi, della responsabilità del sanitario, i parametri di
riferimento sono, ovviamente, differenti.
Sotto il profilo della responsabilità penale, perché possa
affermarsi la sussistenza della stessa, è necessario individuare
quale sia l’ipotesi di reato ricorrente e verificare se sussistano
gli elementi costitutivi la fattispecie di reato.
Nelle ipotesi in cui il medico sia intervenuto in assenza del
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
consenso informato dell’assistito, si delinea l’ipotesi di tratta‑
mento chirurgico arbitrario.
In tal caso la responsabilità penale varia a seconda dell’esi‑
to dell’intervento sanitario.
8.1 Responsabilità penale dell’operatore sanitario in assenza di
consenso informato in ipotesi di intervento chirurgico con esito
fausto
Nelle ipotesi in cui l’intervento eseguito, pur in assenza di
consenso informato, sia riuscito (abbia, cioè, avuto un esito
fausto), si possono individuare due orientamenti giurispru‑
denziali contrapposti che assumono rilievo sia nell’ambito
dell’attività chirurgica in generale, che di quella estetica in
particolare, stante l’identità del concetto di salute.
Secondo un primo orientamento, al di fuori degli atti ur‑
genti o necessari rientranti nello stato di necessità, gli atti
operatori diversi, aggiuntivi o sostitutivi rispetto a quelli
consentiti, sarebbero sempre penalmente rilevanti, per il solo
fatto che manchi il consenso, anche nelle ipotesi in cui abbia‑
no avuto un esito favorevole.
In tale ottica, ovviamente, vengono in rilievo tutte le alte‑
razioni anatomico‑funzionali, comunque, connesse ad un
intervento chirurgico, anche nelle ipotesi in cui questo abbia
determinato un miglioramento delle condizioni del paziente.
Per quanto concerne la fattispecie ipotizzabile, per alcuni
si rientrerebbe nella fattispecie di cui all’art. 582 c.p., reato di
lesioni personali, poiché la malattia è data da qualsiasi alte‑
razione anatomico‑funzionale e, quindi, ricomprende anche
eventuali effetti collaterali subiti dal paziente, ancorché l’in‑
tervento abbia prodotto effetti positivi.
A tale proposito, determinante è stata la nota pronuncia
della Cassazione, la quale configura in capo ad un medico il
reato di lesioni personali per essere intervenuto chirurgica‑
mente sul paziente in assenza di consenso ed avendogli pro‑
curato una “malattia”.
Per altri si rientrerebbe nella fattispecie di cui all’art. 610
c.p., reato di violenza privata, per aver il sanitario, agendo in
assenza di consenso informato, leso la libertà di autodetermi‑
nazione dell’assistito.
Secondo un diverso orientamento, non verrebbe in rilievo
né il reato di cui all’art. 582 c.p., né il reato di cui all’art. 610
c.p.
Non si configurerebbe il reato di lesioni colpose poiché le
lesioni prodotte dall’atto terapeutico, in quanto finalizzate
alla salute del malato, non integrano gli estremi del concetto
di malattia.
Non si configurerebbe il reato di violenza privata poiché
non verrebbe lesa la libertà di autodeterminazione del pazien‑
te quanto meno ogniqualvolta lo stesso abbia prestato il
consenso per altro tipo di intervento e non abbia manifestato
un dissenso espresso rispetto all’intervento effettivamente
eseguito.
Secondo questo secondo orientamento, sul piano della
responsabilità penale non può ravvisarsi la responsabilità del
medico, non essendosi concretizzata alcuna condotta tipica
richiesta per la configurazione di una fattispecie penale.
Può affermarsi sul punto che le tesi che escludono la pos‑
sibilità di ricondurre la condotta del sanitario operante in
assenza di consenso del paziente, nella fattispecie di violenza
o di lesioni, ripudiano l’elaborazione tradizionale secondo cui
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la materia della liceità della terapia medico chirurgica non va
affrontata sul piano dell’antigiuridicità, (e cioè verificando
che sia invocabile una causa di giustificazione) ma sul piano
della tipicità oggettiva.
In tali ipotesi, il paziente, come già analizzato, potrà riva‑
lersi nei confronti del chirurgo – estetico sotto il profilo della
responsabilità civile, e ciò tanto a titolo di responsabilità
aquiliana tanto a titolo di responsabilità contrattuale.
8.2. Responsabilità penale dell’operatore sanitario in assenza di
consenso informato in ipotesi di intervento chirurgico con esito infausto
Nelle ipotesi in cui l’intervento, in assenza di consenso
informato, non sia riuscito, ovvero abbia dato luogo ad esito
infausto (lesioni o morte del paziente), si possono individuare
tre tesi.
Un primo orientamento giurisprudenziale, oramai datato,
ha affermato la responsabilità del medico qualificandola come
fattispecie di lesioni volontarie o di omicidio preterintenzio‑
nale ogni qualvolta le stesse si siano verificate nel corso di un
intervento non preceduto dal consenso.
Nel caso in esame il chirurgo aveva eseguito un interven‑
to chirurgico diverso da quello programmato, per il quale il
paziente aveva prestato il suo consenso, agendo, altresì, in
assenza di situazione di urgenza.
In questo caso il chirurgo veniva condannato per omicidio
preterintenzionale.
La giustificazione tecnica utilizzata dalla Suprema Corte
si basava sul fatto che l’assenza di consenso è idonea ad inte‑
grare il reato di base dolosa del delitto di preterintenzione.
La sentenza è stata ampiamente criticata ritenendo che, di
fatto, il reato di base dell’omicidio preterintenzionale non sia
ravvisabile: la condotta del medico è finalisticamente diretta
al miglioramento della salute del paziente e ciò rende assolu‑
tamente incompatibile l’attività chirurgica con l’elemento
soggettivo del reato di cui all’art. 584 c.p.(omicidio preterin‑
tenzionale).
Taluni hanno ritenuto applicabile l’art. 586 c.p. (morte o
lesioni come conseguenza di altro delitto), cioè hanno identi‑
ficato una sorta di responsabilità oggettiva verificatasi a se‑
guito del reato base doloso.
Anche questa tesi è stata oggetto di critiche: innanzitutto
non si può prescindere dall’assenza del reato base, in quanto
non si può non tenere presente che non sussiste la base dolosa
del reato essendo l’attività del medico diretta al miglioramen‑
to della salute; in secondo luogo la stessa giurisprudenza ha
precisato (anche se in materia di stupefacenti) che la fattispe‑
cie di cui all’art. 586 c. p. non è addebitabile a titolo di respon‑
sabilità oggettiva ovvero solo sulla base del riscontro ogget‑
tivo di causalità, in quanto tra il delitto base e quello conse‑
guente deve esserci un collegamento soggettivo, determinato
dalla colpa in concreto.
Attualmente, ed in maniera pacifica, l’orientamento della
giurisprudenza è quello secondo cui la condotta del medico,
in caso di intervento arbitrario con esito infausto, rientri nel
reato di cui all’art. 589 c.p. (omicidio colposo) o all’art. 590
c.p. (lesioni personali colpose).
A questo punto è importante stabilire se la condotta del
medico possa dirsi colposa per il sol fatto di non aver acqui‑
sito il consenso informato. In altri termini, è opportuno sta‑
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bilire se la mancata acquisizione del consenso informato in‑
tegri, di per se, gli estremi della colpa.
La Cassazione ha asserito che l’elemento oggettivo della
colpa non deriva dalla violazione di una qualsiasi regola cau‑
telare ma di una regola specifica e, cioè, di una regola a
contenuto precauzionale, in particolare di quella regola det‑
tata per contenere il rischio consentito, insito in certe attività,
al fine di evitare un determinato evento.
È necessario, quindi, che, a causa della violazione di quel‑
la specifica norma, si sia verificato l’evento dannoso che, la
norma cautelare stessa, voleva evitare.
Ne deriva che la mancanza del consenso non può, di per
se, implicare una responsabilità colposa poiché la disciplina
del consenso informato non viene inquadrata nell’ambito
delle regole cautelari; segnatamente l’acquisizione del consen‑
so non è preordinata ad evitare fatti dannosi prevedibili ma
piuttosto a tutelare un diritto alla salute.
La mancata acquisizione del consenso può, invece, rileva‑
re ai fini della colpa solo quando la mancata sollecitazione di
un consenso informato abbia determinato l’impossibilità del
medico di conoscere le reali condizioni e di acquisire una
anamnesi completa del paziente stesso.
Nelle altre ipotesi sarà, invece, necessario che, accanto al
mancato assolvimento dell’onere di informazione, nella con‑
dotta del chirurgo siano rintracciabili gli estremi di una
condotta colposa.
9. Responsabilità penale dell’operatore sanitario in presenza di
consenso informato: colpa, evento, nesso di causalità.
Il medico che abbia eseguito un intervento in presenza di
consenso informato, in caso di evento infausto, risponderà a
titolo di colpa.
Si dovrà quindi verificare la presenza di una condotta
professionale connotata da colpa, da un evento dannoso (le‑
sioni o morte) e da un nesso di causalità tra la condotta col‑
posa e l’evento.
a) Colpa.
Il giudizio di colpevolezza è un “giudizio relazionale” che
deve tener conto di quanto i vari tipi di soggetti coinvolti
hanno fatto o potevano fare per prevenire o evitare un dan‑
no.
Una definizione legislativa della colpa si rinviene, infatti,
soltanto nell’art. 43, terzo comma, c.p. “il delitto è colposo o
contro l’intenzione quando l’evento, anche se preveduto, non
è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza, impru‑
denza, imperizia, inosservanza di leggi regolamenti, ordini o
discipline”.
La negligenza è comunemente definita la violazione di
regole sociali (e non solo come disattenzione), l’imprudenza è
la violazione delle modalità imposte dalle regole sociali per
l’espletamento di certe attività (e non solo la mancata adozio‑
ne delle necessarie cautele suggerite dall’esperienza), l’imperi‑
zia è la violazione di regole tecniche di determinati settori
della vita di relazione (e non solo l’insufficiente attitudine
all’esercizio di arti o professioni, tra cui la temerarietà profes‑
sionale).
La colpa soggettiva è la dimensione psicologica dell’agen‑
te, in relazione al suo comportamento, la colpa oggettiva è lo
scarto della condotta rispetto ad un modello ideale di riferi‑
mento (la deviazione da uno standard di comportamento di‑
civile
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D i r i t t o
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ligente, inteso come insieme di doveri che incombono su un
soggetto).
La graduazione della colpa ne postula un livello lievissimo,
uno lieve ed uno grave: in quest’ultima orbita si iscrive la
particolare fattispecie della colpa cosciente.
Scopo di tale graduazione è quello di valutare lo scarto di
comportamento di volta in volta richiesto ai fini di un’affer‑
mazione di responsabilità, con particolare riferimento a
quelle fattispecie in cui la responsabilità sussiste oramai sol‑
tanto in presenza di una colpa grave.
Principio generale della colpa professionale è quello secon‑
do cui il professionista deve esercitare una ragionevole dili‑
genza adatta alla natura delle operazioni intraprese, assicu‑
rando non un risultato comunque positivo, ma la corrispon‑
denza del proprio agire ad uno standard “normale” di abilità
e competenza professionale.
La norma di cui all’art. 2236 c.c. pone, poi una limitazio‑
ne di responsabilità nelle ipotesi in cui debbano essere affron‑
tati problemi tecnici di particolare complessità.
In tali ipotesi, la responsabilità del prestatore di opera
viene circoscritta, in sede di responsabilità civile, alle sole
ipotesi di dolo o colpa grave.
Si tratta di una limitazione relativa esclusivamente alla
imperizia e non all’imprudenza o alla negligenza, con la con‑
seguenza che la condotta del medico può essere censurata
anche sotto il profilo della colpa lieve, quando l’errore sia il
frutto di negligenza e imprudenza.
È opportuno, a questo punto, rilevare come l’art. 3 della
Legge 189 dell’8 novembre 2012, abbia stabilito che “l’eser‑
cente le professioni sanitarie che, nell’ambito dello svolgimen‑
to delle proprie attività, si attiene alle linee guida e buone
pratiche accreditate dalla comunità scientifica, non risponde
penalmente per colpa lieve. In tali casi, resta fermo l’obbligo
di cui all’art. 2043 c.c.. Il Giudice, anche nella determinazio‑
ne del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui
al primo periodo”.
Dal punto di vista della responsabilità penale, tale scelta
legislativa ha comportato una sorta di depenalizzazione delle
fattispecie colpose commesse da esercenti le professioni sani‑
tarie (compresi i chirurghi estetici).
È stata inserita una sorta di “esimente” speciale, nella
responsabilità penale medica, circoscrivendola alle sole ipo‑
tesi di colpa grave e dolo, proprio al fine di intervenire contro
il dilagante fenomeno della c.d medicina difensiva.
La S.C. ha asserito, sostanzialmente, che la nuova norma‑
tiva ha parzialmente depenalizzato le fattispecie colpose in
questione, con conseguente applicazione dell’art. 2 c.p., che
consente l’applicazione della norma più favorevole al reo.
La Corte ha precisato “l’innovazione esclude la rilevanza
penale delle condotte connotate da colpa lieve che si collo‑
chino all’interno delle aree segnate da linee guida o da vir‑
tuose pratiche mediche, purché esse siano accreditate dalla
comunità scientifica. In applicazione del suddetto principio
è stata annullata con rinvio la condanna per omicidio colpo‑
so nei confronti del chirurgo che nell’esecuzione dell’inter‑
vento di ernia discale recidivante, aveva leso vasi sanguigni
con conseguente emoragia letale”.
Il Giudice di merito dovrà valutare se, nel caso di specie,
esistano linee guida o pratiche mediche accreditate afferenti
all’esecuzione dell’atto chirurgico in questione, se l’intervento
c i v i l e
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eseguito si sia mosso entro i confini segnati da tali direttive
e, se nell’esecuzione dell’atto chirurgico vi sia stata colpa lieve
o grave.
È doveroso osservare come, allo stato attuale, però non si
comprenda quali siano le linee guida a cui fare riferimento e
soprattutto quale sia l’organo che abbia il compito di accredi‑
tare le linee guida e le c.d. “pratiche virtuose”.
Inoltre, ciò che desta perplessità riguarda il permanere
della colpa lieve in sede civile, a fini risarcitori.
Ed infatti, come abbiamo già avuto modo di analizzare,
l’art. 3 della legge 189 dell’8 novembre 2012, nell’escludere la
responsabilità penale per colpa lieve, stabilisce che “resta
comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c.
Il Giudice anche nella determinazione del risarcimento del
danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo
periodo”, ovvero del rispetto delle linee guida e delle buone
pratiche accreditate.
Come già evidenziato, se da un lato appare evidente che
la Cassazione, in sintonia con la Legge, ancorerà l’entità dei
risarcimenti del danno ad una valutazione della colpa, non si
comprende il richiamo all’art. 2043 c.c., attesa la natura
contrattuale della responsabilità sanitaria (sin dalla nota
sentenza n. 589/1999 della Suprema Corte).
b) Evento
In caso di responsabilità per colpa medica vengono in ri‑
lievo o le lesioni, per la configurabilità del reato di lesioni
colpose (art. 589 c.p.), o la morte, per la configurabilità del
delitto di omicidio colposo (art. 590 c.p.).
Preliminarmente occorre tenere presente che per lesione si
intende “malattia”.
È allora opportuno stabilire cosa debba intendersi per
malattia, al fine di comprendere in quali ipotesi si possa sta‑
bilire come sussistente la verificazione dell’evento.
La concezione di malattia è spiegata dalla Relazione mi‑
nisteriale al Progetto e consiste nell'alterazione anatomica o
funzionale dell'organismo.
Concezione, tuttavia, dibattuta dalla dottrina, in quanto
la malattia è uno stato patologico curabile che porta a guari‑
gione, curabile o non curabile che causa cambiamenti di vita,
non curabile che causa la morte.
La concezione più seguita e attendibile resta quella della
scienza medica, competente in materia, che considera la ma‑
lattia in questione un processo patologico, acuto o cronico,
localizzato o diffuso, che determina una apprezzabile meno‑
mazione funzionale dell'organismo.
Questo elemento è fondamentale anche e soprattutto, per
quello che qui interessa, al fine di delimitare i confini della
responsabilità penale del chirurgo estetico.
In caso di responsabilità del chirurgo estetico, l’argomen‑
to diventa particolarmente delicato, proprio per la natura
stessa di tali interventi che, di per sé determinano talvolta,
effetti collaterali piuttosto significativi.
In tali ipotesi, acquista un rilievo determinante il consen‑
so informato che, quanto più sarà stato dettagliato e circo‑
scritto, tanto più sarà idoneo ad esimere il medico da respon‑
sabilità.
A ciò deve aggiungersi che una recentissima Sentenza
della Suprema Corte, ha escluso dal concetto di malattia, i cd
inestetismi cagionati dall’operazione chirurgica, quali ad
esempio, le protesi mammarie asimmetriche, l’addome defor‑
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m a g g i o • g i u g n o
mato, ecc. Gli stessi potranno essere, per tanto, fonte di risar‑
cimento solo in sede civile, in quanto risultato di un adempi‑
mento contrattuale inesatto.
La Suprema Corte, pur escludendo la rilevanza penale del
procurato inestetismo, si è riservata una possibile apertura:
“non si esclude in astratto che in tali casi possa generarsi, a
causa della grave frustrazione da delusione, a fronte dell’as‑
sai gravosa contropartita e soprattutto dal peggioramento
estetico, oramai difficilmente rimediabile, un meccanismo
reattivo dell’organismo, capace di indurre l’attecchimento di
un disturbo psichico di tipo ansioso depressivo, che costitu‑
isce un vero e proprio stato morboso di malattia”.
c) Nesso di causalità tra la condotta colposa e l’evento.
L’art. 40 c.p. stabilisce che un evento per essere ascrivibi‑
le all’imputato deve essere “conseguenza” della sua azione od
omissione e specifica che “non impedire un evento che si ha
l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
La Cassazione ha ribadito che per causa penalmente rile‑
vante si deve intendere “la condotta umana, attiva o omissi‑
va, che si pone come conditio sine qua non nella catena degli
antecedenti che hanno concorso a produrre il risultato, senza
la quale l’evento da cui dipende l’esistenza del reato non si
sarebbe verificato”.
Il metodo di verifica della causalità viene identificato
dalla Suprema Corte nel giudizio condotto sulla base di una
generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica,
universale o statistica.
In altri termini, un antecedente può essere considerato
condizione necessaria di un evento se e quando esso rientri
nell’insieme di quelli che conducono ad eventi del “tipo” di
quello verificatosi nel caso di specie, sulla base di una succes‑
sione regolare, conforme ad una generalizzata regola di espe‑
rienza o ad una legge dotata di validità scientifica, frutto
della migliore scienza ed esperienza del momento storico.
La Cassazione ha sottolineato come il giudizio contro fat‑
tuale debba essere caratterizzato da “elevata probabilità logica”
o “alto grado di credibilità razionale”: “il giudice, pur doven‑
do accertare ex post, inferendo dalle generalizzazioni causali
e sulla base dell’intera evidenza probatoria disponibile, che la
condotta dell’agente è condizione necessaria del singolo even‑
to lesivo, è impegnato nell’operazione ermeneutica alla stregua
dei canoni di certezza processuale, conducenti conclusivamen‑
te all’esito del ragionamento probatorio di tipo largamente
induttivo, ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da
un alto grado di credibilità razionale o conferma dell’ipotesi
formulata sullo specifico fatto da provare: giudizio enunciato
dalla giurisprudenza anche in termini di elevata probabilità
logica o probabilità prossima alla certezza”.
Tale metodo dovrà essere utilizzato anche nei reati omis‑
sivi impropri, nel qual caso si dovrà verificare se, eliminata
mentalmente l’omissione della condotta doverosa e sostituita
a detto mancato adempimento, un ipotetico facere corrispon‑
dente al comportamento doveroso, il singolo evento lesivo, hic
et nunc avvenuto, si sarebbe o meno verificato, ovvero si sa‑
rebbe verificato in epoca significativamente posteriore o con
minore intensità lesiva.
Dal punto di vista strettamente naturalistico è evidente la
differenza che intercorre tra il “cagionare” e il “non impedi‑
re”, tuttavia, dal punto di vista normativo, il nostro ordina‑
mento parifica la causalità dell’azione alla causalità dell’omis‑
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sione e stabilisce che il non impedire un evento che si ha
l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.
A differenza della causalità riferibile ad una condotta
positiva, nel caso della causalità omissiva il decorso degli
avvenimenti, non essendo influenzato dall’azione di un sog‑
getto, può essere giustificato in base ad una ricostruzione
logica, e quindi, fondata su ipotesi e non su certezze.
In particolare vi è la necessità di individuare la condotta
positiva che, se posta in essere, avrebbe evitato il prodursi
dell’evento.
Come evidenziato dalla Suprema Corte, se in astratto è
evidente la distinzione tra causalità attiva ed omissiva, nella
realtà dei fatti risulta spesso arduo individuare se si è in pre‑
senza dell’una o dell’altra forma.
È inoltre opportuno non confondere “tra il reato omissivo
e le componenti omissive della colpa: i casi del medico che
adotta una terapia errata (e quindi omette di somministrare
quella corretta) o che dimette anticipatamente il paziente (e
quindi omette di continuare a curarlo in ambito ospedaliero)
non rientrano nella causalità omissiva, ma in quella attiva”.
Un recente orientamento giurisprudenziale propone di
considerare commissiva la condotta del sanitario che ha intro‑
dotto nel quadro clinico del paziente un fattore di rischio poi
effettivamente realizzatosi e omissivo il comportamento del
medico che non ha contrastato un rischio già presente nel
quadro clinico del paziente, intendendosi per fattore di rischio
un fattore causale che ha cagionato o contribuito a cagionare
l’evento dannoso.
10. Conclusioni
In quest’ottica è quanto mai evidente che, per poter affer‑
mare la responsabilità del medico chirurgo estetico in sede
penale, si dovrà accertare la sussistenza di tutti gli elementi
propri delle fattispecie di reato.
In assenza di consenso informato:
Se l’intervento è riuscito, penalmente non si potrà intrave‑
dere alcuna forma di responsabilità in relazione ad eventuali
effetti collaterali comunque subiti dal paziente.
Se l’intervento non è riuscito, si configurerà una respon‑
sabilità per il reato di lesioni colpose o di omicidio colposo,
qualora ne sussistano i presupposti, tenendo presente che la
mancata informazione non è di per sé idonea ad integrare gli
estremi della colpa.
In presenza di consenso informato:
• se l’intervento è riuscito, nulla quaestio;
• se l’intervento non è riuscito, si configurerà una responsa‑
bilità per il reato di lesioni colpose o di omicidio colposo,
qualora ne ricorrano i presupposti.
In particolare, ove si paventi una ipotesi di responsabilità
in ambito penale, si dovrà verificare la sussistenza di:
• una condotta colposa. A tale proposito, in sede penale
l’art. 3 della Legge 189/2012 ha stabilito che nelle ipotesi
in cui il sanitario si sia attenuto alle linee guida ed alle
buone pratiche accreditate dalla Comunità scientifica, non
risponderà per colpa lieve. Ed allora al fine di escludere la
responsabilità penale, in tali circostanze, si dovrà verifi‑
care la sussistenza, in materia, di linee guida e buone
pratiche accreditate dalla Comunità scientifica e la sussi‑
stenza di colpa lieve.
• un evento dannoso: morte o lesioni.
civile
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e
p r o c e d u r a
Per quanto concerne il concetto di lesione si deve tenere
presente che la stessa rientra nel concetto di malattia, inteso
come qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’orga‑
nismo.
In materia di chirurgia estetica, la giurisprudenza ha
escluso che gli inestetismi possano considerarsi malattia e
fondare, quindi, un giudizio dei responsabilità in sede penale.
Potrà invece rientrare nel concetto di malattia il turbamento
c i v i l e
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psichico che gli stessi inestetismi possono aver generato.
Un nesso causale tra la condotta e l’evento.
È necessario, cioè accertare che l’evento sia stato determi‑
nato da una condotta attiva o omissiva del medico, sulla base
di un giudizio ex post, caratterizzato da elevata capacità lo‑
gica e credibilità razionale, capace di risalire all’antecedente
causale senza il quale l’evento dannoso non si sarebbe verifi‑
cato.
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m a g g i o • g i u g n o
●
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Formalismo
testamentario,
testamento nuncupativo
e l’nterpretazione
del testamento
● Stefano Maria Russo
Avvocato
1. Premessa
Il formalismo ha sempre avuto un ruolo rilevante con ri‑
guardo ai negozi giuridici, sia quelli inter vivos sia quelli
mortis causa, ed in esso è ravvisabile un motivo di significati‑
va differenziazione tra i sistemi di common law – certamente
meno rigorosi – ed i sistemi di civil law – che, invece, hanno
un’impostazione più rigida e, almeno per quanto riguarda il
diritto italiano, hanno senz’altro subito la forte influenza
della tradizione romanistica.
Vero è, però, che, soprattutto nell’ultimo decennio il crite‑
rio del “formalismo intransigente” ha ceduto il passo ad una
maggiore apertura alla c.d. libertà di forma, in ciò risentendo
fortemente dell’influenza derivante dal ben più elastico forma‑
lismo informatico della firma digitale.
Al di là di quelle che possono essere state le influenze det‑
tate dall’era informatica, il nostro ordinamento ancora mani‑
festa forti resistenze all’ipotetico abbandono del rigido forma‑
lismo di ispirazione romanistica, soprattutto nell’ambito delle
successioni a causa di morte.
Invero, l’opinione più accreditata continua ad essere quel‑
la che individua nella forma l’elemento volto a soddisfare
l’esigenza di riconoscibilità oggettiva dell’atto giuridico nello
specifico settore in cui in cui è destinato a produrre i propri
effetti.
L’analisi della forma degli atti, tuttavia, dimostra che non
è possibile trattare tale argomento in modo unitario, riferen‑
dolo indistintamente a tutti gli atti che sono destinati a pro‑
durre effetti di natura giuridica, poiché gli scopi e le funzioni
costituenti la ratio a base di certe scelte del legislatore sono
svariati e non cumulabili in modo unitario.
Nel puntare l’indagine sul principi cardine del nostro ordi‑
namento, si comprende che il legislatore lascia, di regola, liber‑
tà di scelta sul tipo di forma da utilizzare, al fine di ottenere un
miglior adattamento alla situazione concreta e un più mirato
conseguimento dello scopo; su questa impostazione di base, si
fonda il “principio di libertà di forma dell’ordinamento”.
Non è, tuttavia, consentita una valutazione unitaria, in
quanto esistono negozi la cui ratio risiede proprio nella loro
forma. Il più volte delle volte la rigorosità della forma si ac‑
compagna ad una avvertita esigenza di serietà delle dichiara‑
zioni rese e di consapevolezza delle conseguenze che dalle
stesse derivano. Di qui la distinzione tra forma richiesta ad
substantiam e forma richiesta ad probationem, e dunque
l’individuazione di categorie per le quali la forma ad substan‑
tiam è imprescindibile.
In tale ambito, il testamento costituisce l’atto formale per
eccellenza, poiché in esso la forma va vista non solo quale
strumento espressivo di una certa volontà, ma anche quale
requisito imprescindibile per poter attribuire a quella volontà
una valenza oggettiva e vincolante. Tale aspetto, come nel
prosieguo si vedrà, è stato talmente valorizzato da indurre
parte degli autori più autorevoli a sostenere che il manato ri‑
spetto di una delle forme legislativamente stabilite determina
addirittura l’inesistenza del testamento, così individuando nel
formalismo un elemento coessenziale e connaturato al testa‑
mento.
civile
Sommario: 1. Premessa – 2. Il formalismo testamentario – 3. Il
formalismo nel testamento olografo – 4. Il testamento nuncu‑
pativo – 5. L’interpretazione della volontà testamentaria.
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Con il presente lavoro si ambisce proprio ad analizzare
tali problematiche, tenuto conto che orientamento giurispru‑
denziale che nel tempo si è formato ha, da un lato, teso a dare
prevalenza, a dispetto del formalismo estremo, all’esigenza di
ricostruire la volontà testamentaria con ogni mezzo legittimo
e possibile, tenuto conto della sua irripetibilità, e, dall’altro,
dovuto compiere enormi sforzi ermeneutici che, evidentemen‑
te, variano da caso e caso e che, dunque, non consentono di
acquisire un criterio univoco e di valenza generale.
2. Il formalismo testamentario
Il testamento, inteso quale manifestazione dell’autonomia
negoziale mortis causa, costituisce lo strumento giuridico nel
quale la forma assume, secondo una lettura testuale delle
norme codicistiche, un ruolo essenziale e determinante.
Caratteristiche del testamento sono:
• la revocabilità: è sempre possibile per il testatore elimina‑
re o modificare l’atto;
• la unilateralità: esso produce i suoi effetti (delazione) a
prescindere dall’accettazione del chiamato all’eredità;
• la tipicità: non esistono altri atti con il quale è possibile
disporre delle proprie sostanze per il tempo in cui si sarà
cessato di vivere;
• la personalità: da ciò consegue la nullità di ogni atto col
quale si attribuisce all’arbitrio di un terzo la scelta dell’ere‑
de o del legatario o la determinazione delle quote ad essi
spettanti. Il terzo al più potrà essere chiamato a scegliere
il legatario tra più individui o enti indicati espressamente
dal testatore;
• il formalismo: la legge prevede espressamente i modi in
cui il testatore può redigere il testamento.
• Il codice civile italiano, dunque, accoglie il principio del
formalismo testamentario, in virtù del quale il Legislato‑
re richiede per la validità del testamento una delle forme
tipiche espressamente previste dal codice civile agli
artt. 601 e seguenti c.c., e precisamente:
• il testamento olografo: atto scritto, datato e sottoscritto
dal testatore (art. 602 c.c.);
• il testamento pubblico: atto ricevuto dal notaio in presen‑
za di due testimoni e sottoscritto dal testatore (art. 603
c.c.);
• il testamento segreto: atto redatto dal testatore e conse‑
gnato dallo stesso testatore ad un notaio in presenza di
due testimoni secondo le modalità previste dalla legge agli
articoli 604‑605 c.c.;
• il testamento in occasione di malattie contagiose o cala‑
mità pubbliche (artt.609‑610 c.c.);
• il testamento in navigazione marit tima o aerea
(artt. 611‑616 c.c.);
• il testamento dei militari o assimilati (artt. 617‑618 c.c.).
L’art. 587 c.c. fornisce la definizione di testamento quale
atto revocabile con cui un soggetto, detto testatore, dispone,
per il tempo in cui avrà cessato di vivere, delle sue sostanze,
ovvero detta disposizioni di carattere non patrimoniale (ad
esempio: riconoscimento di un figlio).
Esso appartiene alla categoria del negozio giuridico, nella
quale si caratterizza per essere un atto unilaterale a causa di
morte.
La definizione si limita in modo indiretto ad indicare che
il testamento deve essere compiuto dal testatore nella forma
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
scritta del documento, quale unica e costante prescrizione per
una pluralità di forme tipicamente regolate dalle norme di
disciplina, la cui inosservanza non consente al testamento di
perfezionarsi.
Ciascuna delle forme è a sua volta regolata secondo mo‑
dalità diverse, alle quali si dà il nome di «formalità», intese
quali requisiti intrinseci di ogni singola forma, anch’essi ana‑
liticamente descritti (da cui l’aggettivo «solenne»). L’insieme
delle forme e delle rispettive formalità determina il fenomeno
unitario cui si attribuisce la definizione di «formalismo testa‑
mentario», oggetto di specifica e autonoma considerazione
rispetto al “formalismo negoziale» in genere, configurandosi
come rilevante eccezione al principio della «libertà delle for‑
me”.
Il sistema normativo, quindi, fornisce una serie di possi‑
bilità, sotto il profilo formale, che determinano una vera e
propria tipizzazione del fenomeno “testamento”. A tale tipiz‑
zazione corrisponde anche l’autonomia delle singole forme di
testamento, nel senso che ciascuna è utilizzabile in sé e per sé,
e dunque indipendentemente dall’altra, senza che si possano
determinare confusioni tra l’una e l’altra tipologia di testa‑
mento ammessa al legislatore.
Il requisito di «forma» si è modificato nel tempo quanto
alla sua funzione. Si è così passati da una generica considera‑
zione incentrata sul profilo della volontà dell’atto, per garan‑
tirne, a seconda della forma prescelta, «spontaneità e genui‑
nità», oppure «ponderatezza e serietà» ovvero «certezza
probatoria, segretezza e conservazione» attraverso la creazio‑
ne del documento, ad un quadro più articolato e complesso
del formalismo testamentario. E così, da un lato, la “non ri‑
petibilità” dell’atto quale “ultimo messaggio” del testatore,
da cui consegue, tra l’altro, l’applicabilità della sanatoria per
conferma o esecuzione volontaria; e, dall’altro, la sua natura
di “eteroregolamento”, verificandosi gli effetti in capo ai su‑
perstiti.
Conclusivamente si può ricondurre la finalità unitaria
della forma del testamento allo scopo di garantire l’esistenza
di una volontà destinata a valere post mortem. In una dupli‑
ce direzione: di certezza che la dichiarazione, nel momento
della sua esecuzione, corrisponda all’effettivo volere del testa‑
tore; come esigenza di conservazione nel tempo del documen‑
to mediante il quale è dato rievocare detto volere.
3. Il formalismo nel testamento olografo
Merita particolare attenzione il testamento olografo,
poiché lo stesso, a differenza del testamento pubblico, può
essere redatto in totale autonomia da parte di chi voglia de‑
cidere il destino delle proprie sostanze per il tempo successivo
alla propria morte, ovvero voglia dettare disposizioni non
patrimoniali.
L’assistenza di un notaio, nonché la presenza di due testi‑
moni, fanno sì che il testamento pubblico abbia una valenza
intrinseca sotto tutti i profili che maggiormente interessano,
vale a dire capacità, consapevolezza, tecnicismo e chiarezza
in capo a chi voglia esprimere la propria volontà post mor‑
tem.
Il testamento olografo, invece, può essere redatto in asso‑
luta “solitudine”, ed è anzi lo strumento cui sovente si ricorre
sia per motivazioni di carattere economico sia per motivazio‑
ni di riservatezza.
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
La norma del codice civile, vale a dire l’art. 602 c.c., è
chiara nello stabilire che il testamento deve essere scritto per
intero, datato e sottoscritto dal testatore.
L’autografia del documento non appare richiesta, nell’in‑
tero sistema del codice civile, in nessun’altra norma sulla
forma degli atti.
L’olografo invece deve essere interamente vergato dalla
mano del testatore. Si è ritenuto che l’autografia debba posse‑
dere i caratteri dell’individualità, normalità ed abitualità; in
altri termini la grafia deve provenire dal testatore, essere
quella normalmente usata dallo stesso e pertanto riconosci‑
bile come sua.
L’impiego della forma olografa esclude ogni intervento del
terzo nella redazione del testamento, anche se la volontà del
de cuius è stata rispettata e corrisponde alle espressioni con‑
tenute nell’atto di ultima volontà.
In dottrina ed in giurisprudenza si è ritenuto ammissibile
l’intervento del terzo solo se limitato a facilitare la scrittura
attraverso una materiale (meccanica) collaborazione (come
sorreggere la mano tremante) che non influisca sul carattere
di stretta personalità dello scritto come invece avverrebbe
guidando la mano del testatore.
Al fine di stabilire la nullità del testamento per il difetto
del requisito formale dell’autografia occorre pertanto deter‑
minare entro quali limiti si è svolto l’intervento del terzo.
L’intervento ausiliario del terzo, ove ammesso, può essere
inteso come un ulteriore indice della tendenza allo sfronda‑
mento dei requisiti formali a vantaggio dell’elemento sostan‑
ziale secondo l’opinione oggi prevalente in dottrina e in giu‑
risprudenza.
La sottoscrizione, altro elemento essenziale per espressa
previsione dell’art. 602, comma 2, c.c., «deve essere posta
alla fine delle disposizioni», e deve essere idonea a designare
con certezza la persona del testatore.
Alla sottoscrizione è stata dedicata particolare attenzione
da parte della dottrina, la quale ne ha esaltato la portata at‑
tribuendole più di una funzione: “Funzione indicativa” rivol‑
ta ad identificare inequivocabilmente la persona che sottoscri‑
ve; “funzione dichiarativa” nel senso che il testatore riferisce
a sé la rilevanza giuridica dell’olografo con una dichiarazione
autonoma rispetto a quella documentata qual è la sottoscri‑
zione; ed infine “funzione probatoria” nel senso che la sotto‑
scrizione rappresenta il mezzo di prova dell’autenticità
dell’olografo in concorso con il requisito dell’olografia del
testo.
Nella pratica tuttavia la sottoscrizione è sovente posta a
margine del testo oppure inserita tra una disposizione e l’altra,
e si è ritenuto valido il testamento con sottoscrizione a mar‑
gine per mancanza di altro spazio, qualora dall’interpretazio‑
ne dell’atto sia stata comunque desunta una volontà di dispor‑
re completa e definitiva.
Una lettura più liberale dell’art. 602 c.c., in particolare
con riferimento alla data e alla sottoscrizione, porta ad “og‑
gettivare” i requisiti formali “nel senso che sia necessario e
bastevole accertarne la presenza nell’atto, senza che occorra
un’indagine che li attesti voluti ed apposti nel momento in
cui la dichiarazione fu espressa”.
Non meno importante è l’altro requisito, quello della data,
quale valido criterio per ricostruire la capacità del soggetto,
e per risolvere ogni eventuale conflitto emergente da dichia‑
2 0 1 3
23
razioni aggiunte e/o contrastanti con la volontà già espressa.
La data vale quindi per l’interprete ma anche per il testatore
ad indicare la serietà d’intenti, ed in quel momento, precisa‑
mente definito, nel giorno nel mese e nell’anno, vale ad indi‑
care l’ultima certa e definitiva volontà del testatore di desti‑
nare il proprio patrimonio o di dettare disposizioni non pa‑
trimoniali.
4. Il testamento nuncupativo
Controversa è l’ammissibilità del testamento orale – c.d.
nuncupativo – nel nostro ordinamento giuridico, contraria‑
mente al diritto romano, che lo ammetteva giusta il seguente
rescritto di Gordiano (C. 6.11.2, 242), subordinandone la
validità alla presenza di sette testimoni:
“Bonorum quidem possessionem ex edicto praetoris non
nisi secundum eas tabulas, quae septem testium signis signa‑
tae sunt, peti possi in dubium non venit. 1. Verum si eundem
numerum adfuisse sine scriptis testamento condito doceri
potest, iure civili testamentum factum videri ac secundum
nuncupationem bonorum possessionem deferri explorati
iuris est”.
In dottrina, i termini del discorso consistono in due tesi
principali, una che propende per la inesistenza di tale tipolo‑
gia di testamento, con conseguente impossibilità che lo stesso
sia confermato ex art. 590 c.c., l’altra propende per la nullità
per difetto di forma, e conseguente confermabilità ex art. 590
c.c..
La questione della confermabilità del trattamento nuncupa‑
tivo è da lungo tempo dibattuta. Dopo la codificazione del 1942,
la dottrina appare fortemente divisa ed è senza’altro autorevol‑
mente sostenuta la non confermabilità per inesistenza.
Si legge, in particolare: “la legge stabilisce quali sono i
difetti formali che danno luogo a nullità e quali quelli che
danno luogo ad annullabilità del testamento (art. 606). Ma
essa suppone sempre un minimo di requisiti per cui nel caso
concreto possa ravvisarsi un testamento, secondo la natura
essenzialmente formale di questo atto. Quando invece la
forma solenne sia affatto mancante, ad esempio, perché le
disposizioni di ultima volontà siano state dettate oralmente,
il negozio, nel silenzio legislativo è, a nostro avviso, piuttosto
da ritenere inesistente”. Viene altresì evidenziato che “nella
stessa relazione del Guardasigilli (126), per giustificare
l’esclusione, è stato osservato che sarebbe stato assai perico‑
loso affidarsi alla relazione verbale di due testimoni che,
anche a prescindere da ipotesi di mala fede, possono avere
frainteso le parole del testatore. La stessa manifestazione di
volontà del testatore, nelle circostanze previste dalla norma,
può lasciare perplessi sul suo valore intrinseco. Piuttosto che
affidarsi ad una volontà così mal sicura, è preferibile regola‑
re la successione con le norme stabilite dalla legge”.
Non può però trascurarsi che altra parte della dottrina,
altrettanto autorevole e soprattutto la giurisprudenza costan‑
te propendono per la tesi della nullità, ammettendo la confer‑
ma ex art. 590 c.c.: “L’atto con cui il notaio riceve le dichia‑
razioni dei legittimari dirette a confermare espressamente le
disposizioni testamentarie rese in forma orale dal de cujus,
sulle premesse – dai medesimi dichiarate – dell’inesistenza di
un testamento formale e della ripetuta, dettagliata e mai
revocata volontà del defunto, espressa oralmente, circa la
destinazione dei propri beni, non invade i compiti di accer‑
civile
Gazzetta
24
D i r i t t o
e
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tamento riservati all’autorità giudiziaria, in ordine (nella
specie) all’esistenza ed alla nullità del testamento nuncupati‑
vo nonché alla intervenuta realizzazione della fattispecie
sanante prevista dall’art. 590 c.c., e non è quindi suscettibi‑
le di esser disciplinarmente sanzionato, ai sensi degli artt. 1
e 138 della legge notarile, atteso che la convalida non pre‑
suppone alcuna preventiva attività di accertamento circa la
nullità delle disposizioni convalidate (né, peraltro, preclude
un tale accertamento, da parte dell’autorità giudiziaria in
caso di successiva contestazione) e tenuto altresì conto che la
fede privilegiata propria dell’atto notarile non si estende al
contenuto della dichiarazione di convalida, rispetto al quale
non è quindi configurabile alcuna attività di accertamento
da parte del notaio.
La giurisprudenza è in genere favorevole a riconoscere la
sanabilità per conferma, optando così per la nullità della di‑
sposizione con esclusione della sua contrarietà all’ordine
pubblico.
In effetti, secondo il dominante orientamento giurispru‑
denziale, l’ipotesi del testamento nuncupativo si distingue da
altre (ad esempio, quelle del testamento revocato o del testa‑
mento falso), poiché nella prima ci si trova comunque di
fronte ad un atto di autonomia privata, sia pur in forma ini‑
donea, e non può dirsi, quindi, che manchi del tutto una vo‑
lontà alla quale dare esecuzione.
5. L’interpretazione della volontà testamentaria
L’analisi del formalismo testamentario, e l’approfondimen‑
to delle fattispecie rispetto alle quali, con maggior frequenza,
possono determinarsi problematiche di natura patologica,
sarebbe incompleto se si mancasse di entrare nel merito dell’er‑
meneutica testamentaria, e dunque nei profili interpretativi
che sovente nascono dall’utilizzo di formule non chiare che
potrebbero minare la validità del testamento.
Il concetto di atto mortis causa non ripetibile e quello di
individuazione della intima volontà del de cuius, impongono
di soffermarsi sugli sforzi volti ad individuare l’effettivo in‑
tento del testatore indipendentemente dal mezzo espressivo
usato, con ricorso, nei casi limite, ad elementi estrinseci, pur‑
ché riferibili all’autore della scheda.
Si ritiene comunemente che ai canoni generali di interpre‑
tazione di cui agli artt. 1362 ss., c.c., siano sottoposti tutti i
negozi giuridici, con le limitazioni, talora espresse, talora
implicite, derivanti dall’applicazione del principio dell’affida‑
mento.
Nell’ambito delle dichiarazioni non recettizie, trova ampio
spazio la ricerca dell’intento del dichiarante e quindi la rile‑
vanza di indici soggettivi.
Non tutte le norme in materia di interpretazione – e dun‑
que quelle di cui agli artt. 1362 e ss. c.c. – sono tuttavia rite‑
nute applicabili al testamento.
La Suprema Corte è costantemente orientata a ritenere
applicabile al testamento il canone di cui all’art. 1362 c.c.,
relativo alla ricerca della volontà del dichiarante: “L’interpre‑
tazione del testamento, cui in linea di principio sono appli‑
cabili le regole di ermeneutica dettate dal codice civile in
tema di contratti, con la sola eccezione di quelle incompati‑
bili con la natura di atto unilaterale non recettizio del negozio
"mortis causa", è caratterizzata, rispetto a quella contrattua‑
le, da una più penetrante ricerca, al di là della dichiarazione,
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
della volontà del testatore, la quale, alla stregua dell’art. 1362
c.c., va individuata con riferimento ad elementi intrinseci
alla scheda testamentaria sulla base dell’esame globale della
scheda stessa e non di ciascuna singola disposizione e, in via
sussidiaria ove dall’atto non emergano con certezza l’effetti‑
va intenzione del "de cuius" e la portata della disposizione,
con il ricorso ad elementi estrinseci al testamento, se pur
sempre riferibili al testatore (quali la personalità, la mentali‑
tà, la cultura, la condizione sociale, l’ambiente di vita, i
rapporti pregressi con i soggetti menzionati nella scheda).
Nell’interpretazione del testamento, il giudice del merito può
dunque attribuire alle espressioni adoperate nell’atto un si‑
gnificato diverso da quello tecnico o letterale, purché non
contrastante o antitetico, quando, valutando la scheda nel
suo complesso e tenendo conto degli elementi di giudizio
propri alla persona del "de cuius", tale diverso significato si
presti a esprimerne in modo più adeguato e coerente la reale
intenzione”. In altri termini, con riguardo all’interpretazione
dei testamenti è principio consolidato e costante nel tempo,
in termini generali, quello per cui il giudice deve accertare,
secondo il principio di ermeneutica enunciata dall’art 1362
c.c. ed applicabile, con gli opportuni adattamenti, anche in
materia testamentaria, quale sia stata l’effettiva volontà del
testatore comunque espressa, badando al significato specifico
e concreto delle singole espressioni da lui usate e a tale signi‑
ficato dando prevalenza su quello letterale, tenendo presente,
inoltre, nei casi dubbi, il complesso delle disposizioni in rap‑
porto alla mentalità, alla natura e all’ambiente di vita del
testatore e preferendo infine, in tali casi, una soluzione che
consenta un effetto concreto ad un’interpretazione che non
sia suscettibile di esecuzione.
Se è vero che l’analisi dell’intenzione del testatore, in rela‑
zione al canone ermeneutico di cui all’art. 1362 c.c., va guar‑
data con riferimento al momento in cui il testatore ha redatto
la scheda testamentaria, e non con riferimento ad u momento
successivo, tuttavia ha una valenza importante anche il com‑
portamento successivo del testatore e, quindi, la valutazione
di atti che lo stesso abbia posto in essere. Pertanto, in tale
contesto, diventano rilevanti anche le disposizioni di cui agli
artt. 1363, 1364 e 1365 c.c., per cui le clausole vanno inter‑
pretate guardando anche al loro intero contenuto ed interpre‑
tando le une per mezzo delle altre.
Rispetto all’interpretazione del contratto, l’interpretazio‑
ne del testamento si differenzia per una più attenta ricerca ed
efficacia della volontà in concreto e correlativamente da un
più frequente impiego del metodo interpretativo integrativo.
Pertanto, in definitiva, deve riconoscersi giuridica rilevanza
all’effettiva mens testantis anche se espressa in termini impro‑
pri od inadeguati e comunque non rispondenti al significato
oggettivo e socialmente riconoscibile della dichiarazione,
purché chiaramente individuabile dalla valutazione comples‑
siva delle varie clausole e dagli altri elementi estrinseci, quali
la mentalità, la cultura e le condizioni di vita e di famiglia del
testatore. Notevole importanza assume il principio di conser‑
vazione posto dall’art. 1367 c.c.
Poiché occorre interpretare un atto di ultima volontà,
l’esigenza di conservazione del negozio è più imperiosa: il
favor testamenti impone di identificare il contenuto della
clausola assegnando ad essa il significato maggiormente utile
e concreto.
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
Il principio di conservazione non ha certo lo scopo di tener
ferma una dichiarazione di volontà che, anche aliunde, risul‑
ti non seriamente voluta. Qui soccorre il rilievo che se il ricor‑
so al primo momento del processo interpretativo, e cioè alla
ricerca della volontà in concreto, ha già dato un risultato
definitivo, nel senso che è accertato che non vi fu alcun inten‑
to di privata autonomia realmente perseguito dal dichiarante
o dal disponente, il problema non si pone nemmeno. Allora il
principio di conservazione non viene in considerazione, non
già perché esso repugni alla materia testamentaria, ma perché
non sussiste il dubbio sul significato della dichiarazione, che
è il presupposto della sua applicazione.
“Per la individuazione della volontà del testatore, che
prevale sulle espressioni usate, vanno utilizzate le regole er‑
meneutiche dettate dal codice, con gli adattamenti imposti
dalla natura di negozio unilaterale non recettizio del testa‑
mento, e anche i mezzi sussidiari di interpretazione per fuga‑
re i dubbi nelle dichiarazioni formulate in modo impreciso,
al fine di ricercare con il necessario approfondimento l’effet‑
tiva volontà del disponente, senza escludere il principio della
conservazione sancito dall’art. 1367 c.c., che fornisce un
utile criterio per riconoscere fra i diversi effetti ipotizzabili
quello meglio rispondente alla funzione, sempre nel rispetto
della volontà manifestata dal testatore”.
2 0 1 3
25
Questa decisione è conforme ad un binario interpretativo
sempre seguito in giurisprudenza.
Non univoco è l’orientamento della dottrina. Parte della
stessa, pur ammettendo una più libera indagine della volontà
del testatore ed un’interpretazione estensiva della disposizione
oscura, esclude che l’interpretazione estensiva dell’atto mortis
causa sia retta dal principio del favor testamenti ed esclude
altresì l’operatività del principio di conservazione perché non
vi è da tener conto, nell’interpretazione del testamento, dell’af‑
fidamento altrui. Di contro, si asserisce che il procedimento
analogico è autorizzato dall’identità di ratio, perché la ratio
del principio di conservazione del contratto è che l’intento
perseguito dai contraenti debba essere realizzato al massimo
grado, sempre che non urti contro una disposizione proibitiva
di legge, e lo stesso deve dirsi per la realizzazione dell’intento
del disponente nella dichiarazione di ultima volontà. Anzi,
l’esigenza di conservazione del negozio mortis causa è ancora
più imperiosa, perché una interpretazione che privi di efficacia
il testamento nega irrimediabilmente l’esplicazione della pri‑
vata autonomia del disponente, mentre lo stesso non può dirsi
sempre per ciò che riguarda il contratto. Pertanto, l’art. 1367
c.c. non ha per base l’affidamento, ma si tratta di identificare
il significato della dichiarazione, quando persista il dubbio su
quella che sia stata la volontà in concreto del dichiarante.
civile
Gazzetta
26
D i r i t t o
●
L’intervento delle Sezioni
Unite sulla disciplina
applicabile
all’esecutorietà
dei provvedimenti
camerali di modifica
delle condizioni
di divorzio
Nota a Cass. civ., sez. un., 26 aprile 2013, n. 10064
● Tonia Raia
Avvocato
e
p r o c e d u r a
c i v i l e
Gazzetta
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Famiglia – Decreto del Tribunale di revisione delle disposizioni
sullo scioglimento del matrimonio – Esecutività immediata – Sus‑
sistenza.
In materia di revisione delle disposizioni concernenti
l’affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle
modalità dei contributi da corrispondere a seguito dello scio‑
glimento e della cessazione degli effetti del matrimonio, a
norma dell’art. 9 della legge n. 1 dicembre 1970 n. 898 e
successive modificazioni, il decreto pronunciato dal tribuna‑
le è immediatamente esecutivo, in conformità di una regola
più generale, desumibile dall’art. 4 della citata legge regolati‑
va della materia e incompatibile con l’art. 741 c.p.c., che su‑
bordina l’efficacia esecutiva al decorso del termine utile per
la proposizione del reclamo.
Cass. civ., sez. un., 26 aprile 2013, n. 10064
(Omissis)
Svolgimento del processo
1. La controversia ha per oggetto l’opposizione proposta
dalla signora T.L. al precetto notificatole il 6 luglio 2005 dal
signor I.C., già coniuge dell’opponente, per il pagamento di
somme dovute per il mantenimento del figlio. L’opponente
contestava l’efficacia esecutiva del titolo posto a fondamento
dell’esecuzione, trattandosi di decreto emesso dal tribunale in
sede di modifica delle condizioni di divorzio, e gravato da
reclamo davanti alla corte d’appello. Il tribunale ha respinto
l’opposizione, ritenendo applicabile alla fattispecie la norma,
interpretata estensivamente, contenuta nell’art. 4, (comma 11
previgente) della legge n. 74 del 1987, come modificato da
ultimo dalla legge n. 80 del 2005, laddove al comma quattor‑
dici afferma che, per la parte riguardante i provvedimenti di
natura economica, la sentenza di primo grado è immediata‑
mente esecutiva.
2. Per la cassazione di questa sentenza ricorre la signora T.
con due mezzi d’impugnazione. Resiste il signor I..
3. Con ordinanza interlocutoria in data 15 giugno 2012,
la prima sezione civile ha rimesso gli atti al Primo presidente
della corte, per l’eventuale assegnazione della causa alle Sezio‑
ni Unite civili, rilevando l’esistenza di un contrasto tra le se‑
zioni semplici della corte sulla questione dell’esecutività im‑
mediata dei decreti di modifica delle condizioni di divorzio
emessi dal tribunale, in pendenza di reclamo.
Ragioni della decisione
4. Con i due mezzi d’impugnazione, entrambi proposti
sotto il profilo dell’art. 360, comma primo n. 3 c.p.c., la ricor‑
rente denuncia rispettivamente la violazione dell’art. 741 c.p.c.,
che stabilisce espressamente che i provvedimenti pronunciati
in primo grado acquistano efficacia quando sono decorsi i
termini di cui agli articoli precedenti senza che sia stato pro‑
posto reclamo; e la falsa applicazione dell’art. 4 comma 14
della legge n. 898 del 1970 – come novellato dalla legge n. 80
del 2005 – a norma del quale, per la parte riguardante i prov‑
vedimenti di natura economica la sentenza di primo grado è
immediatamente esecutiva.
Il ricorso verte dunque sulla questione dell’immediata ef‑
ficacia esecutiva dei provvedimenti di revisione delle condizio‑
ni del divorzio, emessi in primo grado dal tribunale “in came‑
ra di consiglio”, secondo quanto prevede l’art. 9 della legge
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
898 del 1970, nel testo novellato dalla legge n. 74 del 1987.
5. Con ordinanza interlocutoria in data 15 giugno 2012,
la prima sezione civile, alla quale il ricorso era stato assegna‑
to, ha rilevato l’esistenza, sul punto decisivo della controver‑
sia, dell’esecutività immediata dei decreti di modifica delle
condizioni di divorzio, di un contrasto tra due precedenti
della corte, per dirimere il quale è stato sollecitato l’interven‑
to di queste sezioni unite.
La prima sentenza, 27 aprile 2011 n. 9373, ha affermato
il principio che il provvedimento di modifica delle condizioni
di separazione previsto dall’art. 710 c.p.c. non è immediata‑
mente esecutivo, ma lo è solo ove in tal senso sia disposto dal
giudice ai sensi dell’art. 741 c.p.c. Si è osservato a questo
proposito che, mentre l’art. 1 della novella 29 luglio 1988,
n. 331 richiama espressamente la disciplina dei procedimenti
in camera di consiglio, resta inapplicabile l’art. 4, comma 14,
della legge 1 dicembre 1970, n. 898, il quale dispone la prov‑
visoria esecutività della sentenza di primo grado pronunciata
all’esito del giudizio di divorzio, regola estesa dall’art. 23
della legge 6 marzo 1987, n. 74 ai giudizi di separazione per‑
sonale, ma non a quelli di modifica del regime di separazione.
Sebbene di fronte alla generalizzata esecutorietà delle senten‑
ze di primo grado il carattere non esecutivo del decreto di
primo grado di modifica delle condizioni di separazione ap‑
paia come una sorta di residuo affatto eccezionale in una
materia come quella familiare, che richiede tempestività e
snellezza applicativa, la discrezionalità utilizzata dal legisla‑
tore renderebbe manifestamente infondata una questione di
costituzionalità.
La più recente sentenza 20 marzo 2012 n. 4376 ha al
contrario affermato che il provvedimento di modifica delle
condizioni di separazione tra i coniugi, pronunciato ai sensi
dell’art. 710 cod. proc. civ., è immediatamente esecutivo, in
quanto a esso non si applica il differimento dell’efficacia ese‑
cutiva previsto in via generale dall’art. 741 c.p.c. per gli altri
provvedimenti camerali. La conclusione, in consapevole con‑
trasto con il precedente già ricordato, è sorretta da un’appro‑
fondita analisi del testo dell’art. 710 c.p.c., novellato dalla
legge 29 luglio 1988 n. 331. Si osserva che il primo comma è
espressamente ed esclusivamente riferito all’atto introduttivo
del procedimento, e il rimando alle forme del procedimento
in camera di consiglio potrebbe essere esteso a tutti gli altri
aspetti del procedimento regolato solo se il contenuto della
disposizione regolativa si fermasse a questa norma. Il secondo
e il terzo comma dello stesso articolo, disciplinando alcuni
aspetti del procedimento, dimostrerebbero invece che il rinvio
alla disciplina dei procedimenti in camera di consiglio non è
integrale, e che anzi l’autonoma disciplina dettata su aspetti
importanti – quali il contraddittorio e l’istruttoria – è profon‑
damente diversa da quella dettata dagli artt. 737‑742 c.p.c. In
particolare, risulta decisiva – in questa ricostruzione – la
previsione, nel terzo comma, della possibilità di adottare,
prima della definizione del procedimento, provvedimenti
provvisori, e di modificarne il contenuto nel corso del proce‑
dimento. La possibilità di provvedimenti anticipatori della
tutela che sarà offerta dal provvedimento finale, infatti, è
estranea alla tutela camerale com’è disciplinata negli
artt. 737 – 742 c.p.c. Il potere di pronunciare simili provve‑
dimenti, considerato secondo il canone dell’intentio legis,
esigerebbe che anche il provvedimento finale, di là da
2 0 1 3
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un’espressa previsione, consenta una tutela immediata: il le‑
gislatore, infatti, non potrebbe attribuire efficacia esecutiva a
provvedimenti provvisori, e negarne la permanenza degli ef‑
fetti una volta che il loro contenuto fosse trasposto in un
provvedimento definitivo; e sarebbe non meno contraddittorio
permettere una tutela esecutiva immediata sulla base di un
provvedimento provvisorio emesso all’esito di cognizione
sommaria, e non di un provvedimento definitivo emesso
all’esito di un’istruttoria svolta nella pienezza del contraddit‑
torio. Infine si richiama il principio costituzionale desumibile
dall’art. 24 della Costituzione, che implica una consequenzia‑
lità logica e giuridica tra espressa previsione di una tutela
anticipatoria in corso di procedimento ed esecutività imme‑
diata del provvedimento conclusivo, tale da non tollerare
l’operatività della diversa regola dettata dall’art. 741 c.p.c..
6. Si deve preliminarmente rilevare che sulla questione
oggetto del presente giudizio, costituita dall’efficacia imme‑
diatamente esecutiva dei provvedimenti, emessi a norma
dell’art. 9, comma 1 della legge 1 dicembre 1970 n. 898, come
sostituito dall’art. 13, comma 1 della legge 6 marzo 1987,
n. 74, con i quali il tribunale provvede alla revisione delle
disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, e di quelle
relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispon‑
dere ai sensi degli articoli 5 e 6 della stessa legge, non vi sono
precedenti in termini nella giurisprudenza di legittimità. Le
due contrastanti pronunce, richiamate nell’ordinanza interlo‑
cutoria, vertono, infatti, sui provvedimenti pronunciati dal
tribunale a norma dell’art. 710 c.p.c., in tema di modifica
delle condizioni di separazione, e non propriamente sui prov‑
vedimenti pronunciati a norma del novellato art. 9, comma 1
della legge n. 898 del 1970, in tema di revisione delle condi‑
zioni di divorzio. Lo stesso apparato argomentativo svolto
delle due sentenza, e in particolare in quella n. 4376 del 2012,
per la definizione dell’efficacia esecutiva dei provvedimenti
adottati ex art. 710 c.p.c. non sarebbe direttamente utilizza‑
bile, nonostante la generica affinità dei due procedimenti, per
la soluzione del problema riguardo ai provvedimenti assunti
ex art. 9, comma 1 della legge n. 898 del 1970; e ciò sebbene,
come si dirà, esso offra spunti di riflessione che vanno al di là
della fattispecie regolata.
Nonostante ciò, l’esame dello stato della giurisprudenza
sollecitato dalla prima sezione appare ben giustificato dalla
stretta connessione tra i problemi, che emerge sia dal comune
richiamo – diretto o indiretto – alla disciplina dei procedi‑
menti camerali, e sia dalla norma contenuta nell’art. 23 (testo
novellato) della legge n. 898 del 1970, che estende “ai giudizi
di separazione personale dei coniugi”, in quanto compatibili,
le regole di cui all’articolo 4 della legge 1 dicembre 1970,
n. 898, istituendo un innegabile parallelismo tra i due diversi
procedimenti.
Si deve aggiungere che il parallelismo è accentuato dal
fatto che il problema dell’efficacia esecutiva del provvedimen‑
to emesso in primo grado ha assunto un carattere più acuto
dal momento in cui, con la novella dell’art. 282 c.p.c. (art. 33
L. 26 novembre 1990 n. 353), la sentenza pronunciata in
primo grado in tutti i giudizi ordinari è divenuta esecutiva ex
lege, mentre il testo dell’art. 741 c.p.c., che nega ai provvedi‑
menti camerali efficacia esecutiva ex lege, è rimasto invariato.
È opinione generalmente condivisa, in giurisprudenza come
in dottrina, che il ricorso del legislatore alle forme del proce‑
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dimento camerale fosse ispirato – sia nel caso della revisione
delle condizioni del divorzio (legge 6 marzo 1987, n. 74, che
ha novellato l’art. 9 legge n. 898 del 1970 senza estenderlo
alla revisione delle condizioni di separazione) e sia nel caso
della revisione delle condizioni della separazione (legge 29
luglio 1988, n.331, che detta una disciplina diversa e molto
più articolata che nel caso precedente), a esigenze di maggio‑
re speditezza nel regolamento dei rapporti personali e patri‑
moniali fra i coniugi e in ordine alla prole. Il regime ordinario
sarebbe invece, oggi, più aderente alle esigenze particolari che
il legislatore perseguiva con la novella n. 74 del 1987, del
procedimento camerale che allora poteva apparire più rapido
ed efficace.
Occorre ancora osservare, prima di affrontare il punto in
discussione, che problemi analoghi non si pongono con ri‑
guardo al regime esecutivo delle sentenze pronunciate in
primo grado, nei giudizi di separazione e in quelli di sciogli‑
mento del matrimonio. Nei secondi il legislatore del 1987 era
intervenuto con il nuovo testo dell’art. 4 della legge n. 898 del
1970, a norma del quale, per la parte relativa ai provvedimen‑
ti di natura economica la sentenza di primo grado era prov‑
visoriamente esecutiva. La stessa norma era poi ritenuta ap‑
plicabile alla sentenza pronunciata nel giudizio di primo
grado del processo di separazione, in forza della disposizione
contenuta nell’art. 23 della legge n. 74 del 1987. La successiva
novella dell’art. 282 – con la già ricordata legge n. 353 del
1990 – ha poi disposto che, in generale, le sentenze pronun‑
ciate in primo grado sono immediatamente esecutive. In
questo quadro, i procedimenti di revisione delle condizioni
della separazione e del divorzio appaiono come un’anomalia
nel sistema generale della tutela in questa materia.
Per un’adeguata trattazione del tema posto dal ricorso è
indispensabile muovere dalla ricostruzione sistematica delle
norme che disciplinano il procedimento di scioglimento o di
cessazione degli effetti del matrimonio, che di quello di revi‑
sione costituisce il giudizio presupposto. In questo giudi‑
zio – come, del resto, in quello di separazione personale dei
coniugi ‑la tutela interinale del regime di affidamento della
prole e dei rapporti economici tra i coniugi assume un carat‑
tere particolare, nel senso che essa non si pone in posizione
meramente strumentale e accidentale rispetto al giudizio di
cognizione, ma costituisce una tutela normalmente concor‑
rente con l’altra, potendo mancare solo laddove non vi siano
figli minori, e i coniugi siano economicamente indipendenti.
Fuori di questi casi, il procedimento prevede che, sin dalla
fase preliminare della comparizione dei coniugi davanti al
presidente del tribunale, i loro rapporti siano regolati da op‑
portuni provvedimenti temporanei e urgenti, i quali garanti‑
scono – nello stesso disegno del legislatore – che non vi siano
lacune temporali nella disciplina giudiziaria dei loro rapporti.
Il principio è consacrato da una norma che, per la sua specia‑
lità, è sempre stata al centro dell’attenzione degli interpreti:
l’art. 189 disp. att. c.p.c. stabilisce non soltanto (al primo
comma) che l’ordinanza con la quale il presidente del tribu‑
nale o il giudice istruttore da i provvedimenti di cui all’arti‑
colo 708 (oggi anche 709, a seguito delle modifiche apporta‑
te dall’art. 2 d. l. 14 marzo 2005 n. 35 conv. in legge con mod.
dalla L. 14 maggio 2005 n. 80) del codice costituisce titolo
esecutivo; ma, inoltre, che (secondo comma) essa conserva la
sua efficacia anche dopo l’estinzione del processo, finché non
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sia sostituita con altro provvedimento emesso dal presidente
o dal giudice istruttore a seguito di nuova presentazione della
domanda. Nel disegno normativo, il ruolo di questi provve‑
dimenti è dunque così rilevante, che non viene meno neppure
nel caso che il processo si estingua, e che perciò il provvedi‑
mento conclusivo, che dovrebbe costituirne il titolo, non sia
emesso. Per l’argomento presente è rilevante il fatto che questa
disposizione sia espressamente richiamata dall’art. 4, com‑
ma 8 della legge n. 898 del 1970, nel testo novellato dalla
legge 14 maggio 2005, n. 80, il quale stabilisce che, nel pro‑
cesso di divorzio, si applica ai provvedimenti del presidente
del tribunale e a quelli del giudice istruttore l’articolo 189
delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civi‑
le.
Il valore della norma citata deve essere apprezzato nel
quadro della giurisprudenza consolidata di questa corte, per
la quale i provvedimenti adottati dal presidente del tribunale
e poi dal giudice istruttore hanno natura cautelare (Cass. 1
dicembre 1966 n. 2823; 22 maggio 1990 n. 4613; 1 aprile
1998 n. 3374). La forma camerale non è mai stata ritenuta di
ostacolo al riconoscimento della loro natura contenziosa; al
tempo stesso, la singolarità che essi possano sopravvivere
all’estinzione del processo, in tal modo contraddicendo il loro
carattere meramente strumentale e anticipatorio, non è mai
stata di ostacolo alla loro qualificazione cautelare, anche
prima che l’ordinamento conoscesse altri casi di provvedimen‑
ti cautelari ultrattivi (art. 669 octiesc.p.c.).
Nel giudizio di scioglimento o cassazione degli effetti del
matrimonio, il provvedimento pronunciato nella fase prelimi‑
nare dal presidente del tribunale è poi sostituito dalla senten‑
za pronunciata all’esito del giudizio di primo grado, che ha
immediata efficacia esecutiva (art. 4 della legge n. 898/1970,
come modificato già dall’art. 8 legge 6 marzo 1987 n. 74). La
limitazione di questa efficacia ai provvedimenti di natura
economica è oggi superata dal nuovo testo dell’art. 282 c.p.c.
(art. 33, L. 26 novembre 1990 n. 353), e conserva il significa‑
to di escludere solo gli effetti propriamente costitutivi della
sentenza in ordine allo status personale dei coniugi.
La differenza essenziale tra il regolamento contenuto nei
provvedimenti provvisori e urgenti e quello dettato dalla
sentenza che conclude il giudizio di primo grado è costituita
dal fatto che, diversamente dal primo, quello contenuto nella
sentenza del tribunale – e ciò vale altresì per il provvedimen‑
to che sia emesso a conclusione dell’eventuale giudizio di se‑
condo grado – è idoneo ad acquistare l’efficacia del giudicato.
Nella materia in oggetto, tuttavia, questa differenza è atte‑
nuata dal fatto che il giudicato è da intendere sempre sotto‑
posto alla clausola rebus sic stantibus. La possibilità della
revisione delle condizioni stabilite al termine di quel giudizio
è appunto espressione della predetta clausola: il relativo giu‑
dizio assume pertanto il carattere di una prosecuzione – evi‑
dentemente circoscritta al tema delle condizioni regolatrici dei
rapporti tra gli ex coniugi – di quel primo giudizio, del quale
necessariamente condivide gli aspetti legati all’oggetto comu‑
ne. Nel sistema normativo, quale emerge dall’esame della
legge n. 898 del 1970 e delle sue successive modificazioni, il
regime dettato dalla sentenza conclusiva del processo di scio‑
glimento o di cessazione della sentenza di divorzio presenta,
per gli aspetti qui considerati, un carattere non dissimi‑
le – quanto alla sua efficacia – da quello contenuto nel prov‑
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vedimento iniziale del presidente del tribunale, e che regole‑
rebbe ancora il rapporto qualora per qualsiasi ragione il giu‑
dizio di cognizione non fosse giunto alla sua conclusione:
l’efficacia “definitiva”, derivante dalla formazione del giudi‑
cato, non assume rilievo, perché non esclude la sua modifica‑
bilità in ragione delle circostanze sopravvenute, che siano
state accertate all’esito del giudizio di revisione. Rispetto a
tali circostanze, appunto, sopravvenute, il giudicato è per
definizione inidoneo a giustificare una minore efficacia del
nuovo accertamento.
Lo stretto collegamento che deve ravvisarsi tra il giudizio
di scioglimento o di cessazione degli effetti del matrimonio e
quello successivo, di revisione, e che impone per il problema
qui esaminato, dell’efficacia esecutiva del provvedimento
emesso al termine del giudizio di primo grado, una soluzione
uniforme, appare dunque dettato da ragioni immanenti alla
materia trattata. A ciò non varrebbe opporre il rilievo forma‑
le che nel primo giudizio si ha a che fare con una sentenza,
provvisoriamente esecutiva per una regola più generale, spe‑
cificamente ribadita in materia, mentre nel secondo caso si ha
a che fare con un provvedimento camerale, soggetto alla di‑
sciplina dell’art. 741 c.p.c.. Non soltanto, infatti, in questo
caso il procedimento camerale è applicabile non in ragione
della natura propria della materia trattata – che non è di
giurisdizione volontaria ma contenziosa – bensì di una scelta
del legislatore, in funzione di semplificazione e accelerazione
del processo, sostanzialmente contrastante con la conclusione
alla quale si perverrebbe altrimenti; per l’altro, a giustificare
una diversa efficacia della sentenza di primo grado pronun‑
ciata a norma dell’art. 4 e del “decreto” emesso a norma
dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970 non varrebbe, come s’è
visto, l’efficacia di giudicato del provvedimento che si tratta
di modificare. La soluzione qui contrastata si porrebbe in
termini di evidente e ingiustificabile irragionevolezza, risul‑
tante non già dall’intendo legis ricostruibile da un attento
esame delle norme vigenti – che appare orientata in senso
opposto a quella conclusione – bensì come l’effetto del tutto
accidentale e indesiderato della stratificazione del tessuto
normativo, conseguente a una serie diacronica di interventi
frazionati e privi di coordinamento. A un tale esito interpre‑
tativo, che porrebbe questioni non manifestamente infondate
di costituzionalità sotto il profilo della regola del giusto pro‑
cesso, ritiene la corte di dover preferire una ricostruzione si‑
stematica della volontà del legislatore, tale da contemperare
la specialità del processo, regolato in funzione della materia,
con i principi della ragionevolezza. In sintesi, la soluzione
deve essere ricercata all’interno della disciplina processuale,
disegnata dagli articoli 4 e 9 della legge n. 898 del 1970 con
speciale riguardo alla natura della controversia che ne costi‑
tuisce l’oggetto, rimanendo l’implicito rimando alle regole del
processo camerale confinato a un ruolo meramente residuale,
per quei casi nei quali la specialità del procedimento non offra
indicazioni pertinenti.
8. In conclusione deve affermarsi il principio di diritto che,
in materia di revisione delle disposizioni concernenti l’affida‑
mento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità
dei contributi da corrispondere a seguito dello scioglimento e
della cessazione degli effetti del matrimonio, a norma
dell’art. 9 della legge n. 1 dicembre 1970 n. 898 e successive
modificazioni, il decreto pronunciato dal tribunale è imme‑
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diatamente esecutivo, in conformità di una regola più gene‑
rale, desumibile dall’art. 4 della citata legge regolativa della
materia e incompatibile con l’art. 741 c.p.c., che subordina
l’efficacia esecutiva al decorso del termine utile per la propo‑
sizione del reclamo.
9. In conclusione il ricorso è respinto. L’assenza di prece‑
denti puntuali in termini giustifica la compensazione delle
spese del giudizio tra le parti.
P.Q.M.
(Omissis)
***Nota a sentenza
1. I procedimenti di modifica delle condizioni della separazione e
del divorzio: evoluzione storico‑normativa.
Con il provvedimento che si annota le Sezione Unite della
Suprema Corte sono intervenute a comporre un contrasto
interpretativo sorto nell’ambito delle sezioni semplici, e pre‑
cisamente tra la pronuncia n. 9373 del 2011 della prima se‑
zione e quella n. 4376 del 2012 della terza sezione vertente su
una questione, di carattere processuale, di notevole rilevanza
dal punto di vista applicativo, quella, cioè, dell’esecutività
immediata o differita dei decreti di revisione delle condizioni
di divorzio.
L’esatto inquadramento della complessa problematica
rende necessario la ricostruzione del quadro storico normati‑
vo dei procedimenti di modifica delle condizioni della sepa‑
razione e del divorzio, ma soprattutto un meticoloso ed atten‑
to esame dei contrastanti orientamenti giurisprudenziali dei
giudici di legittimità per meglio comprendere l’iter argomen‑
tativo e la soluzione interpretativa elaborata dal Supremo
Consesso.
La modificabilità,1 come costantemente si afferma è un
<<principio caratteristico delle condizioni di separazione>>,
in quanto i provvedimenti conseguenti la separazione per
loro stessa natura, <<debbono tener conto dell’evolversi dei
rapporti coniugali e, per tale ragione, debbono poter variare
con il variare delle circostanze>>.
Il procedimento2 disciplinato dall’art. 710 c.p.c. costituisce
1L. ROSSI CARLEO, C. CARICATO, La separazione e il divorzio, in Trattato
di diritto privato. La crisi familiare, vol. V, t. I, a cura di T. Auletta, diretto da
M. Bessone, Torino, 2010, p.169 ss.
2L. BIANCHI, Il giudizio di modificazione delle condizioni di separazione dei
coniugi di cui all’art. 710 c.p.c., Napoli, 2012, p.13ss; V. COLUCCI, Il procedi‑
mento di cui all’art. 710 c.p.c., in Il Processo di separazione e divorzio. Rito e
prassi, Biblioteca del diritto di famiglia, collana diretta da B. De Filippis, Padova,
2011, p. 313; M. FIORINI, Se cambiano le condizioni è necessario azionare il
procedimento di revisione, in Fam. e min., 2011, p. 50ss; T. AULETTA, Sub
art. 155 ter, in Comm. cod. civ., artt. 74 ‑176, Della famiglia, I, Leggi collegate,
diretto da E. Gabrielli, a cura di L. Balestra, Milano, 2010, p. 718 ss.; Sub art. 155
ter, Libro primo, Delle persone e della famiglia, Artt. 1‑455 in Cod. civ. annota‑
to con la dottrina e la giurisprudenza, a cura di G. Perlingieri, Napoli, 2010,
p. 681 ss; M. LUPOI, Sub art. 710, in Comm. breve al cod. proc. civ., a cura di
A. Carpi, M. Taruffo, Padova, 2009, p. 2360; F. SANTOSUOSSO, Il matrimonio,
in Giur. sist. dir. civ. e comm., fondata da W. Bigiavi, Torino, 2007, p. 675; F.
TAVANO, Separati, divorziati e conviventi, Milano, 2007, p. 76; E. ZANETTI
VITALE, La separazione personale dei coniugi. Artt. 150‑158, in Comm. cod.
civ., fondato da P. Schlesinger, diretto da F. D. Busnelli, Milano, 2006, p. 582 ss.;
A. FIGONE, Modifica delle condizioni di separazione e divorzio, in Separazione
e divorzio, a cura di G. Ferrando, II, Torino, 2003, p. 900 ss;
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l’unico mezzo a disposizione di entrambe le parti per far va‑
lere i presupposti che sono alla base delle richieste di modifi‑
ca delle condizioni di separazione.3
Il previgente testo4 dell’art. 710 c.p.c. così disponeva: <<Le
parti possono sempre chiedere, con le forme del processo
ordinario, la modificazione dei provvedimenti riguardanti i
coniugi e la prole
contenuti nella sentenza, compresi quelli di cui all’art. 155
del codice civile. Non possono essere modificati i provvedi‑
menti pronunciati a norma degli articoli 156 e 202 del codi‑
ce civile>>.
Il quadro normativo è successivamente mutato con la ri‑
forma5 del diritto di famiglia del 1975. Il legislatore, oltre ad
abrogare l’art. 202, dettato in tema di beni dotali, ha modi‑
ficato l’art. 156 c.c, ammettendo la revisione delle condizioni
relative ai rapporti patrimoniali tra i coniugi separati, sia
pure per il solo sopraggiungere di giustificati motivi.
In seguito all’intervento legislativo del l. 29 luglio 1988,
n. 331 è stata modificata la procedura processuale codicistica
della separazione, prevedendosi, analogamente a quanto di‑
sposto in tema di divorzio, che la revisione delle condizioni di
separazione avviene con le forme del procedimento in camera
di consiglio.6
Importante poi, ricordare, che in sede di lavori prepara‑
tori della legge n. 338/1988 l’originaria proposta di prevedere
per il decreto camerale di modifica delle condizioni di sepa‑
razione l’immediata esecutività fu in seguito abbandonata.
Va, in particolare, evidenziato che il testo7 della norma appro‑
vato dalla seconda commissione permanente della Camera in
data 8 giugno 1988 disponeva al comma 4 che <<il provvedi‑
mento è immediatamente esecutivo>>, norma questa che ve‑
niva ad integrare il richiamo alle <<forme camerali>> conte‑
nuto nel comma 1. Detto comma 4 fu fatto oggetto di critiche
nella successiva discussione e ci si orientò per la sua elimina‑
zione.8
Il legislatore del 1970, all’art. 9 della legge del 1 dicembre
n. 898, ha previsto la possibilità che anche le sentenze di di‑
vorzio possono essere successivamente modificate9.
Il testo originario dell’art. 9 l. div. constava di due soli
commi, così formulati: <<Qualora sopravvengono giustifica‑
ti motivi dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la
cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, su
istanza di parte, può disporre la revisione delle disposizioni
concernenti l’affidamento dei figli e di quelle relative alla
misura dei contributi da corrispondersi ai sensi degli artt. 5 e
6. In caso di morte dell’obbligato, il tribunale può disporre
che una quota della pensione o di altri assegni spettanti al
coniuge superstite sia attribuita al coniuge o ai coniugi rispet‑
to ai quali sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di
cessazione degli effetti civili del matrimonio. Il Tribunale
provvede in camera di consiglio, assunte informazioni e sen‑
tite le parti ed il pubblico ministero>>.
Con l’entrata in vigore della l. 1 agosto 1978, n. 436, la
struttura dell’art. 9 l. div. divenne più articolata, ma la dispo‑
sizione riguardante il procedimento di revisione delle condi‑
zioni divorzili rimase inalterata10. L’ultimo comma dedicato
alla disciplina da seguire, venne modificato con l’esclusione
del riferimento al pubblico ministero ed all’assunzione di in‑
formazioni.
Nel frattempo la Corte Costituzionale11 aveva dichiarato
l’illegittimità del secondo comma del testo originario dell’art. 9
l. div. nella parte in cui non consentiva l’esercizio del diritto
di provare le ragioni della domanda di modifica.
Il contenuto del comma dell’art. 9 della legge del 1970 è
stato ulteriormente confermato dall’art. 13 della l. n.74 del
1987 con la precisazione che, per i provvedimenti relativi ai
figli, è necessaria la partecipazione del pubblico ministero12.
U. PERFETTI, Gli effetti patrimoniali della separazione, in La famiglia, Dirit‑
to privato nella giurisprudenza, a cura di P. Cendon, Torino, 2000, p. 232 ss.;
M. DOGLIOTTI, Separazione e divorzio. Il dato normativo. I problemi inter‑
pretativi, Torino, 1995, p. 247 ss; F. TOMMASEO, Sub art. 710 c.p.c., in
Comm. dir. it. fam.,diretto da G. Cian, G. Oppo, A. Trabucchi, Padova, 1993,
p. 580.
3 L. SPOLENTINI, La modifica delle condizioni di separazione e di divorzio,
con riferimento agli aspetti patrimoniali, in I conflitti patrimoniali della sepa‑
razione e del divorzio, in Separazione e divorzio, a cura di M. Santini, Santar‑
cangelo di Romagna, 2012, p. 246.
4 K. MASCIA, Diritto processuale della famiglia in crisi. Affidamento condiviso,
separazione, divorzio, in Il diritto applicato, collana diretta da G. Cassano,
Padova, 2008, p.177.
5 A. CENICCOLA, La revisione dei provvedimenti, in Affidamento condiviso
alla luce della Legge n. 54/2006, Collana diretta da L. VIOLA, Matelica, 2008,
p. 155.
6 G. GIACOBBE, Famiglia: molteplicità di modelli o unità categoriale, in Scritti
in memoria di V. Sgroi, a cura di G. Giacobbe, Milano, 2008, p. 228.
7L. BIANCHI, In tema di esecutività immediata del decreto che modifica le
condizioni di separazione dei coniugi, nota a Trib. Catania, I sez., 25 maggio
2010, in Giur. it, 2012, p. 1133ss.
8 Il senatore Acone nella seduta della Commissione giustizia del 1988 (Servizio
delle Commissioni Parlamentari del Senato‑ resoconto stenografico, Commis‑
sione Seconda Giustizia ‑21‑ cartella 16), nel dichiararsi contrario alla previsio‑
ne di un’esecutività immediata del decreto e all’elevazione del termine per la
proposizione del reclamo da dieci a trenta giorni, affermava testualmente:<<
non vedo ragioni per le quali in un procedimento di revisione delle condizioni
patrimoniali o dei provvedimenti relativi ai coniugi non si debba seguire la
traccia del legislatore del codice del 1940 per non frantumare in una serie di
regole particolari questo procedimento. Quindi su questo punto la mia opinio‑
ne per quanto riguarda l’esecutività immediata dei provvedimenti, è che si
debba far riferimento diretto all’art. 741 del codice. Lo stesso discorso vale per
quanto riguarda il reclamo>>.
9 M. MARINO, Separazione e divorzio. Normativa e giurisprudenza a confron‑
to, Milano, 2012, p. 308; C. DI IASI, E. PIACARONI, Procedimenti di sepa‑
razione e divorzio, in Tratt. dir. fam., Famiglia e matrimonio, I, a cura di G.
Ferrando, M. Fortino, F. Ruscello, diretto da P. Zatti, Milano, 2011, p. 1938ss;
A. MUSIO, Conseguenze patrimoniali del divorzio rispetto ai coniugi, in La
separazione, il divorzio, l’affido condiviso, in Il diritto di famiglia nella dottri‑
na e nella giurisprudenza, Trattato teorico‑ pratico, diretto da G. Autorino
Stanzione, Torino, 2011 p. 305; C. RIMINI, Sub art. 9 l. dicembre 1970, n. 898,
in Comm. cod. civ., Della Famiglia, IV, Leggi collegate, diretto da E. Gabrielli,
a cura di L. Balestra, Torino, 2010, p. 69ss; S. ANDALORO, Sub art. 9 L. div.,
in Diritto di famiglia. Profili sostanziali e processuali, a cura di M. Trimarchi,
P. Corder, Milano, 2010, p. 833; M. Rossi, Gli effetti di ordine patrimoniale
del divorzio riguardo ai coniugi, in Separazione, divorzio, invalidità del matri‑
monio. Il sistema delle tutele sostanziali e processuali, a cura di G. Cassano,
Padova, 2009, 734 ss.; S. MAGNONE CAVATORTA, sub art. 9 L. n. 898/70,
in Codice ipertestuale di separazione e divorzio, a cura di G. Bonilini, A. Chiz‑
zini, M. Confortini, Milano, 2008, p. 104 ss. G. GUERRIERI, I tuoi diritti. La
famiglia e la legge, Milano, 2005, p. 105 ss.; A. DI BENEDETTO MAURIZIO,
I procedimenti di separazione e di divorzio, in Il diritto privato oggi, a cura di
P. Cendon, Milano, 2000, p. 31ss; B. DE FILIPPIS, G. CASABURI, Separazio‑
ne e divorzio nella dottrina e nella giurisprudenza, Padova, 2001, 510ss.;C. M.
BIANCA, Sub art. 9 L. div., in Comm. dir. it. fam., diretto da C. Cian, G.
Oppo, A. Trabucchi, Padova, 1993, 464 ss.
10 A. BECCARO, I procedimenti camerali nel diritto di famiglia, in Il diritto
privato oggi, a cura di P. Cendon, Milano, 1999, p. 365.
11 Corte Costituzionale, 10 luglio 1975, n. 202, in Foro it., 1975, I, p. 1575 ss.
12 F. SANTOSUOSSO, Il divorzio, in Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, III,
Persone e famiglia, Torino, 1996, p. 369.
13 A. NASCOSI, I procedimenti di modifica delle condizioni di separazione e di
2. I Presupposti processuali
Il nostro ordinamento13, dunque, in presenza di una varia‑
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zione delle circostanze di fatto, prevede appositi strumenti
processuali i quali permettono alle parti di adeguare le con‑
dizioni legali della separazione o del divorzio alla nuova si‑
tuazione sostanziale creatasi.
Come già sottolineato i meccanismi procedurali che con‑
sentono di incidere sui provvedimenti riguardanti i coniugi e
la prole, sono regolamentati da norme distinte, ossia
dall’art. 710 c.p.c. per la modifica delle condizioni di separa‑
zione e dall’art. 9 della l. 898 del 1970 per la revisione delle
statuizioni divorzili. Per espressa previsione di tali disposizio‑
ni normative14 il procedimento si svolge in camera di consiglio
a seguito di domanda di parte la quale può essere proposta
da uno degli ex coniugi o da entrambi, normalmente sulla
base di posizioni contrastanti, ma senza escludere la possibi‑
lità che non vi siano divergenze tra le parti le quali vogliono
soltanto ottenere la ratifica del Tribunale di mutamenti con‑
cordati.
L’azione di revisione è esperibile solo dopo il passaggio in
giudicato della sentenza di separazione o di divorzio, quando
cioè è cessata l’originaria litispendenza e la sua ammissibilità
è legata al rispetto della regola per cui il giudicato copre il
dedotto e il deducibile. Ciò significa che non giustificano
l’istanza di modifica né fatti già considerati nel primo prov‑
vedimento, in quanto allegati dalle parti e valutati dal giudice,
né fatti che, pur non essendo allegati, avrebbero potuto esser‑
lo, in quanto già in essere al tempo del primo processo15.
Al riguardo si precisa16 che il passaggio in giudicato integra
un presupposto processuale in senso tecnico, e non una con‑
dizione dell’azione la cui sussistenza va accertata con riferi‑
mento al momento della domanda, non potendosi attribuire
rilievo alla sua sopravvenienza nel successivo corso del pro‑
cedimento e prima della decisione. Infatti, poiché in questa
materia le decisioni giudiziali sono sottoposte alla clausola
rebus sic stantibus, ogni novità venuta in essere nel corso del
procedimento può essere dedotta e fatta valere nell’ambito
dello stesso, senza alcuna preclusione o limite processuale17.
L’eccezione è rappresentata dalle sentenze non definitive
in punto di status, come pure da quei capi18 delle sentenze
definitive che riguardano la separazione personale, ovvero lo
scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Quelle sentenze infatti, una volta passate in giudicato, non
potranno essere oggetto di revisione, tutt’al più di revocazio‑
ne, ove ricorrono i presupposti dell’art. 395 c.p.c.
Numerosi ed eterogenei possono essere i casi che legitti‑
mano la proposizione di una modifica della regolamentazio‑
divorzio, in I processi di separazione e di divorzio, a cura di A. Graziosi, Tori‑
no, 2011, p. 349 ss.
14 B. DE FILIPPIS, G. CASABURI, op. cit., p. 516 ss.
15L. BIANCHI, Sul giudizio di revisione dell’assegno di divorzio, nota a Trib.
Modena, sez. II, 20 gennaio 2012, in Fam. pers. e succ., 2012, p. 368.
16 Cass. civ., 14 ottobre 2010, n.2145, in www.affidamento condiviso.it; App. Sa‑
lerno, 10 agosto 2007, in Fam. e dir. 2008, p. 709; Cass. civ., 21 febbraio 2007,
n. 4102, in Fam. e dir., 2007, p.550; Cass. civ, sez. I, 24 luglio 2007, n. 16398,
in www.leggiditliaprofesionale.it; Cass. civ. 22 aprile 2002, n. 5861, in Fam. e
dir., 2002, p.413; Cass. S.U., 27 luglio 1993, n. 8389, in Corr. Giur.,1993,
p.1311.
17 M. A. LUPOI, Separazione e divorzio. Attività e questioni processuali, Santar‑
cangelo di Romagna, 2011, p. 254.
18 M. DOGLIOTTI, A. FIGONE, I procedimenti di separazione e divorzio, Mi‑
lano, 2012, p. 155 ss.
2 0 1 3
31
ne19 della separazione personale o del divorzio, nelle parti
relative all’affidamento dei figli minori, al mantenimento
degli stessi, o dei figli maggiorenni, ma non economicamente
autosufficienti, al contributo dell’ex coniuge, all’assegnazione
della casa familiare.
A differenza dell’art. 9 l. div., che al primo comma, esau‑
risce la disciplina della modifica dei provvedimenti assunti in
sede di divorzio20 esigendo come presupposto i “giustificati
motivi sopravvenuti,” l’art. 710 c.p.c non indica espressamen‑
te quelli per addivenire ad una modifica dei provvedimenti di
separazione concernente i coniugi e la prole. Per tale motivo
occorre correlare l’art. 710 c.p.c. con l’art. 156, ult. com‑
ma c.c., il quale richiede, per la revoca o la modifica dei
provvedimenti patrimoniali relativi ai coniugi, il sopraggiun‑
gere di <<giustificati motivi>> e con l’art. 155 ter c.c. che at‑
tribuisce ai genitori il diritto di chiedere in ogni tempo la re‑
visione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli,
l’attribuzione dell’esercizio della potestà su di essi e delle
eventuali disposizioni relative alla misura e alla modalità del
contributo21. Tali motivi vengono immediatamente fatti coin‑
cidere con fatti nuovi sopravvenuti modificativi della situa‑
zione reale in relazione alla quale gli accordi erano stati sti‑
pulati o le sentenze erano state emesse22.
3. Le contrastanti proposte ricostruttive elaborate dai giudici di
legittimità. La posizione delle Sezioni Unite.
Gli artt. 710 c.p.c. e 9 l. div. non contengono alcun riferi‑
mento circa il provvedimento con il quale si conclude il giu‑
dizio di revisione, anche se l’opzione del rito camerale porta
a concludere che si tratti di un decreto, necessariamente mo‑
tivato23 , al quale va applicato la disciplina 24 contenuta
19 M. L. SERRA, Sulla decorrenza degli effetti del provvedimento di revisione
dell’assegno divorzile, nota a Trib. Mantova, 9 ottobre 2010, in Fam. e dir.,
2011, p. 1129 ss; C. PETITTI, Automatismo della cessazione dell’obbligo di
corresponsione dell’assegno divorzile in caso di nuove nozze del beneficiario,
nota a Trib. Bari, sez. civ., II, 2 marzo 2011, in Fam. e dir., 2011, p. 1027; D.
ACHILLE, Revisione dell’assegno di divorzio: giustificati motivi sopravvenuti
e convivenza more uxorio, nota a Cass. civ., sez. I, 22 gennaio2010, n. 1096,
in Fam. pers. e succ., 2010, p. 754; E. PATANIA, Variazione dei redditi degli
ex coniugi e procedimento di revisione dell’assegno di divorzio, nota a Cass. civ.,
sez. I, ord. 15 gennaio 2010, n. 553, in Fam. e dir., 2010, p.676ss.; A. M. DE
TULLIO, Le possibili modifiche del provvedimento legate alla sopravvenienza
di fatti nuovi, in Guida al diritto, 2008, p. 66ss.
20 A. FIGONE, Modifica delle condizioni di separazione e divorzio, in Giur. si‑
stem., dir. civ. e comm., fondata da W. Bigiavi, Torino, 2003, p. 910.
21 K. MASCIA, La modificazione delle condizioni di separazione e la revisione
delle statuizioni sul divorzio(con particolare riferimento all’affidamento della
prole), in L’affidamento dei figli nella crisi della famiglia, a cura di M. Sesta e
A. Arceri, Milanofiori Assago, 2012, p. 949 ss.
22Trib. Napoli, 10 marzo 2010, in Corr. Merito, 2010, p. 602; Cass. 21 dicembre
2007, n. 27082, in Rep. Foro it.,voce Matrimonio, 2008, 140;Trib. Verona,
decr. 15 novembre 2002, in Giur. mer., 2003, p. 1978.
23E. BET., Questioni processuali nell’ambito dei giudizi di separazione e divorzio,
in Rivista dell’AIAF, 2004, p.82 ss.; C. IASI,I procedimenti successivi alla se‑
parazione e al divorzio, in Tratt. dir. famiglia, diretto da P. Zatti, Milano, 2002,
p. 1467 ss.
24E. VULLO, Sub art. 710 c.p.c., Procedimenti in materia di famiglia e stato
delle persone, in Comm. cod. proc. civ, a cura di S. Chiarloni, Bologna, 2011,
p. 376 ss.; A. JANNUZZI, P. LOREFICE, La volontaria giurisdizione, Milano,
2006, p. 59 ss; A. CARRATTA, Modifica delle condizioni del divorzio e inter‑
pretazione “costituzionalmente plausibile” dell’art. 9 l. div., nota a Cass. civ.,
sez. I, 25 ottobre 2000, n. 14022, in Fam. e dir., 2001, p. 395 ss; R. RIGONI,
I procedimenti exart.710 c.p.c. e 9, co., l.898/1970, in Separazione, divorzio,
annullamento, opera diretta da G. Sicchiero, Bologna, 2005, p. 891 ss.; M. G.
CIVININI, I procedimenti in camera di consiglio II, Torino, 1994, p. 578; C.
PUNZI, La modifica dei provvedimenti relativi alla separazione dei coniugi (a
proposito della L. 29 luglio 1988 n. 331), in Riv. dir. proc., 1989, p. 639 ss.; F.
civile
Gazzetta
32
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
nell’art. 741 c.p.c. Gli effetti, dunque, si producono solo con
il decorso del termine per proporre reclamo, ossia dieci gior‑
ni dalla notificazione, salvo che il giudice non gli attribuisca
efficacia immediata.
Ogni esecuzione, può aver luogo esclusivamente sulla
base di un titolo esecutivo25 che consiste o in un provvedimen‑
to giurisdizionale o in un altro atto cui la legge attribuisce
tale requisito. Secondo il tenore letterale dell’art. 474, com‑
ma 2, n. 1 c.p.c., il provvedimento emesso dal tribunale
all’esito del procedimento di modifica delle condizioni di se‑
parazione e di divorzio non è incluso tra quelli a cui va rico‑
nosciuta l’efficacia di titolo esecutivo.
È quasi superfluo ricordare come da tempo la giurispru‑
denza, elaborando il principio della prevalenza della sostanza
dell’atto processuale sulla forma prevista dalla legge o datagli
dal giudice, abbia attribuito natura di sentenza a provvedi‑
menti che, per quanto rivestiti d’una forma diversa, sono
“decisori” incidendo in modo definitivo e irrevocabile su di‑
ritti soggettivi con statuizioni idonee ad acquistare l’autorità
della cosa giudicata 26.
Di recente, poi, la giurisprudenza ha avuto l’occasione di
precisare27 che al decreto emesso all’esito del procedimento
per la modifica delle condizioni di separazione personale dei
coniugi disciplinato dall’art. 710 c.p.c. si deve riconoscere la
natura di titolo esecutivo ai sensi dell’art. 474 c.p.c., anche in
mancanza del decorso dei termini previsti per esperire il re‑
clamo o anche in pendenza di quest’ultimo e salva la possibi‑
lità della concessione della sospensione della provvisoria
esecuzione da parte del giudice di appello. Ed ancora che il
decreto emesso all’esito del procedimento di modifica delle
condizioni di una separazione sarebbe sempre dotato di effi‑
cacia esecutiva, stante la presenza di un sistema normativo
complessivamente volto ad attribuire immediata esecutività
ai provvedimenti, anche provvisori, emessi nell’ambito del
giudizio di separazione28.
Tale orientamento è stato contraddetto da una successiva
pronuncia 29 della Corte di Cassazione alla cui posizione ha
aderito anche la giurisprudenza di merito30.
Secondo questo filone interpretativo i decreti di modifica
delle condizioni della separazione e del divorzio non sono
immediatamente esecutivi, ma acquistano efficacia quando
sono decorsi i termini di cui agli artt. 739 e 740 c.p.c. senza
che sia stato proposto reclamo necessitando, quindi, di una
clausola di esecutorietà del provvedimento.
Nella sopraindicata pronuncia, la Corte evidenzia la par‑
ziale impermeabilità tra le disposizioni in materia di separa‑
zione e quelle in materia di divorzio, criticando giustamente
CIPRIANI, Procedimento camerale e diritto alla difesa, in Riv. dir. proc., 1974,
p. 193 ss.
25 F. DE STEFANO, Esecuzione degli altri provvedimenti, in L’esecuzione dei
provvedimenti in materia di separazione e divorzio, in Biblioteca del diritto di
famiglia, collana diretta da B. De Filippis, Padova, 2010, p. 155 ss.
26 F. TOMMASEO, Sui titoli idonei per iscrivere ipoteca giudiziale a garanzia
delle obbligazioni assunte nella separazione e nel divorzio, nota a Trib. Vicenza,
decr. 27 maggio 2010, in Fam. e dir., 2011, p. 292.
27Trib. Catania, I sez., 25 maggio 2010, in Giur.it, 2012, p. 1132 ss.
28Trib. Civitavecchia, 15 febbraio2008, n. 152,in Merito, 2008, p. 7.
29 M. GOZZI, La Corte di Cassazione esclude la provvisoria esecutività dei prov‑
vedimenti di modifica delle condizioni della separazione e del divorzio, nota a
Cass. civ., Sez. I, 27 aprile 2011, n. 9373, in Riv. dir. proc., 2012, p. 242 ss.
30Trib. Torino, 28 agosto 2012, in Il caso.it.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
la scelta del legislatore di affrontare le riforme del processo
familiare attraverso innesti parziali, spesso non perfettamen‑
te comunicanti e senza introdurre una disciplina di carattere
omogeneo. La tendenza legislativa ad uniformare la disciplina
della separazione personale a quella del divorzio, in forza del
ben noto art. 23 della l. n.74/1987, non può spingersi, invero,
al punto da ritenere estensibile ai giudizi di modifica delle
condizioni di separazione il disposto dell’art. 4, comma 14, l.
n. 898/1970 ove è stabilito che << per la parte relativa ai pro‑
cedimenti di natura economica la sentenza di primo grado è
provvisoriamente esecutiva>>. La norma fa riferimento “alla
sentenza” ossia al provvedimento, che definisce un giudizio
contenzioso, con esclusione del “decreto” proprio del rito
camerale. Rimangono, dunque, estranei alla previsione31 tan‑
to la disciplina dei procedimenti di modifica del regime di
divorzio, inserita nella l. 898/70, art. 9, quanto quella dei
procedimenti di modifica delle condizioni di separazione di
cui all’art. 710 c.p.c. Entrambi gli articoli richiamano espres‑
samente la disciplina dei procedimenti in Camera di Consi‑
glio, ossia gli artt. 737 e ss. c.p.c, e di essa dunque anche la
previsione dell’esecutorietà, solo ad opera del giudice ai sensi
dell’art. 741 c.p.c. Certo che rispetto ad una generalizzata
esecutorietà delle sentenze di primo grado la non esecutività
del decreto di modifica delle condizioni di separazione e di‑
vorzio appare come un residuo affatto eccezionale che però si
sostanzia in una scelta precisa voluta dal legislatore. A riguar‑
do gli Ermellini32 hanno sottolineato la necessità di una riso‑
luzione parlamentare non trattandosi di una questione di le‑
gittimità costituzionale. In effetti i giudici della Consulta non
potrebbero che riportarsi alla decisione del legislatore di at‑
tribuire o meno ai procedimenti di modifica delle condizioni
di separazione e divorzio, le forme e gli effetti di quelli in
camera di consiglio.
A poco meno di un anno di distanza i giudici di Piazza
Cavour hanno finalmente e totalmente mutato la loro prece‑
dente posizione33 attribuendo efficacia esecutiva immediata al
decreto di chiusura del procedimento di modifica delle con‑
dizioni di separazione tanto consensuale che giudiziale, 34
sulla base di un’ attenta disamina della disciplina contenuta
nell’art. 710 c.p.c.
La Suprema Corte nel fondare la suddetta pronuncia ha
fatto leva principalmente sullo scopo seguito dal legislatore
nella riforma del 1988 e quindi al suo intento di snellire le
forme del procedimento di revisione delle condizioni di sepa‑
razione e garantire così una tutela più celere alla parte preci‑
sando, però, che il legislatore ha omesso di rinviare sic et
simpliciter agli artt. 737 c.p.c. al fine di contemperare la
scelta della tutela camerale35 con l’essere le situazioni coinvol‑
31 D. RAVENNA, L’assegno di mantenimento del coniuge e dei figli, Santarcan‑
gelo di Romagna, 2012, p.173.
32 M.E. BAGNATO, Non è immediatamente esecutiva la sentenza che modifica
le condizioni della separazione, nota a Cass. civ., sez. I, 27 aprile 2011,
n. 9373,in Altalex.
33 F. BOCCHINI, Diritto di famiglia. Le grandi questioni, Torino, 2013, p. 196,
n. 29; G. CONTIERO, Il trattamento economico del coniuge nella separazione
e nel divorzio, Milano, 2013, p. 142.
34 Cass. civ., sez. III, 20 marzo 2012, n. 4376, in Dir. di fam., 2012, p. 1525.
35P. PALEARI, La guerra dei Roses… sull’immediata esecutività del provvedi‑
mento di modifica, nota a Cass. civ.,sez. III., 20 marzo 2012, n. 4376, in Dirit‑
to e Giustizia, 2012, p. 329.
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
te di diritti soggettivi. I giudici di legittimità hanno chiarito
che il ricorso alla cameralizzazione nel testo novellato
dell’art.710 c.p.c. viene fatto in modo selettivo e la tutela ca‑
merale trova applicazione solo ove sia direttamente, o indi‑
rettamente, prevista. Pertanto, anche se l’art. 710 comma 1
c.p.c., richiama le forme del procedimento in camera di con‑
siglio, contempla una serie di disposizioni che si discostano
dal procedimento camerale generale. Infatti, il secondo com‑
ma dell’art. 710 c.p.c. prevede la necessaria audizione delle
parti mentre l’articolo 738 c.p.c. stabilisce che il giudice <<può
assumere informazioni>>per cui l’effettività dello svolgimen‑
to del contraddittorio sarebbe in tal caso soltanto eventuale.
Inoltre, sempre il secondo comma prevede l’eventualità
dell’ammissione dei mezzi istruttori con ciò evocando la di‑
sciplina dei mezzi probatori della cognizione piena e non
un’istruzione sommaria deformalizzata, quale è quella sotte‑
sa alle informazioni. Il terzo comma, a sua volta, prevede il
potere, anche officioso dl giudice, di adottare provvedimenti
anticipatori della tutela che dovrà scaturire dalla decisione
finale, laddove nello schema generale della tutela camerale36
come disciplinato dagli art. 737 e ss. c.p.c. non è prevista al‑
cuna possibilità di provvedimenti anticipatori di tutela.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, dunque, se il
legislatore consente una tutela anticipatoria nel corso del
procedimento di modifica anche il provvedimento che lo
conclude, al di là di una espressa previsione normativa, deve
intendersi immediatamente esecutivo.
Da altro canto il principio dell’effettività della tutela giu‑
risdizionale, ricavabile dal disposto dell’art. 24 Cost., implica
che alla valutazione del legislatore circa la necessità di una
tutela anticipatoria rispetto alla definizione del giudizio, ne‑
cessariamente deve corrispondere un’analoga valutazione di
immediatezza della tutela esecutiva sulla base del provvedi‑
mento definitivo. È allora logico che il provvedimento che
chiude il procedimento di modifica delle condizioni della se‑
parazione, il quale si sostituirebbe a quello anticipatorio a
seguito della sua semplice emanazione abbia anch’esso la
medesima efficacia di quest’ultimo e ciò ad evitare che quan‑
to ottenuto in seguito allo svolgimento di una cognizione che
si è detto essere sommaria, venga meno dopo lo svolgimento
di indagini maggiormente approfondite. 37
Il contrasto giurisprudenziale, come già anticipato, esi‑
stente tra le sezioni semplici della Corte, è stato definitiva‑
mente composto con la sentenza38 n. 10064/2013 delle Sezio‑
ni Unite della Cassazione, che correttamente, attribuisce effi‑
cacia esecutiva immediata al decreto camerale conclusivo del
procedimento di modifica delle condizioni di divorzio.
L’intervento chiarificatore della Corte muove da una rico‑
struzione sistematica della volontà del legislatore, tale da
contemperare la specialità del processo, regolato in funzione
della materia trattata, con i principi della ragionevolezza.
36L. AVIGLIANO, Revisione e modifica delle condizioni di separazione. Sintesi
ed approfondimento, in Ventiquattrore avvocato, 2013, p. 14 ss.
37 F. CASTELLI, Efficacia esecutiva immediata per i provvedimenti di modifica
delle condizioni della separazione, nota a Cass. civ., 20 marzo 2012, n. 4376,
in Il dir. di fam. e delle pers., 2012, p. 1543ss.
38 M. FINOCCHIARO, Non si può attribuire al giudizio di revisione un tratta‑
mento diverso rispetto al primo grado, nota a Cass., sez. Un., 26 aprile 2013,
n. 10064, in Guida al diritto, 2013, p. 21 ss.
2 0 1 3
33
Invero, la Corte valorizza la scelta del legislatore di sotto‑
porre ad una disciplina unitaria le ordinanze interinali pro‑
nunciate dal presidente e dall’istruttore nei giudizi di separa‑
zione e di divorzio. Tali provvedimenti, ai sensi dell’art. 189
disp. att. c.p.c., richiamato dall’art. 4, comma 8 l. div., sono
immediatamente esecutivi e quindi costituiscono titolo esecu‑
tivo. Tale esecutorietà opera fino alla decisione della lite o
comunque fino ad una diversa statuizione del giudice istrut‑
tore. Il secondo comma della norma specifica, poi, che tali
provvedimenti conservano la loro efficacia anche dopo l’estin‑
zione del processo finché non sia sostituita con altro provve‑
dimento emesso dal presidente o dal giudice istruttore a se‑
guito di nuova presentazione della domanda.
La differenza sostanziale tra il regolamento contenuto nei
provvedimenti urgenti e quello contemplato nella sentenza del
tribunale consiste esclusivamente nell’idoneità di quest’ultimo
ad acquisire efficacia di giudicato sia pure rebus sic stantibus.
Secondo il Supremo consesso la stretta connessione ravvi‑
sabile tra il giudizio di scioglimento o di cessazione degli ef‑
fetti del matrimonio e quello di revisione impone una soluzio‑
ne uniforme relativamente agli effetti esecutivi del provvedi‑
mento di modica delle condizioni di divorzio, dettata da ra‑
gioni immanenti alla materia trattata.
Una conclusione diversa da quella prospettata si porrebbe
in termini di evidente e ingiustificabile irragionevolezza, ri‑
sultante non già dall’intentio legis ricostruibile da un attento
esame delle norme vigenti, ma come l’effetto del tutto acci‑
dentale e indesiderato della stratificazione del tessuto norma‑
tivo, conseguente a una serie di interventi frazionati nel
tempo e privi di coordinamento.
Da tempo ormai, anche in seguito agli interventi della
Corte Costituzionale39, è superata l’idea che la volontaria
giurisdizione 40 la quale si estrinseca nell’adozione del rito
camerale rifletta la gestione di meri interessi e non di diritti
soggettivi41.
I procedimenti di revisione di separazione e di divorzio
presentano indubbia natura42 contenziosa che si esplica a
39L. BIANCHI, Sulla ricorribilità in Cassazione del decreto della Corte d’Appel‑
lo, di modifica delle condizioni di separazione dei coniugi, nota a Cass. civ., sez.
I, 17 maggio 2012, n. 7770, in Fam. pers. e succ., 2012, p. 682 ss.
40 R. TARANTINO, Procedimenti in camera di consiglio e tutela dei diritti con‑
nessi, in Il giusto processo civile, 2011, p. 217 ss.; L. COMOGLIO, Difesa e
contraddittorio nei procedimenti in camera di consiglio, in Riv. dir. proc., 1997,
p.720; A. PROTO PISANI, Usi ed abusi della procedura camerale ex art. 737
e segg. c.p.c. (appunti sulla tutela giurisdizionale dei diritti e sulla gestione di
interessi devoluta al giudice), in Riv. dir. civ.,1990, I, 393 ss; A. CERINO
CANOVA, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di
giurisdizione volontaria, in Studi diritto processuale civile, Padova, 1992, p. 46
ss.; V. DENTI, La giurisdizione volontaria rivisitata, in Riv. trim. dir. proc.
civ.,1987, p. 325.
41 A. FIGONE, I provvedimenti di modifica delle condizioni della separazione (e
del divorzio) non sono immediatamente esecutivi, essendo soggetti alla disci‑
plina di cui all’art. 741 c.p.c, nota a Cass. civ., 27 aprile 2011, n. 9373, in Ri‑
vista dell’AIAF, 2012, p. 52 ss.
42 G. BONILINI, La revisione dei provvedimenti accessori alla pronunzia di di‑
vorzio, in Lo scioglimento del matrimonio, Artt. 149 e L. 1 dicembre 1970,
n. 898, in Comm. cod. civ., fondato da P. Schlesinger, diretto da F.D. Busnelli,
Milano, 2010, p. 841 ss; T. SALVIANI, sub art. 9 l. 1 dicembre 1970, n. 898,
in Comm. breve dir. fam., a cura di A. Zaccaria, Padova, 2008, p. 1423 ss.; F.
SCARDULLA, La separazione personale dei coniugi ed il divorzio, Milano,
2008, p. 691ss; D. CULOT, Diritto processuale di famiglia, in Sapere diritto,
collana diretta da P. Cendon, Padova, 2008, p. 547; A. UTZERI, La pendenza
dei termini per la proposizione del reclamo non esclude l’immediata esecuto‑
rietà del decreto pronunciato a norma dell’art. 710 c.p.c., nota a Trib. Civita‑
vecchia, 15 febbraio 2008, in Il merito, 2008, p. 10ss; G. PAGLINI, I procedi‑
civile
Gazzetta
34
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
contraddittorio pieno delle parti ed i decreti che li definiscono
hanno funzione decisoria, sì da essere equiparabili a sentenze
in senso sostanziale. Il ricorso alle forme del rito camerale
risponde all’esigenza di evitare alle parti i tempi ed i costi del
processo a cognizione ordinaria.43
Tali procedimenti si inseriscono in un quadro normativo 44
caratterizzato dalla pronuncia di provvedimenti tutti conno‑
tati dall’immediata esecutività, quali:
• le clausole della separazione consensuale omologata
(art. 711, comma 4, c.p.c.);
• le sentenze di primo grado del giudizio di separazione e
divorzio (art. 282 c.p.c. e 4 comma, comma 14, legge
898/1970);
• il provvedimento d’ingiunzione emesso dal Presidente del
Tribunale (art. 148, comma 3, c.c.).
Con l’entrata in vigore, avvenuta il gennaio 2013, della
legge 10 dicembre 2012, n. 219 ha trovato attuazione un di‑
segno di politica legislativa45 che, muovendo da quanto esige
il dettato dell’art. 30 Cost., ha voluto dare alla filiazione na‑
turale una condizione giuridica identica a quella finora attri‑
buita alla filiazione legittima. Sono state così cancellate
quelle discriminazioni che, per quanto fortemente attenuate
dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 e dalla legge
sull’affidamento condiviso, ancora mortificavano lo status dei
figli nati fuori dal matrimonio.
Volendo, allora, dare uno sguardo fugace alle sole disposi‑
zioni processuali contenute nel nuovo testo dell’art. 38 di‑
sp. att., emerge al comma che i provvedimenti relativi ai mino‑
ri, la cui competenza è stata attribuita al Tribunale ordinario,
sono “trattati in camera di consiglio” e “sono immediatamen‑
te esecutivi” sempre che il giudice disponga diversamente.
Autorevole dottrina,46 già da tempo ha fatto notare, con
riferimento all’istituto della separazione personale, l’incom‑
prensibile anomalia sussistente nel sistema normativo vigente il
quale sancisce l’immediata esecutività dei provvedimenti adot‑
tati in limine o nel corso del procedimento al pari della senten‑
za che conclude il giudizio di separazione, quella dei provvedi‑
menti adottati dal Tribunale in pendenza del procedimento di
revisione e non l’ efficacia esecutiva immediata delle decisioni
adottate dallo stesso Tribunale le quali possono eseguirsi coat‑
tivamente solo ove sia mancato contro le stesse un reclamo alla
Corte d’Appello con l’ulteriore singolarità che saranno imme‑
diatamente esecutivi i provvedimenti provvisori della Corte
d’Appello, ma non la decisione finale del primo giudice.
L’efficacia esecutiva dei capi del decreto di revisione, inve‑
menti di modifica delle condizioni di separazione e di divorzio, Milano, 2006,
p. 117;A. DANOVI GALIZIA, Le conseguenze patrimoniali del divorzio. II.
La tutela dell’assegno, in La famiglia: realità e diritto, a cura di A. Danovi
Galizia, M. Dossetti, M. Moretti, M.S. Sacchi, Piacenza, 2003, p.128 ss; R.
THOMAS, M. BRUNO, I provvedimenti a tutela dei minori, Milano, 1998,
p. 60; Cass. civ. 18 agosto 2006, n. 18187, in Foro it., 2006, p. 3346; Cass. civ.,
18 ottobre 1991, n. 11042, in Rep. Foro.it, voce Matrimonio, 1991, n. 266.
43 C. RIMINI, Famiglia, Milano, 2012, p. 413ss.
44 C. PADALINO, Modifica delle condizioni di separazione e divorzio, Torino,
2011, p. 152 ss.
45 F. TOMMASEO, La nuova legge sulla filiazione: i profili processuali, in Fam.
e dir., 2013, p. 251 ss.; G. DE MARZO, Novità legislative in tema di affida‑
mento e di mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio: profili processua‑
li, in Foro it., 2013, p.12 ss.
46 M. FINOCCHIARO, Sui provvedimenti in materia di famiglia e minori intro‑
dotta una vera e propria anomalia nel sistema, nota a Cass. civ., sez. I, 27
aprile 2011, n. 9373, in Guida al diritto, 2011, p. 32ss.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
ro, deve trovare la propria disciplina nelle regole speciali dei
giudizi di separazione e di divorzio, regole che, come si è
cercato di dimostrare, sul punto danno l’univoca indicazione
per cui tutti i provvedimenti47 relativi alla crisi dei rapporti
coniugali hanno immediata efficacia di titolo esecutivo. Si
tratta di un efficacia che deriva dalla pubblicazione del prov‑
vedimento e non anche, come per il decreto camerale assog‑
gettato alla disciplina dell’art. 741 c.p.c.
Come sopra evidenziato, l’art. 4 l. 01.12.1970, n. 898,
comma 14, introdotto dalla l. 14.05.2005, n. 80, che ripro‑
duce il contenuto del comma 11, autorizza a considerare, la
sentenza di divorzio di primo grado come titolo esecutivo ai
sensi del terzo libro del codice di rito.
La disposizione, inserita con la legge di riforma del 1987,
costituiva all’epoca una deroga alla regola generale che attri‑
buiva efficacia esecutiva alle sole decisioni pronunciate in
appello o in un unico grado. Con la sua introduzione si era
certamente voluto fornire un avanzamento di tutela, volto a
garantire la realizzazione immediata dei provvedimenti di
natura economica enunciati dalla sentenza48. Se dunque la
ratio del legislatore del divorzio è da ravvisarsi nell’esigenza
di assicurare una particolare forma di tutela al provvedimen‑
to conclusivo, evidentemente per la specialità dell’oggetto sul
quale quest’ultimo incide, la medesima regola non può che
applicarsi anche ai procedimenti di revisione o modifica che
su quelle stesse situazioni soggettive vanno ad operare49.
Successivamente la legge 26 novembre 1990 n. 353 ha ri‑
formato il processo civile ed ha riscritto l’art. 282 c.p.c. il
quale stabilisce con formula di portata generale, essere la sen‑
tenza di primo grado “provvisoriamente esecutiva tra le parti,”
formula rispetto alla quale la regola contenuta nella legge di
divorzio ha acquistato valore meramente ricognitivo50.
Concludendo, allora, non si può, fare a meno di sottoline‑
are ed apprezzare la validità e la coerenza della scelta operata
dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, che facendo proprie
le teoriche ricostruttive elaborate da autorevole dottrina e
muovendosi nel solco tracciato da attenta giurisprudenza, con
un approccio sistematico e alla luce dei principi generali è
riuscita ad armonizzare il regime del provvedimento di revi‑
sione con quello previsto, in via generale dalla legge sul divor‑
zio per la sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti
civili del matrimonio.
Una diversa soluzione interpretativa, invero, sarebbe stata
in contrasto con il principio di uguaglianza dettato dall’art. 3
Cost. perché si risolverebbe in un “evidente disparità di trat‑
tamento tra situazioni analoghe per le quali si rende necessa‑
ria identica tutela”.
47 F. TOMMASEO, Sull’efficacia di titolo esecutivo dei decreti che rivedono le
condizioni della separazione coniugale, nota a Cass. civ., Sez. I, 27 aprile 2011,
n. 9373, in Fam. e dir., 2011, p. 877 ss.
48V. CARNEVALE, LA fase a cognizione piena, in I processi di separazione e
divorzio, a cura di A. Graziosi, Torino, 2011, p.116; V. ACHILLI, Il procedi‑
mento di divorzio, in Separazione, divorzio, invalidità del matrimonio. Il siste‑
ma delle tutele sostanziali e processuali, in Il diritto applicato – I grani temi, a
cura di G. Cassano, Padova, 2009, p.670.
49 F. DANOVI, Sull’immediata esecutorietà del decreto di modifica delle condi‑
zioni di separazione e divorzio, nota ad App. Milano, 25 febbraio 2004, in Il
diritto di famiglia e delle persone, 2005, p. 854 ss.
50 S. NARDELLI, Sospensione dell’efficacia dei decreti di revisione delle condi‑
zioni di separazione, nota ad App. Milano, 25 febbraio 2004, in Fam. e dir.,
2005, p. 525ss.
F O R E N S E
●
Il diritto del minore
al risarcimento
del danno da nascita
con malformazione
congenita
Nota a Cassazione civile, III sez.,
sentenza 2 ottobre 2012 n. 16754.
● Michele Palagano
Dottore in giurisprudenza
m a g g i o • g i u g n o
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35
Responsabilità civile – Causalità (nesso di) – Danno da nascita in‑
desiderata – Soggetti legittimati a domandare il risarcimen‑
to – Persona nata con malformazioni – Sussistenza
Nel caso in cui il medico ometta di segnalare alla gestante
l’esistenza di più efficaci test diagnostici prenatali rispetto a
quello in concreto prescelto, impedendole così di accertare
l’esistenza di una malformazione congenita del concepito,
quest’ultimo, ancorché privo di soggettività giuridica fino al
momento della nascita, una volta venuto ad esistenza ha il
diritto, fondato sugli art. 2, 3, 29, 30 e 32 cost., ad essere ri‑
sarcito, da parte del sanitario, del danno consistente nell’esse‑
re nato non sano, rappresentato dall’interesse ad alleviare la
propria condizione di vita impeditiva di una libera estrinseca‑
zione della personalità, a nulla rilevando né che la sua patolo‑
gia fosse congenita, né che la madre, ove fosse stata informata
della malformazione, avrebbe verosimilmente scelto di abor‑
tire.
Cass. civ., sez. III, 02 ottobre 2012, n. 16754
(Omissis)
Svolgimento del processo
1. Nel febbraio del 1999 B.O.M. e O. M., in proprio e
nella qualità di genitori esercenti potestà sulle figlie minori G.,
L. e Ma., convennero in giudizio dinanzi al tribunale di Tre‑
viso il ginecologo D. P. e la USSL (OMISSIS) di Castelfranco
Veneto, esponendo:
• Che la signora B., appena consapevole del proprio stato di
gravidanza, si era rivolta al dott. D. chiedendo di essere
sottoposta a tutti gli accertamenti necessari ad escludere
malformazioni del feto;
• Che la nascita di un bimbo sano era stata rappresentata al
sanitario come condizione imprescindibile per la prosecu‑
zione della gravidanza;
• Che il dott. D. aveva proposto e fatto eseguire alla gestan‑
te il solo "Tritest", omettendo di prescrivere accertamenti
più specifici al fine di escludere alterazioni cromosomiche
del feto;
• Che nel settembre del 1996 era nata la piccola Ma., affet‑
ta da sindrome di Dawn. Il ginecologo, nel costituirsi,
contestò analiticamente tutti gli addebiti, chiedendo nel
contempo l’autorizzazione alla chiamata in causa della
propria compagnia assicuratrice.
Si costituì in giudizio anche l’azienda sanitaria, lamentan‑
do, in rito, la nullità del libello introduttivo attoreo (per man‑
cata specificazione delle ragioni di fatto e di diritto sui quali
era fondata la domanda risarcitoria) e la carenza di legittima‑
zione attiva delle minore, eccependo poi, nel merito, il regi‑
me – cd. in extra moenia – nel quale il medico aveva, da libero
professionista, assistito l’attrice. L’azienda contestò, ancora nel
merito, la stessa fondatezza della pretesa risarcitoria, per resi‑
stere alla quale chiese anch’essa il differimento della prima
udienza, onde chiamare in causa le proprie compagnie assicu‑
rative succedutesi nel rapporto di garanzia durante l’anno
1996.
L’Assitalia (compagnia assicuratrice del dott. D.), nel co‑
stituirsi, aderì in toto alle difese del proprio assicurato.
Le Assicurazioni Generali (originaria assicuratrice della
USL) eccepì, all’atto della costituzione in giudizio, la cessazio‑
ne degli effetti della polizza stipulata con la struttura sanitaria
civile
Gazzetta
36
D i r i t t o
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p r o c e d u r a
nel 30 giugno 1996; declinò ogni responsabilità vicaria per i
fatti successivi a tale data; fece proprie, nel merito, le difese
della propria garantita – salva richiesta, in caso di condanna
del sanitario, di essere da questi rimborsata di quanto even‑
tualmente tenuta a corrispondere agli attori.
La RAS (succeduta alle Generali nel rapporto assicurativo
con l’unità sanitaria) eccepì, in limine, la non operatività
della polizza, per essere la vicenda di danno lamentata dagli
attori riferibile ad un’epoca anteriore alla data del suo subin‑
gresso alla precedente compagnia, contestando poi nel merito
le pretese risarcitorie nell’an, nel quantum, nel quivis.
Il giudice di primo grado, previa declaratoria di difetto di
legittimazione attiva della minore O.M., respinse la domanda
dei genitori e dei fratelli.
2. La corte di appello di Venezia, investita del gravame
proposto dagli attori in prime cure, lo rigettò:
• sul punto del ritenuto difetto di legittimazione attiva di
O. M., facendo propri alcuni passi della motivazione
della sentenza 14888/2004 con la quale questa Corte di
legittimità aveva respinto una analoga richiesta, affer‑
mando il principio di diritto a mente del quale verifica‑
tasi la nascita, non può dal minore essere fatto valere
come proprio danno da inadempimento contrattuale
l’essere egli affetto da malformazioni congenite per non
essere stata la madre, per difetto di informazione, messa
in condizione di tutelare il di lei diritto alla salute facen‑
do ricorso all’aborto;
• con riferimento alla pretesa risarcitoria dei familiari,
fondata sul preteso inadempimento contrattuale del sa‑
nitario, ritenendo quest’ultimo del tutto esente da colpa.
Nel rigettare la detta pretesa, la corte lagunare osserverà,
in particolare:
• che, nella specie, la sola indicazione del cd. "tritest"
quale indagine diagnostica funzionale all’accertamento
di eventuali anomalie fetali doveva ritenersi del tutto
giustificata, alla luce dell’età della signora B. (al tempo
dei fatti soltanto ventottenne) e dell’assenza di familiari‑
tà con malformazioni cromosomiche, onde l’esecuzione
di un test più invasivo come l’amniocentesi (che la parto‑
riente conosceva "per sentito dire") avrebbe potuto esse‑
re giustificata soltanto da una esplicita richiesta, all’esito
di un approfondito colloquio con il medico sui limiti e
vantaggi dei test diagnostici, mentre non risultava nè
provato nè allegata la richiesta di sottoposizione a tale
esame;
• che l’accertamento di una malformazione fetale "non è di
per sè sufficiente a legittimare un’interruzione di gravi‑
danza", posto che, nella specie, tale interruzione sarebbe
stata praticata nel secondo trimestre, mentre la sussisten‑
za dei relativi presupposti di legge, L. n. 194 del 1978, ex
art. 6 non era neppure stata adombrata dagli attori, onde
nessuna prova poteva dirsi legittimamente acquisita al
processo in ordine alla esposizione della donna a grave
pericolo per sua la vita o per la sua salute fisica o psichi‑
ca in caso di prosecuzione della gravidanza nella consa‑
pevolezza della malformazione cromosomica del feto;
• che lo "spostamento" della quaestio iuris sul versante
della carenza di informazione, operato in sede di appello,
doveva ritenersi del tutto estraneo e diverso rispetto alla
fattispecie sì come originariamente rappresentata in fun‑
c i v i l e
Gazzetta
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zione risarcitoria: non era stata, difatti, censurata, con il
libello introduttivo, la privazione del diritto di scelta
della puerpera a causa di esami fatti male o non fatti,
bensì l’inadempimento della prestazione sanitaria richie‑
sta dalla signora B. al dott. D..
3. La sentenza è stata impugnata da tutti i componenti
della famiglia O. con ricorso per cassazione articolato in sei
motivi.
Resistono con controricorso D.P., le Assicurazioni Gene‑
rali, l’Ina Assitalia, L’Allianz, l’Azienda sanitaria USSL
(Omissis) di Asolo.
Le parti ricorrenti e le resistenti Assitalia e Allianz, hanno
depositato memorie illustrative
Motivi della decisione
1. Devono essere in limine esaminate le due preliminari
questioni processuali poste al collegio dalla difesa della con‑
troricorrente USSL (Omissis).
Entrambe appaiono prive di pregio.
(Omissis)
2. Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 345 e 346 c.p.c. – Vizio logico di
motivazione.
Il motivo è fondato.
(Omissis)
3. Con il secondo motivo, si denuncia:
a) violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1223 c.c.
per mancato accertamento dell’inadempimento contrat‑
tuale rispetto alla richiesta di diagnosi e al dovere di for‑
nirla e di dare corretta informazione circa l’inidoneità
degli esami previsti in funzione della diagnosi richiesta;
mancata motivazione sul punto;
b) violazione dell’art. 32 Cost., commi 1 e 2.
e) violazione dell’art. 2697 c.c. in ordine al riparto degli
oneri probatori relativi all’adempimento del dovere di in‑
formazione preventiva circa i limiti oggettivi di affidabi‑
lità delle metodiche alternative alla diagnosi suggerite Il
motivo è fondato.
Risulta provato (anche all’esito della mancata contestazio‑
ne, sul punto, da parte del medico oggi resistente, non poten‑
dosi ritenere tale la generica affermazione di stile, contenuta
nell’atto di costituzione in giudizio del dott. D., volta alla
"contestazione analitica di tutti gli assunti di parte attrice")
che la gestante avesse espressamente richiesto un accertamen‑
to medico‑diagnostico per esser resa partecipe delle eventua‑
li malformazioni genetiche del feto, così da poter interrompe‑
re la gravidanza.
Oggetto del rapporto professionale medico‑paziente do‑
veva, pertanto, ritenersi, nella specie, non un accertamento
"qual che esso fosse", compiuto all’esito di una incondiziona‑
ta e incomunicata discrezionalità da parte del sanitario,
bensì un accertamento doppiamente funzionale alla diagnosi
di malformazioni fetali e (condizionatamente al suo risultato
positivo) all’esercizio del diritto di aborto.
(Omissis)
Gazzetta
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4. Con il terzo motivo, si denuncia violazione e falsa applica‑
zione dell’art. 2729 c.c. con riferimento alla presunzione di
volontà di esercizio del diritto di interruzione di gravidanza
da parte di donna risultata portatrice di patologia permanen‑
te dopo il parto della scoperta malformazione fetale.
Il motivo è fondato.
Non risulta conforme a diritto, difatti, la motivazione
della corte lagunare nella parte in cui (folio 16 della sentenza
impugnata) si opina "non esservi prova alcuna che, anche se
a conoscenza della malformazione cromosomica del feto, la
signora B. avrebbe potuto interrompere la gravidanza". E ciò
perché, prosegue il giudice lagunare, "non vi è alcun elemen‑
to dal quale desumere – ovviamente con giudizio ex ante – che
la prosecuzione della gravidanza avrebbe esposto la signora
a grave pericolo di vita o grave pericolo per la sua salute fisi‑
ca o psichica".
2 0 1 3
37
avrà modo di specificare di qui a breve, esaminando la posi‑
zione di Os.Ma.) nella inevitabile, minor disponibilità dei
genitori nei loro confronti, in ragione del maggior tempo
necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap, nonché
nella diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale
con i genitori stessi costantemente caratterizzato da serenità
e distensione; le quali appaiono invece non sempre compati‑
bili con lo stato d’animo che ne informerà il quotidiano per
la condizione del figlio meno fortunato; consci – entrambi i
genitori – che il vivere una vita malformata è di per sè una
condizione esistenziale di potenziale sofferenza, pur senza che
questo incida affatto sull’orizzonte di incondizionata acco‑
glienza dovuta ad ogni essere umano che si affaccia alla vita
qual che sia la concreta situazione in cui si trova – principio
cardine non di una sola, specifica morale, ma di una stessa ed
universale Etica (e bioetica) della persona, caratterizzata
dalla insostituibile centralità della coscienza individuale.
5. Con il quarto motivo, si denuncia:
a) violazione e falsa applicazione dei limiti soggettivi di le‑
gittimazione attiva all’azione di risarcimento danni ex
artt. 1218 e 2043 c.c. conseguenti all’inadempimento di
obbligazione assistenziale verso una gestante.
b)Violazione dell’art. 1 c.c. e della L. n. 194 del 1978 che
attribuiscono la titolarità di diritti al feto solo al momen‑
to della nascita. Revisione critica della giurisprudenza in
materia anche alla luce degli orientamenti espressi dalla
Corte Suprema con la sentenza nl0741/2009.
c)Violazione e falsa applicazione dell’art. 1218 c.c. e
dell’art. 112 c.p.c. con riferimento alla mancata pronuncia
in ordine alla legittimazione attiva degli attori diversi
dalla signora B. e di O.M..
La doglianza deve essere accolta.
Rinviando all’esame del quinto motivo la questione della
cd."legittimazione attiva" di Os.Ma., va in questa sede affer‑
mato il principio di diritto secondo il quale la responsabilità
sanitaria per omessa diagnosi di malformazioni fetali e con‑
seguente nascita indesiderata va estesa, oltre che nei confron‑
ti della madre nella qualità di parte contrattuale (ovvero di
un rapporto da contatto sociale qualificato), anche al padre
(come già affermato da Cass. n. 1448872004 e prima ancora
da Cass. n. 6735/2002), nonché, a giudizio del collegio, alla
stregua dello stesso principio di diritto posto a presidio del
riconoscimento di un diritto risarcitorio autonomo in capo al
padre stesso, ai fratelli e alle sorelle del neonato, che rientra‑
no a pieno titolo tra i soggetti protetti dal rapporto intercor‑
rente tra il medico e la gestante, nei cui confronti la presta‑
zione è dovuta.
L’indagine sulla platea dei soggetti aventi diritto al risar‑
cimento, difatti, già da tempo operata dalla giurisprudenza
di questa Corte con riferimento al padre (di recente, ancora,
da Cass. n. 2354/2010), non può non essere estesa, per le
stesse motivazioni predicative della legittimazione dell’altro
genitore, anche ai fratelli e alle sorelle del neonato, dei quali
non può non presumersi l’attitudine a subire un serio danno
non patrimoniale, anche a prescindere dagli eventuali risvol‑
ti e delle inevitabili esigenze assistenziali destinate ad insor‑
gere, secondo l’id quod plerumque accidit, alla morte dei ge‑
nitori. Danno intanto consistente, tra l’altro (come meglio si
6. Con il quinto motivo, si denuncia violazione degli artt. 1218,
2043, 1223 e 2056 c.c. con riferimento:
• Alla dannosità dell’handicap congenito per il bambino
nato.
• Al diritto del medesimo al risarcimento.
• Al rilievo causale dell’inadempimento dell’obbligo di dia‑
gnosi precoce nei confronti della madre.
Il motivo è fondato.
Viene posto al collegio il delicato problema della titolari‑
tà di un diritto al risarcimento del danno in capo al minore
handicappato, nato – a seguito della omessa rilevazione, da
parte del sanitario, della malformazione genetica – da una
madre che, contestualmente alla richiesta dell’esame diagno‑
stico, abbia manifestato la volontà di non portare a termine
la gravidanza nell’ipotesi di risultato positivo del test.
La questione chiama l’interprete, fin dai tempi del diritto
romano classico, ad una complessa indagine sulla natura
giuridica, (e sulle sorti) dei diritti riconosciuti a colui qui in
utero est (Dig., 1.5.7.).
Essa oscilla, nella sua più intima sostanza, tra semplicisti‑
che trasposizioni della abusata fictio romanistica che rimanda
al conceptus come soggetto prò iam nato (habetur) quotiens
de eius commodis agatur (aforisma storicamente confinato,
peraltro, nell’orbita dell’acquisto di diritti patrimoniali con‑
dizionati all’evento nascita), e contrastate adesioni alla sua
rappresentazione sicut mulier portio vel viscerum (espressiva
della teoria cd. pro choice, cara a tanta parte della giurispru‑
denza nordamericana in termini di diritto soggettivo assoluto
della donna a decidere della sorte del concepimento e del
concepito).
La questione induce, in limine, ad indagare sulla qualità
da attribuire al concepito nella sua dimensione rigorosamen‑
te giuridica, attraverso un’analisi scevra da facili quanto
inevitabili suggestioni di tipo etico o filosofico, onde predi‑
carne la natura di soggetto di diritto ovvero, del tutto specu‑
larmente, di oggetto di tutela sino al momento della sua na‑
scita.
Non è questa la sede per ripercorrere funditus, in via in‑
terpretativa, le tappe di un complesso itinerario di pensiero
segnato da norme ordinarie e costituzionali non meno che da
(reali o presunte) "clausole generali" – quali quella della cen‑
tralità della persona ‑, itinerario funzionale a scelte di teoria
civile
(Omissis)
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
generale dell’ermeneutica tra giurisprudenza dei concetti e
giurisprudenza degli interessi di cui è compiuta e approfondi‑
ta traccia (sia pur non del tutto condivisibile tanto nelle pre‑
messe metodologiche quanto nelle conseguenti conclusioni)
nella sentenza di questa stessa sezione n. 10471 del 2009.
Ma da tale itinerario il collegio non può, d’altro canto, del
tutto prescindere, proprio al fine di condurre a non insoddi‑
sfacente soluzione giuridica la questione di cui in premessa,
ripercorrendone, sia pur brevemente, le tappe essenziali, atte‑
si gli espliciti riferimenti operati dalle parti dell’attuale pro‑
cedimento proprio alla sentenza 10471/2009.
L’analisi delle affermazioni contenute in quella pronuncia
deve, peraltro, essere preceduta dall’esame dei principi di di‑
ritto contenuti nella sentenza n. 14488/2004 di questa sezio‑
ne, predicativa, come è noto:
• della irrisarcibilità del danno da nascita malformata la‑
mentato in proprio dal neonato;
• della speculare limitazione di tale diritto a due soli sog‑
getti, rappresentati dalla madre e dal padre del bambino
malformato.
6.1. Nella vicenda di cui questa Corte ebbe ad occuparsi nel
2004, genitori affetti da talassemia non vennero informati dal
medico, durante la gravidanza, del rischio che anche la nasci‑
tura potesse risultarne contagiata, e perciò convennero in
giudizio il professionista chiedendone la condanna al risarci‑
mento del danno patito sia da loro che dalla figlia nata talas‑
semica.
Il giudice di merito riconobbe e liquidò il risarcimento dei
danni subiti da entrambi i genitori per l’omissione del medico,
che aveva così precluso un’eventuale interruzione della gravi‑
danza, negando peraltro il medesimo diritto alla neonata, la
cui malattia venne ritenuta non evitabile nè rimediabile.
La corte di legittimità, sollecitata alla rivisitazione di tale
dictum, confermerà nell’an quella pronuncia, argomentando
diffusamente su questioni la cui delicatezza trascende non
poco il compito dell’interprete, inducendolo a riflettere (come
è stato suggestivamente osservato in dottrina) sul "miserabile
ruolo del diritto" che, nel riconsiderare tanto gli spazi conces‑
si alla giurisprudenza quanto quelli di esclusiva pertinenza del
legislatore, affronta in questi ultimi anni, con i soli strumen‑
ti suoi propri e perciò solo del tutto inadeguati, l’inedita di‑
mensione della responsabilità sanitaria del ventunesimo seco‑
lo nei suoi aspetti più problematici, quando cioè essa oscilla
tra la vita (non voluta) e la morte (voluta, per espressa dichia‑
razione o per silenziosa presunzione).
L’iter motivazionale della sentenza 14488/2004 è scandito
dai seguenti passaggi argomentativi:
a) nel bilanciamento tra il valore (e la tutela) della salute
della donna e il valore (e la tutela) del concepito, l’ordina‑
mento consente alla madre di autodeterminarsi, ricorren‑
done le condizioni richieste ex lege, a richiedere l’interru‑
zione della gravidanza. La sola esistenza di malformazio‑
ni del feto che non incidano sulla salute o sulla vita della
donna non permettono alla gestante di praticare l’aborto:
il nostro ordinamento non ammette, dunque, l’aborto
eugenetico e non riconosce nè alla gestante nè al nascituro,
una volta nato, il diritto al risarcimento dei danni per il
mancato esercizio di tale diritto (della madre);
b) la L. n. 194 del 1978 consente invece alla gestante d’inter‑
c i v i l e
Gazzetta
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rompere la gravidanza solo quando dalla prosecuzione
della gestazione possa derivare, anche in previsione di
anomalie o malformazioni del concepito, un reale perico‑
lo per la sua salute fisica o psichica, ovvero per la sua vi‑
ta;
c) prevale, in seno agli ordinamenti stranieri, la tendenza a
rigettare la domanda proposta in proprio dal nato mal‑
formato e ad accogliere quella dei genitori relativamente
ai danni patrimoniali e non patrimoniali; peraltro, la
Corte di Cassazione francese in assemblea plenaria, nel
celebre arret Perruche del 27.11.2001, operando un revi‑
rement rispetto alla precedente giurisprudenza, affermò
che, "quando gli errori commessi da un medico e dal la‑
boratorio in esecuzione del contratto concluso con una
donna incinta impedirono a quest’ultima di esercitare la
propria scelta di interruzione della gravidanza, al fine di
evitare la nascita di un bambino handicappato, questi può
domandare il risarcimento del danno consistente nel pro‑
prio handicap, causato dai predetti errori". A tale pronun‑
cia fece immediato seguito l’intervento del legislatore (loi
Kouchner 303/2002), che escluse qualsivoglia pretesa ri‑
sarcitoria dell’handicappato per il solo fatto della nascita
"quando l’handicap non è stato provocato, aggravato o
evitato da errore medico";
d) la tutela giuridica del nascituro, pure prevista dal nostro
ordinamento, è peraltro regolata in funzione del diritto del
concepito a nascere (sano), mentre un eventuale diritto a
non nascere sarebbe un diritto adespota in quanto, a norma
dell’art. 1 c.c., la capacità giuridica si acquista al momento
della nascita, ed i diritti che la legge riconosce a favore del
concepito (artt. 462, 687 e 715 c.c.) sono subordinati
all’evento della nascita, ma appunto esistenti dopo la nasci‑
ta. Nella fattispecie, invece, il diritto di non nascere, fino
alla nascita, non avrebbe un soggetto titolare dello stesso,
mentre con la nascita sarebbe definitivamente scomparso;
e) sotto altro profilo, ma nella stessa ottica, ipotizzare il
diritto del concepito malformato di non nascere significa
concepire un diritto che, solo se viene violato, ha, per
quanto in via postuma, un titolare, ma se tale violazione
non vi è (e quindi non si fa nascere il malformato per ri‑
spettare il suo diritto di non nascere), non vi è mai un ti‑
tolare. Il titolare di questo presunto diritto non avrà mai
la possibilità di esercitarlo (non esisterebbe un soggetto
legittimato a farlo valere): non può farlo valere, ovviamen‑
te, il concepito, ancora non nato; non potrebbe farlo va‑
lere, altrettanto ovviamente, il medico; non potrebbe es‑
sere esercitato neppure dalla gestante. Il suo diritto
all’aborto non ha, infatti, una propria autonomia, per
quanto relazionata all’esistenza o meno delle malforma‑
zioni fetali, come invece nella legislazione francese, ma si
pone in una fattispecie di tutela del diritto alla salute: il
diritto che ha la donna è solo quello di evitare un danno
serio o grave, a seconda delle ipotesi temporali, alla sua
salute o alla sua vita. Per esercitare detto diritto, nel bi‑
lanciamento degli interessi, l’ordinamento riconosce la
possibilità alla donna di interrompere la gravidanza, ed è
la necessità della tutela della salute della madre che legit‑
tima la stessa alla (richiesta di) soppressione del feto
scriminandola da responsabilità (se l’interruzione della
gravidanza, al di fuori delle ipotesi di cui alla L. n. 194
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del 1978, artt. 4 e 6, accertate nei termini di cui agli artt. 5
ed 8, costituisce reato anche per la stessa gestante ex
art. 19 stessa legge);
f) il nostro ordinamento positivo tutela il concepito – e quin‑
di l’evoluzione della gravidanza – esclusivamente verso la
nascita e non verso la non nascita, per cui, se di diritto
vuoi parlarsi, deve parlarsi di diritto a nascere. Già la
Corte Costituzionale, con la sent. 18.2.1975, n. 27, dichia‑
rando costituzionalmente illegittimo l’art. 546 c.p. nella
parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse es‑
sere interrotta quando la sua prosecuzione implicava
danno o pericolo grave, medicalmente accertato e non
altrimenti evitabile, per la salute della madre, aveva pre‑
cisato che anche la tutela del concepito ha "fondamento
costituzionale" nell’art. 31 Cost., comma 2, che "impone
espressamente la protezione della maternità" e, più in
generale, nell’art. 2, che "riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi,
sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la
situazione giuridica del concepito". La successiva L. 22
maggio 1978, n. 194, significativamente intitolata "norme
per la tutela sociale della maternità" oltre che "sull’inter‑
ruzione volontaria della gravidanza", proclama all’art. 1
che "lo Stato …. riconosce il valore sociale della materni‑
tà e tutela la vita umana dal suo inizio"; inizio che, come
si evince dal combinato disposto con gli articoli successi‑
vi, va riferito al momento del concepimento (e non tanto,
o non solo allo scadere del novantesimo giorno dal conce‑
pimento, cui fa riferimento il successivo art. 4);
g) va poi osservato che, se esistesse detto diritto a non nasce‑
re se non sano, se ne dovrebbe ritenere l’esistenza indipen‑
dentemente dal pericolo per la salute della madre derivan‑
te dalle malformazioni fetali, e si porrebbe l’ulteriore
problema, in assenza di normativa in tal senso, di quale
sarebbe il livello di handicap per legittimare l’esercizio di
quel diritto, e, poi, di chi dovrebbe ritenere che detto li‑
vello è legittimante della non nascita. Infatti, anche se non
vi fosse pericolo per la salute della gestante, ogni qual
volta vi fosse la previsione di malformazioni o anomalie
del feto, la gestante, per non ledere questo presunto dirit‑
to di "non nascere se non sani", avrebbe l’obbligo di ri‑
chiedere l’aborto, altrimenti si esporrebbe ad una respon‑
sabilità (almeno patrimoniale) nei confronti del nascituro
una volta nato. Quella che è una legge per la tutela socia‑
le della maternità e che attribuisce alla gestante un diritto
personalissimo, in presenza di determinate circostanze,
finirebbe per imporre alla stessa l’obbligo dell’aborto
(salvo l’alternativa di esporsi ad un’azione per responsabi‑
lità da parte del nascituro).
Nei primi commenti alla sentenza, la dottrina non mancò
di osservare come il riconoscimento di un diritto al risarci‑
mento accordato anche al padre – terzo rispetto al contratto
intercorso tra il medico e la gestante, e privo di qualsivoglia
os ad eloquendum nella sua decisione d’interrompere la gra‑
vidanza ‑, con riferimento agli "effetti protettivi" del contrat‑
to verso i terzi comunque esposti ai pregiudizi conseguenti
all’inadempimento del sanitario, indebolisse la soluzione del
diniego dell’analoga pretesa fatta valere dai genitori a nome
della figlia nata, che a più forte ragione doveva ritenersi ri‑
compresa nella cerchia dei suddetti terzi danneggiati. Lo
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39
stesso riferimento alla non‑imputabilità dell’evento (per via
dell’inevitabilità della malformazione) all’omissione del me‑
dico venne sotto vari aspetti sottoposta a critica, volta che
tale riferimento non appariva poi idoneo ad escludere non
solo l’affermata responsabilità del medico verso la madre (in
quanto) privata della possibilità di autodeterminarsi nella
prosecuzione della gravidanza, ma anche quella nei confron‑
ti del padre, sebbene non legittimato in alcun modo ad inter‑
loquire sull’interruzione della gestazione (e ciò nondimeno,
"egualmente protetto dal contratto originario").
Per altro verso, l’argomento cardine utilizzato per negare
il risarcimento richiesto (anche) dalla figlia – costituito dalla
conclamata inesistenza nel nostro ordinamento di un diritto
a non nascere se non sano, in quanto "posizione non merite‑
vole di tutela" – venne definito "affermazione meramente
retorica – e quindi elusiva del grave problema posto a quel
tempo al collegio, da riassumersi nel quesito se una persona
nata con una malformazione che ne segna la vita e di cui si‑
curamente non è responsabile abbia o meno diritto a chieder‑
ne conto a qualcuno, considerato che il nostro ordinamento,
per un verso, favorisce, sì, la procreazione, ma in quanto
"cosciente e responsabile", L. n. 194 del 1978, ex art. 1, men‑
tre, d’altro verso, tutela (come ribadisce la stessa sentenza) il
diritto del concepito a nascere sano. Nè la mancata previsione
legale di un diritto a non nascere venne ritenuto argomento
spendibile ("come avrebbe mai potuto l’ordinamento preve‑
dere un simile diritto?"): se, come è ovvio, ogni tutela giuri‑
dica deve essere, per necessità logica, riferita ad un soggetto
esistente, l’unica alternativa in ordine all’ammissibilità di una
siffatta tutela non era tra non nascere o nascere malato, ben‑
sì tra nascere sano o nascere malato.
Sotto altro profilo, perplessità vennero sollevate perché,
nel discorrere di una pretesa assenza dell’interesse protetto,
la sentenza postulava una valutazione di "non ingiustizia" del
danno estranea all’ambito della responsabilità contrattuale,
(lasciando così il fanciullo handicappato senza alcuna tutela
nei casi di abbandono, di cattiva amministrazione o di pre‑
morienza dei genitori).
Si osservò, significativamente, come la questione non
consistesse nell’affermare o nel negare pretesi diritti di nasce‑
re (o di non nascere, o di non "nascere handicappato") o di
morire (o di non morire), nè di valutare quanto valga il "non
essere" rispetto all’"essere" (handicappato), posto che il vive‑
re una vita malformata è di per se una situazione esistenziale
negativa, onde il danno ingiusto risarcibile – provocato da
un’azione comunque colpevole altrui – consisterebbe nell’obiet‑
tività del vivere male indipendentemente dalle alternative a
disposizione, espungendo dalla sfera del rilevante giuridico
una concezione del danno come paragone con la vita sana
perché questa vita sana non ci sarebbe stata: a seguito della
nascita, si è sostenuto, "la questione non è più quella della sua
venuta al mondo, ma soltanto quella del suo handicap".
Poco convincenti apparvero, infine, le ulteriori obiezioni
che paventavano un potenziale quanto "innaturale" diritto
risarcitorio del minore esercitabile nei confronti della ma‑
dre – che, correttamente informata dal medico sui rischi
della nascita, avesse liberamente deciso di generare un figlio
invalido – ovvero del padre contro la madre: danni in realtà
irrisarcibili per l’assenza di una condotta colposa, se il fatto
di dare la vita, o la rinuncia, da parte della madre, a interrom‑
civile
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pere la gravidanza, non possono mai essere considerati in
termini di colpa nè di ingiustizia del danno.
L’atto della procreazione è frutto di una scelta che spetta,
giuridicamente, soltanto ai genitori; ma la donna è, inevita‑
bilmente, il solo legittimo destinatario del diritto a decidere
se procedere o no all’interruzione della gravidanza.
Ancor meno convincenti apparvero, agli occhi della più
attenta dottrina, le osservazioni contenute in sentenza circa
la disciplina dell’interruzione della gravidanza allo scopo di
individuare "il bene giuridico protetto dalle norme che san‑
zionano l’aborto", considerato che annettere il risarcimento
del danno prenatale nei confronti del fanciullo nato handicap‑
pato al territorio della responsabilità contrattuale indurrebbe
ad opinare che "il bebè prejudice sia risarcibile nei riguardi
del neonato quale conseguenza immediata e diretta dell’ina‑
dempimento (o dell’inesatto adempimento) dell’obbligazione
d’informazione, senza che assuma rilievo la valutazione della
condotta in termini di ingiustizia del danno". Onde il voler
rifiutare di ammettere che un handicap sia, per l’andicappato
medesimo, un "danno" venne definito "un puro e semplice
sofisma", se è non la "vita" dell’handicappato che si tratta di
assimilare a un danno, ma proprio il suo handicap. Altro li‑
mite rilevato dalla dottrina con riguardo alla motivazione
della sentenza ebbe riguardo a quella che venne (del tutto
condivisibilmente) ritenuta da più parti la questione giuridica
essenziale, quella, cioè, del rapporto di causalità. La sentenza,
difatti, non affrontò specificamente il problema del nesso
eziologico (diversamente da quanto accaduto in Francia, dove
sia la giurisprudenza del Consiglio di Stato e delle Corti d’ap‑
pello, sia gli autori che contestarono la decisione della Cassa‑
zione sul caso Perruche motivarono la soluzione negativa
sull’assenza del legame eziologico tra l’inadempimento e il
danno), mentre la questione del nesso di causalità per il dan‑
no patito dal fanciullo handicappato – si disse ‑, lungi dal
poter derivare da una analisi conseguente alla cd. biologisa‑
tion du droit, andava riguardata sotto un profilo rigorosa‑
mente giuridico, così come accade ad esempio in caso di
contagio da trasfusione, ove la causa "biologica" della malat‑
tia è certamente il virus HIV o HCV, ma nessuno dubita che
la responsabilità vada imputata, sulla base di un criterio di
causalità giuridicamente rilevante, a quel soggetto (pubblico
o privato) che, con la sua colpevole omissione, abbia provo‑
cato, reso possibile o non impedito il contagio.
6.2. Con la sentenza n. 10741/2009, questa Corte di legit‑
timità, nuovamente investita della questione della risarcibili‑
tà in proprio del nascituro, sia pur sotto il diverso profilo
della rilevanza – in guisa di conseguente danno ingiusto – di
una attività commissiva (oltre che omissiva) del sanitario,
dopo aver premesso che il nascituro, o il concepito, deve rite‑
nersi dotato di autonoma soggettività giuridica (specifica,
speciale, attenuata, provvisoria o parziale che si voglia), per‑
ché titolari, sul piano sostanziale, di alcuni interessi persona‑
li in via diretta, quali il diritto alla vita, e quelli alla salute o
integrità psico‑fisica, all’onore o alla reputazione, all’identità
personale, affermò il principio di diritto secondo il quale,
stante la soggettività giuridica del concepito, al suo diritto a
nascere sano corrisponde l’obbligo dei sanitari di risarcirlo
(diritto al risarcimento condizionato, quanto alla titolarità,
all’evento nascita ex art. 1 c.c., comma 2, ed azionatile dagli
esercenti la potestà) per mancata osservanza sia del dovere di
c i v i l e
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una corretta informazione (ai fini del consenso informato) in
ordine ai possibili rischi teratogeni conseguenti alla terapia
prescritta alla madre (e ciò in quanto il rapporto instaurato
dalla madre con i sanitari produce effetti protettivi nei con‑
fronti del nascituro), sia del dovere di somministrare farmaci
non dannosi per il nascituro stesso.
Il collegio ebbe poi cura di precisare, sia pur in guisa di
mero obiter dictum, che quest’ultimo non avrebbe avuto di‑
ritto al risarcimento qualora il consenso informato circa il
rischio di malformazioni prenatali fosse stato funzionale
soltanto alla interruzione di gravidanza da parte della donna,
dando così ulteriore continuità al principio di diritto espresso
dalla sentenza 14488/2004.
L’iter motivazionale della sentenza del 2009 – all’esito di
una lunga e approfondita riflessione che, premesse alcune
considerazioni di teoria generale del diritto, specie in tema di
fonti e di interpretazione, giunge alla conclusione della attua‑
le configurabilità, in seno all’ordinamento, di una posizione
di autonoma soggettività in capo al nascituro – si caratterizza
per i seguenti passaggi argomentativi:
a) il mancato esercizio di una doverosa informazione a cia‑
scuno dei coniugi circa la potenzialità dannosa di un
farmaco somministrato alla futura madre per stimolarne
la funzione riproduttiva aveva precluso loro di scegliere,
con avvertita coscienza dei rischi, di farne uso o meno,
con conseguente responsabilità del medico nei confronti
di entrambi, in quanto destinatarì delle informazioni
colpevolmente omesse;
b) l’esistenza di un danno ingiusto risarcibile era, nella specie,
predicabile anche con riguardo alla posizione del neonato
portatore di handicap e perciò vittima, dopo il suo conce‑
pimento (secondo le accertate risultanze in fatto della vi‑
cenda) degli effetti nocivi del farmaco prescritto, attesa la
molteplicità e concordanza degli indici normativi volti a
riconoscere la soggettività giuridica del nascituro, titolare,
come tale, del diritto (tra gli altri) alla salute, azionabile
a fini risarcitori a seguito della effettiva nascita;
c) il diritto al risarcimento così riconosciuto al figlio nato in
conseguenza di una terapia nociva non contraddice la
esclusione di ogni tutela risarcitoria nel diverso caso della
mancata informazione (sui rischi di malformazione del
feto) incidente sulla decisione della madre di interrompere,
in tal caso, la gravidanza, attesa la già affermata inconfi‑
gurabilità nel nostro ordinamento, di un diritto a non
nascere se non sano.
La grande novità della sentenza, rispetto al precedente
costituto dalla pronuncia n. 6735 del 2002 (che ammise al
risarcimento anche il padre del bambino nato malformato),
consiste nel riconoscimento che gli effetti protettivi del rap‑
porto obbligatorio (contrattuale o da cd. "contatto sociale")
instaurato tra la paziente e i sanitari che la assistono durante
la gestazione si producono non solo a favore del marito, ben‑
sì anche del figlio. Per la prima volta questo giudice di legit‑
timità si è spinto, sia. pur sotto un diverso profilo rispetto a
quello che oggi occupa il collegio, a valutare l’incidenza della
nascita di un bambino in condizioni menomate sul piano
dell’esistenza dell’intera famiglia, e non più solo della coppia,
riconoscendo un autonomo diritto al risarcimento anche al
protagonista principale di una vicenda di danno prenatale.
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6.2. La soluzione della questione di diritto affrontata
nella sentenza 10741/09, al pari di quella oggi sottoposta
all’esame del collegio, non sembra, peraltro, postulare nè
imporre come imprescindibile l’affermazione della soggettivi‑
tà del nascituro, soluzione che sconta, in limine, un primo
ostacolo di ordine logico costituito dalla apparente contrad‑
dizione tra un diritto "a nascere sano" (un diritto, dunque,
alla vita, che si perpetuerebbe nel corso della gestazione) e la
sua repentina quanto inopinata trasformazione in un diritto
alla salute di cui si invocherebbe tutela solo dopo la nascita.
In premessa, l’accurata analisi, gli approfonditi riferimenti
e gli spunti critici riservati in sentenza alla giurisprudenza cd.
normativa, nell’ottica di una rinnovata funzione "creativa"
della speculare Interessenjurisprudenz, ne lascia poi impregiu‑
dicato l’interrogativo circa la collocazione di quest’ultima
nell’ambito della gerarchia delle fonti – salvo a voler riservare
alle sole fonti "poste" tale preordinazione gerarchica, onde la
giurisprudenza normativa sarebbe singolarmente fuori da
quell’assetto. Se quest’ultimo appare a prima vista l’approdo
più agevole sul piano dogmatico, per altro verso non sembra
seriamente discutibile che, così opinando, il giudice civile,
laddove ritenga nell’interpretare la legge alla luce dei valori
costituzionali che essa non tuteli (o non tuteli a sufficienza) una
situazione giuridica di converso meritevole, interviene a creare
una corrispondente "forma" giuridica di tutela, eventualmente
in contrasto con la legge stessa, ma senza subire alcun sinda‑
cato di costituzionalità, in quanto il sistema non prevede un
meccanismo immediato di sindacato della costituzionalità
degli orientamenti pretori salvo che questi riguardino la stretta
interpretazione di una o più norme di legge esistenti (e sempre
che un giudice sollevi la questione di costituzionalità secondo
il consueto procedimento di cognizione incidentale).
Il problema – che non può essere approfondito in questa
sede se non nei limiti in cui la risoluzione del caso concreto lo
impone e che attinge all’equilibrio stesso tra i poteri dello
Stato, oltre che al modo di essere, e dunque di evolversi,
dell’ordinamento giuridico – induce l’interprete ad interrogar‑
si sui limiti del suo intervento in seno al tessuto normativo e
al di là di esso, senza mai omettere di considerare che, di in‑
terpretazione contra legem (non diversamente che per la
consuetudine), non è mai lecito discorrere in un sistema (pur
semi‑aperto) di civil law, che ammette e legittima, esaurendo‑
ne in sè la portata innovativa, l’interpretazione estensiva e
l’integrazione analogica, anch’essa condotta pur sempre ex
lege ovvero ex iure.
Non altro. Non oltre.
Merito della sentenza è senz’altro quello di aver distinto
tra due situazioni apparentemente simili, ma in realtà, sul
piano giuridico, tra loro assai diverse. Al contrario di quanto
avviene nel caso di prescrizione di farmaci teratogeni, la er‑
rata o mancata diagnosi non rileva ex se, sul piano eziologico,
con riguardo alla genesi della patologia sofferta dal bambino,
vicenda per la quale i genitori possono conseguentemente
lamentare, nei confronti dei sanitari, la sola omissione di in‑
formazione circa lo stato di salute del feto per avere tale di‑
fetto di informazione di fatto impedito alla madre di potersi
determinare ad un aborto terapeutico nei termini e alle con‑
dizioni previste dalla legge.
Meno condivisibile appare, per le ragioni che in seguito
meglio si approfondiranno, il principio, ribadito in obiter,
2 0 1 3
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della irrisarcibilità del danno direttamente subito dal neona‑
to, che ad avviso del collegio perpetua lo stesso equivoco
concettuale immanente alla sentenza n. 14488/2004: quello
secondo il quale il nato non ha comunque diritto ad alcun
risarcimento del danno per essere venuto alla vita, in quanto
privo della titolarità di un interesse a non nascere.
La contraddizione in materia di diritti del concepito sta
proprio, da un lato, nel considerarlo (a torto o a ragione), in
fase prenatale, soggetto di diritto e perciò centro di imputazione
di alcuni diritti, della personalità e patrimoniali – da far valere
solo se ed in quanto nato ‑; dall’altro, nel riservargli, alla nasci‑
ta un trattamento di non‑persona, disconoscendone sostanzial‑
mente gli aspetti più intimi e delicati della sua esistenza.
La concezione della vita come oggetto di tutela, da parte
dell’ordinamento, in termini di "sommo bene", di alterità
normativa superiorem non recognoscens – di talché non po‑
trebbe in alcun modo configurarsi un interesse a non nascere
giuridicamente tutelato (al pari di un interesse a non vivere
una non‑vita, come invece condivisibilmente riconosciuto da
questa stessa corte con la sentenza 16 ottobre 2007,
n. 21748) – è percorsa da forti, aneliti giusnaturalistici, ma è
destinata a cedere il passo al raffronto con il diritto positi‑
vo.
Decisiva appare, difatti, la considerazione secondo cui, al
momento stesso in cui l’ordinamento giuridico riconosce alla
madre il diritto di abortire, sia pur nei limiti e nei casi previ‑
sti dalla legge, si palesa come incontestabile e irredimibile il
sacrificio del "diritto" del feto a venire alla luce, in funzione
della tutela non soltanto del diritto alla procreazione coscien‑
te e responsabile (L. n. 194 del 1978, art. 1), ma dello stesso
diritto alla salute fisica o anche soltanto psichica della madre.
Mentre non vi sarebbe alcuno spatium comparationis se, a
confrontarsi, fossero davvero, in una comprovata dimensione
di alterità soggettiva, un (superiore) diritto alla vita e un
("semplice") diritto alla salute mentale.
È questo l’insegnamento, oltre che del giudice delle leggi,
della stessa Corte internazionale di Strasburgo che, con (an‑
cora inedita) sentenza dell’agosto di quest’anno, ha dichiara‑
to la sostanziale incompatibilità di buona parte della L. n. 40
del 2004 in tema di fecondazione assistita (che, comunque,
consentiva anche nell’originaria formulazione il sacrificio di
due dei tre embrioni fecondati in vitro), per (illogicità e) con‑
traddittorietà, proprio con la legge italiana sull’interruzione
della gravidanza, così mettendo in discussione ab imo la stes‑
sa ratio ispiratrice di quella normativa, già considerevolmen‑
te vulnerata in non poche disposizioni dalla Corte costituzio‑
nale nel 2009.
Troppo spesso si dimentica che una norma statuale di
rango primario, più volte legittimata dal vaglio della Corte
costituzionale, riconosce alla madre il diritto ad interrompe‑
re la gravidanza quando questa si trovi "in circostanze per le
quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la materni‑
tà comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica
o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue
condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostan‑
ze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anoma‑
lie o malformazioni del concepito" (così testualmente la L.
n. 194 del 1978, art. 4).
Appare di indiscutibile efficacia la scelta lessicale di un
legislatore che descrive la situazione giuridica soggettiva at‑
civile
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tribuita alla gestante in termini di diritto alla procreazione
cosciente e responsabile, a lei rimesso in termini di assoluta
quanto inevitabile esclusività.
Il diritto alla procreazione cosciente e responsabile è,
dunque, attribuito alla sola madre, per espressa volontà legi‑
slativa, sì che risulta legittimo discorrere, in caso di sua ingiu‑
sta lesione, non di un diritto esteso anche al nascituro in nome
di una sua declamata soggettività giuridica, bensì di propa‑
gazione intersoggettiva degli effetti diacronici dell’illecito
(come incontestabilmente ammesso nei confronti del pa‑
dre) – salvo l’indispensabile approfondimento (che di qui a
breve seguirà) sul tema della causalità in relazione all’evento
di danno in concreto lamentato dal minore nato malforma‑
to.
Altra e diversa questione è quella se la facoltà riconosciu‑
ta ex lege alla madre di interrompere volontariamente la
gravidanza – consentendole di porre fine, con la propria ma‑
nifestazione di volontà, allo sviluppo del feto – possa ritener‑
si rappresentativa di un esclusivo interesse della donna, e non
piuttosto anche del nascituro. Questione, peraltro, di stampo
etico, filosofico, religioso, che pone all’interprete interrogati‑
vi destinati a scorrere su di un piano metagiuridico di coscien‑
za, ma non impone la ricerca di risposte nè tampoco di solu‑
zioni sul piano del diritto positivo, postulando che l’interesse
alla procreazione cosciente e responsabile non sia solo della
madre, ma altresì del futuro bambino, e ciò anche quando
questo si trovi ancora nel ventre materno. La titolarità del
relativo diritto soggettivo, riconosciuto espressamente dalla
L. n. 194 del 1978, art. 1, non può che spettare, si ripete,
alla sola madre, in quanto solo alla donna è concessa (dalla
natura prima ancora che dal diritto) la legittimazione attiva
all’esercizio del diritto di procreare coscientemente e respon‑
sabilmente valutando le circostanze e decidendo, alfine, della
prosecuzione o meno di una gravidanza che vede la stessa
donna co‑protagonista del suo inizio, ma sola ed assoluta
responsabile della sua prosecuzione e del suo compimento.
Il rigoroso meccanismo legislativo, in consonanza con
quello di natura, esclude tout court la possibilità che il bam‑
bino, una volta nato, si dolga nei confronti della madre, come
pure si è talvolta ipotizzato seguendo gli itinerari del ragiona‑
mento per assurdo, della scelta di portare avanti la gravidan‑
za accampando conseguentemente pretese risarcitorie. È la
madre, infatti, che, esercitando un diritto iure proprio (anche
se, talvolta, nell’interesse non soltanto proprio, pur essendo
tale interesse confinato nella sfera dell’irrilevante giuridico),
deciderà presuntivamente per il meglio: nè potrebbe darsi
ipotesi contraria, a conferma della mancanza di una reale
soggettività giuridica in capo al nascituro.
A tanto consegue la non condivisibilità, sul piano stretta‑
mente giuridico, della ricostruzione delle singole situazioni
soggettive (della madre, del padre, dei componenti il nucleo
familiare, del neonato stesso) che postulino in premessa l’esi‑
stenza, in capo al nascituro, di un diritto a nascere sano,
contrapposto idealmente ad un non diritto "a non nascere se
non sano". Altra questione, del tutto fuori dall’orbita del di‑
ritto, è quella che vede tuttora discutersi a vario titolo sulla
scelta legislativa di consentire alla madre di scegliere se pro‑
seguire o meno la gravidanza in presenza di determinate
condizioni. Compiuta una simile opzione normativa da parte
del legislatore ordinario, e ricevuta ripetuta e tranquillante
c i v i l e
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conferma della sua conformità al dettato costituzionale da
parte del giudice delle leggi, l’interprete è chiamato non ad un
compito "creativo" di pretese soggettività limitate, ma all’ac‑
certamento positivo di un diritto, quello della madre, e di un
interesse, quello del nascituro (una volta in vita), oggetto di
tutela da parte dell’ordinamento, alla procreazione cosciente
e responsabile.
Sarà poi destinata alle considerazioni che di qui a breve
seguiranno l’analisi della questione centrale della causalità, la
questione, cioè, se ledere un siffatto interesse abbia come
conseguenza diretta ed immediata quella di porre il nascituro
malformato in condizioni di diseguaglianza rispetto agli altri
nascituri, e se tale condotta lesiva sia o meno concausa del suo
diritto al risarcimento, da valutare anche sotto il profilo del
suo inserimento in un ambiente familiare nella migliore delle
ipotesi non preparato ad accoglierlo.
Sgombrato il campo dall’equivoco che si annida nella
poco felice locuzione "diritto a non nascere se non sano", e
ricondotta la vicenda alla sua più corretta dimensione giuri‑
dica, il principio di diritto che appare predicabile è quello
secondo il quale la propagazione intersoggettiva dell’illecito
legittima un soggetto di diritto, quale il neonato, per il trami‑
te del suo legale rappresentante, ad agire il giudizio per il ri‑
sarcimento di un danno che si assume in ipotesi ingiusto
(tuttora impregiudicata la questione del nesso causale e dell’in‑
giustizia del danno lamentato come risarcibile in via autono‑
ma dal neonato).
Ritiene, pertanto, il collegio che la protezione del nascitu‑
ro non passi necessariamente attraverso la sua istituzione a
soggetto di diritto – ovvero attraverso la negazione di diritti
del tutto immaginar, come quello a "non nascere se non sano",
locuzione che semplicemente non rappresenta un diritto; come
non è certo riconducibile ad un diritto del concepito la più
ferma negazione, da parte dell’ordinamento (non soltanto
italiano), di qualsiasi forma di aborto eugenetico.
È tanto necessario quanto sufficiente, di converso, consi‑
derare il nascituro oggetto di tutela, se la qualità di soggetto
di diritto (evidente astrazione rispetto all’essere vivente) è
attribuzione normativa funzionale all’imputazione di situa‑
zioni giuridiche e non tecnica di tutela di entità protette.
Nessuna rilevanza, in positivo o in negativo, pare assumere
all’uopo il pur fondamentale principio della centralità della
persona, universalmente riconosciuto e tutelato a qualsiasi
livello normativo, ma inidoneo ex se a rientrare nel novero
delle vere e proprie "clausole generali" (quali quelle della
correttezza, della buona fede, della funzione sociale della
proprietà, della giusta causa del licenziamento, della coope‑
razione del creditore all’adempimento del debitore, della soli‑
darietà passiva, tutte espressamente previste, esse sì, per via
normativa).
La centralità della persona (al di là della significazione che
si attribuisce al termine "persona", la cui etimologia evoca
peraltro l’originario significato latino di maschera del teatro)
è qualcosa di più e di diverso rispetto ad una semplice clauso‑
la generale, è un "valore assoluto", rappresentabile esso stesso
come proiezione di altre norme (tra le altre, gli art. 2 e 32
Cost.) e come autentico fine dell’ordinamento.
Per altro verso, una corretta e coerente attuazione dei
principi cardine della giurisprudenza degli interessi (a mente,
della quale la correttezza della decisione del giudice dipende
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m a g g i o • g i u g n o
dalla altrettanto corretta valutazione dello scopo delle norme,
secondo una ricerca del relativo significato in una dimensione
teleologica, diversamente da quanto propugnato dalla giuri‑
sprudenza dei concetti, che procede invece per progressiva
astrazione da norme di sistema valutandone soltanto il corri‑
spondente significante) sembra condurre alla conclusione che
tutte le norme, costituzionali e ordinarie, volte a disciplinare
il delicato territorio del concepimento considerino il concepi‑
to come un oggetto di tutela necessaria, essendo la soggetti‑
vità – come s’è detto – un’astrazione normativa funzionale
alla titolarità di rapporti giuridici.
Ne è conferma tanto lo storico dictum della Corte costi‑
tuzionale (di cui alla sentenza del 18 febbraio 1975, n. 27,
predicativa del fondamentale principio della non equivalenza
fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di
chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’em‑
brione che persona deve ancora diventare) quanto le già ricor‑
date disposizioni sull’interruzione di gravidanza che, se real‑
mente postulassero un confronto tra due diverse soggettività
giuridiche, e cioè fra due soggetti di diritto portatori di inte‑
ressi e istanze contrapposte, non potrebbero mai operare una
comparazione tra una malattia psichica e una vita privilegian‑
do la prima, dovendosi di converso lasciar ovvio spazio alla
vita in quanto valore supremo superiorem non recogno‑
scens.
Sotto un ulteriore profilo, non appare seriamente predica‑
bile l’attuale esistenza, in capo al concepito, dei pur rinvenu‑
ti "interessi personali quali il diritto all’onore, alla reputazio‑
ne, all’identità personale", situazioni soggettive che presup‑
pongono una dimensione di relazioni sociali (la reputazione,
l’identità personale) ovvero una consapevolezza di sè (l’onore),
che, ipso facto, difettano tout court al concepito sul piano
naturalistico prima ancora che su quello giuridico.
Non si intende, con ciò, mettere in discussione quanto
recentemente opinato da una attenta dottrina quando osserva
che, malgrado il nascituro, da un punto di vista terminologi‑
co, non sia una figura rintracciabile nella nostra Costituzione,
ciò non significa che non possa essere ricondotto nell’ambito
di tutela ad essa proprio. Quando la Costituzione – si affer‑
ma – riconosce l’idoneità a essere titolare di situazioni giuri‑
diche attive e passive solo a chi è partecipe della qualità e
dignità di uomo, non può che fare riferimento al carattere
biologico del soggetto, dal che deriva l’innegabilità del rico‑
noscimento in capo al nascituro dei diritti inviolabili dell’uo‑
mo previsti dall’art. 2 della Carta fondamentale, che esalta
l’imprescindibile legame di tali diritti con la natura umana.
Tale conclusione troverebbe "puntuale conferma" negli
artt. 2, 30, 31, 32 e 37 Cost., mentre le stesse espressioni che
fanno riferimento alla maternità, contenute nell’art. 31, com‑
ma 2 e art. 37, comma 1, si saldano logicamente con la nor‑
mativa per cui la maternità viene in rilievo come situazione
esistenziale "plurima" da salvaguardare, in quanto la tutela
giuridica si dirige sia verso la madre sia nei confronti del figlio,
e si estende dalla gestante al nascituro. Dalla rassegna delle
disposizioni del codice civile – si sostiene ancora – può inoltre
evincersi che l’attribuzione delle situazioni giuridiche imputa‑
bili al concepito, delle quali solo quelle di natura patrimonia‑
le sarebbero subordinate all’evento nascita, implica necessa‑
riamente la valutazione del medesimo come centro di interes‑
si suscettibili di tutela.
2 0 1 3
43
La locuzione "centro di interessi suscettibile di tutela" è
peraltro espressione anfibologica, dalla quale è lecito dedurre
tanto la conclusione (non necessaria) della soggettività giuri‑
dica del nascituro, quanto quella, più realisticamente aderen‑
te al dato normativo ed alla stessa concezione del soggetto in
termini di fattispecie (come illuminantemente opinato, oltre
sessant’anni fa, da uno dei più illustri esponenti della civili‑
stica italiana), in termini, cioè, di oggetto di tutela "progres‑
siva" da parte dell’ordinamento, in tutte le sue espressioni
normative e interpretative.
Al là di alcune recenti e poco condivisibili formulazioni
lessicali (si pensi alla tecnica normativa adoperata dal legisla‑
tore della legge 40/2004 sulla procreazione assistita, la cui
improprietà anche terminologica ha cagionato, come si è
avuto modo di osservare in precedenza, un inevitabile inter‑
vento abrogans di buona parte della sue disposizioni, mentre
ancora più recente risulta l’intervento, parimenti tranchant,
della Corte di giustizia europea, che ne ha evidenziato la pa‑
tente contraddittorietà), l’intero plesso normativo, ordinario
e costituzionale, sembra muovere nella direzione del concepi‑
to inteso come oggetto di tutela e non anche come soggetto di
diritto. Solo a seguito dell’evento nascita, difatti, la fattispecie
scrutinata dalla sentenza 10741/2009 si presentò non diver‑
samente da un ordinario caso di danno alla salute: la lesione
inferta al concepito si manifesta e diviene attuale al momento
della nascita, la situazione soggettiva tutelata è il diritto alla
salute, non quello a nascere sano. Chi nasce malato per via di
un fatto lesivo ingiusto occorsogli durante il concepimento
non fa, pertanto, valere un diritto alla vita nè un diritto a
nascere sano nè tantomeno un diritto a non nascere. Fa vale‑
re la lesione della sua salute, originatasi al momento del
concepimento. Oggetto della pretesa e della tutela risarcitoria
è, pertanto, sul piano morfologico, la nascita malformata, su
quello funzionale (quello, cioè, del dipanarsi della vita quoti‑
diana) il perdurante e irredimibile stato di infermità. Non la
nascita non sana. 0 la non nascita.
6.3. I principi sinora esposti risultano già in gran parte affer‑
mati da questa corte nella sentenza n. 9700 del 2011.
La pronuncia afferma, difatti, il principio di diritto secon‑
do il quale chi sia nato successivamente alla morte del padre
può ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non
patrimoniali verificatìsi contemporaneamente alla nascita e/o
posteriormente ad essa, essendo irrilevante la non contempo‑
raneità fra la condotta dell’autore dell’illecito (che ben può
realizzarsi durante la fase del concepimento) e il danno (che
ben può prodursi successivamente, come già opinato da que‑
sta stessa corte, in sede penale, con la sentenza n. 11625 del
2000).
Nella specie, si dissero risarcibili i danni subiti dal mino‑
re, a partire dal momento della nascita, in conseguenza
dell’uccisione del padre avvenuta in epoca anteriore alla na‑
scita stessa, al tempo in cui il minore era soltanto concepito.
Così modificata la tesi espressa da questo stesso giudice
di legittimità con una risalente pronuncia (Cass. n. 3467 del
1973, affermativa del carattere eccezionale, e dunque di stret‑
ta interpretazione, delle disposizioni di legge che, in deroga
al principio generale dettato dall’art. 1 c.c., comma 1, preve‑
dono la tutela dei diritti del nascituro), La Corte ritenne irri‑
levante la questione della soggettività giuridica del concepito,
civile
Gazzetta
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
e comunque impredicabile una sua giuridica configurazione
al fine di affermare il diritto del nato al risarcimento "non
potendo, d’altro canto, quella soggettività evincersi dal fatto
che il feto è fatto oggetto di protezione da parte dell’ordina‑
mento", in evidente e consapevole adesione all’insegnamento
della civilistica classica, uno dei cui più autorevoli esponenti
ebbe efficacemente ad evidenziare come la soggettività giuri‑
dica trovi il suo normale svolgimento nella capacità giuridica
(impregiudicata la questione della soggettività indipendente
dalla capacità degli enti impersonali, che rileva piuttosto
sotto il profilo dell’attitudine alla titolarità di rapporti giuri‑
dici attivi e passivi, in guisa di soggetti di diritto – e dal dirit‑
to espressamente contemplati e disciplinati sul piano funzio‑
nale – come attualmente esistenti, a differenza del nascitu‑
ro).
D’altronde, non è senza significato la circostanza per la
quale sono rimasti privi di seguito, non essendo mai stati di‑
scussi neppure in commissione, i due disegni e le due proposte
di legge presentati nel corso dell’attuale legislatura, sia al
Senato che alla Camera, volti a modificare l’art. 1 c.c., com‑
ma 1, sostituendone il testo originario nel senso che "ogni
essere umano ha la capacità giurìdica fin dal momento del
concepimento".
La sentenza 9700/2011 evidenziò ancora, con argomenta‑
zioni che questo collegio interamente condivide, come il dirit‑
to di credito di natura risarcitoria appartenesse alla figlia in
quanto nata orfana, e come tale destinata a vivere senza la
figura paterna, mentre la circostanza che il padre fosse dece‑
duto prima della sua nascita per fatto imputabile a responsa‑
bilità di un terzo assumeva significato nella sola misura in cui
condotta ed evento materiale costituenti l’illecito si erano già
verificati prima che ella nascesse, ma non anche che prima di
nascere ella potesse avere acquistato il diritto di credito al ri‑
sarcimento. Questo, difatti, postula la lesione di una situazio‑
ne giuridica tutelata dall’ordinamento, da identificarsi, nella
specie, con il diritto al godimento del rapporto parentale, di‑
ritto certamente inconfigurabile prima della nascita, cosi come
solo successivamente alla nascita si verificano le conseguenze
pregiudizievoli che dalla lesione del diritto derivano.
Del rapporto col padre – si legge ancora in sentenza – la
figlia è stata privata nascendo, non prima che nascesse. In
precedenza, esistevano solo le condizioni ostative al suo in‑
sorgere per la già intervenuta morte del padre che la aveva
concepita: ma la mancanza del rapporto interpersonale, del
legame emozionale che connota la relazione tra padre e figlio
è divenuta attuale quando la figlia è venuta alla luce.
In quel momento si è dunque verificata la propagazione
intersoggettiva dell’effetto dell’illecito "per la lesione del di‑
ritto della figlia (non del feto) al rapporto col padre, e nello
stesso momento è sorto il suo diritto di credito al risarcimen‑
to, del quale è dunque diventato titolare un soggetto fornito
della capacità giuridica per essere nato".
La sentenza esclude, infine, che possa revocarsi in dubbio
l’esistenza di un nesso di causalità fra illecito e danno, inteso
questo come insieme di conseguenze pregiudizievoli derivate
dall’evento (morte del padre): il figlio cui sia impedito di svi‑
lupparsi nell’ambito di questo rapporto genitoriale ne può
riportare un pregiudizio che costituisce un danno ingiusto
indipendentemente dalla circostanza che egli fosse già nato al
momento della morte del padre o che, essendo solo concepito,
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
sia nato successivamente (in tal senso, già Cass. 22 novembre
1993, n. 11503 e Cass. 9 maggio 2000, n. 5881, pur se non
condivisibilmente contraddette, di recente – con motivazione,
peraltro, meramente assertiva – da Cass. 21 gennaio 2011,
n. 1410).
Pur se non direttamente investita della questione che oc‑
cupa invece oggi il collegio, la sentenza in discorso avrebbe
concluso, con un breve quanto significativo obiter dictum, nel
senso che, nelle modalità di insorgenza del diritto al risarci‑
mento, il caso scrutinato non si differenziava da quello della
lesione colposamente cagionata al feto durante il parto (dun‑
que prima della nascita), da cui derivi, dopo la nascita, il di‑
ritto del nato al risarcimento per il patito danno alla salute
(danno da lesione del diritto alla salute, dunque, e non già del
cosiddetto "diritto a nascere sano", che costituisce soltanto
l’espressione verbale di una fattispecie costituita dalla lesione
provocata al feto, ma che non è ricognitiva di un diritto pre‑
esistente in capo al concepito, che il diritto alla salute acquista
solo con la nascita), aggiungendo poi che, "in altro ambito,
null’altro che espressiva di una particolare fattispecie è la
locuzione diritto a non nascere se non sano, alla cui mancan‑
za, in passato, si è correlata la risposta negativa al quesito
relativo al se sia configurabile il diritto al risarcimento del
nato geneticamente malformato nei confronti del medico che
non abbia colposamente effettuato una corretta diagnosi in
sede ecografica ed abbia così precluso alla madre il ricorso
all’interruzione volontaria della gravidanza, che ella avrebbe
in ipotesi domandato".
Onde "la diversa costruzione che il collegio ritiene corret‑
ta consentirebbe invece, nel caso sopra descritto, una volta
esclusa l’esigenza di ravvisare la soggettività giuridica del
concepito per affermare la titolarità di un diritto in capo al
nato, di riconoscere il diritto al risarcimento anche al nato
con malformazioni congenite e non solo ai suoi genitori, come
oggi avviene, sembrando del tutto in linea col sistema e con
la diffusa sensibilità sociale che sia esteso al feto lo stesso
effetto protettivo (per il padre) del rapporto intercorso tra
madre e medico;
e che, come del resto accade per il padre, il diritto al risar‑
cimento possa essere fatto valere dopo la nascita anche dal
figlio il quale, per la violazione del diritto all’autodetermina‑
zione della madre, si duole in realtà non della nascita ma del
proprio stato di infermità (che sarebbe mancato se egli non
fosse nato)".
La pronuncia del 2011, pur senza affermarlo espressamen‑
te, ascrive pertanto la vicenda risarcitoria alla categoria dei
danni futuri: a quei danni, cioè, che al tempo della consuma‑
zione della condotta illecita non si sono ancora (o non si sono
del tutto) prodotti pur in presenza di elementi presuntivi
idonei a ritenere che il pregiudizio si produrrà (in argomento,
funditus, Cass. 4 febbraio 1992, n. 1147), senza che osti a
tale ricostruzione il dato letterale dell’art. 2043 c.c., che di‑
scorre di condotta dolosa o colposa che cagiona "ad altri" un
danno ingiusto, ma non esige per questo l’attuale esistenza del
danneggiato al tempo della condotta lesiva.
6.4. Va peraltro precisato come fermo convincimento del
collegio sia quello per cui l’evaporazione della questione della
soggettività giuridica del concepito non conduca punto a
rinnegare l’evoluzione subita, in materia, dal nostro ordina‑
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m a g g i o • g i u g n o
mento dal 1942 ad oggi, tanto alla luce delle norme costitu‑
zionali, quanto del ruolo sempre più incisivo delle fonti sovra‑
nazionali.
Non ignora, difatti, il collegio che l’interpretazione
dell’art. 1 c.c. non può prescindere da un dato storico certo,
quello secondo il quale il codice del 1942 nasce dalla fusione
delle leggi civili con i principi fondamentali del diritto com‑
merciale, e dalla conseguente unificazione dei testi normativi
rappresentati dal codice di commercio e da quello civile. La
struttura portante del codice così unificato corre dunque
lungo l’asse dei rapporti intersoggettivi di tipo patrimoniale
piuttosto che attraversare il territorio dei diritti della persona
e della personalità.
È del pari innegabile che nell’attuale periodo storico, ca‑
ratterizzato ab imis dalla entrata in vigore della Costituzione
repubblicana, la persona – la sua libertà, la sua dignità assur‑
ge via via a rango di primo motore immobile dell’ordinamen‑
to giuridico e della sua interpretazione. Lo stesso giudice
delle leggi, con specifico riguardo alla posizione del concepi‑
to, ne consacrerà a più riprese un inviolabile interesse alla
protezione, sua e della sua vita (particolarmente significativa,
al riguardo, la pronuncia 10 febbraio 1997, n. 35). Nè può
seriamente dubitarsi che l’evoluzione legislativa abbia intro‑
dotto una congerie di norme che prendono in considerazione
il concepito in quanto tale, come ha avuto cura di evidenzia‑
re la citata sentenza 10741 del 2009.
Ma tale, apprezzabile, condivisibile e probabilmente ine‑
vitabile evoluzione del costume legislativo ed interpretativo
non conduce, ipso facto, all’approdo necessario della sogget‑
tività del concepito.
Non convince, difatti, la pur suggestiva riflessione recen‑
temente svolta da un’attenta dottrina su di un piano rigoro‑
samente normativo (e dunque a prescindere da considerazioni
etiche, filosofiche, teologiche) a sostegno della teoria della
soggettività del nascituro.
Essa si fonda sulla generale portata precettiva dell’art. 320
c.c., comma 1, – che attribuisce ai genitori la rappresentanza
non solo dei figli nati, ma anche dei nascituri, onde "nell’in‑
terpretazione di un linguaggio tecnico come è quello giuridi‑
co, non sarebbe revocabile in dubbio che ogni forma di rap‑
presentanza, ivi compresa quella legale, è effettivamente tale
se c’è alterità soggettiva fra rappresentante e rappresentato e,
dunque, se il rappresentato è il soggetto giuridico in nome del
quale il rappresentante agisce".
L’argomento in realtà prova troppo, perché le stesse norme
sulla rappresentanza, in ragione della predicata alterità sog‑
gettiva, esigono in capo al rappresentato non soltanto la ca‑
pacità giuridica, ma altresì quella di agire, limitando al rap‑
presentante la sola capacità di intendere e di volere (se tale
rappresentanza è conferita dall’interessato). Ne consegue che
la "rappresentanza" disciplinata dall’art. 320 sì come riferita
al nascituro è istituto affatto peculiare, di portata sicuramen‑
te eccezionale, altrettanto certamente limitato al campo dei
diritti patrimoniali. E ciò proprio in conseguenza di quella
che altra, pensosa dottrina ha dal suo canto definito "la sin‑
golarità della relazione tra madre e nascituro, che fa di ogni
decisione riguardo al figlio una decisione della madre", in una
relazione non di alterità ma di immedesimazione, questa sì,
realmente "organica" (come implicitamente affermato nell’or‑
dinanza 31.3.1988 n. 389 della Corte costituzionale, che di‑
2 0 1 3
45
chiarò, con motivazione tranchant, del tutto inammissibile la
questione di legittimità costituzionale della L. n. 194, art. 5
nella parte in cui non riconosceva rilevanza alla volontà del
padre).
Per altro verso, lungi dall’apparire "irrazionale", appare
perfettamente compatibile con la concezione del nascituro
inteso come oggetto di tutela e non come soggetto di diritto
la disposizione dell’art. 578 c.p. – che punisce la madre che
non solo cagiona la morte del proprio neonato subito dopo il
parto, ma anche del feto durante il parto, prima che questo si
distacchi definitivamente dal proprio organismo ‑, poiché non
pare seriamente discutibile la piena equiparazione delle due
situazioni sul piano naturalistico prima ancora che giuridico,
una volta che il parto abbia avuto inizio.
L’indiscutibile e indiscussa rilevanza giuridica del conce‑
pito nel nostro ordinamento, pur a volerne condivisibilmente
predicare, come parte della dottrina esige a gran voce, un
innegabile "carattere generale", non limitato nè limitabile ad
ipotesi puntuali, non ha pertanto come ineludibile conseguen‑
za la creazione ex nihilo di una sua soggettività, ma si sostan‑
zia, si ripete, nel riconoscimento, ben più pregnante e prag‑
matico, della sua qualità di oggetto speciale di tutela da
parte dell’ordinamento.
Così affrancando il discorso giuridico (come osserverà, di
recente, una avveduta dottrina) "dai pantani della soggettivi‑
tà, onde assegnare al concepito garanzie di difesa senza ob‑
bligare l’interprete alla necessità pregiudiziale di attribuirgli
qualità soggettive nel significato e con le conseguenze che il
diritto riconosce a tale concetto", e finalmente liberi "dalle
categorie metafisiche costituite dalla triade concettuale per‑
sonalità, soggettività, capacità", la questione della protezione
del concepito non si discosta da quella della protezione dell’es‑
sere umano, nel senso che sarà compito di un essere umano
già vivente assicurare tutela a chi (come magistralmente inse‑
gnato dalla Corte costituzionale) essere umano deve ancora
diventare. È sotto questo profilo che va fermamente respinta
l’opinione di chi, dalla risarcibilità del danno da nascita mal‑
formata, pretende di inferire l’esistenza (e la rilevanza giuri‑
dica) di un diritto ad essere abortito quale rivendicazione
propria del nascituro/soggetto di diritto, alla stregua di un
preteso principio costituzionale di parità di trattamento,
tutte le volte che tale diritto all’aborto sarebbe stato esercita‑
to dalla madre se opportunamente informata della malforma‑
zione su sua esplicita richiesta. Sostenere – come a più riprese
è stato sostenuto, specie in seno alla dottrina francese all’in‑
domani della sentenza Perruche – che, se alla madre è consen‑
tito evitare la nascita in vista di una possibile malattia psichi‑
ca, sarebbe del tutto contrario al principio di uguaglianza
negare il medesimo diritto al minore, risulta una evidente
aporia, proprio perché il diritto vantato dal minore non è
affatto volto alla sua soppressione "ora per allora", nè tanto‑
meno alla rivendicazione di dover nascere sano ovvero di
dover non nascere se non sano in attuazione di una ipotetica
quanto inconcepibile eugenetica postnatale, ma alla ripara‑
zione di una condizione di pregiudizio per via di un risarci‑
mento funzionale ad alleviarne sofferenze e infermità, talora
prevalenti sul valore della vita stessa.
7. All’esito della ricognizione tanto delle pronunce più signi‑
ficative rese in subiecta materia da questa corte, quanto del
civile
Gazzetta
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D i r i t t o
e
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sempre fondamentale contributo della dottrina (ancor più
necessario tutte le volte che il diritto è chiamato ad affronta‑
re tematiche che trascendono la funzione sua propria e gli
strumenti di analisi di cui dispone), sembra potersi avviare ad
appagante soluzione la questione processuale sottoposta
all’esame del collegio nella sua dimensione rigorosamente
giuridica, e altrettanto rigorosamente ancorata al dato nor‑
mativo (e dunque scevra da facili suggestioni etiche, filosofi‑
che, o anche solo "creative").
Vanno conseguentemente analizzati tutti gli elementi della
fattispecie concreta onde inferirne la legittima riconducibilità
alla fattispecie astratta dell’illecito aquiliano in tutti i suoi
elementi di struttura così come descritti dall’art. 2043 c.c..
Premesso che l’analisi delle questioni relative ai criteri di
valutazione del danno, che pur completerebbe l’indagine, è
preclusa dall’estraneità del tema al presente giudizio, il colle‑
gio ritiene necessario condurre l’esame della fattispecie con
riguardo:
• al soggetto legittimato ad agire (rectius alla legittimazione
soggettiva attiva);
• all’oggetto della tutela;
• all’evento di danno;
• al nesso causale;
• alla colpa dell’agente;
• ai presupposti normativi della richiesta risarcitoria (L.
n. 194 del 1978, artt. 4 e 6);
• ai presupposti fattuali della domanda risarcitoria (la ri‑
chiesta di diagnosi funzionale all’aborto da parte della
gestante);
• alla titolarità del diritto di rappresentanza nell’esercizio
del diritto al risarcimento (e all’eventuale conflitto di in‑
teressi con i genitori);
• al riparto degli oneri probatori.
La Corte non ritiene, difatti, del tutto appagante, nel dar
vita ad un così significativo revireraent rispetto alle pronunce
del 2004 e del 2009, nè l’evocazione di quella sensazione di
sotterfugio cui ricorrerebbe la giurisprudenza per riconoscere
il risarcimento in via indiretta all’handicappato, nè la pur
suggestiva considerazione volta a rilevare la contraddizione
logica del riconoscere il risarcimento del danno ai genitori e
non riconoscerlo al minore nato con la malattia, contraddi‑
zione resa ancor più evidente se il risarcimento è riconosciuto
non solo alla gestante, poiché è stato leso il suo diritto ad
interrompere la gravidanza, ma anche al marito della stessa
(che non ha un tale diritto), sol perché è diventato padre di un
bambino anormale.
7.1. La legittimazione soggettiva
Alla luce delle considerazioni che precedono, non sembra
seriamente discutibile la predicabilità di una legittimazione
attiva del neonato in proprio all’azione di risarcimento.
Superate le suggestioni rappresentate dall’ostacolo "onto‑
logico" – l’impossibilità per un essere vivente di esistere come
soggetto prima della sua vita – e convertita in questione giu‑
ridica la posizione del soggetto che, attualmente esistente,
avanza pretese risarcitorie (ciò che sposterebbe il piano
dell’analisi non sul versante della legittimazione soggettiva
astratta, ma della titolarità concreta del rapporto controverso)
e prescindendo del tutto, per il momento, dall’analisi degli
ulteriori elementi della fattispecie (id est il diritto leso, l’even‑
c i v i l e
Gazzetta
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to di danno, la sua ingiustizia, il nesso di causalità), va rico‑
nosciuto al neonato/soggetto di diritto/giuridicamente capace
(art. 1 c.c.) il diritto a chiedere il risarcimento dal momento
in cui è nato. Sul piano giuridico (che, non va dimenticato, è
dimensione meta‑reale del pensiero, nella quale le stesse cate‑
gorie spazio/tempo si annullano o si modificano, se si pensa
al commercio elettronico o alla retroattività della condizione
sospensiva) nulla sembra diversificare la situazione soggettiva
dell’avente diritto al risarcimento conseguente alla nascita
malformata da quelle tradizionali pratiche testamentarie di
diritto comune attraverso le quali vengono riconosciuti e at‑
tribuiti diritti ad una "persona" che ancora deve nascere. Nè
rileva, ai finì della predicabilità di tale legittimazione sogget‑
tiva, la specularità del senso dell’operazione – poiché non di
una volontà ascendente che istituisce un soggetto che nascerà
si tratta, bensì di un soggetto che, alla sua nascita, istituisce
retroattivamente sè stesso, divenendo così titolare di un dirit‑
to soggettivo nuovo, il cui esercizio non richiede, peraltro, la
finzione di un soggetto di diritto prenatale.
Soggetto "autore" del minore malformato non è, pertanto,
l’ascendente, il testatore, il donante, ma sè stesso. Ben più che un
nuovo diritto soggettivo, il riconoscimento di tale legittimazione
istituisce un nuovo soggetto autonomo, al punto che la qualità
innata della sua vita diviene un diritto esigibile della persona,
senza che – come è stato assai suggestivamente scritto – "questo
nuovo soggetto di diritto divenga un mostro senza passato". E
senza che, va aggiunto, la sua pretesa risarcitoria appaia una
mostruosità senza passato, confondendo il tempo della vita con
il tempo della costruzione (e della finzione) giuridica.
7.2. L’interesse tutelato
L’assemblea plenaria della corte di cassazione francese,
nell’ammettere la legittimità della richiesta risarcitoria in
proprio del piccolo P.N., si limitò ad osservare che questi
aveva effettivamente subito un pregiudizio risultante dall’han‑
dicap particolarmente grave da cui era afflitto, specificando
che la causalità non potesse, nella specie, essere ridotta alla
sua dimensione scientifica o logica, ma andasse intesa in
senso "giuridico".
La sentenza, vivacemente contestata, pose e pone tuttora
un problema di non poco momento: quello, cioè, di individua‑
re con esattezza la situazione soggettiva di cui si lamenta la
lesione, onde ricondurla al conseguente evento di danno che,
da quella lesione, ebbe a generarsi (per poi ricondurre ancora
la condotta colpevole alla lesione della situazione soggettiva
ed all’evento valutato in termini di contra ius).
È convincimento del collegio che la domanda risarcitoria
avanzata personalmente dal bambino malformato trovi il suo
fondamento negli artt. 2, 3, 29, 30 e 32 Cost..
Il vulnus lamentato da parte del minore malformato, di‑
fatti, non è la malformazione in sè considerata – non è, in altri
termini, l’infermità intesa in senso naturalistico (o secondo i
dettami della scienza medica), bensì lo stato funzionale di in‑
fermità, la condizione evolutiva della vita handicappata intese
come proiezione dinamica dell’esistenza che non è semplice
somma algebrica della vita e dell’handicap, ma sintesi di vita
ed handicap, sintesi generatrice di una vita handicappata.
È violato il dettato dell’art. 32 Cost., intesa la salute non
soltanto nella sua dimensione statica di assenza di malattia,
ma come condizione dinamico/funzionale di benessere psico‑
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
fisico – come testualmente si legge nel d.lgs. n. 81 del 2008,
art. 1, lett. o), e come recentemente riaffermato da questa
stessa Corte con la sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748.
Deve ancora ritenersi consumata:
la violazione della più generale norma dell’art. 2 Cost.,
apparendo innegabile la limitazione del diritto del minore
allo svolgimento della propria personalità sia come singolo
sia nelle formazioni sociali;
dell’art. 3 Cost., nella misura in cui si renderà sempre più
evidente la limitazione al pieno sviluppo della persona;
degli artt. 29, 30 e 31 Cost., volta che l’arrivo del minore
in una dimensione familiare "alterata" (come lascia presume‑
re il fatto che la madre si fosse già emotivamente predisposta,
se correttamente informata della malformazione, ad interrom‑
pere la gravidanza, in previsione di una sua futura malattia
fisica o psichica al cospetto di una nascita dichiaratamente
indesiderata) impedisce o rende più ardua la concreta e co‑
stante attuazione dei diritti‑doveri dei genitori sanciti dal
dettato costituzionale, che tutela la vita familiare nel suo li‑
bero e sereno svolgimento sotto il profilo dell’istruzione,
educazione, mantenimento dei figli.
Tali situazioni soggettive, giuridicamente tutelate e giuri‑
dicamente rilevanti, sono pertanto riconducibili non alla sola
nascita nè al solo handicap, bensì alla nascita ed alla futura
vita handicappata intesa nella sua più ampia accezione fun‑
zionale, la cui "diversità" non è discriminata in un giudizio
metagiuridico di disvalore tra nascita e non nascita, ma sol‑
tanto tutelata, rispettata ed alleviata per via risarcitoria.
Non è a discorrersi, pertanto, di non meritevolezza di una
vita handicappata, ma una vita che merita di essere vissuta
meno disagevolmente, attribuendo direttamente al soggetto
che di tale condizione di disagio è personalmente portatore il
dovuto importo risarcitorio, senza mediazioni di terzi,
quand’anche fossero i genitori, ipoteticamente liberi di utiliz‑
zare il risarcimento a loro riconosciuto ai più disparati fini.
(Omissis)
Non assume, pertanto, alcun rilievo "giuridico" la dimen‑
sione prenatale del minore, quella nel corso della quale la
madre avrebbe, se informata, esercitato il diritto all’interru‑
zione della gravidanza. Se l’esercizio di questo diritto fosse
stato assicurato alla gestante, la dimensione del non essere del
nascituro impedisce di attribuirle qualsivoglia rilevanza giu‑
ridica.
Come accade in altro meno nobile territorio del diritto, e
cioè in tema di nullità negoziale, l’interprete si trova al cospet‑
to non già di una qualificazione giuridica negativa di un fatto
(che ne consentirebbe uno speculare parallelismo con la cor‑
rispondente qualificazione positiva), bensì di una inqualifica‑
zione giuridica tout court.
Ciò che è giuridicamente in‑qualificato non ha cittadinan‑
za nel mondo del diritto, onde la assoluta irrilevanza dell’af‑
fermazione secondo la quale "nessuno potrebbe preferire la
non vita alla vita", funzionale ad un "dovere di vivere" – an‑
cora una volta relegato entro i confini di una specifica visione
e dimensione etica delle vicende umane priva di seri riscontri
normativi, come già affermato da questa Corte, in tema di
diritti di fine vita con la già ricordata sentenza del 2007 – che
in nessun caso può costituire legittimo speculum, sul piano
2 0 1 3
47
normativo, del diritto individuale alla vita. Il ragionamento
apparentemente sillogistico, elaborato da gran parte della
dottrina francese all’indomani del caso Perruche, secondo cui
"sarebbe insanabilmente contraddittorio considerare che il
bambino handicappato, una volta nato, possa usare la sua
acquisita qualità di soggetto di diritti per chiedere il risarci‑
mento del danno risultante dal fatto di non essere stato abor‑
tito dalla madre, cosa che gli avrebbe impedito di diventare
soggetto di diritti", perde ogni ragionevole senso alla luce di
quanto sinora esposto circa l’aspetto soggettivo ed oggettivo
della vicenda: l’obiezione caratterizza, difatti, l’enunciato in
termini di esigenza meramente logico‑discorsiva, che non
impone al soggetto un obbligo di vivere, ma un dovere lingui‑
stico di non affermare nulla che possa portarlo a predicare sè
stesso come inesistente.
Tutto ciò resta ai margini del discorso giuridico, così come
estraneo al diritto positivo, se non nei limiti del suo altrettan‑
to positivo recepimento in norme (ove esistenti), è una consi‑
derazione razionale della natura dell’uomo che ne implichi un
obbligo di vivere, avendo di converso l’ordinamento positivo
eletto ad essenza dei diritti dell’uomo, prima ancora della
dignità (diversamente dall’ordinamento tedesco, in conse‑
guenza della storia di quel popolo) la libertà dell’individuo,
che si autolimita nel contratto sociale, ma resta intatta nei
confronti di sè stesso, in una dimensione dell’essere che legit‑
tima alfine anche il non fare o il rifiutare.
7.3. L’evento di danno
Sgombrato il campo dall’equivoco costituito dalla pretesa
equazione "diritto di nascere o di non nascere/diritto al risar‑
cimento da nascita malformata" (pare utile rammentare che
la stessa corte di cassazione francese, il 13 luglio 2001, pochi
mesi prima dell’arret Perruche, aveva respinto un ricorso che
trasponeva erroneamente il pregiudizio "sul fatto stesso di
essere in vita"), risulta innegabile come l’esercizio del diritto
al risarcimento da parte del minore in proprio non sia in alcun
modo riconducibile ad un impersonale "non nascere", ma si
riconnetta, personalmente e soggettivamente, a quella singo‑
la, puntuale e irripetibile vicenda umana che riguarda quel
determinato (e altrettanto irripetibile) soggetto che, invocan‑
do un risarcimento, fa istanza al giudice di piena attuazione
del dettato costituzionale dianzi evocato, onde essere messo
in condizione di poter vivere meno disagevolmente, anelando
ad una meno incompleta realizzazione dei suoi diritti di indi‑
viduo singolo e di parte sociale scolpiti nell’art. 2 Cost..
È pertanto un vero e proprio "dibattito sulle ombre" quello
volto a sostenere che tale facoltà, in guisa di diritto a sè stessi,
potrebbe attuarsi soltanto attraverso due modalità dell’impos‑
sibile, il non essere dell’essere ovvero l’essere del non essere.
Riflessioni, si ripete, di indiscutibile spessore filosofico.
Ma irrilevanti sul piano giuridico se, tra natura e diritto (co‑
me lo stesso giusnaturalismo ammette), si erge il triplice filtro
costituito dalla legislazione, dalla giurisdizione, dalla inter‑
pretazione.
È dunque confinata nella sfera dell’irrilevante giuridico
ogni questione formulata fuori da tale dimensione, in parti‑
colare quella (incontrollabile dal diritto) del possibile e del
non possibile ontologico.
La legittimità dell’istanza risarcitoria iure proprio del mi‑
nore deriva, pertanto, da una omissione colpevole cui consegue
civile
Gazzetta
48
D i r i t t o
e
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non il danno della sua esistenza, nè quello della malformazione
di sè sola considerata, ma la sua stessa esistenza diversamente
abile, che discende a sua volta dalla possibilità legale dell’abor‑
to riconosciuta alla madre in una relazione con il feto non di
rappresentante‑rappresentato, ma di includente‑incluso.
Una esistenza diversamente abile rettamente intesa come
sintesi dinamica inscindibile quanto irredimibile, e non come
algida fictio iuris ovvero arida somma algebrica delle sue
componenti (nascita+handicap=risarcimento), nè tantomeno
come una condizione deteriore dell’essere negativamente ca‑
ratterizzata, ma situazione esistenziale che, in presenza di
tutti gli elementi della fattispecie astratta dell’illecito, consen‑
te e impone al diritto di intervenire in termini risarcitori
(l’unico intervento consentito al diritto, amaramente chiama‑
to, in tali vicende, a trasformare il dolore in denaro) affinché
quella condizione umana ne risulti alleviata, assicurando al
minore una vita meno disagevole.
Consentendo, alfine, per il tramite del diritto, ciò che una
logica astrattamente giusnaturalitica vorrebbe viceversa ne‑
gare.
L’evento di danno è costituito, pertanto, nella specie,
dalla individuazione di sintesi della "nascita malformata",
intesa come condizione dinamica dell’esistenza riferita ad un
soggetto di diritto attualmente esistente, e non già destinata
"a realizzare un suicidio per interposto risarcimento danni",
come pure s’è talvolta opinato.
7.4. Il nesso di causa.
La esistenza di un nesso di causalità giuridicamente rile‑
vante tra la condotta del sanitario e l’evento di danno lamen‑
tato a seguito della violazione di un interesse costituzional‑
mente protetto del minore (questione che apparve immedia‑
tamente come la più problematica dell’intera vicenda risarci‑
toria all’indomani della sentenza Perruche, e che non venne
affrontata funditus dalle due sentenze di questa corte che, nel
2004 e nel 2009, esclusero sotto altro aspetto l’esistenza di un
autonomo diritto al risarcimento in capo al minore) può rice‑
vere soddisfacente soluzione all’esito della ricognizione
dell’evento di danno così come appena operata.
Si sono correttamente sostenute, in proposito, tanto la
irrilevanza di un nesso causale tra l’omissione di diagnosi e la
nascita – attesa la inconfigurabilità di quest’ultima in termini
di evento dannoso ‑, quanto la inesistenza di tale nesso tra la
condotta omissiva e l’handicap in sè considerato, atteso che
la malformazione non è conseguenza dell’omissione bensì del
presupposto di natura genetica, rispetto al quale la condotta
del sanitario è muta sul piano della rilevanza eziologica.
Rilevanza che, di converso, appare sicuramente predica‑
bile una volta identificato con esattezza l’evento di danno
nella nascita malformata intesa nei sensi poc’anzi esposti.
Tale evento, nella più volte illustrata proiezione dinamica
dell’esistente, appare senz’altro riconducibile, secondo un
giudizio prognostico ex post, all’omissione, volta che una
condotta diligente e incolpevole avrebbe consentito alla don‑
na di esercitare il suo diritto all’aborto (sì come espressamen‑
te dichiarato al medico nel caso di specie).
Una diversa soluzione, sul piano causale, si risolverebbe
nell’inammissibile annullamento della volontà della gestante,
senza che, in proposito possano assumere rilievo ipotesi alter‑
native confinate, nella specie, in una dimensione dell’improba‑
bile – e dunque del giuridicamente irrilevante circa la eventua‑
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c i v i l e
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lità (come ipotizzata dalla corte territoriale) di un futuro muta‑
mento di decisione da parte della gestante stessa in ordine alla
pur programmata interruzione condizionata di gravidanza.
Va pertanto affermata, sul piano del nesso di condiziona‑
mento, la equiparazione quoad effecta tra la fattispecie dell’er‑
rore medico che non abbia evitato l’handicap evitabile (l’han‑
dicap, si badi, non la nascita handicappata), ovvero che tale
handicap abbia cagionato (come nella ipotesi scrutinata dalla
sentenza 10741/2009) e l’errore medico che non ha evitato (o
ha concorso a non evitare) la nascita malformata (evitabile,
senza l’errore diagnostico, in conseguenza della facoltà di
scelta della gestante derivante da una espressa disposizione di
legge). Facoltà il cui esercizio la gestante aveva, nella specie,
espressamente dichiarato di voler esercitare, donde l’evidente
paralogismo che si cela nella motivazione della corte territo‑
riale nel momento in cui onera la odierna ricorrente dell’in‑
combente di provare quello che risultava già provato ed ac‑
quisito agli atti del processo.
7.5. La condotta colpevole
Si è già avuto modo di evidenziare, nel corso dell’esame del
secondo, terzo e quarto motivo di ricorso, come la colpevolez‑
za della condotta si sia, nella specie, manifestata sotto il dupli‑
ce profilo della non sufficiente attendibilità del test in presen‑
za di una esplicita richiesta di informazioni finalizzate, se del
caso, all’interruzione della gravidanza da parte della gestante,
e dal difetto di informazioni circa la gamma complessiva delle
possibili indagini e dei rischi ad essa correlati, onde sull’argo‑
mento non appaiono necessarie ulteriori precisazioni.
7.6. Gli oneri probatori.
L’esistenza di una espressa e inequivoca dichiarazione
della volontà di interrompere la gravidanza in caso di malat‑
tia genetica, quale quella espressa dalla gestante nel caso di
specie, esìme il collegio da ogni ulteriore valutazione circa la
evidente e determinante rilevanza di tale volontà.
(Omissis)
7.7. La rappresentanza del minore.
La questione centrale che pone il riconoscimento del di‑
ritto al risarcimento del danno in proprio in capo al minore,
quanto al suo conseguente esercizio per mezzo dei suoi legali
rappresentanti – specie quando la intensità del suo handicap
gli impedisce e gli impedirà in futuro qualunque espressione
di volontà ‑, ruota attorno al pur ipotizzato conflitto di inte‑
ressi che potrebbe investire i soggetti della vicenda risarcito‑
ria.
Sono state già esposte in precedenza le ragioni poste a
fondamento dell’esclusione di ogni potenziale conflitto, e
della insostemibilità di ogni ipotetica rivalsa da parte del
minore nei confronti della madre.
(Omissis)
8. Il sesto motivo risulta assorbito nell’accoglimento di quelli
che lo precedono, (Omissis).
P.Q.M.
(Omissis)
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m a g g i o • g i u g n o
***Nota a sentenza
1. Il fatto
La sentenza in epigrafe riconosce, per la prima volta e in
controtendenza rispetto a una giurisprudenza consolidata, il
diritto del minore, nato con una malformazione congenita, a
chiedere il risarcimento del danno, iure proprio, in conseguen‑
za dell’omissione di diagnosi da parte del medico, per aver
impedito alla madre la possibilità di conoscere la malformazio‑
ne congenita e, quindi, di autodeterminarsi nella scelta di in‑
terrompere o meno la gravidanza.
Il caso risale al 1996, quando una signora, in attesa della
terza figlia, si era rivolta ad un medico chiedendo di essere
sottoposta a tutti gli accertamenti necessari ad escludere mal‑
formazioni del feto, in quanto, nel caso, avrebbe potuto auto‑
determinarsi all’interruzione della gravidanza. Il medico effet‑
tuava il solo “tri‑test”, omettendo di prescrivere accertamenti
più specifici. Portata a termine la gestazione nasceva una bam‑
bina affetta da sindrome di down. Nel febbraio 1999 la signo‑
ra e il marito, in proprio e nelle qualità di genitori esercenti la
potestà sulle figlie minori, convenivano in giudizio il medico
dinanzi al tribunale di Treviso, chiedendo il risarcimento del
danno per omessa diagnosi come diritto spettante alla madre,
al padre e alle figlie e, tra queste, anche alla piccola nata mal‑
formata. Il tribunale di Treviso respingeva in toto la domanda
attorea, previa declaratoria del difetto di legittimazione attiva
in capo alla minore diversamente abile. Stesso esito aveva l’im‑
pugnazione proposta alla Corte d’appello di Venezia la quale
riprendeva il principio di diritto affermato dalla Corte di Cas‑
sazione nella sentenza 14488/2004 che aveva respinto un’ana‑
loga richiesta sostenendo che “verificatasi la nascita, non può
dal minore essere fatto valere come proprio danno da inadem‑
pimento contrattuale l’essere egli affetto da malformazioni
congenite per non essere stata la madre, per difetto di infor‑
mazione, messa in condizione di tutelare il di lei diritto alla
salute facendo ricorso all’aborto”. La pronuncia d’appello,
impugnata con ricorso in Cassazione articolato in sei motivi, è
stata dalla Suprema Corte cassata con rinvio, accogliendo
tutte le doglianze dei ricorrenti.
La Corte riconosce il diritto al risarcimento in capo alla
madre, al padre e alle figlie e, per la prima volta, anche in capo
alla bambina nata malformata. Quasi tutte le circa 80 pagine
della parte motiva mirano a sostenere, in particolare, tale ulti‑
mo punto. La questione è gravosa sia in quanto viene operato
un revirement rispetto a una giurisprudenza che sembrava
ormai consolidata nell’impossibilità di riconoscere un autono‑
mo diritto in capo a un individuo per “essere nato non sano”,
sia perché coinvolge campi limite in cui il diritto necessaria‑
mente deve fare i conti con suggestioni morali, religiose e me‑
tascientifiche.
La Corte è assolutamente consapevole della difficoltà della
vicenda e dei limiti dell’ordinamento che in tali vicende è “ama‑
ramente chiamato al gravoso compito di trasformare il dolore
in denaro”.
2. La giurisprudenza antecedente: l’impossibilità della riconosci‑
bilità del diritto al risarcimento da nascita indesiderata in capo al
nato “per ché nato”
Ma procediamo con ordine. Quanto alla madre, codesta
chiede il risarcimento del danno in quanto, qualora il medico
avesse compiuto tutti gli accertamenti del caso e fosse risultata
2 0 1 3
49
la malformazione del feto, avrebbe deciso di abortire. Ebbene,
qui è necessaria una precisazione poiché la signora non avreb‑
be potuto interrompere la gravidanza solo per questo. Più
volte nella sentenza viene ribadito che nel nostro ordinamento
non è ammesso il c.d. aborto eugenetico. La legge 194/78 rico‑
nosce la possibilità alla gestante, qualora la sua salute – anche
psichica – risulti in pericolo, di interrompere la gravidanza,
entro un determinato periodo; ma è sempre la possibilità di
compromissione della salute della gestante ad essere a base del
diritto all’aborto. La situazione giuridica soggettiva lesa dalla
colposa omissione del medico è la possibilità che avrebbe avu‑
to la madre, qualora fosse risultata la malformazione, di auto‑
determinarsi nella possibilità di abortire, in quanto avrebbe
potuto veder compromessa la sua salute. Ebbene, rispetto a
questa situazione, sicuramente vi è un nesso eziologico tra la
colposa omissione del medico e la lesione del diritto della madre
che, non avendo le conoscenze specifiche in materia, si “affida”
al medico in un “contatto sociale” sufficiente per affermare la
natura contrattuale del rapporto costituendo. Se il medico
fosse stato più diligente avrebbe potuto fornire alla gestante
tutte le informazioni, che da sola mai avrebbe potuto ottenere,
per esercitare il suo diritto all’autodeterminazione. Rispetto al
diritto in capo alla madre, dunque, ben si può parlare di re‑
sponsabilità per fatto colposo del medico.
Per quanto riguarda il padre già le sentenze Cass. n. 6735/2002
e 14488/2004 avevano affermato la titolarità di autonomo
diritto dello stesso al risarcimento per omessa diagnosi, in
quanto rientrante nella sfera di protezione che si verrebbe a
creare per effetto del rapporto intercorrente tra la gestante e il
medico. La prestazione di informazioni dovuta dal medico
mira a tutelare il diritto della madre a autodeterminarsi, ma
una siffatta situazione influenza ed è influenzata dal contesto
familiare in cui matura l’autodeterminazione della madre.
Dottrina recente tende sempre più ad esaltare la funzione indi‑
rettamente collettiva che esercitano le situazioni giuridiche
soggettive appartenenti ai singoli considerati in quanto membri
di una famiglia. L’arrivo di un bambino indesiderato sicura‑
mente compromette l’ambiente familiare, ed è sulla base di
questo ragionamento che si ribadisce il diritto al risarcimento
del danno non patrimoniale al padre e si afferma per la prima
volta analogo diritto in capo ai restanti membri della famiglia
(nel caso di specie, le due sorelle).
Il vero problema sollevato da questa sentenza, come abbia‑
mo detto, è la riconoscibilità di autonomo diritto in capo al
concepito malformato. A questo problema è dedicato tutto il
punto 6 della sentenza che pone questioni difficili sotto molti
profili.
Innanzitutto la Corte, avendo l’onere di motivare il revi‑
rement, ripercorre le precendenti vicende giurisprudenziali,
da cui intende discostarsi. In particolare si sofferma sulla
sentenza n. 14488/2004 nella quale il caso era molto simile
poiché riguardava dei genitori affetti da talassemia che non
erano stati informati del rischio che anche la nascitura po‑
tesse risultarne affetta, e perciò avevano convenuto in giudi‑
zio il medico chiedendo il risarcimento del danno patito sia
da loro che dalla piccola poi effettivamente nata talassemica.
La Corte riconobbe il diritto in capo a entrambi i genitori e
negò lo stesso alla neonata sulla base di numerose argomen‑
tazioni che si riportavano tutte alla concezione che se si
fosse affermato un tale diritto in capo, iure proprio, alla
civile
Gazzetta
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D i r i t t o
e
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neonata ‑a prescindere da qualunque considerazione sulla
soggettività o meno di qui in utero est‑ lo si sarebbe fatto
sulla base di un presunto diritto a “non nascere se non sano”,
in quanto l’alternativa alla nascita malformata era meramen‑
te la non nascita. Il diritto a non nascere, si afferma nella
sentenza de qua, è un diritto adespota, in quanto è un dirit‑
to che sarebbe azionabile solo se violato, concretandosi la
violazione nell’evento nascita al quale è condizionato l’eser‑
cizio delle situazioni giuridiche di cui è titolare il concepito.
A conferma di tale ricostruzione viene fatto osservare – ri‑
chiamando la sentenza del 2004 – che “se esistesse detto
diritto a non nascere se non sano, se ne dovrebbe ritenere
l’esistenza indipendentemente dal pericolo per la salute
della madre derivante dalle malformazioni fetali… …infatti,
anche se non vi fosse pericolo per la salute della gestante,
ogni qual volta vi fosse la previsione di malformazioni o
anomalie del feto, la gestante, per non ledere questo presun‑
to diritto di non nascere se non sani, avrebbe l’obbligo di
richiedere l’aborto, altrimenti si esporrebbe ad una respon‑
sabilità nei confronti del nascituro una volta nato”. Viene,
inoltre, richiamato il caso Perruche, a sostegno della tenden‑
za degli altri ordinamenti a non tollerare tale responsabilità
in capo al medico laddove la malformazione sia congenita:
l’arret Perruche, si pronunciava su un caso del tutto simile a
quello di specie e affermava l’autonomo diritto in capo al
bambino handicappato. Senonché, proprio per evitare il
consolidarsi di quella che appariva una situazione parados‑
sale, era stata emanata immediatamente dopo la loi Kouch‑
ner (303/2002) che escluse qualsivoglia pretesa risarcitoria
dell’handicappato per il solo fatto della nascita “quando
l’handicap non è stato provocato, aggravato o evitato da
errore medico”. Nonostante la pronuncia del 2004 fosse,
dunque, così ferma nel negare il diritto oggi riconosciuto,
nelle critiche successive (come riportato stesso dalla ricostru‑
zione della sentenza in commento), si evidenziava come una
tale soluzione fosse quanto meno indebolita dal riconosci‑
mento dell’autonomo diritto in capo ai restanti membri della
famiglia, in quanto a fortiori la neonata malformata avrebbe
dovuto ritenersi nella cerchia dei presunti terzi danneggiati
dall’inadempimento del medico, atteso che sotteso alla sen‑
tenza vi è un anelito di giustizia in qualche modo insoddi‑
sfatta, quando si parla della possibilità che non ha una per‑
sona nata con una malformazione che ne segna la vita di
“chiederne conto a qualcuno”. La sentenza del 2004 non si
esponeva particolarmente, poi, a proposito del problema
della soggettività o meno del nascituro, problema su cui si è
pronunciata invece nel 2009, con la sentenza n. 10741. Tale
pronuncia anche viene abbondantemente richiamata nella
sentenza in commento, in quanto per la prima volta si rico‑
nosce un autonomo diritto al risarcimento in capo al prota‑
gonista di una vicenda di danno prenatale. Tuttavia in questo
caso si trattava di un comportamento commissivo del medi‑
co, che colposamente aveva somministrato alla madre dei
farmaci comportanti rischi teratogeni dannosi per il nascitu‑
ro, e anzi, viene ribadita l’esclusione di ogni tutela risarcito‑
ria nel diverso caso della mancata informazione incidente
sulla decisione della madre di interrompere la gravidanza.
Esaminate le precedenti pronunce, la sentenza che si com‑
menta percorre una strada diversa.
c i v i l e
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F O R E N S E
3. La soluzione dell’odierna pronuncia
Si parte dal presupposto che la giurisprudenza precedente
(tra l’altro appartenente alla medesima sezione della Suprema
Corte) si era pronunciata sulla base di un equivoco di fondo:
l’inconfigurabilità di un presunto “diritto a non nascere se non
sani”. Tale situazione soggettiva non esiste e se si pone un’al‑
ternativa è tra il nascere sani e il nascere non sani, che è sicu‑
ramente una circostanza che compromette una esistenza che
porti al pieno sviluppo della personalità secondo i dettami
della Costituzione. Il nostro ordinamento – dice la Corte in uno
dei passi più rilevanti della sentenza (punto 6.2 della parte
motiva) –, riconoscendo il diritto a interrompere la gravidanza,
sia pure nei casi e nei limiti previsti dalla legge, ha compiuto
una scelta di fondo: sacrificare la possibilità del feto di venire
alla luce in funzione dell’interesse alla salute ‑anche psichica‑
della gestante. Stante la centralità della persona come valore
assoluto nel nostro ordinamento, se il bilanciamento avvenisse
tra due entità dotate del medesimo grado di capacità giuridica,
non ci potrebbe essere alcuna soccombenza del superiore dirit‑
to alla vita rispetto a quello alla salute. Il nostro ordinamento
sacrifica la vita potenziale con una legge che, tra l’altro, più
volte è stata sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale.
La Corte, nell’argomentare, prescinde da qualunque possibilità
di qualificare una volta e per tutte l’imputabilità delle situazio‑
ni giuridiche soggettive in capo al nascituro. La categoria
“soggetto di diritto” non rileva che per la sua funzionalità a
rappresentare un centro di interessi suscettibili di tutela. E,
dice la Corte, “la protezione del nascituro non passa necessa‑
riamente attraverso la sua istituzionalizzazione a soggetto di
diritto… …è sufficiente considerarlo oggetto di tutela”. Vi è
un esigenza di tutela del feto, ma nel bilanciamento con la sa‑
lute della madre, di fatto, l’ordinamento ci dice che questo in‑
teresse soccombe. Il diritto della madre e l’interesse del nasci‑
turo non sono sullo stesso piano. Non a caso – continua la
Corte – non è senza significato la circostanza per la quale sono
rimasti privi di seguito, non essendo mai stati discussi neppure
in commissione, i due disegni e le due proposte di legge presen‑
tati nel corso dell’attuale legislatura, sia al Senato che alla
Camera, volti a modificare l’art. 1 c.c., comma 1, sostituendo‑
ne il testo originario nel senso che “ogni essere umano ha la
capacità giuridica fin dal momento del concepimento”. Il con‑
cepito è difficilmente configurabile quale persona, anche sotto
l’ulteriore profilo per il quale non appaiono seriamente predi‑
cabili per qui in utero est interessi personali quali il diritto
all’onore, alla reputazione, all’identità personale, situazioni
soggettive che presuppongono una dimensione di relazioni
sociali ovvero una consapevolezza di sé che, ipso facto, difet‑
tano al concepito sul piano naturalistico, prima ancora che
giuridico. Queste considerazioni sono state già a base della
sentenza n. 9700 del 2011, nella quale si è affermato il principio
di diritto per il quale chi sia nato successivamente alla morte
del padre ‑che, ovviamente, già l’aveva concepito‑ può ottenere
il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniale veri‑
ficatisi al momento della nascita e successivamente ad essa,
essendo irrilevante la non contemporaneità fra la condotta
dell’autore dell’illecito e il danno. I danni in questione si ascri‑
vono, dunque, alla categoria dei “danni futuri”, in quanto è
irrilevante la questione della soggettività giuridica o meno del
concepito. “Del rapporto parentale” – si legge nella senten‑
za – “la figlia è stata privata nascendo e non prima che nasces‑
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
se”: le situazioni formatesi durante la gestazione divengono
attuali al momento del parto. É prettamente sulla base di que‑
ste considerazioni che la Corte arriva a contestare l’equivoco in
cui si era imbattuta la precedente giurisprudenza che parlava
di “diritto a non nascere se non sani”, in quanto una tale affer‑
mazione, retorica, partirebbe dalla presupposta soggettività
giuridica del nascituro, quale funzionale a garantirgli una
forma di tutela.
Sgombrato il campo (per usare la terminologia della Cor‑
te) da questo equivoco, ben si può affermare la situazione di
danno in cui si viene a trovare un soggetto che nasce malfor‑
mato, il quale avrà un’esistenza compromessa per tutta la sua
durata, difficilmente configurabile come dignitosa, e che im‑
pedirà di fatto lo sviluppo della sua personalità. Ecco perché
si afferma che la domanda risarcitoria trova il suo fondamen‑
to negli articoli 2, 3, 29, 30 e 32 della Costituzione: il vulnus
lamentato dal neonato non è l’infermità sic et simpliciter,
bensì lo stato funzionale di infermità, l’esistenza handicappa‑
ta della propria personalità inserito, tra l’altro, in un contesto,
familiare e sociale, sicuramente poco preparato ad accoglierlo.
Sono questi principi che ben giustificano la pretesa risarcitoria
del neonato, quale “riparazione di una condizione di pregiu‑
dizio per via di un risarcimento funzionale ad alleviarne
sofferenze e infermità, talora prevalenti sul valore della vita
stessa”.
4. Il problema del criterio di imputazione della responsabilità
Quel che appare, a mio parere controverso, e sul quale la
Corte non è chiara è, però, il problema del nesso di casualità e,
di conseguenza, dell’imputazione della responsabilità. Tutta la
partita si gioca, a ben vedere, su questi due punti: anche a voler
ravvisare, dunque, una situazione di danno nell’esistenza mal‑
formata del bambino, appare discutibile il ricollegare questo
evento dannoso al comportamento del medico e, conseguente‑
mente, al connotare in termini di colpa un comportamento da
cui non è potuta naturalisticamente derivare la malformazione
in quanto congenita. Il Collegio ha avuto di mira il fine di un
ristoro economico che aspiri ad alleviare il dolore della situa‑
zione di esistenza compromessa del bambino e, forse, spinto da
questo ‑senz’alcun dubbio‑ nobile obiettivo, ha tralasciato una
questione che, tra l’altro, è esso stesso ad affermare di vitale
importanza, anche con riferimento al caso Perruche di cui si
critica la povertà di soluzione sul punto. A ben vedere, un’omis‑
sione colposa del medico sicuramente rileva per quanto riguar‑
da la gestante, in quanto è stata lesa nel proprio diritto, di
autodeterminarsi nella possibilità di interrompere la gravidan‑
za. Abbiamo visto come si può configurare, anche con margini
meno certi, un autonomo diritto in capo al padre e ai figli, in
quanto protetti dal rapporto con il medico e vittime di un’esi‑
stenza familiare oramai compromessa.
Il problema si pone relativamente alla configurabilità di una
colpa del medico nei confronti del bambino. Si tratta, però, di
malformazione congenita, e il medico non avrebbe potuto
farlo nascere se non malformato. Non si è in presenza, qui, di
un caso come quello del 2009, nel quale vi è una colposa impe‑
rizia da parte del medico che direttamente (secondo quello che
è configurabile come un corretto decorso causale) apporta
danni al feto e che, secondo il ragionamento della pronuncia
2 0 1 3
51
n. 9700, fa conseguire dal momento della nascita la possibilità
di chiedere il risarcimento del danno. Ci troviamo di fronte
all’alternativa della nascita malformata o della non nascita a
cui è assolutamente indifferente qualunque colpa del medico.
L’evento danno che si imputa al medico è la non nascita, che
non poteva non avvenire malformata, in quanto la malforma‑
zione era congenita. A questo punto giova riflettere sul punto
che il sistema dell’illecito civile è strutturalmente finalizzato ‑a
differenza di quello penale che mira a trovare un colpevole da
punire‑ a creare sistemi di imputazione della responsabilità
tali che il danneggiato non subisca le conseguenze economiche
del danno. Una tale vocazione è alla base della possibilità la‑
sciata all’ordinamento di creare criteri di imputazione della
responsabilità di tipo oggettivo. Questo è un caso in cui si ad‑
dossa l’onere economico di una situazione di danno in capo a
un soggetto per la posizione che questo soggetto ricopre, a
prescindere dalla sua colpa. L’attenzione dell’ordinamento si
sposta dall’autore del danno alla vittima, sforzandosi di trova‑
re un soggetto cui far carico della riparazione, sulla base di
quello che arriva a essere un vero e proprio giudizio di compa‑
razione e bilanciamento degli interessi in conflitto. E la ricerca
di tale soggetto può avvenire, allora, sulla base di diversi crite‑
ri di imputazione della responsabilità, tra i quali la posizione
di un soggetto rispetto al bene protetto o l’opportunità di far
sopportare a chi trae vantaggio economico da una certa attivi‑
tà anche i relativi oneri. Una tale ricostruzione può portare a
configurare il criterio di imputazione della responsabilità in
capo al medico in termini di responsabilità oggettiva. Sembre‑
rebbe quasi che, nel caso di specie, i giudici sentissero l’esigen‑
za di apportare un ristoro economico a un soggetto danneggia‑
to e, nel farlo, abbiano prescisso da un criterio di imputazione
colpevole della responsabilità. Ci troviamo di fronte a un’unica
fattispecie da cui derivano due forme di responsabilità: una nei
confronti della madre e sicuramente imputabile a un’omissione
colposa; l’altra, nei confronti del neonato, di responsabilità
oggettiva. Vero è che in un punto della sentenza la Corte, rife‑
rendosi al danno nei confronti del neonato, parla di un medico
“comunque colpevole”, espressione che potrebbe portare a
configurare anche nei confronti del bambino una forma di
imputabilità colpevole del comportamento del medico. Tutta‑
via, si ritiene che un tale punto sarebbe dovuto essere molto più
approfondito ‑con la specificazione, tra l’altro, del particolare
decorso causale‑, lasciando, in ogni caso, ampi margini di
dubbi. C’è da chiedersi, a questo punto, se non sarebbe stata
più equa una soluzione in senso di indennità da riconoscere al
danneggiato, come lo stesso legislatore prevede per la fattispe‑
cie di cui all’articolo 2047 per il quale solo con un certo sforzo
interpretativo si è potuto parlare di una c.d. culpa in vigilando,
pur di escludere la responsabilità oggettiva.
Per concludere, si auspica la possibilità di una normativa in
materia: vi è una zona dell’esistenza umana, quella che va dal
concepimento alla nascita, nella quale è chiaro ‑come più volte
ribadisce la Corte‑ che vi sono più esigenze di tutela, in molti
casi in conflitto tra loro. Si percepisce, sicuramente, una certa
paura nell’affrontare simili temi in cui il diritto, arrivato a
certi punti, è costretto a fermarsi o a certamente pretermettere,
come nel caso di specie, l’elementare esigenza di certezza delle
relazioni giuridiche.
civile
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D i r i t t o
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Rassegna di legittimità
●
A cura di Corrado D'Ambrosio
Giudice presso il Tribunale di Napoli
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Avvocato e procuratore – Compenso – Liquidazione giudizia‑
le – Criteri – Compenso inferiore al minimo tariffario – Ammissibi‑
lità – Condizioni
L’art. 2 del d.l. n. 223 del 2006, convertito nella legge
n. 248 del 2006, nel prevedere che il giudice liquida le spese
di giudizio ed i compensi professionali “in caso di liquidazio‑
ne giudiziale … sulla base della tariffa professionale”, fa
espressamente salve le tariffe professionali anche per il caso
di liquidazione giudiziale del compenso nei rapporti tra il
cliente ed il proprio avvocato. Nel vigore del predetto decreto,
inoltre, il giudice, ove sussista una manifesta sproporzione tra
le prestazioni dell’avvocato e l’onorario previsto, può liqui‑
dare un compenso inferiore ai minimi tariffari, in mancanza
di un accordo tra il professionista e il cliente‑curatore, solo in
presenza del parere obbligatorio del competente Consiglio
dell’Ordine.
Cass. civ., sez. I, 10 maggio 2013, n. 11232
Pres. Vitrone, Est. Di Amato
Famiglia – Unione di fatto – Violazione obblighi familiari – Confi‑
gurabilità – Risarcimento dei danni – Ammissione al patrocinio a
carico dello stato – Ammissibilità
La violazione degli obblighi familiari è configurabile anche
nell’ipotesi di persone unite dal solo vincolo more uxorio e,
pertanto, ricorrendone i presupposti, il convivente che chieda
il risarcimento dei danni conseguenti può essere ammesso al
patrocinio legale a carico dello Stato.
Cass. civ., sez. I, 20 giugno 2013, n. 15481
Pres. Luccioli, Est. San Giorgio
Lavoro – Lavoro subordinato – Discriminazioni basate sul ses‑
so – Rimedi giudiziali – Onere probatorio attenuato
In tema di tutela contro le discriminazioni di genere,
l’art. 40 del Codice delle pari opportunità, di cui al d.lgs. 11
aprile 2006, n. 198, prevede un alleggerimento dell’onere
della prova in favore della parte ricorrente, tenuta solo a
fornire elementi di fatto idonei a fondare, in termini precisi e
concordanti, anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza
dei comportamenti discriminatori lamentati.
Cass. civ., sez. Lav., 05 giugno 2013, n. 14206
Pres. Vidiri, Est. Marotta
Lavoro – Lavoro subordinato – Licenziamento individuale – Danno
non patrimoniale – Risarcibilità
La sentenza ha affermato che, nel regime di tutela reale
avverso i licenziamenti illegittimi, può essere risarcito il dan‑
no non patrimoniale conseguente alla mancata tempestiva
reintegrazione nel posto di lavoro, ove si ravvisi una lesione
di interessi inerenti la persona, non connotati da rilevanza
economica, ma meritevoli di tutela anche per il loro rilievo
costituzionale.
Cass. civ., sez. Lav., 15 aprile 2013, n. 9073
Pres. De Renzis, Est. Bronzini
Locazioni ad uso non abitativo – Pignoramento dll’immobile – Rin‑
novazione tacita del contratto alla prima scadenza – Autorizzazio‑
ne del giudice dell’esecuzione – Necessità – Esclusione
Le Sezioni Unite, risolvendo un contrasto di giurispruden‑
za, hanno affermato che la rinnovazione tacita alla prima
scadenza del contratto di locazione di immobile adibito ad
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uso non abitativo, per mancato esercizio, da parte del loca‑
tore, della relativa facoltà di diniego, costituisce un effetto
automatico derivante direttamente dalla legge e non da una
manifestazione di volontà negoziale. Pertanto, in caso di
pignoramento dell’immobile e di successivo fallimento del
locatore, la stessa rinnovazione non necessita dell’autorizza‑
zione del giudice dell’esecuzione, prevista dal secondo com‑
ma dell’art. 560 c.p.c..
Cass. civ., sez. un., 16 maggio 2013, n. 11830
Pres. Preden, Est. Vivaldi
Procedimento civile – Esecuzione – Ipoteca iscritta su bene poi
assoggettato a confisca a titolo di misura di prevenzione ex lege
n. 575 del 1965 – Prevalenza della confisca – Effetti – Risarcimen‑
to del danno – Competenza – Ammissione del credito – Condizio‑
ni – Procedimento
1. Le Sezioni Unite, risolvendo una questione di massima
di particolare importanza ed applicando lo ius superveniens
(costituito dall’art. 1, commi da 189 a 205, della legge 24
dicembre 2012, n. 228, cd. Legge di Stabilità 2013), risolvo‑
no nel senso della prevalenza della misura di prevenzione
patrimoniale il quesito relativo ai rapporti tra confisca ed
ipoteca, indipendentemente dal dato temporale.
2. L’acquisto del bene confiscato da parte dello Stato, a
seguito dell’estinzione di diritto dei pesi e degli oneri iscritti
o trascritti prima della misura di prevenzione della confisca,
è così non a titolo derivativo, ma libero dai pesi e dagli oneri,
pur iscritti o trascritti anteriormente alla misura di preven‑
zione.
3. Il titolare del diritto reale di godimento o di garanzia è
ammesso, ora, ad una tutela di tipo risarcitorio e la compe‑
tenza è attribuita al tribunale che ha disposto la confisca.
L’ammissione del credito, di natura concorsuale, è subordi‑
nata alla condizione di cui all’art. 52, comma 1, lett. g, del
d.lgs. n. 159 del 2001, vale a dire che il credito non sia stru‑
mentale all’attività illecita o a quella che ne costituisce il
frutto o il reimpiego, a meno che il creditore dimostri di
avere ignorato in buona fede il nesso di strumentalità. Al
creditore è addossato l’onere di provare la ricorrenza delle
condizioni per l’ammissione al passivo del suo credito. Il di‑
niego di ammissione al credito è impugnabile ex art. 666 cod.
proc. pen. Competente a conoscere delle opposizioni – pro‑
poste dai creditori concorrenti – al piano di riparto proposto
dall’Agenzia Nazionale è il giudice civile del luogo dove ha
sede il tribunale che ha disposto la confisca.
Cass. civ., sez. un., 07 maggio 2013, n. 10532
Pres. Preden, Est. Vivaldi
Prova contraria ex art. 184 c.p.c. (nel regime di cui alla l.
n. 353 del 1990) – Riferimento esclusivo alle “controprove”
L’indicazione della “prova contraria”, consentita
dall’art. 184, primo comma, ultima parte,c.p.c. (nella formu‑
lazione dettata dall’art. 18 della legge n. 353 del 1990), in
forza di ulteriore termine fissato dal giudice rispetto a quel‑
lo per la produzione documentale e di nuovi mezzi di prova,
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va riferita unicamente alle (contro)prove volte a contrastare
le prove richieste nel contesto dell’operare del primo termine
previsto dal citato art. 184, e non già a dare in genere prova
contraria dei fatti allegati.
Cass. civ., sez. III, 17 maggio 2013, n. 12119
Pres. Segreto, Est. Vincenti
Rettificazione di sesso – Automatico scioglimento o cessazione
degli effetti civili del matrimonio – Questione non manifestamen‑
te infondata di costituzionalità.
La prima sezione civile ha dichiarato rilevante e non ma‑
nifestamente infondata la questione di costituzionalità
dell’art. 4 della l. n. 164 del 1982, nella formulazione anterio‑
re all’abrogazione intervenuta per effetto dell’art. 36 del d.lgs.
n. 150 del 2011, perché lesivo degli artt. 2 e 29 Cost., e, in
qualità di norme interposte ai sensi dell’art. 10, primo comma,
e 117 Cost, degli artt. 8 e 12 della CEDU, nella parte in cui
dispone che la sentenza di rettificazione di attribuzione di
sesso provoca l’automatico scioglimento o cessazione degli
effetti civili del matrimonio senza la necessità di una domanda
e di una pronuncia giudiziale, nonché per la violazione
dell’art. 3 Cost. sotto il profilo dell’ingiustificata disparità di
regime giuridico tra tale ipotesi di scioglimento automatico e
le altre ipotesi indicate nell’art. 3, n. 1, lettere a, b, c) e n. 2,
lett. d) della l. n. 898 del 1970 e successive modificazioni. La
questione di costituzionalità è stata dichiarata rilevante e non
manifestamente infondata anche con riguardo agli artt. 2 e 4
della l. n. 164 del 1982, perché lesivi dell’art. 24 Cost., nella
parte in cui prevedono la notificazione del ricorso per rettifi‑
cazione di attribuzione di sesso all’altro coniuge, senza rico‑
noscere né a quest’ultimo, né al coniuge che ha ottenuto la
rettificazione di attribuzione di sesso, il diritto di opporsi allo
scioglimento del vincolo coniugale nel giudizio in questione o
di esercitare il medesimo potere in altro giudizio.
Cass. civ., sez. I, ord. 06 giugno 2013, n. 14329
Pres. Luccioli, Est. Acierno
Vendita – Interposizione fittizia dell’acquirente – Litisconsorzio
necessario del venditore – Insussistenza – Limiti
Le Sezioni Unite, risolvendo un contrasto di giurispru‑
denza, hanno affermato che, nel giudizio volto all’accerta‑
mento della simulazione relativa di un contratto di compra‑
vendita per interposizione fittizia dell’acquirente, l’alienante
non è litisconsorte necessario, allorché, nei suoi riguardi, il
negozio sia stato interamente eseguito con l’adempimento
delle obbligazioni, tipicamente connesse alla causa del nego‑
zio, quali il versamento del corrispettivo ed il perfezionamen‑
to dell’effetto traslativo, e non sussista, pertanto, alcun suo
interesse ad essere parte del giudizio, a norma dell’art. 100
cod. proc. civ., al fine di conservare come proprio acquiren‑
te l’originario stipulante, onde, trattandosi solo di accertare
chi, fra interponente ed interposto, abbia acquistato il bene,
la sentenza fra di essi pronunciata non è inutiliter data.
Cassazione civ., sez. Un, sentenza 14 maggio 2013, n. 11523
Pres. Vittoria, Est. Petitti
civile
Gazzetta
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In evidenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE
sentenza 27 febbraio 2013, n. 4847
Pres., Rel.
Successioni mortis causa – Successione legittima (ab intestato) – Del
coniuge – In genere – Diritto di abitazione e di uso spettanti al
coniuge del de cuius ex art. 540, comma 2, c.c. – Successione legit‑
tima – Attribuzione quantitativa aggiuntiva rispetto alla quota di
cui agli artt. 581 e 582 c.c. – Sussistenza – Riduzione delle porzio‑
ni secondo la disciplina del concorso prevista dall'art. 553 c.c. – Ap‑
plicabilità – Esclusione – Fondamento.
Nella successione legittima spettano al coniuge del de
cuius i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza fa‑
miliare e di uso sui beni mobili che la corredano previsti
dall’articolo 540 secondo comma del codice civile; il valore
capitale di tali diritti deve essere stralciato dall’asse ereditario
per poi procedere alla divisione di quest’ultimo tra tutti i
coeredi secondo le norme della successione legittima, non
tenendo conto dell’attribuzione dei suddetti diritti, secondo
un meccanismo assimilabile al prelegato.(
Cass. civ., sez. un., 27 febbraio 2013, n. 4847
Pres. Preden, Rel. Mazzacane
(Omissis)
Con atto di citazione notificato il 26.7.2002 Z.A. e B.C.
esponevano che in data (Omissis) era deceduto "ab intestato"
B.V. lasciando quali eredi la moglie Z.A. ed i figli B.C. e B.D.,
che l'eredità era composta da diversi immobili per un valore
complessivo di Euro 608.127,99, e che a norma degli artt. 581
Nota redazionale a cura di Flora Caputo e Gaetano del Giudice (Avvocati)
(1) La Corte di Cassazione, investita dell’esame di una controversia di natura divi‑
sionale, scaturente da una successione apertasi in assenza di testamento, sembra
aver messo un punto fermo alla dibattuta querelle relativa al calcolo del valore
capitale dei diritti di abitazione della casa familiare e di uso sui beni mobili che
la corredano rispetto alla porzione di legittima riconosciuta al coniuge super‑
stite.
Il Supremo collegio, stante la richiesta di uno dei ricorrenti di effettuare l’ap‑
porzionamento successorio tra i coeredi stralciando dall’asse ereditario il valo‑
re attualizzato dei diritti di cui all’art. 540 comma 2 c.c. – da assegnare, dunque,
“in prededuzione” al beneficiario ex lege – ha ritenuto opportuno rimettere la
questione al vaglio delle Sezioni Unite, valutando propedeutico, rispetto alla
decisione del caso concreto, risolvere alcuni aspetti particolarmente discussi in
dottrina e giurisprudenza in relazione ai diritti di godimento aventi ad oggetto
l’abitazione della casa adibita a residenza familiare e l’uso sui beni mobili che
la corredano.
La decisione assunta dalla Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite con‑
sente, dunque, di archiviare – si spera definitivamente, sebbene non senza po‑
lemiche – l’annosa questione relativa non tanto alla spettanza dei diritti de
quibus anche al coniuge che succede ab intestato – spettanza riconosciuta da
tempo dalla prevalente dottrina e giurisprudenza (chi per il tramite dell’appli‑
cazione analogica dell’art. 584 c.c.: in tal senso Capozzi, Successioni e dona‑
zioni, Tomo I seconda edizione, Giuffrè, 275 ss.; Mascheroni, La successione
del coniuge dopo la riforma del diritto di famiglia, in Riv. Not., 1985, 420 ss.;
Ravazzoni, Il coniuge superstite, in Dir. e Fam., 1978, 224 ss.; chi per il trami‑
te dell’art. 553 c.c.: così Trinchillo, Il trattamento successorio del coniuge su‑
perstite nella disciplina dettata dal nuovo diritto di famiglia, in Scritti in onore
di Guido Capozzi, vol. I, Tomo II, Milano 1992, 1213; Perego, I presupposti
della nascita dei diritti di abitazione e di uso a favore del coniuge superstite, in
Rass. Dir. Civ., 1980, 2, 707 ss.; Tribunale Trapani 22 maggio 1987, Tribuna‑
le Roma 12 aprile 1995, Cassazione Civ., Sez. II, 6 aprile 2000, n. 4329 in
Notariato, 2001, 4, 357 ss.) – quanto soprattutto alla loro incidenza in relazio‑
ne al calcolo della quota di legittima spettante a tale successore nella medesima
sede.
Il Legislatore italiano disciplina espressamente l’attribuzione e l’incidenza dei
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e 540 c.c., a ciascuno degli eredi spettava la quota indivisa di
un terzo del patrimonio ereditario, fermo restando che al co‑
niuge superstite doveva essere riconosciuto il diritto reale di
abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso dei
mobili che la corredavano.
Le attrici quindi convenivano in giudizio dinanzi al Tribu‑
nale di Venezia B.D. chiedendo lo scioglimento della comu‑
nione ereditaria con assegnazione in natura della quota
spettante a ciascun erede previa imputazione nella quota del
convenuto dell'avvenuto prelievo dall'asse ereditario di Euro
136.823,00, e previa detrazione dal valore della casa già fa‑
miliare del valore attualizzato del diritto di abitazione spet‑
tante "ex lege" al coniuge superstite.
Si costituiva in giudizio il convenuto non opponendosi
allo scioglimento della comunione e sostenendo che tutti i
beni erano nella disponibilità esclusiva delle attrici, le quali
avrebbero dovuto rendere conto degli introiti percepiti.
Il Tribunale adito con sentenza del 13‑4‑2005, rigettata
ogni altra domanda, dichiarava lo scioglimento della comu‑
nione ereditaria limitatamente al 50% delle unità immobilia‑
ri indicate in citazione, provvedendo alla assegnazione delle
porzioni ed alla determinazione dei conguagli, in particolare
assegnando alla Z. il 50% dell'immobile di viale (Omissis) già
costituente la residenza coniugale; il Tribunale osservava tra
l'altro che, vertendosi in materia di successione legittima, alla
quota spettante al coniuge ai sensi degli artt. 581 e 582 c.c.,
non potevano cumularsi i diritti di abitazione e di uso previsti
in tema di successione necessaria dall'art. 540 c.c., com‑
ma 2.
Proposto gravame da parte di B.D. cui resistevano la Z. e
B.C. che proponevano appello incidentale la Corte di Appello
di Venezia con sentenza del 6‑10‑2009, a parziale modifica
diritti in parola solo in seno alla successione necessaria, allorquando ex art. 540
comma 1 c.c. riconosce ai più stretti congiunti del defunto (rectius: legittimari)
una pars bonorum (c.d. legittima) cui si aggiungono – quale incremento non
solo qualitativo ma anche quantitativo – i diritti di abitazione ed uso indicati
al comma successivo (secondo l’opinione ormai dominante che poggia sulla
qualificazione in termini di diritti reali di godimento attribuiti a titolo partico‑
lare: in tal senso si vedano Mengoni, op. cit., Ciccariello, Il diritto di abitazione
del coniuge superstite, Nota a Cass. Civ., Sez. II, 6 aprile 2000, n. 4329, in
Notariato, 4, 2001, 357; Ferri, Sui legittimari, in Commentario al codice civile¸
1981, 53 ss; Schiavone, I diritti di abitazione e di uso attribuiti al coniuge su‑
perstite nella successione ab intestato, in Fam. E Dir., 1997, 153 ss.). Da ciò ne
deriva che, una volta calcolata la quota spettante al coniuge nella successione
necessaria, i diritti di godimento su casa e beni mobili si aggiungono ad essa,
ed il loro valore grava: 1) in primis sulla sola disponibile, se capiente; 2) in
subordine sulla quota del coniuge, ove la prima non sia sufficiente; 3) in ultima
analisi, se neanche la quota di legittima del coniuge sia a tal fine capiente, sulla
quota di riserva destinata ai figli.
Di contro, le norme che disciplinano la successione ab intestato del coniuge
superstite – gli artt. 581 e 582 c.c. – non fanno alcun esplicito riferimento ai
diritti in parola. L’unico richiamo è rinvenibile nell’art. 584 c.c., dettato con
esclusivo riferimento alla sorte successoria del coniuge putativo, ove si statuisce
che “…al coniuge superstite di buona fede spetta la quota attribuita al coniuge
dalle disposizioni che precedono. Si applica altresì la disposizione del secondo
comma dell’articolo 540”.
Dunque al coniuge putativo, e solo ad esso, il Legislatore attribuisce chiaramen‑
te i diritti in commento anche in sede di successione legittima, prescindendo
dall’operatività o meno delle norme in materia di successione necessaria.
L’apparente disparità di trattamento – deducibile prima facie dal dato testua‑
le – tra coniuge putativo e coniuge unito da valido matrimonio, ha suscitato
non pochi dubbi interpretativi in dottrina e giurisprudenza, al punto da essere
rimessa al vaglio della Corte Costituzionale per sospetta violazione degli artt. 3
e 29 Cost. da parte dell’art. 581 c.c., nella parte in cui non effettua alcun rinvio
all’art. 540 comma 2 c.c.
L’approfondimento del Supremo Consesso è però sfociato in una dichiarazione
di infondatezza del giudizio, ben potendo l’articolo menzionato essere interpre‑
tato in senso costituzionalmente orientato, quale norma comprovante unica‑
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Motivi della decisione
Preliminarmente deve procedersi alla riunione dei ricorsi
in quanto proposti contro la medesima sentenza.
Venendo quindi all'esame del ricorso principale, si rileva
che con l'unico motivo formulato Z.A. e B.C. censurano la
sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che, verten‑
dosi in materia di successione legittima, al coniuge superstite
non spettano, in aggiunta alla quota intestata prevista dagli
artt. 581 e 582 c.c., i diritti di abitazione ed uso previsti
dall'art. 540 c.c., comma 2.
Le ricorrenti principali assumono che, nonostante la man‑
canza di un espresso richiamo normativo, la corretta inter‑
pretazione degli artt. 553 e 540 c.c., induce a ritenere che
nella successione legittima la quota del coniuge superstite
debba avere un valore complessivo non inferiore a quella al
medesimo garantita dalle norme sulla successione necessaria,
costituita dalla somma del valore della quota di riserva e dei
diritti di uso e di abitazione.
La censura è fondata.
La Corte territoriale, menzionando a sostegno del proprio
assunto la pronuncia di questa stessa Corte 6‑4‑2000 n. 4329,
ha rilevato anzitutto che in tema di successione legittima non
trovano applicazione gli istituti della disponibile e della riser‑
va, ha poi aggiunto che la riserva, di cui fanno parte i diritti
di abitazione e di uso, rappresenta il minimo che il legislatore
vuole assicurare ai più stretti congiunti del "de cuius", anche
contro la volontà di quest'ultimo, sottolineando che l'art. 553
c.c., al fine di evitare che attraverso la disciplina della succes‑
sione legittima vengano pregiudicati i diritti dei legittimari,
stabilisce che le porzioni fissate nelle successioni legittime, ove
risultino lesive dei diritti dei legittimari, si riducono propor‑
zionalmente per integrare tali diritti; è vero poi che dal siste‑
ma della successione necessaria emerge che il legislatore in‑
terviene quando la quota spettante nella successione intestata
andrebbe al di sotto della quota di riserva;
peraltro non sussiste nessuna norma che modifichi il regi‑
me della successione intestata per attribuire agli eredi legitti‑
mi, che siano anche legittimari, più di quanto viene loro ri‑
servato con la successione necessaria; quindi deve escludersi
che alla quota intestata prevista dagli artt. 581 e 582 c.c., si
mente la scelta del Legislatore di escludere che i diritti di uso ed abitazione
costituiscano un’aggiunta quantitativa rispetto alla quota di legittima del co‑
niuge erede ab intestato, mentre il rinvio (seppur mal) operato dall’art. 584 c.c.
ai diritti in commento è da interpretarsi quale mero strumento per riconoscer‑
ne in astratto la spettanza anche al coniuge il cui matrimonio è stato dichiarato
nullo (Corte Cost., 5 maggio 1988 n. 527 in Giur. Cost., 1988, I, 2483).
Nell’ottica della riforma del diritto di famiglia del ’75, volta a valorizzare il
rapporto coniugale indipendentemente dalla validità del vincolo giuridico, non
può negarsi il riconoscimento di tali diritti sia al coniuge “vero” sia al coniuge
putativo, in quanto si ritiene che con l’art. 584 c.c. – inserito nell’impianto
normativo dedicato alla successione legittima – il Legislatore abbia solo inteso
riconoscere al coniuge putativo la qualità di legittimario (seppur per una “quo‑
ta di riserva ridotta” e comprendente i soli diritti espressamente richiamati ex
art. 540 comma 2 c.c.; cfr. Cass. 4329/00, cit., ove la si definisce come “una
sorta di quota di riserva”); mentre con l’art. 540 c.c. – collocato invece tra le
norme relative alla tutela dei legittimari – il Legislatore ha viceversa dettato una
norma di natura “necessaria” ma applicabile anche alle successioni legittime
(in questo senso Cass. civ., sez. II, ordinanza del 05 maggio 2012, n. 6774, in
Nuova Giur. Civ., 2012, 9, 1, 769, nota di Pertot).
Il riconoscimento dei diritti di cui all’art. 540 comma 2 c.c. al coniuge super‑
stite anche nell’ambito della successione ab intestato trova inoltre ulteriore
conforto: a) nella stessa ratio dei diritti in commento, da ricondursi alla volon‑
tà del Legislatore della riforma del diritto di famiglia (L. 19 maggio 1975,
n. 151) di realizzare anche in materia successoria una totale parificazione pa‑
trimoniale ed etica dei coniugi, evitando che, con la morte di uno, l’altro sia
costretto ad abbandonare l’abitazione di famiglia ove si è svolta la sua vita
coniugale con grave danno psicologico e morale per la stabilità delle sue abitu‑
dini di vita; b) l’art. 540 citato riconosce i diritti di uso ed abitazione “anche
quando il coniuge concorre con altri chiamati”, concorso che può aversi tanto
nella successione legittima quanto in quella testamentaria; c) in nessuna norma
del codice è dato riscontrare un espresso divieto.
Si ritiene ormai pacificamente, dunque, che nonostante il mancato richiamo
all’art. 540 comma 2 c.c. da parte degli artt. 581 e 582 c.c., anche al coniuge
legato da valido matrimonio e che succede in assenza di testamento spettino i
diritti di abitazione sulla casa familiare ed di uso sui beni mobili ivi ubicati.
Ciò posto – e veniamo a quanto indagato dalla significativa pronuncia in
commento – vi è da chiedersi quale sia il criterio per calcolare, nella successio‑
ne ab intestato, il valore della quota di legittima spettante al coniuge, ed in
particolare se il valore capitale dei diritti di abitazione e di uso debba essere in
essa ricompreso (ex multis Cassazione n. 4329/00 citata), ovvero se – ed è la
tesi sposata dalla sentenza in commento – tale valore debba necessariamente
sommarsi a detta quota.
Nell’individuare il giusto criterio di calcolo della quota suddetta diversi autori
hanno tratto spunto dalla norma dell’art. 553 c.c. e dal criterio di collegamen‑
to che la stessa effettua tra successione legittima e successione necessaria,
giungendo però a conclusioni differenti.
La norma citata dispone che, quando si apre la successione ab intestato “…nel
concorso di legittimari con altri successibili, le porzioni che spetterebbero a
questi ultimi si riducono proporzionalmente nei limiti in cui è necessario per
integrare la quota riservata ai legittimari…”.
Una prima teoria (cfr. Mengoni, La successione per causa di morte: La succes‑
sione legittima, in Tratt. Dir. Civ. e Comm. a cura di Cicu e Messineo, Milano,
1999, 180) ritiene che si debba effettuare una distinzione a seconda che la
quota di eredità ex artt. 581 o 582 c.c. sia uguale o superiore alla quota di le‑
gittima riconosciuta al coniuge, ovvero sia ad essa inferiore. Secondo tale tesi
solo nel primo caso i diritti d’uso e di abitazione devono essere imputati alla
quota di eredità, non aggiungendosi alla stessa, e sono qualificabili come lega‑
ti in conto, giacché il valore della quota di eredità è più ampio rispetto alla ri‑
serva spettantengli. Nel secondo caso, invece, il coniuge ha diritto a conseguire
la quota di riserva, comprensiva essa stessa dei diritti di uso e di abitazione,
trattandosi di una quota minima garantita ex lege; in tal caso, pertanto, essen‑
so la quota di riseva superiore alla quota di eredità, tali diritti saranno compre‑
si nella prima ma si sommeranno alla seconda (incapiente).
Altra teoria, parimenti autorevole (cfr. Ferri, I diritti di abitazione e d’uso del
coniuge superstite, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ.,1998, 369 ss..), parte da un
duplice presupposto: a) i diritti d’uso e di abitazione sono ricompresi nella
quota di riserva del coniuge superstite in quanto rappresentano anch’essi un
minimo inderogabile che il Legislatore vuole comunque assicurare ai più stret‑
ti congiunti; b) tale quota rappresenta un minimo intangibile che spetta sempre
al coniuge, anche contro la volontà del defunto. Secondo l’Autore, inoltre, non
può dimenticarsi che il Legislatore interviene con la disciplina della successione
necessaria solo per salvaguardare l’integrità della quota di riserva – allorquan‑
do la quota di eredità sia inferiore a quest’ultima – ma non certo per attribu‑
irgli un quid pluris rispetto ad essa. Seguendo tale ragionamento l’Autore ritie‑
della sentenza impugnata, ha assegnato alla Z. il suddetto
immobile di viale (OMISSIS) nella misura del 100%, ed ha
confermato nel resto l'impugnata sentenza, ribadendo che, in
presenza di una successione legittima, non spettano al coniu‑
ge superstite, in aggiunta alla quota intestata prevista dagli
artt. 581 e 582 c.c., i diritti di abitazione e di uso previsti
dall'art. 540 c.c., comma 2.
Per la cassazione di tale sentenza la Z. e B.C. hanno pro‑
posto un ricorso articolato in un unico motivo cui B. D. ha
resistito con controricorso introducendo altresì a sua volta un
ricorso incidentale affidato anch'esso ad un unico motivo e
depositando successivamente una memoria.
Con ordinanza del 4‑5‑2012 la Seconda Sezione Civile di
questa Corte, ritenuto che la decisione del ricorso principa‑
le – riguardante in tema di successione legittima il riconosci‑
mento o meno al coniuge superstite dei diritti di abitazione ed
uso previsti dall'art. 540 c.c., comma 2, nell'ambito della
successione necessaria – comportava la soluzione di questioni
di particolare importanza, ha rimesso gli atti al Primo Presi‑
dente per l'eventuale assegnazione della trattazione del ricor‑
so alla Sezioni Unite.
Le ricorrenti principali hanno successivamente depositato
una memoria.
civile
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D i r i t t o
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p r o c e d u r a
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aggiungano i diritti di abitazione ed uso; pertanto nella fatti‑
specie il diritto di abitazione della Z., valutato in Euro
85.960,00 con riferimento alla sola casa coniugale, era com‑
preso nella quota di 1/3 della massa ereditaria ad essa spet‑
tante ed ammontante ad Euro 164.333,00.
La decisione relativa all'enunciato motivo comporta l'esa‑
me anzitutto della questione – evidenziata nella menzionata
ordinanza di rimessione – riguardante la spettanza o meno in
favore del coniuge superstite, nella successione legittima, dei
diritti di abitazione e di uso previsti dall'art. 540 c.c., com‑
ma 2, (comunemente qualificati dalla dottrina prevalente e
dalla giurisprudenza come legati "ex lege", vedi al riguardo
Cass. 10 ‑3 ‑1987 n. 2474; Cass. 6 ‑ 4 ‑20 0 0 n. 4329;
Cass. 15‑5‑2000 n. 6231), e, nell'ipotesi di risposta afferma‑
tiva in proposito, dell'ulteriore questione se tali diritti debba‑
no o meno aggiungersi alla quota intestata prevista dagli
artt. 581 e 582 c.c..
La prima questione nasce dal rilievo che, mentre l'art. 540
c.c., comma 2, che disciplina la riserva a favore del coniuge
superstite, prevede che a quest'ultimo "anche quando concor‑
ra con altri chiamati, sono riservati i diritti di abitazione
sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che
la corredano, se di proprietà del defunto o comuni", gli
artt. 581 e 582 c.c., i quali disciplinano nell'ambito della
successione legittima rispettivamente il concorso del coniuge
con i figli ovvero con ascendenti legittimi, fratelli e sorelle del
"de cuius", non fanno riferimento a tali diritti;
peraltro l'art. 584 c.c., che regola la successione del coniu‑
ge putativo, prevede espressamente l'applicabilità in favore di
quest'ultimo della disposizione dell'art. 540 c.c., comma 2.
La Corte Costituzionale, affrontando la questione di le‑
gittimità costituzionale dell'art. 581 c.c., in relazione agli
artt. 3 e 29 Cost., nella parte in cui non attribuisce al coniu‑
ge, chiamato all'eredità con altri eredi, i diritti previsti
dall'art. 540 c.c., comma 2, viceversa riconosciuti al coniuge
putativo, con ordinanza del 5‑5‑1988 n. 527 l'ha ritenuta
manifestamente infondata, rilevando che detti diritti nella
successione "ab intestato" sono attribuiti al coniuge nella sua
qualità di legittimario, che l'omesso richiamo dell'art. 540
c.c., comma 2, da parte degli artt. 581 e 582 c.c., vale unica‑
mente ad escludere che i diritti in oggetto competano al co‑
niuge autonomamente, ovvero che si cumulino con la quota
riconosciutagli dagli articoli medesimi, che per converso il
rinvio contenuto nell'art. 584 c.c., significa soltanto che la
legittima aggiuntiva costituita dai due diritti di godimento
spetta anche al coniuge putativo, ed ha quindi concluso "che,
pertanto, le suddette disposizioni già vivono nell'ordinamen‑
to con l'identico contenuto e portata che si vorrebbe raggiun‑
gere per via di reductio ad legitimitatem…".
Rilevato che comunque tale decisione non ha superato i
dubbi interpretativi suscitati dal sopra richiamato quadro
normativo di riferimento, si segnala che questa Corte con
sentenza del 13‑3‑1999 n. 22639, dopo aver premesso come
indubitabile l'estensione dei diritti di abitazione ed uso previ‑
sti dall'art. 540 secondo comma c.c. al coniuge nella succes‑
sione legittima in quanto l'eventualità che il coniuge putativo
potesse godere di un trattamento diverso e più favorevole ri‑
spetto al coniuge legittimo sarebbe contraria al principio di
eguaglianza, ha prospettato due diverse soluzioni delle moda‑
lità attraverso le quali tali diritti vengono riconosciuti al co‑
niuge nella successione legittima; secondo un primo indirizzo
essi sono riservati al coniuge come prelegati oltre la quota di
riserva, mentre un'altra ricostruzione, partendo dal presuppo‑
sto che nella successione legittima non trovano applicazione
gli istituti della disponibile e della quota di riserva, afferma
che i diritti in questione non si aggiungono, ma vengono a
comprendersi nella quota spettante a titolo di successione le‑
gittima; tuttavia la Corte non ha risolto tale questione, rite‑
ne che i diritti in commento debbano sommarsi alla quota di riserva del coniu‑
ge superstite ma non anche alla sua quota di eredità ex artt. 581 e 582 c.c.
poiché non è possibile attribuire al coiuge più di quanto gli spetti per legge.
Opinione nettamente contraria era sostenuta da chi riteneva che se per espressa
previsione normativa competono al coniuge putativo, oltre alla quota prevista
dagli artt. 581 e 582 c.c., “altresì” i diritti di abitazione e di uso di cui all’art. 540
comma 2 c.c., ciò non può che significare che a detto coniuge i diritti de quibus
spettano in aggiunta alla quota attribuitagli dalle norme sulla successione legittima.
Se così è, dunque, sarebbe illogico credere che gli stessi diritti non spettino pari‑
menti in aggiunta anche per il coniuge unito da valido vincolo matrimoniale (in
questo senso, in giurisprudenza: Cass. civ. 5 maggio 2008, n. 11018, in Rep. Giur.
It., 2008, voce “Successione”, n. 41, nonché in dottrina Azzariti, Il diritto di
abitazione sulla casa già adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che la
corredano da parte del coniuge superstite, in Giust. Civ., 1987, I, 2377).
La tesi da ultimo esposta, benché finora minoritaria, è stata condivisa dalla
sentenza a Sezioni Unite in commento, secondo cui nonostante la mancanza di
un espresso richiamo normativo, la quota del coniuge superstite, nella succes‑
sione apertasi per legge, non può avere un valore complessivo inferiore a
quella che gli è riconosciuta dalle norme sulla successione necessaria.
Secondo gli Ermellini, infatti, la tesi sostenuta in passato non può essere se‑
guita in quanto: a) l’effettivo ambito di operatività dell’art. 540 comma 2
c.c. – introdotto dal Legislatore della riforma del diritto di famiglia nel
1975 – non può essere indagato per il tramite dell’art. 553 c.c. che invece
risale all’originario impianto normativo del 1942; b) l’art. 553 c.c. disciplina
la riduzione delle “porzioni” lasciate agli eredi legittimi (se ed in quanto in‑
cidono sulle quote di legittima spettanti dagli eredi legittimari), e perciò
sembrerebbero esulare dal suo ambito di operatività i diritti di uso ed abita‑
zione, inquadrati dalla dottrina e dalla giurisprudenza oramai prevalenti
quali lasciti a titolo particolare (ex lege); c) la riduzione de qua opera in
senso quantitativo, mentre l’attribuzione al coniuge dei diritti in parola si
realizza in senso qualitativo – riconoscendogli il godimento su beni determi‑
nati (e la correlativa preclusione di tale godimento per gli altri eredi) – e
pertanto non si comprende come se ne potrebbe operare la riduzione; d) il
coordinamento operato dall’opposta tesi tra gli artt. 540 comma 2 e 553 c.c.
trova un impedimento nella parziale incompatibilità tra le stesse, giacché la
prima norma nel disporre che i diritti gravano innanzitutto sulla quota di‑
sponibile stabilisce una dispensa da imputazione ex se nei soli limiti di
quest’ultima; viceversa, l’art. 553 c.c. impone a chi voglia agire per la ridu‑
zione delle porzioni degli eredi legittimi un generale onere di imputazione di
tutto quanto ricevuto, senza limiti di sorta.
Il Supremo Collegio, infine, chiarisce come nella successione legittima – dove
non si pone alcun problema di incidenza sui diritti degli altri legittimari per
effetto dell’attribuzione dei diritti di abitazione sulla casa familiare e di uso sui
beni mobili che la corredano – la previsione ex art. 540 comma 2 c.c., finaliz‑
zata a contenere quanto più possibile la compressione della quota di riserva dei
figli in conseguenza dell’attribuzione al coniuge dei diritti di godimento de
quibus, non ha proprio ragion d’essere.
Le modalità di attribuzione dei diritti di abitazione ed uso nella successione
legittima, dunque, devono prescindere dal procedimento di imputazione previ‑
sto per la successione necessaria (nel cui solo ambito trova fondamento il
concetto stesso di quota “disponibile”) e mirante esclusivamente alla tutela
della quota di legittima dei figli.
Giacché, dunque, nella successione ab intestato i diritti di uso ed abitazione non
incontrano le limitazioni indicate, devono essere pienamente riconosciuti, in
aderenza alla volontà del Legislatore della riforma del 1975 di prevedere una
efficace e pregnante tutela del coniuge superstite, con tutti i riflessi che ciò può
avere in campo successorio in ordine alla effettiva consistenza della sua quota
e dell’intero asse ereditario, senza alcuna distinzione in dipendenza della fonte
(legale o testamentaria) della delazione.
Alla luce della sentenza in commento, può dunque affermarsi – pro bono pacis
dei sostenitori della tesi tradizionale – che nella successione legittima il valore
capitale dei diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso
sui beni mobili che la corredano deve essere aggiunto al valore della pars bo‑
norum spettante al coniuge superstite. In conseguenza sarà necessario stralcia‑
re tale valore dall’asse ereditario – con modalità assimilabili al prelegato – al
fine di calcolare il valore della quota di legittima sul residuo relictum, compren‑
sivo del valore della proprietà della casa de qua, seppur “gravata” dai diritti in
commento.
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m a g g i o • g i u g n o
nendola irrilevante nella fattispecie sottoposta al suo esame.
La successiva pronuncia di questa Corte del 6‑4‑2000
n. 4329 (cui, come esposto in precedenza, ha aderito la sen‑
tenza impugnata), l'unica che ha affrontato più approfondi‑
tamente e risolto la questione in ordine al riconoscimento al
coniuge superstite dei diritti di abitazione ed uso nella suc‑
cessione legittima, ha ritenuto che in tema di successione
necessaria l'art. 540 c.c., comma 2, determina un incremen‑
to quantitativo della quota contemplata in favore del coniuge
in quanto i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza
familiare e di uso dei mobili che la corredano (quindi il loro
valore capitale) si sommano alla quota riservata al coniuge
in proprietà; posto che la norma stabilisce che tali diritti
gravano, in primo luogo, sulla disponibile, si deve anzitutto
calcolare la disponibile sul patrimonio relitto ai sensi
dell'art. 556 c.c., e, per conseguenza, determinare la quota
di riserva;
calcolata poi la quota del coniuge nella successione neces‑
saria in base all'art. 540 c.c., comma 1, artt. 542 e 543 c.c.,
alla quota di riserva così ricavata si aggiungono i diritti di
abitazione ed uso, il cui valore viene a gravare sulla disponi‑
bile, sempre che questa sia capiente; se la disponibile non è
sufficiente, i diritti di abitazione ed uso gravano anzitutto
sulla quota di riserva del coniuge, che viene così ad essere
diminuita della misura proporzionale a colmare l'incapienza
della disponibile; se neppure la quota di riserva del coniuge
risulta sufficiente, i diritti di abitazione e di uso gravano sul‑
la riserva dei figli o degli altri legittimari.
La sentenza in esame ha quindi evidenziato che il primo
ostacolo che si oppone all'accoglimento della tesi favorevole
all'applicabilità del meccanismo di calcolo previsto
dall'art. 540 c.c., comma 2, al coniuge nella successione le‑
gittima è data dal rilievo che in tema di successione legittima
non trovano applicazione gli istituti della disponibile e della
riserva; ma sussisterebbe un'altra ragione più persuasiva per
disattendere tale applicabilità, considerato che la riserva rap‑
presenta il minimo che il legislatore vuole assicurare ai pros‑
simi congiunti anche contro la volontà del defunto, e che i
diritti di abitazione ed uso fanno parte della riserva e dunque
sono compresi nel minimo; orbene, per evitare che attraverso
la disciplina delle successioni legittime vengano pregiudicati
i diritti dei legittimari, l'art. 553 c.c., che serve di raccordo
tra la successione legittima e quella necessaria, stabilisce che
le porzioni fissate nelle successioni legittime, ove risultino
lesive dei diritti dei legittimari, si riducono proporzionalmen‑
te per integrare tali diritti; peraltro dal sistema della succes‑
sione necessaria emerge che il legislatore interviene nel mec‑
canismo delle successioni legittime quando la quota spettan‑
te nella successione necessaria andrebbe al di sotto della
quota di riserva, mentre da nessuna norma risulta che il legi‑
slatore abbia modificato il regime della successione legittima
per attribuire agli eredi legittimi (che siano anche legittimari)
più di quanto viene loro riservato con la successione necessa‑
ria;
poiché l'art. 553 c.c., vuole fare salva l'intera riserva del
coniuge (secondo il sistema della successione necessaria), i
diritti di abitazione e di uso si aggiungono alla quota di riser‑
va regolata dall'art. 540 c.c., comma 1, e art. 542 c.c.; per
contro, non essendo ciò previsto da nessuna norma in tema
di successione legittima, non vi è ragione per ritenere che alla
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quota intestata contemplata dagli artt. 581 e 582 c.c., si ag‑
giungano i diritti di abitazione e di uso.
Tanto premesso, si ritiene di dover dare risposta afferma‑
tiva relativamente alla prima questione sottoposta all'esame
di questo Collegio, avente ad oggetto il riconoscimento o
meno in favore del coniuge anche nella successione legittima
dei diritti di abitazione ed uso riservati espressamente
dall'art. 540 c.c., comma 2, al coniuge stesso, conformemen‑
te all'opinione espressa ormai unanimemente dalla dottrina.
In tal senso milita anzitutto la "ratio" di tali diritti, ricon‑
ducile alla volontà del legislatore di cui alla L. 19 maggio
1975, n. 151, di realizzare anche nella materia successoria una
nuova concezione della famiglia tendente ad una completa
parificazione dei coniugi non solo sul piano patrimoniale
(mediante l'introduzione del regime imperniato sulla comu‑
nione legale), ma anche sotto quello etico e sentimentale, sul
presupposto che la ricerca di un nuovo alloggio per il coniuge
superstite potrebbe essere fonte di un grave danno psicologico
e morale per la stabilità delle abitudini di vita della persona;
ebbene è evidente che tale finalità dell'istituto è valida per il
coniuge supersite sia nella successione necessaria che in quel‑
la legittima, cosicché i diritti in questione trovano necessaria‑
mente applicazione anche in quest'ultima.
D'altra parte tale convincimento riceve conferma anche
sul piano del diritto positivo, posto che l'art. 540 c.c., com‑
ma 2, prevede la riserva dei diritti di abitazione ed uso al
coniuge "anche quando concorra con altri chiamati", e che un
concorso con "altri chiamati" ricorre, oltre che nella succes‑
sione testamentaria, anche in quella legittima; da tale dispo‑
sizione pertanto si evince che il legislatore ha voluto attribu‑
ire al coniuge superstite, in conformità della sopra enunciata
"ratio legis", i suddetti diritti sulla casa adibita a residenza
familiare sia nella successione testamentaria che in quella
legittima, disciplinandone poi l'effettiva realizzazione onde
incidere soltanto entro ristretti limiti sulle quote di riserva di
altri legittimari (invero tali diritti debbono essere soddisfatti
nell'ambito della porzione disponibile ed eventualmente per
il rimanente sulla quota di riserva del coniuge, mentre le
quote dei figli vengono sacrificate soltanto se l'eccedenza del
valore di essi superi anche la riserva del coniuge); ciò compor‑
ta che l'attribuzione di tali diritti previsti dall'art. 540 c.c.,
comma 2, ha una valenza anche al di fuori dell'ambito nel
quale sono stati disciplinati, relativo alla tutela dei legittima‑
ri, e spiega il mancato richiamo ad essi da parte degli artt. 581
e 582 c.c..
Una volta ritenuto che i diritti in oggetto spettano al co‑
niuge anche nella successione "ab intestato", occorre esami‑
nare la conseguente questione relativa ai criteri di calcolo del
valore della quota di detto coniuge, osservando che al riguar‑
do sono state prospettate sostanzialmente due diverse solu‑
zioni.
Un primo indirizzo sostiene l'applicazione dell'art. 553
c.c., norma di collegamento tra la successione legittima e
successione necessaria, che dispone, in caso di concorso di
legittimari con altri successibili, la riduzione proporzionale
delle porzioni di questi ultimi nei limiti in cui è necessario per
integrare la quota riservata ai legittimari; in altri termini, se
l'operatività delle norme sulla successione legittima comporti
in concreto una lesione delle quote dei legittimari, tale arti‑
colo sancisce che la successione legittima si realizzi con il ri‑
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spetto della quote destinate a questi ultimi, con la conseguen‑
za che, poiché i diritti di abitazione ed uso fanno parte della
legittima, si deve ritenere che essi trovino piena attuazione
nell'ambito della successione legittima secondo il disposto
dell'art. 553 c.c.; pertanto tali diritti devono essere attribuiti
in aggiunta alla quota di riserva prevista dall'art. 540 c.c.,
comma 1, o alla quota di riserva risultante dal concorso con
altri legittimari ai sensi degli artt. 542 e 544 c.c., con la con‑
seguenza che essi in base all'art. 540 c.c., comma 2, non sono
imputati per il loro valore alla quota astratta di legittima
spettante al coniuge, ma gravano sulla disponibile; tuttavia la
dispensa dall'imputazione per tali attribuzioni opera solo nei
limiti della disponibile, cosicché, qualora tali diritti oltrepas‑
sino la disponibile, essi potranno incidere sulla legittima dei
figli solo dopo che la legittima del coniuge si sia rivelata in‑
sufficiente a soddisfarli; nell'ipotesi invece che il valore della
quota "ab intestato" risulti superiore rispetto alla quota di
riserva maggiorata del valore dei diritti di abitazione ed uso,
i diritti del coniuge troveranno realizzazione automaticamen‑
te nella porzione a lui spettante in base alla successione legit‑
tima, e si configureranno, secondo una autorevole dottrina,
come legati in conto alla quota intestata.
Secondo un altro orientamento i diritti di abitazione e di
uso del coniuge si configurerebbero nella successione legittima
come prelegati "ex lege", cumulandosi alla sua quota come
prevista dagli artt. 581 e 582 c.c.; pertanto il valore capitale
di tali diritti attribuiti al coniuge viene detratto dalla massa
ereditaria, che poi viene divisa tra tutti i coeredi secondo le
norme sulla successione legittima non tenendo conto, quindi,
di tale attribuzione.
Il Collegio ritiene che il primo indirizzo sopra enunciato
non possa essere condiviso per le seguenti considerazioni.
A prescindere dalle perplessità sul piano sistematico di
interpretare l'effettivo ambito di operatività dell'art. 540 c.c.,
introdotto dal legislatore con la L. 19 maggio 1975, n. 151,
atta luce di un coordinamento con una norma come l'art. 553
c.c., risalente all'impianto originario del codice civile del
1942, il richiamo a quest'ultima norma non appare persuasi‑
vo per almeno due diverse ragioni.
Sotto un primo profilo, infatti, si osserva che l'art. 553
c.c., disciplina il concorso tra legittimaci ed eredi legittimi e
prevede la riduzione proporzionale delle porzioni spettanti a
questi ultimi sull'asse V ereditario nei limiti in cui è necessario
per integrare le quote riservate ai primi, mentre i diritti di
abitazione ed uso vengono comunemente assimilati a legati o
prelegati "ex lege", e dunque non si configurano quali quote;
la suddetta riduzione delle porzioni degli eredi legittimi ex
art. 553 c.c., opera poi sul piano quantitativo, mentre il rico‑
noscimento al coniuge dei suddetti diritti si realizza in senso
qualitativo con l'attribuzione ad esso del godimento di un
bene determinato, e quindi con la correlativa preclusione per
gli altri eredi del godimento della casa già adibita a residenza
familiare dei coniugi e dei mobili che la arredano; sotto tale
aspetto pertanto l'art. 553 c.c., non appare idoneo a dare
fondamento a questa modalità di realizzazione di tali diritti,
che in effetti resta estranea al suo ambito di operatività.
Inoltre occorre rilevare che il prospettato coordinamento
tra l'art. 553 c.c., e l'art. 540 c.c., comma 2, trova un impe‑
dimento nella parziale incompatibilità del disposto delle due
norme;
p e n a l e
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infatti la prima di tali disposizioni prevede che, nel deter‑
minare la quota riservata ai legittimari al fine della eventuale
riduzione proporzionale delle porzioni spettanti agli eredi
legittimi, i legittimari devono imputare alla quota riservata,
ai sensi dell'art. 564 c.c., il valore delle donazioni o dei lega‑
ti ricevuti dal defunto; orbene, rilevato che, come, già esposto
in precedenza, i diritti di abitazione ed uso vengono comune‑
mente qualificati come dei legati "ex lege", si osserva che
l'art. 540 c.c., comma 2, nel disporre che tali diritti gravano
anzitutto sulla disponibile, ha previsto in tal modo una di‑
spensa da tale imputazione, sia pure nei limiti della sola di‑
sponibile; pertanto l'orientamento che prospetta l'attribuzio‑
ne dei diritti in questione al coniuge nella successione legitti‑
ma ai sensi dell'art. 540 c.c., comma 2, legittimando tale
assunto sulla base della norma di raccordo di cui all'art. 553
c.c., tra successione legittima e successione necessaria non
sembra farsi carico di tale difficoltà di coordinamento.
Il Collegio ritiene di poter invece aderire al secondo indi‑
rizzo sopra richiamato, che afferma che i diritti in oggetto
vengono attribuiti al coniuge nella successione legittima in
aggiunta alla quota a lui spettante ai sensi degli artt. 581 e
582 c.c..
In proposito occorre evidenziare come dato significativo
che una autorevole dottrina è giunta a tale conclusione proprio
argomentando "a contrario" dalla previsione della riserva di
tali diritti al coniuge ai sensi dell'art. 540 c.c., comma 2; in‑
fatti è rilevante osservare che nella successione legittima non
si pone in radice un problema di incidenza dei diritti degli
altri legittimari per effetto dell'attribuzione dei diritti di abi‑
tazione e di uso al coniuge, cosicché le disposizioni previste
dalla norma ora richiamata, finalizzate, come si è già esposto,
a contenere in limiti ristretti la compressione delle quote di
riserva dei figli del "de cuius" in conseguenza dell'attribuzio‑
ne al coniuge dei diritti suddetti, non possono evidentemente
trovare applicazione in tema di successione intestata; in pro‑
posito non sembra superfluo aggiungere che la soluzione
della questione in esame deve essere svincolata dal riferimen‑
to all'art. 540 c.c., comma 2, e quindi dalla comparazione
con il parametro normativo relativo alla riserva al coniuge dei
diritti di abitazione ed uso nel concorso con altri legittimari,
anche perché, secondo un orientamento ormai consolidato in
dottrina cui si aderisce pienamente, il nostro ordinamento
prevede due sole forme di successione, la legittima e la testa‑
mentaria (art. 457 c.c.), mentre le norme sulla successione
necessaria non costituiscono un "tertium genus", ma sono
finalizzate soltanto a tutelare i diritti di determinate categorie
di persone (i legittimari) ponendo dei limiti sia alle disposi‑
zioni testamentarie lesive di tali diritti sia alle norme discipli‑
nanti la successione legittima, riconoscendo in particolare ai
legittimari l'azione di riduzione delle disposizioni testamen‑
tarie lesive delle proprie quote di riserva.
Pertanto le modalità di attribuzione dei diritti di abitazio‑
ne ed uso nella successione legittima devono prescindere dal
procedimento di imputazione previsto dalla norma sopra
menzionata – procedimento invero strettamente inerente alla
tutela delle quote di riserva dei figli del "de cuius", nel cui
solo ambito ha rilievo il riferimento alla disponibile di cui
all'art. 540 c.c., comma 2 – e quindi i diritti in questione, non
trovando tali limitazioni nella loro concreta realizzazione,
devono essere riconosciuti pienamente, avuto riguardo alla
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
già evidenziata volontà del legislatore che ha introdotto la L.
19 maggio 1975, n. 151, di attribuire al coniuge superstite
una specifica tutela del suo interesse alla continuazione della
sua permanenza nella casa adibita a residenza familiare du‑
rante il matrimonio anche dopo la morte dell'altro coniuge,
con i conseguenti riflessi di carattere successorio in ordine
alla effettiva consistenza patrimoniale dell'asse ereditario;
conseguentemente ai fini del calcolo di tali diritti occor‑
rerà stralciare il valore capitale di essi secondo modalità assi‑
milabili al prelegato, e poi dare luogo alla divisione tra tutti
gli eredi, secondo le norme della successione legittima, della
massa ereditaria dalla quale viene detratto il suddetto valore,
rimanendo invece compreso nell'asse il valore della nuda
proprietà della casa familiare e dei mobili.
Venendo quindi all'esame del ricorso incidentale si osserva
che con l'unico motivo articolato B.D., deducendo insufficien‑
te e contraddittoria motivazione, sostiene che erroneamente la
Corte territoriale ha confermato il rigetto della domanda
proposta dall'esponente avente ad oggetto la condanna delle
controparti al pagamento della somma di Euro 52.366,79 per
canoni percepiti dall'affitto dei beni ereditari e non corrisposti
"pro quota"all'esponente; al riguardo richiama le risposte
rese da B. C. all'interrogatorio formale deferitole, la mancata
presentazione della Z. a rendere l'interrogatorio formale defe‑
ritole e la deposizione della teste D.D., dottoressa commercia‑
lista che fino al (OMISSIS) aveva tenuto la contabilità di tutte
le parti in causa, e che aveva dichiarato che i canoni di loca‑
zione relative alle diverse unità immobiliari al netto delle
spese venivano introitate dalle controparti.
La censura è infondata.
La Corte territoriale ha ritenuto al riguardo che non solo
non era stata raggiunta la prova che Z.A. e B.C. avessero ri‑
cavato dalla locazione degli immobili oggetto dell'asse eredi‑
tario, al netto delle spese, la somma richiesta dall'appellante,
ma che addirittura non sussistevano elementi certi di prova in
ordine all'effettiva misura dei canoni percepiti relativamente
a quegli immobili che, non essendo nella disponibilità dei
singoli eredi, erano locati; in particolare il giudice di appello
ha richiamato le dichiarazioni rese da B.C. in sede di risposta
all'interrogatorio formale deferitole secondo cui gli eredi
avevano l'uso personale di quattro immobili ereditari, due dei
quali in uso al fratello D., e che i canoni percepiti dagli unici
due immobili dati in locazione erano impiegati per le spese di
manutenzione dei beni ereditari, evidenziando che l'appellan‑
te non aveva contestato specificatamente tali circostanze con
i conseguenti effetti sul piano probatorio ex art. 2734 c.c.; ha
poi aggiunto che le dichiarazioni della teste D. erano piuttosto
generiche e comunque tali da non consentire l'esatta determi‑
59
2 0 1 3
nazione dei canoni di locazione percepiti, e che infine la
mancata comparizione della Z. a rendere l'interrogatorio
formale deferitole non poteva giovare a B.D., in quanto la
formulazione del capitolato di prova non conteneva alcuna
indicazione dell'importo dei canoni che sarebbe stato incame‑
rato dalla stessa Z. e da B. C., cosicché non avrebbe potuto
ritenersi ammessa ai sensi dell'art. 232 c.p.c., la circostanza
relativa all'entità delle somme introitate ed oggetto della do‑
manda.
Orbene, avendo il giudice di appello puntualmente indi‑
cato le fonti del proprio convincimento, si è in presenza di un
accertamento di fatto sorretto da congrua e logica motivazio‑
ne, come tale incensurabile in questa sede laddove il ricorren‑
te incidentale, prospettando inammissibilmente una diversa
ricostruzione della vicenda che ha dato luogo a tale aspetto
della controversia, senza peraltro censurare specificatamente
la evidenziata mancata contestazione delle dichiarazioni rese
da B.C. in sede di risposta all'interrogatorio formale deferito‑
le con gli effetti sul piano probatorio previsti dall'art. 2734
c.c., in materia di confessione cosiddetta complessa, trascura
di considerare i poteri al riguardo devoluti dall'ordinamento
al giudice di merito nella valutazione delle risultanze proba‑
torie, purché accompagnati da un corretto ed adeguato "l'iter"
argomentativo, come nella fattispecie.
Il ricorso incidentale deve quindi essere rigettato.
In definitiva la sentenza impugnata deve essere cassata in
relazione al ricorso principale accolto, e la causa deve essere
rinviata anche per la pronuncia sulle spese del presente giu‑
dizio ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia che
si uniformerà ai seguenti principi di diritto: "Nella successio‑
ne legittima spettano al coniuge del de cuius i diritti di abi‑
tazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui
mobili che la corredano previsti dall'art. 540 c.c., comma 2;
il valore capitale tali diritti deve essere stralciato dall'asse
ereditario per poi procedere alla divisione di quest'ultimo tra
tutti i coeredi secondo le norme della successione legittima,
non tenendo conto dell'attribuzione dei suddetti diritti secon‑
do un meccanismo assimilabile al prelegato".
P.Q.M.
LA Corte riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale,
rigetta il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in
relazione al ricorso accolto e rinvia la causa anche per la
pronuncia sulle spese del predente giudizio ad altra sezione
della Corte di Appello di Venezia.
(Omissis)
civile
Gazzetta
60
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
In evidenza
TRIBUNALE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE,
SEZIONE LAVORO
Giud. A. Grammatica
Trasferimento d’azienda – Nozione di ramo d’azien‑
da – Disciplina ex art. 2112 c.c. – Effetti del trasferimen‑
to – Legge n. 92/2012 e conseguenze in materia di licenzia‑
mento dei lavoratori – Normativa comunitaria (direttiva
n. 2001/23/CE).
Nel caso in cui il giudice accerti la manifesta insussisten‑
za del fatto posto a base del licenziamento per giustificato
motivo oggettivo applica la disciplina di cui al comma IV
dell’art. 1 comma 42 della Legge 92/2012. In caso di trasfe‑
rimento d’azienda i rapporti di lavoro preesistenti al trasferi‑
mento proseguono con il nuovo titolare senza necessità del
consenso da parte dei lavoratori.
Trib. S.M. Capua Vetere, sez. Lav.
Giud. Grammatica
(Omissis)
Nota redazionale a cura di Fabrizia Sabbatini (Avvocato)
(1)L’ordinanza in oggetto può essere inquadrata nell’ambito della problematica
scaturente dall’ipotesi di intimazione di licenziamento laddove non ricorrano
gli estremi del c.d. giustificato motivo oggettivo.
Nel caso in esame, il G.L. dott.ssa Grammatica, ritenendo la domanda di
parte ricorrente meritevole di accoglimento, accertando la manifesta insussi‑
stenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo ogget‑
tivo –“intervenuta cessazione dell’attività aziendale” – annullava l’impugnato
licenziamento e condannava la società cessionaria (S.C.) all’immediata reinte‑
grazione della ricorrente nel posto di lavoro, nonché al risarcimento dei danni
subiti dalla stessa stabilendo un’indennità omnicomprensiva nella misura di 12
mensilità della retribuzione globale di fatto goduta all’atto della risoluzione,
essendo invece intervenuta fra le convenute società un vero e proprio trasferi‑
mento d’azienda, e non già di ramo d’azienda, come asserito dalle stesse. Tale
ordinanza fa seguito ad un solido orientamento giurisprudenziale alla base del
quale si configura la fattispecie del trasferimento di azienda in tutti i casi in cui,
ferma restando l'organizzazione del complesso dei beni destinati all'esercizio
dell'attività economica, ne muta il titolare in virtù di una vicenda giuridica ri‑
conducibile al fenomeno della successione in senso ampio, dovendosi così
prescindere da un rapporto contrattuale diretto tra l'imprenditore uscente e
quello subentrante nella gestione (in tal senso: Cass. civ. Sez. lavoro, 07‑12‑2006,
n. 26215; Trib. Roma Sez. lavoro Sent., 14‑01‑2010). Sempre alla stregua del
predetto orientamento, pertanto, una volta realizzatosi il trasferimento di
azienda, i rapporti di lavoro preesistenti al trasferimento proseguono con il
nuovo titolare senza necessità del consenso da parte dei lavoratori.
Al contrario, per ramo d'azienda, ai sensi dell'art. 2112 cod. civ. (così come
modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 18, in applicazione della direttiva CE
n. 98/50), come tale suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla
disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità econo‑
mica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento,
conservi la sua identità, il che presuppone una preesistente realtà produttiva
autonoma e funzionalmente esistente, e non anche una struttura produttiva
creata "ad hoc" in occasione del trasferimento, o come tale identificata dalle
parti del negozio traslativo (in tal senso: Cass. civ. Sez. lavoro, 13‑10‑2009,
n. 21697). Ai fini dell'applicabilità dell'art. 2112 cod. civ., relativo anche al
trasferimento di un solo ramo della attività aziendale, è necessario che sia cedu‑
to un complesso di beni che oggettivamente si presenti quale entità dotata di
una propria autonomia organizzativa ed economica, funzionalizzata allo svol‑
gimento di una attività volta alla produzione di beni e servizi, mentre è da
escludersi che il ramo d'azienda possa essere identificato potenzialmente come
tale solo al momento del trasferimento quale astratta idoneità ad un'organizza‑
zione futura di attività, altrimenti sarebbe l'imprenditore ad unificare il com‑
plesso dei beni (in tal senso: Cass. civ. Sez. lavoro, 17‑10‑2005, n. 20012).
Nel caso di specie, come sopra riferito, ci ritroviamo quindi in presenza di un
vero e proprio trasferimento d’azienda, non di un solo ramo di essa, ricorrendo
in tal caso tutti gli elementi caratterizzanti l’ipotesi di cui all’art. 2112 c.c., V
comma, prima parte. Ciò è confermato dal fatto che all’esito del trasferimento
nulla è residuato in capo all’impresa cedente ma, al contrario, tutte le attività
c i v i l e
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Sciolta la riserva nella procedura ex art. 1, comma 47 e ss.,
L. n. 92/2012, promossa da A.E. nei confronti di S*s.p.a. in
liquidazione, A* s.p.a., S* s.p.a.;
Osserva
Parte ricorrente agisce in giudizio al fine di sentir “accer‑
tare e dichiarare la nullità e/o annullabilità del licenziamen‑
to… accertare e dichiarare il diritto della ricorrente alla
reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del dan‑
no…”, invocando pertanto il disposto di cui all’art. 18 della
legge n. 300 del 1970.
Resistono i convenuti, chiedendo il rigetto del ricorso.
Deve preliminarmente precisarsi che alla fattispecie va
ritenuta applicabile ratione temporis la disciplina processuale
di cui ai commi da 48 a 68 dell’art. 1 della legge n. 92/2012.
Va inoltre rilevato che il licenziamento oggetto di causa
risulta intimato in data 3.8.2012, per cui la disciplina sostan‑
ziale applicabile ratione temporis è quella di cui all’art. 18
nella formulazione con le modifiche apportate dalla cosiddet‑
ta riforma Fornero (l. cit).
In via ancora preliminare, va dichiarato il difetto di legit‑
timazione passiva della A* s.p.a. – I* – , in quanto detentrice
di un pacchetto di quote societarie e non già parte sostanzia‑
le del rapporto dedotto in giudizio.
risultavano cedute, pertanto alla cessione non è sopravvissuta alcuna impresa
della quale l’articolazione trasferita rappresenti una diramazione. L’attività
della società cedente cessava del tutto.
Stante quindi l’accertamento della manifesta infondatezza del giustificato mo‑
tivo oggettivo (“intervenuta cessazione dell’attività aziendale”) posto alla base
del licenziamento in questione, una volta ritenuto che tra le due società si fosse
realizzato un trasferimento d’azienda, l’ordinanza in esame, facendo seguito ad
un pacifico orientamento giurisprudenziale, statuisce che i rapporti di lavoro
preesistenti al trasferimento proseguono con il nuovo titolare senza necessità
del consenso da parte dei lavoratori, con la conseguenza che ogni lavoratore
può far valere nei confronti del nuovo titolare solo i diritti già maturati in
precedenza ed esercitabili nei confronti del cedente (in tal senso: Cass. civ. Sez.
lavoro, 12‑05‑2004, n. 9031).
Il G.L. dott.ssa Grammatica dichiarava pertanto l’illegittimità del licenziamen‑
to intimato alla ricorrente per manifesta insussistenza del motivo addotto a
fondamento dell’atto di recesso, alla luce, non solo della normativa nazionale,
ma anche di quella comunitaria, ed in particolare della direttiva n. 77/187/CE,
successivamente modificata dalla direttiva n. 98/50/CE ed infine dalla direttiva
n. 2001/23/CE del Consiglio dell’Unione Europea. Tale direttiva, concernente
il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento
dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di
parti di imprese o di stabilimenti, all’articolo 3, paragrafo 1, prevede che: “i
diritti e gli obblighi che risultano per il cedente da un contratto di lavoro o da
un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento sono, in conseguen‑
za di tale trasferimento, trasferiti al cessionario.”; per effetto di tale direttiva
l’impresa ceduta conserva la propria identità, anche in conformità alla discipli‑
na di cui all’art. 2112 c.c. e pertanto sussiste per il lavoratore il diritto alla
reintegrazione allorquando, come nel caso che ci occupa, sia stato illegittima‑
mente licenziato. In tal senso Cass. civ. Sez. lavoro, 02‑09‑2010, n. 19000:
“Sussiste il diritto alla reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato,
già dipendente della società incorporata, nella società incorporante quando per
effetto dell'incorporazione l'intera impresa o una ramo di essa venga trasferita
ad altro soggetto (cessionario) conservando la propria identità in conformità
alle condizioni previste dalla normativa comunitaria (direttiva n. 77/187/CE e
successive modifiche e integrazioni) determinandosi in tale ipotesi il trasferi‑
mento di azienda ai sensi dell'art. 2112 cod. civ.”.
Ciò rilevato, con l’ordinanza in esame, il G.L. dott.ssa Grammatica, provvedeva ad
applicare al caso di specie le conseguenze dettate in materia dalla disciplina di
cui all’art. 18 comma 4 Legge 300/70, il quale, così come novellato dalla Legge
92/2012 (art. 1 comma 42) prevede che il giudice, nell’ipotesi in cui accerti la
manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustifi‑
cato motivo oggettivo debba annullare il licenziamento e condannare il datore
di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro, nonché al pagamento di
un’indennità risarcitoria, non superiore a dodici mensilità, commisurata all’ul‑
tima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello
dell’effettiva reintegrazione. In tal senso anche recente ordinanza emessa in
data 08.07.2013 dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Sezione contro‑
versie di lavoro e previdenza, Giudice dott.ssa Nunzia Tesone quale giudice del
lavoro.
F O R E N S E
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Ciò posto, ritiene il Tribunale che la domanda di parte
ricorrente meriti accoglimento.
Ed invero, l’istante deduce che il recesso, irrogato per
“intervenuta cessazione dell’attività aziendale”, non sia sor‑
retto da giustificato motivo oggettivo, essendo intervenuta tra
società datrice e la S*s.p.a. un trasferimento d’azienda, non
già di ramo d’azienda, dal quale la lavoratrice è stata esclusa
perché non addetta ad esso al momento della cessione.
Appare opportuno premettere che si configura trasferi‑
mento di azienda in tutti i casi in cui, ferma restando l’orga‑
nizzazione del complesso dei beni destinati all’esercizio
dell’attività economica, ne muta il titolare in virtù di una vi‑
cenda giuridica riconducibile al fenomeno della successione
in senso ampio (cfr. Cass. n. 26215/2006).
Si ha trasferimento di ramo d’azienda, invece, come tale
suscettibile di autonomo trasferimento – riconducibile alla
disciplina dettata per la cessione di azienda –, nell’ipotesi di
un’entità economica organizzata in maniera stabile la quale,
in occasione del trasferimento, conservi la sua identità (cfr.
Cass. n. 21687/2009).
Ciò presuppone una preesistente realtà produttiva auto‑
noma e funzionalmente esistente: non è configurabile, quindi,
il trasferimento del ramo nel caso di una struttura produttiva
creata ad hoc, vale a dire in occasione del trasferimento, o
come tale identificata dalle parti del negozio traslativo.
Pertanto, per aversi trasferimento del solo ramo è neces‑
sario che sia ceduto un complesso di beni che oggettivamente
si presenti quale entità dotata di una propria autonomia or‑
ganizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di
una attività volta alla produzione di beni e servizi, mentre è
da escludersi che il ramo d’azienda possa essere identificato
potenzialmente come tale solo al momento del trasferimento,
quale astratta idoneità ad una organizzazione futura di atti‑
vità, altrimenti sarebbe l’imprenditore ad unificare il comples‑
so dei beni (cfr. Cass. n. 20012/2005).
Nella fattispecie, ritiene il Tribunale, all’esito della som‑
maria istruttoria svolta nel procedimento de quo, che non si
sia in presenza di un v di ramo d’azienda tra la S* s.p.a. in
liquidazione e la S* s.p.a., bensì di un vero e proprio trasferi‑
mento d’azienda, ricorrendo nel caso tutti gli elementi carat‑
terizzanti l’ipotesi di cui all’art. 2112 c.c., V comma, prima
parte.
In particolare, si osserva che all’esito del trasferimento non
è residuato alcunché dalla impresa cedente: dall’analisi degli
atti di causa emerge con chiarezza che alla S* s.p.a. risultano
cedute tutte le attività e i servizi relativi al titolo I e al titolo
II di cui al d.lgs. n. 185/2000, i rapporti obbligatori, i contrat‑
ti, i beni materiali, i macchinari, le dotazioni, tutti gli immo‑
bili destinati a sedi della società, nonché tutta la forza lavoro,
con esclusione di un gruppo di dipendenti, tra i quali la ricor‑
rente, che risulta assunta – in esecuzione di sentenza di rein‑
tegra emessa da questo Tribunale – , nello stesso giorno in cui
è stata licenziata, perché non addetta alo ramo presuntamene
trasferito.
È di ogni evidenza ed emerge palesemente dagli atti di
causa che alla cessione non è sopravvissuta alcuna impresa,
della quale l’articolazione trasferita rappresenti una dirama‑
zione: del resto quale sia il ramo trasferito e quale la parte di
azienda non ceduta la resistente neppure deduce, anzi, espo‑
nendo di aver cessato l’attività, in qualche maniera conferma
61
2 0 1 3
che al trasferimento non è residuata alcuna autonomia fun‑
zionale e organizzativa né alcun ciclo produttivo diversificato
da quello ceduto.
Una volta ritenuto che tra le due società si sia realizzato
un trasferimento di azienda e rimarcato che i rapporti di la‑
voro preesistenti al trasferimento proseguono con il nuovo
titolare senza necessità del consenso da parte dei lavoratori,
con l’effetto che ogni lavoratore può far valere nei confronti
del nuovo titolare i diritti maturati in precedenza ed esercita‑
bili nei confronti del cedente (cfr. Cass. n. 9031/2004), ne
consegue l’insussistenza del motivo posto a fondamento del
licenziamento.
Ed invero, l’intervenuto trasferimento d’azienda escute in
radice la ricorrenza di un’ipotesi di “cessazione dell’attività”,
atteso che l’attività aziendale della società S* s.p.a. è conti‑
nuata in capo alla società S* s.p.a.
Va, dunque, dichiarata l’illegittimità del licenziamento
intimato al ricorrente in data 03.08.2012 per manifesta in‑
sussistenza del motivo addotto a fondamento dell’atto di re‑
cesso.
Sul punto, va osservato che sussiste il diritto alla reinte‑
grazione del lavoratore illegittimamente licenziato, già dipen‑
dente della società cedente, nella società cessionaria, poiché
per l’effetto della cessione l’impresa conserva la propria iden‑
tità in conformità alle disposizioni di cui all’art. 2112 c.c. e
alle condizioni previste dalla normativa comunitaria (diretti‑
va n. 77/187/CE e successive modifiche e integrazioni) (cfr.
Cass. n. 19000/2010).
Quanto alle conseguenze di tale declaratoria, ritiene il
Tribunale, che trovi applicazione la disciplina di cui all’art.18
comma 4 St. Lav, richiamato dal comma 7 della medesima
esposizione, nel testo novellato dalla legge 92/2012, che pre‑
vede che: “Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ri‑
corrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della
giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza
del fatto contestato…, annulla il licenziamento e condanna
il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di
cui al primo comma e al pagamento di una indennità risarci‑
toria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal
giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegra‑
zione… Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamen‑
to dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del
licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione”.
Pertanto, la società S*s.p.a. va condannata alla reintegra
del ricorrente nel posto di lavoro ed al pagamento di un’in‑
dennità commisurata a 12 mensilità della retribuzione globa‑
le di fatto, oltre rivalutazione monetaria da calcolarsi secondo
l’indice di cui all’art. 150 disp. att. c.p.c. – ed interessi lega‑
li – da computarsi sulle somme via via rivalutate – e dal do‑
vuto al soddisfo e al versamento dei contributi previdenziali
ed assistenziali.
Il carattere assorbente delle considerazioni che precedono
rende superfluo l’esame di ogni altra questione sottoposta al
vaglio del giudicante.
Le spese sono compensate tra A*s.p.a. – I* e le altre parti,
in virtù della pronuncia in rito tra le stesse; tra le altre parti
le spese seguono la soccombenza e, liquidate come da dispo‑
sitivo, sono poste a carico delle resistenti tra di loro.
P.Q.M.
civile
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p r o c e d u r a
Il giudice così provvede:
annulla l’impugnato licenziamento e per l’effetto ordina
alla S* s.p.a. l’immediata reintegrazione del ricorrente nel
posto di lavoro;
condanna la S* s.p.a. al risarcimento dei danni subiti
dalla parte ricorrente stabilendo un’indennità omnicompren‑
siva in misura di 12 mensilità della retribuzione globale di
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fatto goduta all’atto della risoluzione, oltre rivalutazione
monetaria da calcolarsi secondo l’indice di cui all’art. 150
disp. att. c.p.c. – ed interessi legali – da computarsi sulle som‑
me via via rivalutate – e dal dovuto al soddisfo e al versamen‑
to dei contributi previdenziali ed assistenziali;
(Omissis)
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Rassegna di merito
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A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa
Avvocati
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Cancellazione dal Registro delle Imprese di srl – Creditori insod‑
disfatti – Responsabilità del liquidatore – Natura e presuppo‑
sti – Condotta colposa – Insufficienza – Responsabilità dei so‑
ci – Oneri probatori.
a) Dopo la cancellazione della società dal Registro delle
imprese, ai creditori rimasti insoddisfatti è concessa la pos‑
sibilità di far valere i propri crediti nei confronti dei liquida‑
tori “se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi”.
La responsabilità dei liquidatori verso i creditori rimasti
insoddisfatti ha natura di responsabilità extracontrattuale
per lesione del diritto di credito del terzo. Presupposti di
tale responsabilità sono il mancato pagamento e la ricondu‑
cibilità del mancato pagamento alla condotta colposa dei
liquidatori.
b) La sussistenza di una condotta colposa da parte del
liquidatore è ravvisabile anzitutto in caso di mancato paga‑
mento dei crediti conosciuti o conoscibili utilizzando la
normale diligenza tra cui rientrano, in particolare, le passi‑
vità derivanti da diffide, accertamenti tributari o, come nel
caso di specie, da procedimenti giudiziari..
c) L’individuazione di una condotta colposa posta in
essere dal liquidatore non è tuttavia sufficiente a determina‑
re la responsabilità di quest’ultimo nei confronti del credi‑
tore rimasto insoddisfatto. A tal fine è infatti necessario che
il mancato soddisfacimento del credito sia causalmente ri‑
conducibile al liquidatore, il che si verifica qualora il credi‑
tore dimostri: (i) l’esistenza, nel bilancio finale di liquidazio‑
ne, di una massa attiva che sarebbe stata sufficiente a sod‑
disfare il suo credito ed è stata invece distribuita ai soci,
oppure l’imputabilità di tale mancanza di attivo alla condot‑
ta colposa del liquidatore.
d) I soci di una società di capitali rispondono fino a
concorrenza delle somme eventualmente riscosse in base al
bilancio finale di liquidazione con la conseguenza che il
creditore deve allegare e provare che vi sia stata distribuzio‑
ne dell’attivo risultante dal bilancio finale di liquidazione
che una quota di tale attivo sia stata riscossa dai soci conve‑
nuti.
Trib. Napoli, sez. VII, sentenza 29 gennaio 2013.
Giud. F. Reale
Docenti supplenti con contratto a tempo determinato – Scatti di
anzianità – Equiparazione ai docenti di religione ed ai docenti di
ruolo – Direttiva n. 1999/70/C – Principio di non discriminazio‑
ne – Inapplicabilità alla fattispecie de qua.
a) La paventata diversità di trattamento tra gli insegnan‑
ti di religione cattolica con contratto a tempo determinato
e gli altri docenti precari incaricati viene, in realtà, soltanto
affermata, senza addurre argomentazioni convincenti
sull’assoluta equiparabilità delle diverse situazioni prese in
considerazione dal legislatore. La diversità di requisiti e
criteri di accesso e di modalità di regolamentazione del rap‑
porto, collegata a peculiari criteri di idoneità del personale,
discende dalla premessa che l’insegnamento della religione
cattolica nelle scuole pubbliche corrisponde non a scelte
squisitamente didattiche, ma ad un impegno assunto dallo
stato rispetto ad altro ente sovrano, al cui magistero resta
direttamente connessa una dottrina – il cui apprendimento
è comunque facoltativo – ritenuta attinente al patrimonio
civile
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p r o c e d u r a
storico e culturale del popolo italiano (ex multis, C. Stato,
sez. I, 29.04.2010, n. 835/08; C. Stato, sez. VI, 13.07.2009,
n. 4393: T.a.r. Lazio; sez. III, 12.11.2007, n. 11108): essa,
quindi, giustifica ampiamente la diversità di stato giuridico
rispetto ai docenti delle ordinarie materie di insegnamento
nella scuola pubblica, nonché l’impermeabilità dei due set‑
tori. Tanto basta ad escludere la sussistenza di uguali situa‑
zioni regolate in modo diverso e la conseguente violazione
del principio costituzionale di cui all’art. 3 Cost. (cfr. C.
Stato, sez. VI, 27.09.2006, n. 5670).
b) Le ragioni oggettive che giustificano alcune diversità
di trattamento nel rapporto di lavoro dei docenti supplenti
con contratto a tempo determinato, rispetto ai docenti di
ruolo alle dipendenze dell’Amministrazione scolastica, si
rinvengono, principalmente; nelle rigorose modalità di ac‑
cesso al pubblico impiego, imposte con norma costituziona‑
le. La diversità di trattamento, in definitiva, è giustificata
dalla diversità delle situazioni considerate dal: legislatore:
ciò esclude, da un lato, il conflitto col principio costituzio‑
nale di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost, e, dall’altro, giu‑
stifica, in quanto “ragione oggettiva”, la disparità di tratta‑
mento tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori assun‑
to a tempo indeterminato.
Trib. Napoli, sez. II, sentenza 27 marzo 2013
Giud. A. Ciriello
Domanda tardiva di ammissione con privilegio al passivo – In‑
terruzione del giudizio – Morte e/o perdita di capacità – Mera
dichiarazione in udienza – Idoneità – Provvedimento giudizia‑
le – Efficacia dichiarativa.
a) Se è stato ritenuto dal legislatore utile collegare l’ef‑
fetto interruttivo del giudizio ad un determinato evento e
se tale evento, una volta dichiarato sotto la propria respon‑
sabilità professionale dal difensore, è dalle parti e dal giu‑
dice percepibile ex se, senza che sia richiesta alcuna indagi‑
ne e/o valutazione, che inevitabilmente aprirebbe un
sub‑procedimento, inappropriato, ai fini perseguiti dal le‑
gislatore, di una immediata interruzione del giudizio, appa‑
re inevitabile consentire ad esso di svolgere la sua funzione
dal momento stesso della sua emersione nelle forme di leg‑
ge, indipendentemente dall’intervento del giudice.
b) In definitiva, il sistema consente che il processo con‑
tinui anche quando sopravvenga la morte e/o la perdita
della capacità della parte, ma ne impone l’immediato “con‑
gelamento”, non appena questi eventi sono formalmente
dichiarati e portati a conoscenza delle altre parti nelle forme
di legge, il provvedimento del giudice che disponga l’inter‑
ruzione del giudizio avendo efficacia meramente dichiara‑
tiva.
App. Napoli, sez. I, sentenza 14 maggio 2013
Pres. Rel. V. Fralliciardi
Prova nel giudizio civile – Disponibilità delle prove – Poteri del
giudice – Trascrizione di atti illegittimi – Cancellazione.
a) La parte, nell’esercizio del suo potere dispositivo
delle prove (art. 115 cod. proc. civ.), ha la facoltà di ritirare
e di non ridepositare nei termini di legge i documenti in
precedenza prodotti, senza altra sanzione che quella della
soccombenza per non aver fornito la prova della sua prete‑
sa, quando il documento non più ridepositato si riveli a lei
c i v i l e
Gazzetta
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favorevole, in quanto il giudice deve decidere la causa in
base solo alle prove che siano sottoposte al suo esame in
sede di decisione; mentre l’altra parte – ove tale documento
le giovi – qualora non abbia provveduto ai sensi dell’art. 76
disp. att. cod. proc. civ. a farsi rilasciare dal cancelliere
copia di tale documento idoneo, in ipotesi, a fornire la pro‑
va del diritto posto a base della propria pretesa, non può
dolersi delle conseguenze derivanti dalla sua inattività.
b) La cancellazione della trascrizione della compraven‑
dita non è prevista dal codice civile (art 2668 c.c.) e da
quello di rito (artt. 586 e 683 c.p.c.). Si potrebbe configura‑
re la possibilità, secondo la più recente giurisprudenza, di
adire il giudice per ottenere la cancellazione di trascrizioni
di atti, diversi da quelli menzionati negli articoli appena
richiamati, soltanto nel caso di trascrizione illegittima, cioè
di trascrizioni di atti per i quali non è previsto questo adem‑
pimento (Cass. 13127/2007). Ma nella fattispecie la trascri‑
zione di un atto di compravendita (art. 2643 c.c.) è piena‑
mente legittima, cioè prevista dalla legge, e le norme in tema
di inefficacia‑inopponibilità dell’acquirente a seguito di
esecuzione forzata, risolvono agevolmente gli eventuali
conflitti tra più successivi aventi causa.
Trib. Napoli, sez. IV, sentenza 03 giugno 2013
Giud. P. Lupi.
Vacanza Rovinata – Azione di classe – Presupposti di ammissibi‑
lità – Contratto di viaggio tutto compreso – Utilità apprezzabi‑
le – Risarcimento danni – Diligenza ed impossibilità di control‑
lare in concreto l’esecuzione della prestazione – Sussistenza
della responsabilità.
a) Il richiamo alla “identità” (e in seguito alla riforma
del 2012, alla “omogeneità”) dei diritti di una pluralità di
consumatori e utenti deve essere inteso nel senso che è ne‑
cessario che tutti gli elementi costitutivi, con riferimento sia
all’”an” sia al “quantum” del risarcimento, siano identici
(omogenei), potendosi differenziare soltanto per il fatto che
ineriscano a soggetti differenti. Di conseguenza, deve esse‑
re dichiarata inammissibile l’adesione all’azione di classe di
quei consumatori che, come dagli stessi dedotto, si trovano
in una situazione di fatto diversa da quella indicata dall’or‑
dinanza con cui l’azione medesima è stata dichiarata am‑
missibile.
b)Il contratto di viaggio tutto compreso (pacchetto tu‑
ristico o package) è diretto a realizzare l’interesse del turi‑
sta‑consumatore al compimento di un viaggio con finalità
turistica o a scopo di piacere, sicché tutte le attività e i ser‑
vizi strumentali alla realizzazione dello scopo vacanziero
sono essenziali. In particolare, pertanto, la circostanza che
il turista‑consumatore venga alloggiato, per una parte del
periodo di soggiorno in una struttura alberghiera di livello
qualitativo inferiore rispetto a quella prenotata all’atto
dell’acquisto e, per la restante parte del periodo di viaggio,
presso questa struttura, ma ancora in fase di ristrutturazio‑
ne, con molti dei servizi promessi (palestra, spa e piscina,
spiaggia attrezzata) non ancora ultimati, diminuisce in
misura apprezzabile l’utilità che può trarsi dal soggiorno
nella località turistica, dando luogo alla fattispecie della
vacanza rovinata..
c) L’organizzatore e il venditore di pacchetto turistico
assumono, nell’ambito del rischio di impresa, un’obbliga‑
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zione di risultato nei confronti dell’acquirente e, pertanto,
la loro responsabilità sussiste ogniqualvolta sia ravvisabile
una responsabilità contrattuale diretta del prestatore di
servizi nei confronti del consumatore per il servizio resogli
(o non resogli), e non è correlata ad un suo difetto di dili‑
2 0 1 3
65
genza nella scelta del prestatore di servizi di cui si avvalga,
ovvero alla possibilità di controllarne in concreto le moda‑
lità operative nell’esecuzione della prestazione.
Trib. Napoli, sez. XII, sentenza 18 febbraio 2013, n. 2195.
Giud. Rel. C. Manzo
civile
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Diritto e procedura penale
La Cassazione “giudice dei diritti”
69
Clelia Jasevoli
Diffamazione a mezzo Internet con particolare riferimento a “Facebook”
78
Jacopo Meini
Il caso punta Perotti: tra misura amministrativa e sanzione penale
80
Vittorio Sabato Ambrosio
I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali
85
A cura di Angelo Pignatelli
Rassegna di merito [
A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ]
A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ]
95
98
penale
Rassegna di legittimità [
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69
●
Sommario: 1. Semel mafioso semper mafioso. – 2. L’applica‑
zione disgiunta della misura di prevenzione patrimonia‑
le. – 3. Il controllo sulla motivazione per violazione di leg‑
ge. – 4. Quale Cassazione oggi?
La Cassazione
“giudice dei diritti”
1. Semel mafioso semper mafioso
Sul versante della tutela delle situazioni soggettive protet‑
te si avverte il ‘peso’ crescente del diritto giurisprudenziale1.
Ed è qui che si manifesta la problematicità del rapporto giu‑
dice‑legge 2 a fronte di talune opzioni di politica criminale, che
si sostanziano in una delega in bianco all’interprete3. Se la
legge non adempie ad un’effettiva funzione di orientamento
non può ‘condizionare’ la discrezionalità del giudice, né mu‑
tarla da libera in normativamente orientata, strada attraverso
cui si determina la reciproca strumentalità tra diritto e prova,
evitando il rischio di inversione dell’onere della prova.
Ciò accade soprattutto per il ‘sommerso’, che resta fuori
dal processo penale, cioè per quella parte di storicità del fatto,
che non assurge a tipicità offensiva.
L’esemplificazione è offerta, ancora una volta, dalle sezio‑
ni unite Mannino 4, che in virtù del criterio di tipizzazione
causale pervengono – nell’ottica di contenere l’indeterminatez‑
za5 della figura di ‘concorso esterno’ in associazione mafio‑
sa – all’esclusione della rilevanza probatoria di ‘indicatori’ di
mera disponibilità o di vicinanza all’associazione6, dal momen‑
● Clelia Jasevoli
Prof. incaricata di diritto penale minorile
Università di Napoli “Federico II”
1 «In premessa, va chiarita la differenza tra “diritto giurisprudenziale” e “momen‑
to giurisprudenziale del diritto”, che la più accorta dottrina rintraccia nel con‑
cetto di “creatività”: la “creatività come fonte” corrisponde al diritto giurispru‑
denziale; la “creatività interpretativa” forma il momento giurisprudenziale del
diritto e costituisce il portato del “movimento” liberista nel nostro Paese, data‑
to all’indomani della Costituzione e via via consolidatosi per far fronte alle
contraddizioni tra lacune legislative e disfunzioni giurisprudenziali. Ebbene, la
definizione funzionale della giurisprudenza quale luogo di mediazione tra legge
e diritto contiene in sé il connotato creativo indispensabile nel raccordo tra co‑
mando astratto e caso concreto. Sicché, il momento giurisprudenziale rappre‑
senta un fattore endemico nella dinamicità del diritto positivo, nel suo progre‑
dire storico, nel suo adeguarsi alla situazione contingente». Così. G. Riccio, La
procedura penale. Tra storia e politica, Napoli, 2010, p. 87‑88.
2Sul tema, E. Amodio, Crisi della legalità processuale, filosofia della rassegna‑
zione e autorevolezza dei giuristi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2004, p. 64; G.
Riccio, La legalità è fatta di magistrati che non cedono alle suggestioni, in Dir.
giust., 2004, p. 86. Di recente: G. Illuminati, Abuso del processo, legalità
processuale e pregiudizio effettivo, in Cass. pen., 2012, p. 3593; N. Galantini,
Inutilizzabilità della prova e diritto vivente, Riv. it. dir. e proc. pen, 2012, p. 64;
Idem, Appunti sparsi sulla riforma costituzionale della giustizia, in Cass. pen.,
2011, p. 2862.
3 M. Donini, Certezza della pena e certezza del diritto. Una riforma chirurgica,
per dissolvere il non‑sistema, in Diritto penale contemporaneo, 2012, n. 1,
p. 221.
4 Cass. pen., sez. un., 12 luglio 2005, in Foro it., 2006, II, p. 80.
5 «Solo di rado le previsioni di reato e, più in generale, le norme che ridondano a
carico della libertà individuale risultano conformi ad esigenze di determinatezza
e tassatività, come viene confermato da strappi frequenti e recenti della legalità:
è in atto, già da lunga data, un evidente processo in cui il diritto penale diviene
sempre meno chiaro. Quando, poi, la ‘postmodernità’ chiede forme di control‑
lo penale più ‘flessibili’, più ‘dinamiche’, anche ai fini di una ‘semplificazione’
processuale, il principio di determinatezza – unitamente agli altri principi di
stato di diritto, quali personalità della responsabilità, offensività, materialità,
frammentarietà, sussidiarietà – viene ad essere ulteriormente sacrificato. È
possibile, infatti, sostenere che l’accentuata disattesa di questo principio rappre‑
senta, per le sue implicazioni, l’esempio più evidente della perdita di valore di
quelle idee‑guida alla base del diritto penale di derivazione illuministica, quali
tutela di libertà e dignità dell’uomo». Le osservazioni sono di S. Moccia, La
‘promessa non mantenuta’. Ruolo e prospettive del principio di determinatezza/
tassatività nel sistema penale italiano, Napoli, 2001, p. 20‑21.
6In dottrina hanno contrastato l'ammissibilità del concorso esterno prima
dell’emanazione della sentenza Mannino: D. Siracusano, Il concorso esterno e
le fattispecie associative, in Cass. pen., 1993, p. 1870; A. Manna, L'ammissibi‑
lità di un concorso «esterno» nei reati associativi, tra esigenze di politica crimi‑
penale
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D i r i t t o
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to che il criterio della tipizzazione causale non ammette la
rilevanza della causalità in senso psicologico7: mi riferisco, ad
esempio, alla diffusione della cultura criminale8.
Tutto ciò esce dall’area della giurisdizione di accerta‑
mento del fatto e della responsabilità ed entra nel processo di
prevenzione; esce dal concetto giuridico di partecipazione ed
entra nella delega in bianco della categoria del ‘sospetto’di
appartenenza all’associazione mafiosa, presupposto per
l’applicazione della misura della sorveglianza speciale o
dell’obbligo di soggiorno e, contestualmente, per l’ambito di
attività delle misure patrimoniali.
Su questo terreno si scopre che la motivazione del provved‑
imento è lo strumento a cui è affidata l’effettività della tutela
dei diritti fondamentali.
Ebbene, secondo il diritto giurisprudenziale9, se la parte‑
cipazione richiede la prova di una stabile ed organica adesio‑
ne al sodalizio10, l'appartenenza è comprensiva di ogni com‑
portamento che, pur non configurando gli estremi del fatto
di partecipazione, sia funzionale agli interessi dei poteri cri‑
minali e costituisca una sorta di terreno favorevole impregna‑
to di cultura mafiosa.
Sicché, per sostenere l'appartenenza è sufficiente la dimo‑
nale e principio di legalità, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1994, p. 1189; P. Insolera, Il concorso esterno nei reati associativi: la ragion di Stato e gli inganni
della dogmatica, in Foro It., 1995, II, p. 423. Anche la giurisprudenza aveva
già espresso dubbi sulla sua configurabilità, cfr. Cass. pen., sez. I, 30 giugno
1994, in Riv. pen., 1994, p. 1114; Cass. pen., 18 maggio 1994, in Foro it., 1994,
II, p. 560; Cass. pen., sez. I, 18 marzo 1994, in Foro it., p. 2685; Cass. pen.,
sez. I, 18 maggio 1994, in Cass. pen., 1994, p. 2685.
La problematicità di tale contesto è stata messa a fuoco da M. Gallo, Appunti di
diritto penale, III, Le forme di manifestazione del reato, Torino, 2003; A. Cavaliere, Il concorso eventuale nel reato associativo. Le ipotesi delle associa‑
zioni per delinquere e di tipo mafioso, Napoli, 2003; C. Visconti, Contiguità
alla mafia e responsabilità penale, Torino, 2003; G. De Vero, Il concorso ester‑
no in associazione mafiosa tra incessante travaglio giurisprudenziale e perdu‑
rante afasia legislativa, in Dir. pen. e proc., 2003, p. 1325; A. Corvi, Parteci‑
pazione e concorso esterno: un’indagine sul diritto vivente, in Riv. it. dir. e proc.
pen., 2004, p. 242.
7Prima dell'intervento delle Sezioni unite Mannino, vi è traccia sulla configura‑
bilità del concorso esterno in: Cass. pen., sez. I, 24 gennaio 1994, in Giust. pen.,
1994, II, p. 424; Cass. pen., sez. I, 6 giugno 1994, in Giust. pen., 1995, II, p. 18;
Cass. pen., sez. I, 8 giugno 1993, in Riv. pen., 1994, II, p. 540; Cass. pen., sez. I,
23 novembre 1992, in Giust. pen., 1993, II, p.563.
Sul versante dottrinario, si rinvia a S. Saglia, Osservazioni in tema di concorso
eventuale nel reato di associazione mafiosa, in Giust. pen., 1992, II, 310; G.
Fiandaca, Riflessi penalistici del rapporto mafia‑politica, in Foro it., 1993, V,
p. 137; Idem, Una espansione incontrollata del concorso criminoso, in Foro it.,
1996, V, p. 127; C.F. Grosso, La contiguità alla mafia tra partecipazione,
concorso in associazione mafiosa ed irrilevanza penale, in Riv. it. dir. e proc.
pen, 1993, p. 1191; A. Ingroia, L'associazione di tipo mafioso, Milano, 1993,
p. 96; G. De Francesco, Dogmatica e politica criminale nei rapporti tra con‑
corso di persone ed interventi normativi contro il crimine organizzato, in Riv.
it. dir. e proc. pen., 1994, p. 1266; C. Visconti, Il "concorso esterno" nell'as‑
sociazione mafiosa: profili dogmatici ed esigenze politico‑criminali, in Riv.it.
dir. e proc.pen., 1995, 1328; G. Paci, Osservazioni sull'ammissibilità del con‑
corso eventuale nel reato di associazione a delinquere di tipo mafioso, in
Cass. pen., 1995, 545. L’embrionale fisionomia del concorso esterno nei reati
associativi è il prodotto ermeneutico di due sentenze delle Sezioni unite della
Cassazione: Cass. pen., sez. un., 5 maggio 1994, Demitry, in Foro it., 1995, II,
p. 422; Cass. pen., sez. un., 30 ottobre 2002, in Guida dir., 2003, n. 30,
p. 60.
8In questa prospettiva, A. Cavaliere, Il concorso eventuale nel reato associativo.
Le ipotesi delle associazioni per delinquere e di tipo mafioso, Napoli, 2003,
passim; Idem, Lo scambio elettorale politico‑mafioso, in AA.VV., Delitti con‑
tro l’ordine pubblico, a cura di S. Moccia, Napoli, 2007, p.642.
9 Da ultimo, Cass. pen., sez. II, 21 febbraio 2012, n. 19943, Rv. 252841.
10 Di recente in argomento, G. Fiandaca, Il concorso esterno tra guerre di reli‑
gione e laicità giuridica, in Diritto penale contemporaneo, 2012, n. 1, p. 251;
V. Maiello, Luci ed ombre nella cultura giudiziaria del concorso esterno, ivi,
2012, n. 1, p. 265; P. Morosini, Il “concorso esterno” oltre le aule di giustizia,
ivi, 2012, n. 1, p. 261.
p e n a l e
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strazione dell'esistenza di elementi concreti, che siano espres‑
sione di azioni funzionali alla realizzazione di interessi della
criminalità organizzata, pur risultando quegli elementi ina‑
deguati a configurare la condotta tipica.
Dunque, per essere indiziato di appartenenza basta un
contesto di circostanze indiziarie alla stregua delle quali tra‑
spaia la specifica ‘vicinanza’ del soggetto a quel determinato
sodalizio, i cui metodi e le cui finalità finiscono per essere
‘soggettivamente’ condivisi, attraverso un regime di vita che
fonda il giudizio di pericolosità sociale, ed esso, a sua volta,
giustifica l’applicazione della misura di prevenzione.
In merito, la Cassazione11 ha chiarito che, al di là delle
opzioni semantiche, è evidente la differenza di prospettive che
sta al fondo dei connotati della condizione di chi è indiziato‑
di appartenere all’associazione rispetto a chi è imputato di
partecipazione o concorso esterno, dal momento che i ‘fatti
materiali’ in cui si sostanziano le due situazioni soggettive,
impediscono di tracciare profili definitori di tipo nominalisti‑
co, proprio per la diversità dei presupposti normativi, che
delineano l'ambito della ‘fattispecie’ di prevenzione da quella
penale, diversità che si riversa sul piano probatorio.
Né il concetto di appartenenza assume tratti diversificati
quando entra in gioco la qualità di ‘concorrente esterno’, dal
momento che quest’ultima non impedisce di formulare quella
presunzione di attualità della pericolosità, insita nonsoltanto
nella figura del partecipe, ma intrinsecamente connessa – se‑
condo la Corte – all’appartenenza.
Perciò, essa comprende anche la forma di concorso even‑
tuale, caratterizzato, in quanto tale, dalla non estemporanei‑
tà del contributo prestato al sodalizio, e, quindi, dalla pre‑
sunzione del pericolo, in assenza di elementi dai quali possa
fondatamente desumersi l'avvenuta interruzione del rappor‑
to.
D'altra parte, la ‘intraneità’ del soggetto nel sodalizio o il
fatto che concorra alla associazione senza il vincolo di asso‑
ciato sono realtà fenomenicamente distinguibili, ma ontolo‑
gicamente sovrapponibili, ove riguardate nella prospettiva
della utilità che l'associazione mafiosa ne trae dai diversi
ruoli di cooperazione, e ciò rende ragionevole un identico
apprezzamento in ordine alla pericolosità di chi un siffatto
contributo, in varia forma, apporta al sodalizio12. Eppure,
intuibili sono i riverberi sul piano degli indizi e del relativo
scrutinio in punto di pericolosità sociale.
In altri termini, nell’orientamento dei giudici di legittimi‑
tà13 lo statusdi indiziato, che connota quel tipo di ‘relazione
intersoggettiva’, individua una condizione di pericolosità la‑
tente, connaturale a quell’accertata situazione di appartenen‑
za e viene qualificata dal ‘modo di essere’ e di manifestarsi di
quel sodalizio, nonché dalle metodologie impiegate per lo
svolgimento delle relative attività.
Di conseguenza, si è osservato14 che quando il giudice
abbia fornito adeguata contezza delle ragioni, che lo hanno
indotto a ritenere sussistente il presupposto indiziario dell’ap‑
11 Cass. pen., sez. V, 29 marzo 2013, n. 14769, in http://www.plurisonline.it.
12 Cfr. G. Riccio, La “contiguità mafiosa” tra tipizzazione della fattispecie asso‑
ciativa e forma autonoma di reato, in Quaderni di Scienze penalistiche, 2005,
n. 1, p. 47.
13 Cass. pen., sez. II, 24 gennaio 2013, n. 3809, in http://www.plurisonline.it.
14 Cass. pen., sez. II, 15 aprile 2013, n. 17111, in http://www.plurisonline.it.
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m a g g i o • g i u g n o
partenenza, e non sussistano elementi dai quali poter ragio‑
nevolmente desumersi che essa sia venuta meno, non occorre
alcuna specifica motivazione che indichi le ragioni su cui
fonda l’attualità della pericolosità. Essa può essere esclusa
soltanto nel caso in cui risultino elisi i legami dell'interessato
dalla associazione alla luce di positive emergenze15.
Questa premessa esegetica guida la giurisprudenza16nel
ritenere che l’appartenenza possa essere negata soltanto
nell’ipotesi di recesso dell'interessato dall'associazione, di cui
è necessario acquisire la prova positiva, non bastando a tal
fine eventuali riferimenti al tempo trascorso dall'adesione o
dalla concreta partecipazione ad attività associative.
In sostanza, se la pericolosità è intrinseca alle caratteristi‑
che di permanenza della fattispecie di associazione di tipo
mafioso, se, cioè, è presente pur se non si manifesta, per
escluderla è necessario acquisire la prova del recesso, essendo
di per sé non decisivo il decorso del tempo, né tanto meno la
condizione di carcerazione.
Si tratta di un vera e propria inversione dell’onere della
prova, in quanto se circostanze del tutto ipotetiche e conget‑
turali sono sufficienti a fondare lo statusdi appartenenza,
altrettante ipotesi congetturali non sono idonee a provare il
recesso.
Sul punto è prevalsa l’elaborazione giurisprudenziale17se‑
condo cui «la mancanza di un'espressa abiura del sodalizio
mafioso da parte dell’indiziato ed il suo sostanziale rifiuto di
avviare con l'autorità giudiziaria una collaborazione in meri‑
to ai legami con la consorteria mafiosa, lasciano ritenere,
quantomeno in termini di ragionevole probabilità, che il so‑
dalizio mafioso, possa continuare a fare affidamento sullo
stesso».
Gli effetti sono tanto più dirompenti se si considera che il
giudice, per questa via, è stato esonerato dall’obbligo di mo‑
tivare in punto di attuale pericolosità., con il consequenziale
affievolimento della funzione di garanzia della motivazione.
Inoltre, la misura di prevenzione personale si applica
anche nel caso in cui sia intervenuta l'assoluzione del proposto
per il reato di cui all'art. 416‑bisc.p., oppure nel caso in cui
sia stata esclusa la sussistenza dell'aggravante di cui all’art.7
del l d.l. n. 203 del 1991, purché il giudice indichi le concrete
circostanze di fatto dalle quali si possa desumere la cd. peri‑
colosità e che non siano state smentite dalla decisione assolu‑
toria.
15 Cass. pen., sez. II, 18 aprile 2012, n. 14911, in http://www.plurisonline.it;
Cass. pen., sez. VI, 21 novembre 2008, n.499, in http://www.plurisonline.it;
Cass. pen., sez. II, 11 ottobre 2005, n.44326, in http://www.plurisonline.it;
Cass. pen., sez.VI, 23 novembre 2004, n. 114, in http://www.plurisonline.it;
Cass. pen., sez. VI, 22 marzo 1999 n. 950, in http://www.plurisonline.it;
Cass. pen., sez. I, 20 novembre 1998 n. 5760, in http://www.plurisonline.it;
Cass pen., sez. I, 27 gennaio 1998 n. 461, in http://www.plurisonline.it
16La tesi riprende il tradizionale insegnamento della Corte «in forza del quale la
qualità di indiziato di prevenzione viene a coincidere con quella di associato
richiesta per l'applicazione della sanzione penale, secondo la teoria del c.d.
doppio binario, e la differenza tra le due figure consiste solo nel differente livel‑
lo probatorio richiesto per affermarne l'ontologica esistenza. In tale contesto
l'intervenuta sentenza di condanna per appartenenza ad associazione di tipo
mafioso appare valido strumento di accertamento della responsabilità e, quin‑
di, della inerente pericolosità sociale, idoneo a fondare il giudizio di applicazio‑
ne delle previste misure di prevenzione». Cass. pen., sez. II, 24 gennaio 2013,
n. 3809, in http://www.plurisonline.it.
17 Ancora, cfr. Cass. pen., sez. II, 24 gennaio 2013, n. 3809, in http://www.pluri‑
sonline.it.
2 0 1 3
71
In altri termini: semel mafioso, semper mafioso.
In questo contesto appare evidente che si apre uno spazio
di eccessiva discrezionalità che va ad incidere sui diritti della
persona, che non è suscettibile di alcun controllo, data l’inaf‑
ferrabilità della stessa definizione di associazione mafiosa:
tutti i difetti della fattispecie penale di cui all’art. 416‑bis
c.p. si riversano nel procedimento di prevenzione, che non
gode delle garanzie del processo penale. Sicché il presupposto
soggettivo di indiziato di appartenere all’associazione mafio‑
sa è due volte indeterminato e resta tale in assenza di indici
legislativi, che possano orientare normativamente la discre‑
zionalità del giudice.
Certo; è confermata la piena autonomia dei due procedi‑
menti per struttura e scopi: quello penale funzionale all'ac‑
certamento della responsabilità e quello di prevenzione, an‑
corato ad una valutazione di pericolosità, espressa mediante
condotte che non costituiscono reato.
Da qui l’esclusione di un rapporto di pregiudizialità del
primo rispetto al secondo; da qui anche l’affermazione della
reciproca indipendenza nell'apprezzamento del materiale in‑
diziario, con l'obbligo di indicare le ragioni argomentative
nella motivazione del decreto applicativo della misura.Il giu‑
dizio di pericolosità si deve sostanziare in un ragionamento
immune da vizi, fondato su indizi che non sono qualificati ai
sensi dell’art. 192 comma 2 c.p.p., di conseguenza, la loro
rilevanza processuale non è condizionata alla sussistenza dei
.
connotati giuridici di gravità, precisione e concordanza18
In aderenza a questo contesto si colloca la posizione delle
Sezioni unite19 secondo cui «nel corso del procedimento di
prevenzione, il giudice di merito è legittimato a servirsi di
elementi di prova o di tipo indiziario tratti da procedimenti
penali, anche se non ancora definiti con sentenza irrevocabi‑
le, e, in tale ultimo caso, anche a prescindere dalla natura
delle statuizioni terminali in ordine all'accertamento della
responsabilità». Sicché, pure l'assoluzione, anche se irrevoca‑
bile, dal delitto di cui all'art. 416‑bis c.p., non comporta
l’automatica esclusione della pericolosità sociale, potendosi il
relativo scrutinio fondare sia sugli stessi fatti storici, in ordine
ai quali è stata esclusa la configurabilità di illiceità penale, sia
su altri fatti acquisiti o autonomamente desunti nel giudizio
di prevenzione20.
Nel condividere l’impostazione, la Corte europea dei di‑
ritti dell'uomo21ha affermato la compatibilità, con i principi
della Cedu, dell’applicazione delle misure di prevenzione nei
confronti di individui sospettati di appartenere alla ‘mafia’,
anche prima della loro condanna, poiché tali misure tendono
ad impedire il compimento di atti criminali. Ed in questa
prospettiva, l’eventuale proscioglimento non fa venire meno
la logica di prevenzione ad esse sottese, poiché le prove for‑
mate durante il processo, sia pure inidonee a fondare la sen‑
tenza di condanna, potrebbero giustificare il pericolo che
18 Cass. pen., sez. un., 25 marzo 2010, n. 13426, in http://www.plurisonline.it.
19Il riferimento è nuovamente a Cass. pen., sez. un., 25 marzo 2010, n. 13426,
in http://www.plurisonline.it.
20In merito, cfr. A. Gialanella, La confisca di prevenzione antimafia, lo sforzo
della giurisprudenza di legittimità e la retroguardia del legislatore, in F. Cassa‑
no (a cura di), Le misure di prevenzione patrimoniali dopo il pacchetto sicurez‑
za, Roma 2009, 133.
21 Cfr. Grande Camera, 1 marzo – 6 aprile 2000, Labitae Italia, in http://www.
plurisonline.it.
penale
Gazzetta
72
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
quella stessa persona commetta in futuro dei reati. Dal canto
suo, la Cassazione22 ha teorizzato l’autonomia del procedi‑
mento di prevenzione rispetto a quello penale; in tal senso, il
giudice della prevenzione è tenuto ad utilizzare gli elementi
costituiti dai precedenti o dalle pendenze giudiziarie del pro‑
posto, con il preciso onere di sottoporre i relativi fatti, ivi
compresi quelli che hanno dato luogo a pronunce assolutorie,
a nuova ed autonoma valutazione, indicando le ragioni in
virtù delle quali da tali fatti si desumono elementi sintomati‑
ci per un giudizio di pericolosità sociale.
Nello specifico, la Corte costituzionale23 ha rilevato che il
procedimento di prevenzione, il processo penale ed il pro‑
cedimento per l'applicazione delle misure di sicurezza sono
dotati di proprie peculiarità sia quanto all’ambito processuale,
sia quanto ai presupposti sostanziali.
Da qui il principio: le forme di esercizio del diritto di
difesa possono essere diversamente modulate in relazione alle
caratteristiche di ciascun procedimento, allorché di tale di‑
ritto siano, comunque, assicurati lo scopo e la funzione.
La tesi prevalente in dottrina24 è di diverso tipo: sul presup‑
22In particolare, Cass. pen., sez. V, 31 marzo 2000, n. 1968, Rv. 216054.
23 Corte cost., 5 novembre 2004, n. 321, in http://www.plurisonline.it. In parti‑
colare, le censure della Corte di cassazione rivolte – allora – all’art. 4, undice‑
simo comma, della legge n. 1423 del 1956 si innestano sul controverso proble‑
ma della individuazione dei vizi di motivazione deducibili con ricorso per cas‑
sazione sotto il titolo della violazione di legge. Sotto la vigenza del codice di
rito del 1930, la giurisprudenza – in base al combinato disposto degli artt. 524,
primo comma, numero 3 (ove era previsto, quale motivo di ricorso, la «inos‑
servanza delle norme di questo codice stabilite a pena di nullità, di inammissi‑
bilità o di decadenza»), e 475, numero 3 (nullità della sentenza in caso di
mancanza o contraddittorietà della motivazione) – riteneva che nella violazio‑
ne di legge rientrasse il vizio logico della motivazione e che pertanto tale vizio
fosse deducibile con il ricorso per cassazione anche avverso il decreto con il
quale la corte d’appello decide sulle misure di prevenzione (trattandosi di
provvedimento che, pur avendo la forma di decreto, ha pacificamente natura
di sentenza). Nel codice vigente il vizio di motivazione è previsto come autono‑
mo motivo di ricorso nella lettera e) dell’art. 606, comma 1, sotto forma di
mancanza o manifesta illogicità, che deve comunque risultare dal testo del
provvedimento impugnato. A seguito di tale innovazione, in relazione alla di‑
sciplina censurata la giurisprudenza di legittimità si è in prevalenza orientata
nel senso di escludere la deducibilità del vizio di motivazione, a meno che
quest’ultima sia del tutto carente o presenti difetti tali da renderla meramente
apparente, e cioè sia priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e logi‑
cità, o assolutamente inidonea a rendere comprensibile la ratio decidendi. La
questione sollevata, pur essendo focalizzata sui limiti di proponibilità del ricor‑
so per cassazione avverso i provvedimenti che decidono in sede di appello
sulla applicazione delle misure di prevenzione, presuppone quindi il problema
più generale dei rapporti tra il vizio di violazione della legge processuale
(art. 606, comma 1, lettera c, c.p.p.: «inosservanza delle norme processuali
stabilite a pena di nullità […]») e il vizio di motivazione (art. 606, comma 1,
lettera e, dello stesso codice: «mancanza o manifesta illogicità della motivazio‑
ne, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato»). Ciò pre‑
messo, qualunque sia sul terreno interpretativo la soluzione di tale problema,
le censure di legittimità costituzionale prospettate, in riferimento agli artt. 3 e
24 Cost., sul presupposto che la disciplina impugnata precluderebbe di com‑
prendere nello specifico motivo di ricorso per violazione di legge previsto
dall’art. 4, undicesimo comma, della legge n. 1423 del 1956 anche il vizio di
illogicità manifesta della motivazione, così come definito dall’art. 606, com‑
ma 1, lettera e), c.p.p., non sono fondate, per la ragione assorbente che il risul‑
tato perseguito dal rimettente non può essere ritenuto costituzionalmente ob‑
bligato. In particolare, la Corte muove dall’assunto che l’impossibilità di con‑
trollare la congruenza della struttura logica della motivazione comporti una
ingiustificata contrazione delle garanzie difensive apprestate in un procedimen‑
to potenzialmente idoneo, al pari del processo penale, ad incidere sulla libertà
personale, e che la disciplina censurata introduca una ingiustificata disparità di
trattamento rispetto a quanto previsto per le misure di sicurezza e per le misu‑
re contemplate dall’art. 6 della legge n. 401 del 1989.
Tali rilievi, tuttavia, si basano sul confronto tra settori direttamente non com‑
parabili, posto che il procedimento di prevenzione, il processo penale e il pro‑
cedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza sono dotati di proprie
peculiarità, sia sul terreno processuale che nei presupposti sostanziali.
24 G. Abbattista, Misure di prevenzione patrimoniali antimafia e «pacchetto
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
posto che il procedimento di prevenzione abbia natura giuris‑
dizionale, segnala la necessità che pure esso sia assistito da
tutte le garanzie che la Costituzione assicura nell’esercizio di
ogni giurisdizione penale, atteso che il sistema delle misure di
prevenzione si aggiunge, anzi anticipa e si sovrappone al
modello penalistico, comportando l’affievolimento dei diritti
fondamentali della persona, se non la loro negazione.
La diversità di oggetto e di funzione di tale procedimento
si riflette sulla struttura processuale che, per quanto non
espressamente previsto dal ‘codice antimafia’, determina
l’espandersi delle sole regole del procedimento di esecuzione
(art. 666 c.p.p.), attraverso la clausola «in quanto compati‑
bili» (art. 7 comma 9 d.lgs n. 159 del 2011), non operando,
invece, le regole del processo di cognizione (cioè, relative alla
disomogeneità fasica; all’istruzione dibattimentale, alla fase
della deliberazione e così via).
Dunque, esso è altro; ha una sua specificità ontologica che,
certamente, lo inserisce all’interno dell’art. 111 comma 2
Cost. «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti,
in condizioni di parità, davanti al giudice terzo e imparziale»,
ma lo allontana dai contenuti di garanzia di cui ai commi 3 e
4 dell’art. 111 Cost., che riguardano specificamente il proces‑
so penale, come è chiarito nell’incipit delle stesse disposizio‑
ni.
Vero è che le garanzie dei diritti inviolabili della persona
sono offerte dalle forme del procedere, anche se il procedere
non ha ad oggetto l’accertamento del reato; e qui altre sono
le modalità di formazione e di acquisizione della prova.
In questo ambito i bisogni di tutela sono affidati alla
‘giusta’ motivazione giurisdizionale, che è diritto delle parti
all’osservanza della legalità processuale nella restrizione di
ogni situazione soggettiva protetta.
2. L’applicazione disgiunta della misura di prevenzione patri‑
moniale
Anche sul fronte dell’applicazione delle misure di preven‑
zione patrimoniali, la motivazione del provvedimento costi‑
tuisce la garanzia più alta dei diritti fondamentali, soprattut‑
to considerata la conquistata indipendenza di tali misure ri‑
spetto a quelle personali.
Si è determinata l'attrazione dei beni dell’indiziato di ap‑
partenenza nell'area di altra presunzione: quella di illecita
accumulazione, ciò accade quando i beni si connotano per la
sproporzione tra valore degli stessi e attività economiche
‘trasparenti’25.
Per questa via, la pericolosità è passata dalla persona ai
cespiti patrimoniali, di cui non è stata offerta la prova della
legittima provenienza 26, divenendo ‘relazionale’, cioè, espan‑
sicurezza» del 2008: un equilibrio instabile tra efficienza del sistema e recupero
delle garanzie, in Le misure di prevenzione patrimoniali dopo il «pacchetto
sicurezza», a cura di F. Cassano, Bari 2009, 336; A.M. Maugeri, La riforma
delle sanzioni patrimoniali: verso un'actio in rem?, in Misure urgenti in materia
di sicurezza pubblica, in O. Mazza – F. Viganò (a cura di), Torino 2008, 146;
L. Filippi – M.F. Cortesi, Il nuovo sistema di prevenzione penale, in Le nuove
norme sulla sicurezza pubblica, Padova 2008, 239.
25 F. Menditto, Codice antimafia. Commento organico articolo per articolo al
d.lgs. 159/11 con riferimento alle modifiche apportate alla disciplina previgen‑
te, Napoli 2011.
26 Ai sensi dell’art. 24 d. lgs. 2011 n. 159 «il tribunale dispone la confisca dei
beni sequestrati di cui la persona nei cui confronti è instaurato il procedimento
non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta
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m a g g i o • g i u g n o
dendosi a ritroso nel tempo fino a comprendere i beni di cui
il proposto possa disporre direttamente o indirettamente,
nonostante siano stati acquisiti in epoca antecedente a quella
a cui si riferisce l'accertamento della stessa pericolosità 27.
Dunque, è stato superato l’orientamento28 secondo cui è
illegittimo il provvedimento con cui il giudice disponga la
confisca sui beni del preposto, senza verificare se essi siano
entrati nella sua disponibilità successivamente o almeno con‑
testualmente al suo inserimento nel sodalizio criminoso,
giacché a tali fini non è sufficiente la sussistenza di indizi di
carattere personale dell'appartenenza del soggetto ad una
associazione di tipo mafioso, occorrendo la correlazione
temporale tra tale pericolosità e l'acquisto dei beni.
Invero, la stessa Corte29 aveva già ritenuto che la confisca
potesse avere ad oggetto beni acquistati dal sottoposto a
sorveglianza speciale, anche in epoca anteriore o successiva
alla situazione di accertata pericolosità, «trattandosi di misu‑
ra di sicurezza atipica, con la preminente funzione di togliere
dalla circolazione quei beni che, al di là del dato temporale,
sono stati acquisiti al patrimonio del prevenuto in modo ille‑
cito».
In sintesi, la tesi costituiva già ius receptum, alla stregua
di consolidata interpretazione della giurisprudenza di legitti‑
mità, a condizione che emergesse la sproporzione rispetto al
reddito ovvero la prova della loro illecita provenienza da
qualsivoglia tipologia di reato
Dall’innovata formulazione dell’art. 24 d.lgs2011, n. 159
si evince l'assoggettabilità a confisca sia dei beni il cui valore
risulti sproporzionato alla capacità reddituale del proposto
sia dei beni che siano frutto di attività illecite o ne costitui‑
scano il reimpiego. L'uso della congiunzione ‘nonché’ con ri‑
ferimento a due distinte categorie di beni suscettivi di abla‑
zione non lascia adito a dubbi in ordine alla ratio legis: l’or‑
dinamento non ha prescritto per la confisca di prevenzione
alcun nesso di pertinenzialità con una determinata tipologia
di illecito, ma ha consentito una generalizzata apprensione di
beni, una volta accertato il presupposto della pericolosità,
sulla base di un dato presuntivo che quei beni, in valore spro‑
porzionato, non siano stati legittimamente acquisiti.
Da qui l’inversione dell’onere della prova, dal momento
che la confisca potrebbe essere disposta soltanto perché il
proposto non sia in grado di dimostrare l’origine legittima del
cespite e non, viceversa, perché il pubblico ministero ne abbia
dimostrato l’illecita provenienza.
Da qui la traslatiodella pericolosità dal proposto al suo
patrimonio. La ragione sembrerebbe di ordine empirico, poi‑
ché l'accertata appartenenza rifletterebbe uno stile di vita, la
cui origine non sarebbe identificabile con la data del riscontro
persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qual‑
siasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle
imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che ri‑
sultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego».
27Principi condivisi anche da Cass. pen., sez. V, 21 aprile 2011, n. 27228, Rv.
250917, che rivedendo recentemente l'orientamento sopra evidenziato, ha ri‑
badito che «in tema di misure di prevenzione, sono soggetti a confisca anche i
beni acquisiti dal proposto, direttamente od indirettamente, in epoca antece‑
dente a quella cui si riferisce l'accertamento della pericolosità, purché ne risul‑
ti la sproporzione rispetto al reddito ovvero la prova della loro illecita prove‑
nienza da qualsivoglia tipologia di reato».
28 Cass. pen, sez. V, 23 marzo 2007, n. 18822, Rv 236920.
29 Cass. pen., sez. II, 16 aprile 2009, n. 25558, Rv. 244150.
2 0 1 3
73
giudiziario, essendo maturato in epoca antecedente, sia pure
non determinata.
Con la riforma legislativa è venuto meno non già il requi‑
sito della pericolosità sociale, che è pur sempre elemento co‑
s t it ut ivo d el l'appl ic a z ione d i t ut t e le m i su re d i
prevenzione,comprese quelle patrimoniali, bensì quello dell’
attualità della stessa, di guisa che non vi è più la necessità di
attivare il procedimento per l'applicazione della misura per‑
sonale, anche quando esso abbia il solo scopo di consentire la
applicazione di quella patrimoniale.
«Si tratta, certamente, di misura draconiana, la cui seve‑
rità si giustifica, però, in ragione delle precipue finalità della
legislazione antimafia, e specialmente dell'obiettivo strategico
di colpire, anche con evidenti finalità deterrenti, l'intero pa‑
trimonio – ove di ritenuta provenienza illecita – degli appar‑
tenenti a consorterie criminali, posto che l'accumulo di ric‑
chezza costituisce, comunemente, la ragione primaria – se non
esclusiva – di quell'appartenenza. Il limite di operatività della
detta misura, che la rende compatibile con i principi costitu‑
zionali, segnatamente con il rispetto del valore della proprie‑
tà privata, presidiato dall'art. 42 Cost., e con la normativa
comunitaria, è costituito dalla riconosciuta facoltà per il
proposto di fornire la prova della legittima provenienza dei
suoi beni. Il sistema resta così affidato alla dinamica di una
presunzione, temperata, nondimeno, dalla facoltà della con‑
troprova, che attribuisce al meccanismo presuntivo la conno‑
tazione della relatività, rendendolo così del tutto legittimo nel
quad ro d i u na i nterpret azione costit u zional mente
orientata»30.
Il legislatore indirizza le indagini automaticamente nei
confronti, oltre che del proposto, anche nei confronti del co‑
niuge e dei figli, e di coloro che abbiano convissuto con il
proposto entro il quinquennio e di terzi (persone fisiche o
giuridiche), del cui patrimonio i «soggetti medesimi risultano
poter disporre in tut to o in parte, diret tamente o
indirettamente»(art. 19 dlgs. 2011, n. 159).
In particolare, la giurisprudenza afferma che la disponi‑
bilità dei beni, pur intestati formalmente ai medesimi, deve
intendersi presunta in capo al proposto senza necessità di
specifici accertamenti e ciò perché coniuge, figli e conviventi –
per i quali è più accentuato il pericolo della fittizia intestazio‑
ne e più probabile l'effettiva disponibilità di essi da parte del
medesimo proposto – sono considerati diversamente da tutti
gli altri terzi, in danno dei quali devono, invece, risultare
elementi di prova circa la disponibilità concreta da parte
dell'indiziato.
Dunque, il distinguo normativo si riflette sul piano della
distribuzione dell'onere probatorio, comportando la presun‑
zione iuris tantumdell’appartenenza al proposto dei beni
formalmente intestati a coniuge e figli (conviventi o meno che
siano), e a coloro che abbiano convissuto con il proposto entro
il quinquennio e limitato, così, l'onere dell'accusa di provare
la provenienza illecita dei beni, salvo quello di allegazione
imposto al prevenuto per sminuire od elidere la situazione
probatoria a suo carico, nell’ipotesi di terzi estranei (persone
fisiche o giuridiche), del cui patrimonio il proposto risulta
poter disporre in tutto o in parte, direttamente o indiretta‑
30 Cass. pen., sez. V, 25 marzo 2013, n. 14044, in http://www.plurisonline.it.
penale
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
mente. Va chiarito che secondo la Corte il sistema non com‑
porta il capovolgimento dell'onere della prova in tema di le‑
gittima provenienza dei beni sequestrati, giacché l'interessato
ha la facoltà di contrapporre, agli indizi raccolti dal giudice,
elementi, che ne contrastino la portata,elidendo l'efficacia
probatoria degli "indizi" d' accusa; e ciò perché l’organo
della giurisdizione ha l'obbligo di individuare ed evidenziare
gli elementi da cui emerge che determinati beni, formalmente
intestati a terze persone, siano, in realtà, nella disponibilità
del proposto o che il loro valore sia sproporzionato al reddito
dichiarato o all'attività economica svolta e raccogliere ‘suffi‑
cienti’ indizi che tali beni siano il frutto di attività illecite o
ne costituiscano il reimpiego31.
Altra è la questione dell’applicazione delle misure di
prevenzione patrimoniali in caso di morte del proposto e lo
svolgimento del procedimento nei confronti degli eredi
(art. 18 d.lgs 2011, n. 159. Essa ha sollevato non pochi dubbi
di costituzionalità, non ritenuti fondati dal giudice delle leg‑
gi32 , ma che lasciano riflettere sulla natura giuridica del pro‑
cesso di prevenzione.
Innanzitutto, gli eredi si vengono a trovare in una posi‑
zione processuale del tutto peculiare, poiché essi si debbono
difendere come se fossero il de cuius, non essendo sufficiente
la dimostrazione degli elementi di fatto ad escludere il prov‑
vedimento ablatorio, cioè, non sono sufficienti le normali
difese dei terzi interessati, che possono dimostrare che il bene
si trovi nella loro piena disponibilità e non in quella del pro‑
posto o che lo abbiano acquistato in buona fede33.
Si vuole evidenziare che gli eredi non sono considerati
terzi, ma diretti destinatari del procedimento di prevenzione‑
patrimoniale che, però, va a colpire beni, da essi ricevuti, in
ragione della loro precedente appartenenza ad un soggetto
non più in vita.
Al riguardo, ci sembra opportuno riportare le argomen‑
tazioni del giudice rimettente, secondo cui gli eredi possono
solo dimostrare la non riconducibilità del bene alle attività
delittuose del de cuius, prova che concerne fatti e circostanze
che riguardano una persona diversa da loro stessi ed in rela‑
zione ai quali essi subiscono gli effetti.
Di conseguenza, tale meccanismo determina «una
lesione del diritto di difesa, posto che il giudice della preven‑
zione è chiamato a formulare un giudizio di pericolosità so‑
ciale nei confronti di una persona che non è più in vita e,
dunque, che non può intervenire nel procedimento ed instau‑
rare il contraddittorio sulla propria qualificazione soggettiva
o sulla provenienza dei propri beni».
Appare, cioè, pretermesso il diritto al contraddittorio,
posto che non è fisicamente possibile la partecipazione diret‑
ta del soggetto al procedimento, né può ritenersi tale principio
rispettato dalla partecipazione al giudizio di un eventuale
difensore del de cuius, alla luce della giurisprudenza della
Corte di Strasburgo sul processo contumaciale.
In altri termini, nella situazione considerata non sarebbe
possibile alcuna forma di contraddittorio con riferimento agli
31 Cass. pen., sez. II, 03 dicembre 2012, n. 46665, in http://www.plurisonline.it.
32 Corte cost., ord. n. 216, 30 luglio 2012, in http://www.plurisonline.it.
33In merito si rinvia alle osservazioni critiche di F. Licata, La costituzionalità
della confisca antimafia nei confronti degli eredi: un altro passo verso la defini‑
zione della natura dell'in rem, in Giur. cost. 2012, 1, 240.
p e n a l e
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F O R E N S E
accertamenti patrimoniali ed il giudizio in ordine alla sussi‑
stenza degli elementi alla base della confisca(: disponibilità,
sproporzione, provenienza dei beni) si svolgerebbe in base ad
elementi raccolti dopo la morte del soggetto, essendo, peral‑
tro, impossibile che costui conosca tali elementi ed eserciti il
diritto di difendersi provando sui fatti dimostrati dall'accu‑
sa.
Da qui la violazione degli artt. 24 e 111 comma 1 Cost.,
considerato soprattutto che gli eredi, chiamati a partecipare
al procedimento in una posizione del tutto analoga a quella
del de cuius, esplicano le proprie difese non in ordine agli
elementi di giudizio che li riguardano, ma su fatti e circostan‑
ze concernenti un'altra persona.
La ricostruzione è respinta dalla Corte costituzionale34,
che non ha riconosciuto la fondatezza di tali censure, ritenen‑
do che al successore sono assicurati, nel procedimento in
questione, i mezzi probatori e i rimedi impugnatori previsti
per il de cuius, sicché ciò che può mutare è solo il rapporto di
conoscenza che lega il successore stesso ai fatti oggetto del
giudizio e in particolare, nella specie, a quelli integranti i
presupposti della confisca.
In particolare, il giudice delle leggi ha individuato il vizio
metodologico della tesi del rimettente circa il vulnus al di‑
ritto di difesa e al principio del contraddittorio nell’impropria
sovrapposizione dei connotati del procedimento penale a
quelli del procedimento per l'applicazione della misura di
prevenzione patrimoniale.
Peraltro, i successori possono far valere i propri diritti
legittimamente acquisiti e, dunque, il fatto che i beni da con‑
fiscare neanche indirettamente appartenessero al de cuius.
In sintesi, l’opzione legislativa di rendere l’ambito di at‑
tività delle misure patrimoniali indipendente da quella delle
misure personali sarebbe sintomatica di un nuovo modo di
intendere l’intervento ablativo, basato sull’intrinseca perico‑
losità dei beni utilizzabili per la proliferazione del fenomeno
mafioso più che sulla pericolosità sociale di un determinato
soggetto. Ed in sintonia con la funzione sociale della proprietà
34 Corte cost., ord. n. 216, 30 luglio 2012, in http://www.plurisonline.it. Più
specificamente la Corte ha dichiaratola manifesta inammissibilità della questio‑
ne di legittimità costituzionale dell’articolo 2‑bis, comma 6‑bis, della legge 31
maggio 1965, n. 575 «nella parte in cui consente di attivare la procedura di
prevenzione patrimoniale nei confronti di un soggetto deceduto prima della
formulazione della richiesta», e dell’articolo 2‑ter, comma 11, della medesima
legge n. 575 del 1965 sollevata, in riferimento all’articolo 24, primo comma,
della Costituzione; nonché la manifesta infondatezza della questione di legitti‑
mità costituzionale dell’articolo 2‑bis, comma 6‑bis, della legge 31 maggio 1965,
n. 575 «nella parte in cui consente di attivare la procedura di prevenzione pa‑
trimoniale nei confronti di un soggetto deceduto prima della formulazione
della richiesta», e dell’articolo 2‑ter, comma 11, della medesima legge n. 575
del 1965 sollevata, in riferimento agli articoli 24, secondo comma, e 111 della
Costituzione. Si ricorda che il giudice delle leggi (sent. n. 21 del 2012) nell’esa‑
minare un’analoga questione sollevata dal Tribunale di Santa Maria Capua
Vetere, ha rilevato che nel procedimento in esame parti sono i «successori a
titolo universale o particolare» del «soggetto nei confronti del quale [la confisca]
potrebbe essere disposta», e non quest’ultimo, sicché sono «del tutto prive di
fondamento le argomentazioni volte a riferire le ipotizzate violazioni del diritto
di difesa e del principio del contraddittorio al soggetto deceduto e non ai suoi
successori, senza dire dell’erroneità dell’attribuzione ad una persona defunta
della titolarità di una posizione processuale propria»;
che al successore sono assicurati i mezzi probatori e i rimedi impugnatori pre‑
visti per il de cuius, sicché ciò che può mutare è solo il rapporto di conoscenza
che lega il successore stesso ai fatti oggetto del giudizio e in particolare, nella
specie, a quelli integranti i presupposti della confisca», la cui disciplina, però,
non è oggetto della questione in esame.
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
sancita dall’art. 42 della Costituzione, la Corte35ha consid‑
erato tale scelta di politica criminale non sindacabile in sede
di giudizio di costituzionalità.
Ed in quest’ottica non può essere trascurato il dato che i
più recenti innesti normativi siano stati operati all’esito di un
diuturno e costante confronto con “il diritto vivente”
nell’intento di recepire le opzioni ermeneutiche, costituzional‑
mente orientate, fornite a più riprese dal dialogo tra Corte di
Cassazione e Corte costituzionale.
A nostro avviso, appare arduo, però, a continuare ad es‑
cludere la natura sanzionatoria della confisca di prevenzi‑
one36.
Senonché, tutti i problemi connessi all’operazione di
contemperamento tra l’inviolabilità dei diritti della persona e
le esigenze di prevenzione finiscono per refluire appieno sul
terreno della motivazione inerente gli apprezzamenti che deb‑
bono essere condotti alla luce delle allegazioni del proposto
circa l'origine dei beni, nel quadro degli specifici canoni di
apprezzamento ‘probatorio’. Essi, però, sono lontani dal cri‑
terio dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
Qui si gioca la partita dell’effettività della giurisdizione di
garanzia; qui emerge la necessità che il sistema della preven‑
zione si basi sull'accertamento di fatti specifici, individuati
con sufficiente grado di determinatezza dal legislatore, tali da
consentire al giudice di formulare su basi obiettive il giudizio
prognostico sui comportamenti del soggetto e di valutarne in
tal modo la pericolosità sociale, sempre nel rispetto delle ga‑
ranzie giurisdizionali e del principio del contraddittorio.
3. Il controllo sulla motivazione per violazione di legge
Il decreto motivato che dispone la misura personale e/o
patrimoniale è appellabile.
Contro il decreto motivato della Corte d'appello, l’art. 10
d.lgs2011, n. 159 limita il ricorso in cassazione alla violazione
di legge, né poteva essere altrimenti considerato che l’oggetto
della funzione giurisdizionale non è il fatto‑reato, ma le ga‑
ranzie dei diritti fondamentali della persona, quindi, non
giurisdizione di accertamento, ma giurisdizione di garanzie.
Su questo punto si è formato l’orientamento37, supportato
anche dalla Corte Costituzionale38 secondo cui in tema di
misure di prevenzione non sia deducibile il vizio di manifesta
illogicità della motivazione di cui all’art. 606 lett. e) c.p.p.,
essendo il sindacato di legittimità circoscritto alla violazione
di legge. Sicché esso non può estendersi al controllo sulla
adeguatezza e coerenza logica della motivazione, se non nei
casi di inesistenza o mera apparenza, intendendosi con tale
35In tal senso, già Corte cost., sent. 21, 25 gennaio 2012, in http://www.plurison‑
line.it. Nell’occasione si è affermato che quantoai profili di presunta incompa‑
tibilità della norma censurata con i princìpi fissati dalla giurisprudenza della
Corte Edu le motivate scelte di politica criminale del legislatore del 2008 e del
2009 non incidono sui diritti di libertà (relativi alle misure di prevenzione
personale), ma sul diritto di proprietà e di iniziativa economica, che possono
essere sacrificati nell’interesse delle esigenze di sicurezza e dell’utilità generale
(art. 41 comma 2 Cost.), nonché della funzione sociale della proprietà (art. 42
comma 2 Cost.). Tali scelte rientrerebbero, pertanto, nell’ambito della discre‑
zionalità riservata al legislatore e risulterebbero «supportate dall’esigenza di
sottrarre i patrimoni accumulati illecitamente alla disponibilità dei soggetti che
non possono dimostrarne la legittima provenienza», come ha già chiarito la
giurisprudenza della Corte di cassazione.
36 Cass. pen., sez. V, 25 marzo 2013, n. 14044, in http://www.plurisonline.it.
37 Cass. pen., sez. II, 7 febbraio 2013, n. 5957, in http://www.plurisonline.it.
38 Corte cost., sent. n. 321, 5 novembre2004, in http://www.plurisonline.it.
2 0 1 3
75
ultima locuzione quella motivazione priva dei requisiti minimi
di coerenza e completezza, al punto da risultare inidonea a
rendere comprensibile l'iter logico seguito dal giudice di
merito, ovvero quando le linee argomentative del provvedi‑
mento siano talmente scoordinate da rendere oscure le ra‑
gioni che hanno giustificato il provvedimento39.
A questo circoscritto perimetro cognitivo si sommano i
limiti intrinseci al giudizio di legittimità, che, secondo altro
principio consolidato, non può addentrarsi nel sillogismo in‑
diziario articolato in sede di prevenzione40. Alla Cassazione,
pertanto, sarebbe sottratta la valutazione degli elementi di
fatto posti a fondamento della pericolosità oppure della pro‑
venienza illegittima del bene, dal momento che il giudizio
comprenderebbe la sola correttezza giuridica e logica del
provvedimento impugnato.
A voler seguire quest’impostazione la locuzione ‘violazi‑
one di legge’ avrebbe valore restrittivo e preclusivo, esclu‑
dendo il controllo pieno sulla motivazione.
In verità, l’orientamento è il prodotto ermeneutico delle
Sezioni unite41, che hanno interpretato l’espressione ‘violazio‑
ne di legge’, escludendo dall’area di tutela il controllo sulla
manifesta illogicità della motivazione con riferimento a tutte
le situazioni normative in cui l’espressione ricorre. Così, per
l’art. 311 comma 2 c.p.p., che regola il ricorso per saltum in
materia di misure cautelari personali; l’art. 325 c.p.p., che
prevede tale ricorso in tema di misure cautelari reali; l’art. 10
d.lgs2011, n. 159 che richiama il ricorso per violazione di
legge in materia di misure di prevenzione personali e patri‑
moniali.
Più tardi, nel 2008, le Sezioni unite42hanno statuito che
contro le ordinanze di sequestro preventivo, emesse ai sensi
degli artt. 322 bis e 324 c.p.p., è ammesso il ricorso in cassa‑
zione per violazione di legge, al fine di censurare gli errores
in iudicando o errores in procedendo ai sensi dell’ art. 606
lett. b. e c.) c.p.p., continuando a circoscrivere la rilevanza del
vizio di motivazione alle situazioni in cui essa mancasse del
tutto o fosse apparente43.
Già allora, la dottrina44 richiamava l’attenzione sui conte‑
nuti poco appaganti della soluzione ermeneutica, soprattutto
39 Cass. pen., sez. un., 28 maggio 2003, Rv. 224611; Cass. pen., sez. I, 9 novem‑
bre 2004, Rv. 230203.
40 Corte Cost., sent. n. 419, 7 dicembre 1994, in http://www.plurisonline.it.
41 Cass. pen., sez. un., 28 gennaio 2004 n. 5876, in Cass. pen., 2004, p. 1913.
42 Cass. pen., sez. un., 29 maggio 2008, n. 25932, in Cass. pen., 2008, p. 4533.
43 Di recente, D. Poletti, Il ricorso per cassazione ex art. 325 c.p.p. tra vizio di
violazione di legge ed interesse ad impugnare, in Dir. pen. e proc., 2012, n. 12,
p. 1447.
44La soluzione a cui sono pervenute le Sezioni Unite, pur rappresentando un
avanzamento sul piano delle garanzie, non può ritenersi completamente appa‑
gante», in virtù della considerazione che «ai sensi dell’art. 111 Cost. tutti i
provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati, il che presuppone una
doverosa enunciazione con funzione endoprocessuale, delle argomentazioni
poste a base della decisione ed idonee a rivelarne la ratio, al fine di rassicurare
una verifica di merito e di legittimità su di essi: e in attuazione di questo prin‑
cipio, l’art. 125 comma 3 c.p.p. stabilisce che le ordinanze debbano essere
motivate a pena di nullità. E allora appare logico concludere, attraverso una
interpretazione costituzionalmente orientata, che il termine “violazione di
legge” contenuto nell’art. 325 comma 1 c.p.p. sia comprensivo anche del vizio
di contraddittorietà o di manifesta illogicità della motivazione: diversamente
resterebbe frustato quell’inderogabile fine di controllo dell’attività giurisdizio‑
nale, specie se possono profilarsi lesioni ad interessi costituzionalmente protet‑
ti, come in tema di misure cautelari reali». Così, G. Spangher, sub art. 325
c.p.p., in AA.VV., A. Giarda‑G. Spangher (a cura di), Codice di procedura
penale commentato, II, Milano, 2010, p. 4055.
penale
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D i r i t t o
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alla luce della funzione costituzionale della motivazione
(art. 111 comma 6 Cost.) e dei suoi riverberi endoprocessuali
quanto alle argomentazioni poste a base della decisione, ido‑
nee, da un lato, a rilevarne la ratio, e dall’altro, al fine di as‑
sicurare su di esse l’effettività del controllo di merito e di le‑
gittimità.
D’altro canto, l’interpretazione costituzionalmente orien‑
tata del termine ‘violazione di legge’ non può non compren‑
dere il vizio di contraddittorietà o di manifesta illogicità
della motivazione: diversamente, sarebbe violato l’inderoga‑
bile scopo di controllo democratico dell’attività giurisdizio‑
nale, specie se il provvedimento si risolve nella restrizione di
una situazione di libertà inviolabile.
In altri termini: i vizi della motivazione pregiudicano il
controllo sul ragionamento del giudice e, prima ancora, sul
rispetto delle regole per il giudizio, negando alle parti il dirit‑
to di attivare i rimedi contro l’errore in cui il primo giudice
sia incorso. E ciò implica che l’azionabilità del controllo non
è altro che l’estrinsecazione del diritto delle parti alla giusta
decisione.
Per queste ragioni, la mancanza e i vizi della motivazione
feriscono la legalità del processo, perché ledono i diritti fon‑
damentali della persona.
La radice assiologica di tale asserzione si rinviene proprio
nella formula violazione di legge di cui all’art. 111 comma 7
Cost., soprattutto quando il legislatore ordinario non abbia
predisposto uno schema dettagliato di motivazione e non
abbia previsto uno specifico rimedio per la sua inosservan‑
za.
È evidente che altre sono le opzioni normative sottese alla
struttura dialettica della motivazione della sentenza di accer‑
tamento (art. 546 c.p.) e all’ordinanza coercitiva (art. 292
c.p.p.), non a caso, per esse opera il comune rimedio
dell’art. 606 lett. e) c.p.p., modellato sulla dialetticità, che
connota lo schema tipico di motivazione e comprensivo del
vizio del travisamento della prova, perché qui la struttura
dialettica estende la logica argomentativa dalle prove e dalle
ragioni, che fondano la decisione, alle prove e alle ragioni
contrarie, cioè, la struttura dialettica riflette il contraddittorio
sul fatto, che si spinge fin dentro la compagine della motiva‑
zione.
Qui l’impianto dialettico richiede la razionalità della mo‑
tivazione non di tipo ‘autoreferenziale’: razionalità come co‑
erenza intrinseca, ma ‘relazionale’: razionalità come confron‑
to e scelta tra spiegazioni possibili45.
Sicché, a variare è il modello di motivazione condizionato
dall’oggetto della funzione giurisdizionale; in particolare, se
di accertamento o, genericamente, di garanzia. In tal caso,
motivazione e oggetto della funzione sono correlate: la prima
risente della specificità della seconda. Ciò che non varia è la
logica del giudice, che è sempre logica argomentativa, basata
su procedimenti induttivi che portano non alla certezza, ma
alla probabilità. E, coerentemente con questa logica, il vizio
di motivazione comprende sempre contraddittorietà e/o illo‑
gicità, anche quando tali patologie non siano espressamente
richiamate.
45 F. M. Iacoviello, voce Motivazione della sentenza penale (controllo della), in
En. dir., agg. Vol. IV, 2000, p. 750.
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Gazzetta
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Si vuole dire che l’esplicita codificazione di siffatte eve‑
nienze nell’art. 606 lett. e)c.p.p. è costruita sull’articolazione
della struttura dialettica della sentenza di accertamento del
fatto e, in maniera semplificata, sul paradigma della misura
coercitiva. In tutte le altre situazioni procedurali di limitazio‑
ne di un diritto inviolabile della persona, e si pensi al decreto
motivato che applica la misura di prevenzione, i vizi di con‑
gruenza, di illogicità della motivazione ricadono nell’area di
tutela offerta dall’art. 111 comma 7 Cost., per un duplice
ordine di ragioni: a)il legislatore ordinario non ha previsto il
modello legale di motivazione; b) la legalità di ogni tipologia
di processo è violata quando la motivazione non solo manchi
o sia apparente, ma quando non raggiunga lo scopo costitu‑
zionale di controllo democratico sull’attività di ius dicere, dal
momento che la giustizia è amministrata in nome del popolo
(art. 101 comma 1 Cost.).
Ciò è tanto più vero, se si considera che il ragionamento
giuridico posto alla base della motivazione parte da premesse
non certe e conduce a conclusioni probabili, cioè, se si consi‑
dera, che il processo si muove nella luce crepuscolare della
probabilità.
Se si tratta, addirittura, di fattispecie del sospetto ci muo‑
viamo nell’inappagante prospettiva della mera possibilità
delle ipotesi, convivendo con esse l’alta probabilità dell’errore.
Ed è qui che si manifesta la forza della motivazione come
diritto delle parti, oltreché obbligo del giudice. Se l'obbligo
‘costringe’ il giudice a decidere razionalmente: il diritto pre‑
tende aree di azionabilità della tutela.
Dai contenuti costituzionali della motivazione deriva il
dato secondo cui essa è il mezzo che rende possibile control‑
lare la fedeltà del giudice alla legge, la fedeltà del provvedi‑
mento agli atti del processo, la fedeltà di entrambi alle regole
(art. 101 comma 2 Cost.), indipendentemente dalla sede pro‑
cessuale, se civile, penale o di prevenzione, indipendentemen‑
te dal contenuto della pronuncia (rito o merito), dalla compo‑
sizione dell'organo (togato, laico o misto), il provvedimento
che fa applicazione della legge deve essere accompagnato
dalla enunciazione della ratio decidendi 46.
4. Quale Cassazione oggi?
Il controllo in Cassazione sulla motivazione dei provvedi‑
menti giurisdizionali, che fondano sul sillogismo indiziario,
costituisce la manifestazione più alta di tutela dei diritti in‑
violabili della persona, riproponendo, ancora una volta, la
partita dell’effettività della giurisdizione di garanzia. E
nell’analisi di ordine sistematico di questa problematica non
può essere omesso il riferimento al sindacato di legittimità
sulla motivazione delle ordinanze di riesame delle misure
coercitive, vale a dire sulla congruenza e sulla logica delle
ragioni che collegano gli indizi di colpevolezza al giudizio di
probabile colpevolezza dell'indagato.
Sul punto, costituisce diritto vivente47l’orientamento per
cui tale sindacato non coinvolga il giudizio ricostruttivo del
fatto e gli apprezzamenti del giudice di merito circa l'attendi‑
46 E. Amodio, voce Motivazione della sentenza penale, in Enc. dir., vol. XXVII,
1977, p. 181.
47 Da ultimo, Cass. pen., sez. II, 22 aprile 2013, n. 18294, http://www.plurison‑
line.it.
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bilità delle fonti e la rilevanza dei risultati del materiale pro‑
batorio.
Addirittura, si reputa che il vizio di mancanza della mo‑
tivazione dell'ordinanza del riesame inerente ai gravi indizi di
colpevolezza non possa essere oggetto del giudizio di legitti‑
mità, se non risulti prima facie dal testo del provvedimento
impugnato, poiché è preclusa alla Cassazione la verifica della
sufficienza e della razionalità della motivazione sulle questio‑
ni di fatto 48.
Ma siamo convinti che non si possa sottrarre la motiva‑
zione, come esercizio della giurisdizione di garanzia a tutela
dell’inviolabilità dei diritti fondamentali, al controllo pieno
della Corte suprema, per le stesse ragioni costituzionali che
non consentono di sottrarre la motivazione sulle questioni di
fatto, quando il ricorso in cassazione è per violazione di
legge.
Vero è che la motivazione della decisione del tribunale del
riesame, dal punto di vista strutturale, si conforma al model‑
lo tipico di cui all'art. 546 c.p.p., con gli adattamenti resi
necessari dal peculiare contenuto della pronuncia cautelare,
non fondata su prove, ma su indizi e tendente all'accertamen‑
to non della responsabilità, bensì di una qualificata probabi‑
lità di colpevolezza. L’esplorazione di questo versante, difatti,
ci allontana dalla violazione di leggee ci immette nel cuore
del giudizio di legittimità, ponendoci di fronte ad altra do‑
manda: quale Cassazione oggi?
Su questa domanda si è tenuto un convegno a Cosenza,
dove si è introdotto il tema delle nuove sponde della Cassa‑
zione, lanciando la sfida: la Corte suprema come ‘giudice dei
diritti’49.
La domanda implica la verifica dell'elaborazione giuri‑
sprudenziale50secondo cui «l'ordinamento non conferisce alla
Cassazione alcun potere di revisione degli elementi materiali
e fattuali delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore
degli indizi, ivi compreso l'apprezzamento delle esigenze cau‑
telari e delle misure ritenute adeguate, trattandosi di apprez‑
zamenti rientranti nel compito esclusivo e insindacabile del
giudice cui è stata chiesta l'applicazione della misura cautela‑
re, nonché del tribunale del riesame».
A voler seguire questa interpretazione il controllo di legit‑
timità si risolverebbe nel verificare se il provvedimento coer‑
citivo sia rispondente a due requisiti, la cui presenza rende
l'atto incensurabile in sede di legittimità: a) l'esposizione
delle ragioni giuridiche che lo hanno determinato; b) l'assen‑
za di illogicità evidenti.
Questa ricostruzione non appare condivisibile perché
sottrae al controllo di legalità le regole del giudizio sulla
gravità indiziaria, cioè sul "fatto" che costituisce l' oggetto
stesso del controllo di "legittimità".
Dunque: quale Cassazione?.
La soluzione ruota intorno alla delicata operazione di
contemperamento tra nomofilachia e diritto dell’imputato ad
una giusta decisione, ma riteniamo che in quest’operazione
non debba essere sacrificato né l’una né l’altro, piuttosto il
48In tal senso, già Cass. pen., sez. I, 20 marzo 1998, n. 1700, Rv. 210566.
49Il tema è stato introdotto da G. Riccio, al convegno: La Cassazione tra legali‑
tà e legittimità, presso l’ Auditorium Liceo classico B. Telesio, 12‑13 aprile,
2013.
50 Cass. pen., sez. II, 22 aprile 2013, n. 18294, in http://www.plurisonline.it.
2 0 1 3
77
modello puro di Cassazione di Calamandrei, che si caratte‑
rizzava per l’isolamento della legge dalla concretezza della
singola vicenda51.
Nell’epoca della postmodernità del diritto la nomofilachia
rende palesi i suoi contenuti costituzionali. Da qui la lettura
costituzionalmente orientata dell’art. 65 ord. giud. che ha
origine negli artt. 2, 3, 13, 24, 25, 27 Cost. ed approda al
diritto al giusto processo in cassazione: art. 111 comma 7
Cost.
Soprattutto in un processo penale in cui si è perso di
vista il fatto a causa dell’indeterminatezza delle fattispecie
incriminatrici, non vi può essere alcuna separatezza tra no‑
mofilachia e giustizia del caso concreto, anzi proprio in rela‑
zione a queste fattispecie la prima diventa il ‘valore aggiunto’
della giustizia resa dalla Suprema corte sui casi concreti, rac‑
cordando istanze sociali e principi costituzionali.
Da qui l' evoluzione della Cassazione verso le sponde del
‘giudice dei diritti’ e ciò implica anche l’estensione del con‑
trollo di legittimità alla valutazione del ragionamento proba‑
torio, che è oggetto comune alle situazioni descritte dagli
artt. 606 lett. e) e 625‑bis c.p.p.: esse non possono essere ri‑
dotte ai soli vizi della motivazione, giacché, in tema di prove,
non è possibile sottrarre il ‘fatto’ ai criteri della giustezza
della decisione52.
Rivendicata la centralità del fatto, a questo proposito mi
sia consentito chiudere con un pensiero di Ferrua53, denso di
significato.
«I fatti hanno la testa dura; ed è vero perché, pur mediati
da un’attività di interpretazione, oppongono una notevole
forza di resistenza alle ‘aspettative’ dell’osservatore. Ma pro‑
prio la loro ‘resistenza’ li espone maggiormente – quando non
siano graditi – all’attacco della menzogna e ai tentativi di
falsificazione». Ciò è quanto può accadere nel processo e – co‑
me purtroppo ho potuto verificare – ciò è quanto accade anche
nella (mia) vita.
penale
Gazzetta
51Su questi temi si segnalano, nell’ambito della dottrina processualcivilista, i
contributi di G. Impagnatiello, Il concorso tra cassazione e revocazione.
Contributo allo studio della formazione e dell’impugnazione del giudicato,
Napoli, 2003; A. Panzarola, La Cassazione civile giudice del merito, Torino,
2005; R. Tiscini, Il ricorso straordinario in cassazione, Torino, 2005. Sul ver‑
sante della dottrina processualpenalista, in particolare, cfr.: A. Nappi, Il sinda‑
cato di legittimità nei giudizi civili e penali di cassazione, Torino, 2006; C.
Santoriello, Il vizio di motivazione tra esame di legittimità e giudizio di fatto,
Torino, 2008.
52Tale prospettiva è stata approfondita di recente da F.M. Iacoviello, La Cas‑
sazione penale. Fatto, diritto e motivazione,Milano, 2013, passim.
53 P. ferrua, Il ‘giusto processo’, Bologna, 2005, p. 82.
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D i r i t t o
●
Diffamazione a mezzo
Internet con particolare
riferimento a “Facebook”
● Jacopo Meini
Dottore in giurisprudenza
Specializzato in Professioni legali
e
p r o c e d u r a
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
La diffamazione a mezzo internet costituisce oggi uno dei
temi più delicati in ambito giurisprudenziale poiché nasconde
una serie di problematiche di difficile soluzione.
Partendo dall’analisi del reato di cui all’art. 595 c.p.possiamo
notare come anche il medesimo concetto di “reputazione” sia
variabile.
Alcuni prospettano per una definizione di “stima diffusa
nell’ambiente sociale” (o professionale) cioè l’opinione che
altri hanno del suo decoro e onore mentre altri, invece, pro‑
pendono, ricorrendo ad una concezione normativa, più sul
minimo di rispetto sociale cui ogni persona abbia diritto indi‑
pendentemente dalla buona o cattiva fama.
Altra problematica riguardava l’individuazione del sog‑
getto attivo poiché, oltre all’autore materiale, ci si chiedeva
se anche il gestore del sito internet potesse essere ritenuto
responsabile per “culpa in vigilando”. Inizialmente si era
fatto riferimento all’ art. 57 e 57 bis c.p. con i quali si assi‑
milava tale soggetto all’editore di un mezzo di stampa ma
successivamente, stante il divieto di estensione analogica in
ambito penale, si è sostituito tale fonte con il concetto di
“posizione di garanzia” la quale richiede un dovere di prote‑
zione e controllo nei confronti di altri soggetti. Infatti l’omes‑
so impedimento dell’evento equivale ad un diretto e attivo
contributo causale.
La problematica, riguardante l’indicazione del soggetto
passivo, invece si ha ogni qualvolta la persona fisica non sia
individuata in modo specifico.
La dottrina attuale ha affermato che è punibile di diffa‑
mazione anche colui che rivolge frasi offensive a soggetti
“innominati” ma a cui, tramite riferimenti inequivoci, sia
possibile individuare agevolmente con certezza la persona la
quale sono rivolti.
Inoltre è da evidenziare come l’ambito dei possibili sogget‑
ti si sia, con il tempo, esteso sino a comprendere anche le
persone giuridiche.
Per puro scrupolo argomentativo si evidenzia come un
altro elemento costitutivo, del reato in esame, sia il dolo gene‑
rico cioè la volontà e consapevolezza della condotta offensi‑
va.
Altra problematica di rilievo attiene all’individuazione del
“locus commissi delicti” in modo da definire la giurisdizione
giudiziaria.
Qualora l’agente operi dall’Italia su un server italiano
oppure dall’Italia con un server situato all’estero sussiste la
giurisdizione territoriale Italiana stante, nel primo caso, il
principio di territorialità e, nel secondo caso, l’art. 6, secondo
comma, c.p.
Invece, i conflitti dottrinali potrebbero nascere, se l’agen‑
te operi dall’estero con server estero ed il messaggio venga
diffuso in ogni parte del mondo compresa l’Italia. In tale
ipotesi la recente g iu rispr uden za ha asserito
(Cass. pen. n. 4741/2000) che, stante la diffamazione quale
reato di evento, il reato si consuma non nel momento della
diffusione del messaggio offensivo ma nel momento della
percezione dello stesso da parte di soggetti che siano terzi ri‑
spetto all’agente ed alla persona offesa. Il reato si considera
commesso nel territorio dello Stato exart. 6, secondo comma,
c.p. quando si verifica in tutto o in parte l’azione o l’omissione
ovvero l’evento che ne sia la conseguenza. Pertanto sussiste la
giurisdizione Italiana sia qualora si verifichi la condotta o
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m a g g i o • g i u g n o
parte di essa nel nostro territorio sia quando si sia verificato
solamente l’evento. L’analisi, sopra esposta, mostra come la
dottrina e giurisprudenza abbiano iniziato a prendere in con‑
siderazione l’esistenza di nuovi strumenti di comunicazione e
diffusione. L’utilizzo di Internet, stante il potente mezzo di
diffusione di notizie ed immagini diffamatorie, è stato fatto
rientrare nell’ambito di “altri mezzi di pubblicità” ex art. 595,
3 comma, c.p. (Cass. pen. 4741/2000).
Una recente sentenza di merito ha analizzato l’utilizzo dei
social network tra i quali Facebook.
La vicenda in esame riguarda un soggetto imputato di
diffamazione aggravata “dall’ uso del mezzo di pubblicità” ex
art. 595, 3 comma, c.p. poiché, dopo essere stato licenziato,
pubblicava in internet sulla bacheca del proprio profilo Face‑
book frasi denigratorie ed offensive nei confronti degli ex
datori di lavoro.
Il tribunale di Livorno, con sentenza n. 38912 del 31 di‑
cembre 2012, condannava l’autore del fatto ed applicava, in
tale contesto, l’aggravante di cui all’art. 595, 3 comma, in
quanto le notizie diffamatorie potevano avere una diffusione
incontrollata e, pertanto, meritevole di un più severo tratta‑
mento penale.
Il giudice inizialmente analizzava gli elementi della fatti‑
specie e precisamente:
Individuava i soggetti attivi e passivi tramite riscontri
oggettivi e quant’altro atto ad identificare in modo preciso i
soggetti onde evitare “furti d’identità” potendo celarsi autori
diversi tramite la proposizione di profili falsi;
Dichiarava l’offensività degli scritti;
Asseriva la comunicabilità della denigrazione con altre
persone;
Infine affermava la coscienza e volontà nell’uso di tali
espressioni.
Successivamente osservava come la fattispecie in esame
fosse aggravata dall’uso del particolare mezzo di diffusione:
“Facebook è oggi il più diffuso e popolare dei social network
ad accesso gratuito, vale a dire una cosiddetta rete sociale in
cui può essere coinvolto un numero indeterminato di utenti
e navigatori che tramite questo sito entrano in relazione tra
2 0 1 3
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di loro pubblicando e/o scambiandosi contenuti che sono
visibili ad altri utenti facenti parte del gruppo o comunque a
questo collegati….è evidente che gli utenti del social network
sono consapevoli, e anzi in genere tale effetto non è solo ac‑
cettato ma è indubbiamente voluto, del fatto che altre perso‑
ne possano prendere visione delle informazioni scambiate in
rete….”
Alla luce di tutto quanto sopra si può notare come il giu‑
dice abbia ritenuto Facebook quale “mezzo di pubblicità” ex
art. 575, 3 comma c.p. tale da aggravare il trattamento san‑
zionatorio poiché le frasi diffamatorie pubblicate nel proprio
profilo avevano una diffusione incontrollata e potenzialmen‑
te potevano entrare in contatto con un numero indeterminato
di soggetti.
Se qualora il soggetto attivo, invece, avesse interagito con
soltanto soggetti determinati, non si avrebbe avuto l’aggra‑
vante in questione ma si sarebbe applicata la minor pena di
cui al primo comma dell’art. 595 c.p.
A parer di chi scrive l’analisi prospettata dal giudice me‑
riterebbe un approfondimento riguardante le “opzioni sulla
privacy”. Facebook è un social network che permette di sta‑
bilire in anticipo la visione altrui del proprio profilo stabilen‑
do se tale aspetto può essere visionato da”tutti” o solo dagli
“amici a cui abbiamo accettato l’adesione”. Tale differenzia‑
zione inficia l’aspetto della comunicabilità o meno con un
numero indeterminato di potenziali destinatari. In altre pa‑
role qualora il soggetto attivo avesse ristretto la visione a
solo alcuni amici, escludendo la comunicabilità con il resto
dei possibili soggetti, esso sarebbe solamente incorso nella
minor sanzione di cui all’art. 595 c.p.. In tale contesto non si
avrebbe “voluto” e ne tanto meno “accettato” il rischio che
potenziali visitatori potessero venire in contatto con simili
contenuti offensivi.
Pertanto sarebbe opportuno, stante i continui cambiamen‑
ti di Facebook, che i giudici controllassero di caso in caso gli
aspetti opzionali della privacy per stabilire se in quel preciso
momento storico il social network abbia o meno la possibili‑
tà concreta di escludere un determinato numero indetermina‑
to di soggetti.
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I CONTRASTI TRA LA CORTE EDU
E LE CORTI NAZIONALI
●
Il caso punta Perotti:
tra misura amministrativa
e sanzione penale
● Vittorio Sabato Ambrosio
e
Avvocato
Cass. pen., sezione III, 24 ottobre 2008, n. 42741
Sermana s.r.l. e altri
“la natura amministrativa della confisca ex art. 44 del
d.P.R. n. 380/2001 non ne esclude, però, il carattere sanzio‑
natorio con la conseguente necessità di tener conto dei prin‑
cipi generali che regolano l'applicazione anche delle sanzioni
amministrative. Tali principi sono dettati dalla l. 24 novembre
1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) e, peraltro, corri‑
spondono ad esigenze di uguaglianza e razionalità normativa
ai sensi dell'art. 3 Cost.”
Corte europea diritti dell'uomo, sezione II, 20 gennaio 2009,
n. 75909
Sud Fondi s.r.l. e altri c. Italia
“La confisca di suoli abusivamente lottizzati e delle opere
abusivamente costruite, ordinata dal giudice penale con la
sentenza che accerti l'oggettiva sussistenza del reato di lottiz‑
zazione abusiva, ma contestualmente prosciolga gli imputati
dai medesimi addebiti, ha natura di sanzione penale ai fini
dell'applicazione del principio nulla poena sine lege, sancito
dall'art. 7 Cedu, e si pone altresì in contrasto con il diritto al
rispetto dei beni, sancito dall'art. 1, primo Protocollo addi‑
zionale”.
Corte Europea Dei Diritti Dell’Uomo, Sentenza 10 Maggio 2012,
n.75909/01
“Se nel caso di revoca della confisca e di restituzione dei
terreni che ne formavano oggetto i proprietari non hanno
alcuna possibilità di recuperare i fabbricati confiscati, in
quanto essi sono stati demoliti, né hanno la possibilità di es‑
sere risarcite in quanto la legge n. 102 del 2009 esclude una
tale ipotesi, lo Stato deve corrispondere ai proprietari i costi
sostenuti per la costruzione dei fabbricati demoliti a seguito
della confisca ed il risarcimento dei danni derivanti dall’indi‑
sponibilità assoluta dei terreni nel periodo intercorrente tra
la confisca e la restituzione, nonché dalla successiva indispo‑
nibilità relativa degli stessi, connessa alla loro utilizzazione
da parte della collettività”.
****
Sommario: Premessa – 1. I parametri usati per la quantifica‑
zione del danno – 2. Ancora una controversa ipotesi di con‑
fisca nazionale: la confisca urbanistica ex art. 44 del d.P.R.
n. 380/2001 – 3. La giurisprudenza Nazionale sulla confisca
urbanistica – 4. La Corte Edu sulla natura dell’art. 44 del
d.P.R. n. 380/2001 e l’adeguamento della giurisprudenza
Nazionale – 5. Brevi considerazioni conclusive.
Premessa
Lo spunto riflessivo per il presente articolo è offerto dalla
sentenza emessa in data 10 maggio 2012 con cui è finalmente
giunto al suo epilogo l'interminabile vicenda degli "Ecomo‑
stri" di Punta Perotti: con la sentenza Sud Fondi e altri c.
Italia, la Corte europea si è, infatti, pronunciata sulla richiesta
di risarcimento presentata dalle società costruttrici Sud Fondi,
Mabar e Iami per la confisca dei terreni siti in Bari presso la
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zona costiera di Punta Perotti e del complesso immobiliare
che su di essi insisteva, riconoscendo alle imprese costruttrici,
a titolo di equa riparazione ex art. 41 Cedu, 49 milioni di
euro complessivi.
La sentenza che qui si segnala fa seguito alla precedente
pronuncia Sud Fondi e altri c. Italia del 20 gennaio 2009, con
cui i giudici di Strasburgo hanno condannato il nostro Paese
per la violazione degli artt. 7 (che riconosce il principio di
legalità in materia penale) e 1 Prot. 1 (che sancisce invece il
diritto di proprietà) Cedu in relazione alla confisca degli
"Ecomostri" di Punta Perotti. In tale sentenza, la Corte euro‑
pea si riservava di liquidare i danni materiali subiti dai ricor‑
renti entro sei mesi dalla pronuncia, in attesa di un eventuale
accordo tra le parti.
Ebbene, tale liquidazione è finalmente avvenuta con la
sentenza 10 maggio 2012, in cui la Corte ha in via prelimina‑
re rammentato che dall'accertamento da parte della Corte
europea di una violazione della Convenzione o dei suoi Pro‑
tocolli deriva per lo Stato convenuto l'obbligo giuridico di
riparare alle suddetta violazione, ripristinando quanto più
possibile la situazione precedentemente esistente. Al riguardo,
se è vero, da un lato, che il diritto di Strasburgo riconosce agli
Stati contraenti la libertà di scegliere i mezzi per conformarsi
ad una sentenza della Corte che accerti una violazione con‑
venzionale, dall'altro, laddove il diritto nazionale non permet‑
te o permette solo un risarcimento parziale per le conseguen‑
ze della violazione, la Corte può accordare alla parte lesa, ai
sensi dell'art. 41 Cedu, un'equa soddisfazione.
1. I parametri usati per la quantificazione del danno
In merito alla quantificazione del danno, la Corte ha
sottolineato il carattere radicalmente arbitrario della confisca
dei terreni dei ricorrenti sia ai sensi dell'art. 7 che dell'art. 1
Prot. 1 Cedu: ciò distingue il caso di specie dai casi – spesso
esaminati dalla Corte proprio con riferimento al nostro pae‑
se – in materia di inadeguato indennizzo per una espropria‑
zione in sé legittima ovvero di "espropriazione indiretta"
avviata con procedura d'urgenza e sulla base di una dichiara‑
zione di pubblica utilità. L'indennizzo da riconoscere deve,
pertanto, riflettere in questo caso l'idea di una cancellazione
totale delle conseguenze della misura ablativa.
La Corte rileva che la restituzione dei terreni ai ricorrenti
ha costituito solo un risarcimento parziale a fronte della vio‑
lazione da parte dello Stato italiano dei loro diritti, sottoline‑
ando che gli edifici ivi edificati sono stati nel frattempo de‑
moliti senza che alle imprese sia stato riconosciuto alcun in‑
dennizzo. I costi sostenuti dalle imprese per la costruzione
degli edifici devono dunque costituire una componente essen‑
ziale della restitutio in integrum cui i ricorrenti hanno dirit‑
to.
Così fissati i criteri per la valutazione dell'equa soddisfa‑
zione, la Corte procede alla liquidazione degli indennizzi
dovuti alle società ricorrenti, e ingiunge al governo italiano,
con una c.d. misura individuale ai sensi dell'art. 46 Cedu, di
rinunciare alle domande giudiziali, ad oggi pendenti nei con‑
fronti dei ricorrenti, di rimborso dei costi sostenuti dalla
pubblica amministrazione per la demolizione degli edifici e
per la riqualificazione dei terreni. Si tratta di una pretesa,
quest’ultima, evidentemente illegittima agli occhi della Corte,
stante l'arbitrarietà della confisca ordinata nei confronti dei
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ricorrenti. Una tale rinuncia – conclude la Corte ‑, unitamen‑
te alla corresponsione dell'indennizzo liquidato in sentenza,
sarà dunque idonea a riparare interamente il pregiudizio su‑
bito dai ricorrenti.
2. Ancora una controversa ipotesi di confisca nazionale: la confisca
urbanistica ex art. 44 del d.P.R. n. 380/2001
Tale sentenza, nel chiudere in via definitiva una vertenza
giudiziaria che ha sollevato una forte attenzione, anche me‑
diatica (trattasi del famoso caso giudiziario meglio noto come
“Punta Perotti”), ci consente di puntare nuovamente i riflet‑
tori sul tema, sia pure ampiamente dibattuto in un preceden‑
te articolo della presente sezione, dei profili di forte interfe‑
renza che si pongono tra la nozione di confisca quale accolta
nel nostro ordinamento e la nozione allargata di pena elabo‑
rata dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti
dell’uomo che, nel tentativo di estendere le garanzie di cui
all’art. 7 CEDU a tutte le misure concretamente qualificabili
come pene, prescinde dal nomen iuris astrattamente utilizza‑
to dal legislatore nei singoli ordinamenti nazionali, conside‑
rando a tutti gli effetti “pena” ogni misura avente, per la sua
natura e per la sua gravità, carattere eminentemente afflittivo
e sanzionatorio applicata da un giudice all’esito di un proce‑
dimento di accertamento penale.
La Corte di Strasburgo chiarisce che l’ordinamento inter‑
no rappresenta solo un punto di partenza e non un punto di
arrivo nella qualificazione della “pena” e che, pertanto, qual‑
siasi misura di carattere sanzionatorio avente una stretta
connessione con un procedimento penale debba essere riqua‑
lificata come pena e sottoposta al regime più garantistico
previsto per le pene di cui all’art. 7 CEDU che tipizza, oltre
al principio di tipicità, anche quello di irretroattività.
Il problema, beninteso, non sembra porsi con riferimento
alla confisca di cui all’art. 240 c.p. che, come è noto, colpisce
non la pericolosità sociale del reo ma la pericolosità della res
che, in virtù del suo particolare legame con l’illecito – trattan‑
dosi del suo prezzo, prodotto o profitto – potrebbe mantene‑
re viva nel ricordo del reo l’idea dell’illecito commesso fun‑
gendo da incentivo alla commissione di ulteriori fattispecie
criminose. Invero, l’esigenza di carattere special – preventivo
cui la confisca risponde, ovverosia quella di privare il reo
della disponibilità di beni che, per il loro carattere di stretta
pertinenza e strumentalità all’illecito, possono indurre all’ul‑
teriore commissione di illeciti, ne garantisce la piena compa‑
tibilità col regime intertemporale tipico delle misure di sicu‑
rezza.
L’enunciata frizione sembra porsi con riferimento a tutte
quelle peculiari forme di confisca introdotte in via legislativa
che rendono applicabile la misura anche a restotalmente prive
del requisito della pertinenza col reato commesso, la cui sot‑
trazione sembra rispondere più alle esigenze sanzionatorie
tipiche della pena e non a quelle special – preventive tipiche
della misura di sicurezza.
Si fa riferimento ad alcune forme di confisca che si allon‑
tanano dal modello tratteggiato dall’art. 240 c.p. e che assu‑
mono una valenza prettamente repressiva e sanzionatoria.
Tra le ipotesi di confisca più controverse e maggiormente
al centro del dialogo tra le corti interne e la Corte Europea
dei diritti dell’uomo si pone la confisca urbanistica, discipli‑
nata dall’art. 44 del d.P.R. n. 380/2001.
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Con riferimento ad essa si è compiutamente realizzata,
negli ultimi anni, una lunga parabola interpretativa in cui si
sono chiaramente palesate le profonde divergenze e i punti di
attrito tra la giurisprudenza interna ed il supremo organo
giudicante comunitario.
Invero, con riferimento a tale forma di confisca per lungo
tempo la giurisprudenza interna più risalente riteneva, pres‑
soché unanimemente, che si trattasse di una vera e propria
misura di sicurezza penale di natura patrimoniale, al pari
della confisca disciplinata dall’art. 240 c.p., cosicché la stessa
poteva essere disposta solo nei confronti dell’imputato rico‑
nosciuto colpevole del reato di lottizzazione abusiva e non
poteva, pertanto, essere applicata al terzo estraneo al reato,
che avesse legittimamente acquistato il bene sul mercato.
Successivamente, a partire dagli anni ‘90, si è andato,
tuttavia, affermando un diverso orientamento, secondo cui la
confisca urbanistica — pur tenendo conto del fatto che la
rubrica dell’art. 44 del d.P.R. n. 380/1981 è espressamente
intitolata “Sanzioni penali” — sarebbe una sanzione pretta‑
mente amministrativa.
Secondo tale indirizzo giurisprudenziale, assolutamente
prevalente, si tratterebbe, in buona sostanza, di una figura
diversa e ulteriore rispetto alla confisca disciplinata
dall’art. 240 c.p.; e ciò essenzialmente sul rilievo che nella
norma in questione si fa riferimento, semplicemente, ad una
«sentenza definitiva che accerta che vi è stata una lottizzazio‑
ne abusiva», e non già ad una «sentenza di condanna», come,
invece, statuito nel precedente art. 31, comma 9 (e, anterior‑
mente, nell’art. 7, ultimo comma della legge n. 47/1985), in
materia di «interventi edilizi eseguiti in assenza di permesso
di costruire, in totale difformità o con variazioni essenzia‑
li».
Tale diversa formulazione della norma del comma 2
dell’art. 44 del d.P.R. n. 380/2001 (già art. 19 della legge
n. 47/1985) è stata, in buona sostanza, interpretata nel senso
che la confisca urbanistica abbia come unico presupposto
l’accertamento giurisdizionale della lottizzazione abusiva,
prescindendo, dunque, da una pronuncia di condanna a cari‑
co dell’imputato (id est: dall’accertamento dell’elemento psi‑
cologico del reato); dal ciò è stata tratta l’ulteriore conseguen‑
za che, in presenza dell’oggettivo accertamento della radicale
trasformazione urbanistica del territorio (e, quindi, della
sussistenza del reato di lottizzazione abusiva sotto il profilo
oggettivo), essa può essere disposta anche nei confronti dei
terzi acquirenti in buona fede, in capo ai quali è stato ricono‑
sciuto esclusivamente il diritto di rivalersi in sede civile nei
confronti del costruttore, spesso, però, assolto in sede di giu‑
dizio penale.
3. La giurisprudenza Nazionale sulla confisca urbanistica
Tale ricostruzione dogmatica è stata sottoposta ad una
serrata critica da parte della dottrina, in quanto ritenuta
troppo lontana dal dato letterale della norma e contrastante
con le esigenze di certezza nella circolazione dei beni e di tu‑
tela dell’affidamento dei terzi, tanto da indurre la giurispru‑
denza ad una rimeditazione della questione.
Il 9 aprile 2008, nell'ambito di un procedimento penale,
la Corte d'Appello di Bari – avendo preso nota del fatto che,
nelle more, il ricorso promosso davanti alla Corte di Strasbur‑
go era stato dichiarato ricevibile dalla CEDU – aveva adito la
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Corte costituzionale affinché questa si pronunciasse sulla le‑
galità della confisca inflitta automaticamente anche nel caso
in cui non fosse stata constatata alcuna responsabilità penale,
nonché nei confronti di persone completamente estranee alla
commissione del reato (i terzi acquirenti in buona fede degli
immobili), per contrasto con gli artt. 3, 25, comma 2, e 27,
comma 1, Cost. ("È rilevante e non manifestamente infonda‑
ta la questione di legittimità costituzionale dell'art. 44 com‑
ma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 nella parte in cui
impone al Giudice, in presenza di accertata lottizzazione
abusiva, di ordinare anche nei casi di proscioglimento con
formula diversa dalla insussistenza del fatto la confisca dei
terreni e delle opere abusivamente costruite, in quanto tale
confisca, avendo natura di sanzione penale, contrasta con gli
artt. 3, 25, comma 2, e 27, comma 1, Cost. interpretati alla
luce del disposto dell'art. 7 della Convenzione europea dei
diritti dell'uomo").
La Corte costituzionale non tardò a pronunciarsi con la
sentenza n. 239 del 2009, con cui – nel dichiarare inammis‑
sibile la questione e proprio richiamando la giurisprudenza
della CEDU – ha affermato che in presenza di un apparente
contrasto fra disposizioni legislative interne ed una disposi‑
zione della CEDU, anche quale interpretata dalla Corte di
Strasburgo, può porsi un dubbio di costituzionalità, ai sensi
dell'art. 117 Cost., comma 1, solo ove non si possa anzitutto
risolvere il problema in via interpretativa. Infatti "al giudice
comune spetta interpretare la norma interna in modo con‑
forme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei
quali ciò è permesso dai testi delle norme" e solo qualora ciò
non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della nor‑
ma interna con la disposizione convenzionale "interposta",
egli deve investire questa Corte delle relative questioni di le‑
gittimità costituzionale rispetto al parametro dell'art. 117
Cost., comma 1" Cost. (cfr. anche sent. n. 349 del 2007 e
n. 348 del 2007).
La Corte ha quindi ricordato che fra le sentenze di pro‑
scioglimento ve ne sono alcune che "pur non applicando una
pena comportano, in diverse forme e gradazioni, un sostan‑
ziale riconoscimento della responsabilità dell'imputato o
comunque l'attribuzione del fatto all'imputato medesimo"
(negli stessi termini anche Corte Cost. n. 85 del 2008). Quin‑
di può sussistere questo "sostanziale riconoscimento", per
quanto privo di effetti sul piano della responsabilità penale,
anche quando sia processualmente impedito da una pronuncia
di proscioglimento conseguente alla prescrizione del reato.
La pronuncia della Corte poi si chiude con una sorta di
monito condizionato: "ove l'adeguamento interpretativo, che
appaia necessitato, risulti impossibile o l'eventuale diritto
vivente che si formi in materia faccia sorgere dubbi sulla sua
legittimità costituzionale, questa Corte potrà essere chiama‑
ta ad affrontare il problema della asserita incostituzionalità
della disposizione di legge".
4. La Corte Edu sulla natura dell’art. 44 del d.P.R. n. 380/2001 e
l’adeguamento della giurisprudenza Nazionale
Occorre quindi – in sostanza – un'interpretazione adegua‑
trice dell'art. 44, comma 2, che renda la disposizione compa‑
tibile con la CEDU e segnatamente con il suo art. 7. 6.
È già il giudice delle leggi, quindi, ad avviare un proficuo
dialogo con la Corte europea dei diritti dell’uomo, ravvisando
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l’esigenza di tener conto del nuovo orientamento profilatosi
in seno al supremo organo di giustizia europeo che, dapprima
si è pronunciato sulla ricevibilità del ricorso proposto da una
società costruttrice di un complesso edilizio oggetto di lottiz‑
zazione abusiva accertata giudizialmente, la cui vicenda
aveva avuto ampia eco nei media (c.d. caso “Punta Perotti”),
dipoi, in data 20 gennaio 2009, ha emesso la decisione defi‑
nitiva relativa al suddetto ricorso, affermando che la confisca
di cui all’art. 44 T.U. n. 380/2001 ha natura di “pena” e che
nel caso di specie, vi è stata violazione dell’art. 7 Cedu (rela‑
tivo al concetto di sanzione penale) e dell’art. 1 del Protocol‑
lo n. 1 allegato alla Convenzione (riguardante la tutela del
diritto di proprietà).
Con tale pronuncia la Corte di Strasburgo ha, peraltro,
condannato lo Stato italiano al pagamento, in favore di cia‑
scuna delle società ricorrenti e dei loro soci e amministratori,
del risarcimento del danno non patrimoniale subito, riservan‑
dosi quella sul danno patrimoniale, all’uopo reputando che,
non potendosi configurare nella fattispecie un quadro giuri‑
dico chiaro con riferimento alla confisca, i soggetti coinvolti
avevano subito dei considerevoli disagi, soprattutto in consi‑
derazione dello stigma sociale che su di essi era calato per
essere stati qualificati come costruttori di ecomostri, alla
stregua di un qualunque criminale privo di scrupoli nel detur‑
pare il paesaggio.
La Corte, infatti, dopo aver considerato che le ricorrenti
erano incorse in un errore inevitabile – e, quindi, scusabi‑
le – nell’interpretazione delle normative regionali e nazionali
in materia, ha, in sintesi, osservato come la confisca, per la
sua natura di sanzione penale, non può mai seguire ad un’as‑
soluzione e, a maggior ragione, non può essere comminata a
danno di terzi estranei al reato e assenti dal relativo processo,
così ribadendo i principi enucleabili sia dall’art. 7 Cedu, che
dal sistema diritto penale italiano.
Dunque la Corte Europea, sulla base di una nozione so‑
stanziale e non meramente formale di pena, ha ritenuto che
la confisca dicui all’art. 44 comma II del d.P.R. 380/2001
costituisca una pena e non una misura amministrativa, così
inferendo un deciso colpo di scure a quella granitica giuri‑
sprudenza nazionale che, a dispetto della formulazione lette‑
rale della rubrica dell’art. 44 che contiene un espresso riferi‑
mento alle sanzioni penali, aveva qualificato tale misura,
applicata dal giudice penale che accerti la lottizzazione abu‑
siva, come misura amministrativa di carattere ripristinatorio,
mirante a reintegrare l’alterazione allo stato del territorio
causata dall’intervento abusivo sullo stesso. Si è sopra eviden‑
ziato come, interpretata nei termini di misura amministrativa
di carattere rispristinatorio, si riteneva che essa potesse essere
applicata dal giudice penale anche in presenza di una senten‑
za di assoluzione.
Tale impostazione è stata bersagliata dalla Corte europea
che ha considerato tale misura alla stregua di una vera e pro‑
pria pena, avente un carattere eminentemente sanzionatorio,
e, pertanto, sottoposta all’applicazione del principio di colpe‑
volezza che impone la sanzione di un fatto la cui illiceità sia
almeno colposamente imputabile al reo.
In tal senso è stata considerata contrastante con l’art. 7
CEDU la disciplina italiana che consente di applicare la con‑
fisca urbanistica anche a chi sia stato assolto perché il fatto
non costituisce reato.
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Invero, l’impossibilità di individuare un profilo di colpe‑
volezza in capo a chi abbia commesso un errore inevitabile e
scusabile nell’interpretazione del dato normativo non consen‑
te di applicare la suddetta misura avente, a dispetto del nomen
utilizzato, natura sanzionatoria e, in quanto tale, sottoposta
all’accertamento dell’elemento soggettivo tipico del reato.
Di fronte a tale perentoria condanna della disciplina ita‑
liana, la giurisprudenza interna ha abbassato opportunamen‑
te il tiro, muovendosi sul solco tracciato dalla Corte costitu‑
zionale con sentenza n. 239 del 2009 ed operando la richiesta
interpretazione adeguatrice, riqualificando la confisca urba‑
nistica di cui all’art. 44 del d.P.R. 380/2001 come sanzione
amministrativa.
Dapprima con sentenza Cass. pen. sez. III, 24 ottobre
2008, n. 42741 in cui la Suprema Corte ha affermato che “la
natura amministrativa di detta confisca non ne esclude, però,
il carattere sanzionatorio con la conseguente necessità di
tener conto dei principi generali che regolano l'applicazione
anche delle sanzioni amministrative. Tali principi sono det‑
tati dalla l. 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema
penale) e, peraltro, corrispondono ad esigenze di uguaglian‑
za e razionalità normativa ai sensi dell'art. 3 Cost.”; dipoi
con altre sentenze in cui, nel riaffermare che la confisca dei
terreni abusivamente lottizzati e delle opere illegittimamente
costruite consegue non soltanto ad una sentenza di condanna,
ma anche quando sia accertata la sussistenza della lottizza‑
zione abusiva nei suoi elementi oggettivo e soggettivo, ha
precisato che la confisca è comunque condizionata, sotto il
profilo soggettivo, quanto meno all'accertamento di profili di
colpa nella condotta dei soggetti sul cui patrimonio la misura
viene ad incidere (Cass., sez. 3^, 9 luglio 2009 – 22 settembre
2009, n. 36844; cfr. anche Cass., sez. 3^, 13 luglio 2009 – 8
ottobre 2009, n. 39078); per poi precisare che la confisca
prevista in materia di lottizzazione abusiva dal d.P.R. 6 giu‑
gno 2001, n. 380, art. 44, comma 2, pur costituendo una
sanzione amministrativa e non già una misura di sicurezza di
natura patrimoniale, ha carattere sanzionatorio ai sensi
dell'art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo;
sicché la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle
opere abusivamente costruite non può essere disposta nei
confronti di soggetti estranei alla commissione del reato e dei
quali sia stata accertata la buona fede. (Cass., sez. 3^, 6 otto‑
bre 2010‑10 novembre 2010, n. 39715).
La profilata soluzione interpretativa consente alla giuri‑
sprudenza interna di avvicinarsi alla giurisprudenza comuni‑
taria per quanto concerne il carattere sanzionatorio della
misura e la necessità di non applicarla nei confronti dei terzi
in buona fede acquirenti dei beni abusivamente lottizzati
estranei alla commissione del fatto, stante l’evidente necessità
di ricercare un coefficiente di imputabilità ai fini dell’applica‑
zione dei principi di cui alla legge n. 689/81. Nel chiaro ten‑
tativo di fornire la sua interpretazione adeguatrice, il Supremo
Consesso di Giustizia civile si esprime nei seguenti termini:
“Orbene, è indubbio che anche con riferimento alle sanzioni
amministrative esulano dalla materia criteri di responsabili‑
tà oggettiva, essendo richiesta, quale requisito essenziale di
legalità per la loro applicazione, l'esistenza di una condotta
che risponda ai necessari requisiti soggettivi della coscienza
e volontà dell'agente e sia caratterizzata quanto meno
dall'elemento psicologico della colpa (art. 2 e 3, Legge citata).
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Anche la sanzione amministrativa, pertanto, non può essere
applicata nei confronti di soggetti in buona fede, che non
abbiano commesso alcuna violazione. Non vale inoltre a
giustificare la confisca d.P.R. n. 380 del 2001, ex art. 44,
comma 2, nei confronti di soggetti incolpevoli l'affermazione
dell'esistenza di un interesse collettivo alla tutela ed alla
salvaguardia del territorio, che giustifica la compressione del
diritto del privato di natura reale, in considerazione della
funzione sociale riconosciuta alla proprietà privata dall'art. 42
Cost., comma 2, (cfr. cit. sez. 3^, 200706396, Cieri, RV
236076). E' indubbia l'esistenza di un interesse pubblico che
giustifica l'acquisizione da parte dell'ente locale, ai sensi del
d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 2, dei suoli oggetto
di lottizzazione abusiva, quale misura per consentire alla
pubblica amministrazione di intervenire per il riassetto
dell'area. Appare egualmente indubbio, però, che, al di fuori
dell'applicazione di misure sanzionatorie, la compressione
del diritto di proprietà per ragioni di interesse generale è
necessariamente connessa alla corresponsione di misure in‑
dennitarie in favore di chi subisce detta compressione ai
sensi dell'art. 42 Cost., comma 3. Peraltro, anche ai sensi
dell'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU la compres‑
sione del diritto di proprietà deve essere caratterizzata, se‑
condo l'interpretazione data alla norma dalla Corte europea
dei diritti dell'uomo, dal rispetto del principio di proporzio‑
nalità; principio da ritenersi violato, nell'ipotesi di misure
ablatorie della proprietà per ragioni di pubblico interesse cui
non corrisponda alcuna forma di indennizzo. L'interpreta‑
zione costituzionalmente compatibile del d.P.R. n. 380 del
2001, art. 44, comma 2, induce, pertanto, necessariamente
ad escludere dall'ambito di operatività della norma la possi‑
bilità di confiscare beni appartenenti a soggetti estranei alla
commissione del reato e dei quali sia stata accertata la buona
fede” (Cass. pen. sez. III, 24 ottobre 2008, n. 42741).
L’indicata interpretazione adeguatrice, pur avvicinando la
giurisprudenza interna a quella comunitaria, mantiene tutta‑
via intatte delle peculiarità, in quanto la qualifica in termini
di sanzione amministrativa e non penale consente di benefi‑
ciare di un’applicazione più estesa rispetto alla pena, potendo
questa trovare applicazione anche nel caso in cui il reato base
sia estinto o prescritto.
Nei seguenti termini si esprime la Corte di Cassazione:
“Diversa è ovviamente l'ipotesi in cui non si sia pervenuti ad
una pronuncia di condanna nei confronti degli autori della
violazione per l'intervenuta prescrizione dei reati, ipotesi di
cui ci si è occupati in vari precedenti di questa Corte (cit. sent.
Cieri ed altre), che hanno espresso un diverso indirizzo inter‑
pretativo, in quanto l'estinzione del reato non è affatto osta‑
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
tiva alla applicazione della confisca quale sanzione ammini‑
strativa, regolata da disposizioni diverse da quelle proprie del
diritto penale” (Cass. pen., sez. III, 24 ottobre 2008,
n. 42741).
La giurisprudenza italiana, pertanto, pur sensibile ai mo‑
niti e alle istanze della giurisprudenza comunitaria, sembra
quindi adottare una soluzione mediana “di comodo” che le
permette di superare la censura di incompatibilità ma che è
ancora lontana dall’equiparare la confisca urbanistica ad una
vera e propria sanzione penale.
5. Brevi considerazioni conclusive
L’approccio sostanziale comunitario sembra aver influen‑
zato profondamente il dibattito interno sul carattere della
pena e aperto nuovi scenari in merito all’effettiva natura di
talune misure di sicurezza e in particolare delle confische.
Come già ampiamente rilevato nei precedenti numeri
sembra essere tramontata l’idea che possa esistere una confi‑
sca unitaria e monolitica nella sua disciplina e che è sempre
più opportuno parlare di “confische”, di fattispecie diverse
aventi ognuna una propria peculiarità e una propria specifica
disciplina e, in quanto tali, concettualmente ostili ad ogni
unificazione o assimilazione sul piano della disciplina che ne
mortifichi le tipicità.
In tale prospettiva, ovviamente, si ammette che alcune
misure tradiscano una natura essenzialmente sanzionatoria
e, in quanto tali, divengano oggetto di pronuncia di incom‑
patibilità con l’art. 7 CEDU da parte della Corte Europea o
di incostituzionalità da parte del Giudice delle Leggi.
È una tendenza che risente di un’ottica europeista di più
ampio respiro e che combatte strenuamente ogni forma, più
o meno vistosa, di “truffa delle etichette”, inammissibile in
una prospettiva garantista quale quella delineata dal dettato
costituzionale e comunitario, tanto più se si pensa che oggi
che, alla luce della finalità rieducativa delle pena sancita
dall’art. 27 III comma Cost., non è mancato chi ha sostenuto
la necessità di abbandonare il sistema del doppio binario e
introdurre un sistema unitario fondato sull’applicazione solo
della pena, avendo questa una finalità non solo intrinseca‑
mente repressiva e sanzionatoria ma anche rieducativa e
preventiva.
In tale prospettiva, se per alcuni non ha alcun senso la
conservazione dello strumento della misura di sicurezza tout
court, è assolutamente inammissibile la preservazione di mi‑
sure che possiedono i connotati sostanziali tipici delle pene e
che sono tuttavia qualificate formalmente quali misure di
sicurezza solo per eludere il regime più garantistico tipico
delle prime.
Gazzetta
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m a g g i o • g i u g n o
●
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2 0 1 3
CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza del
31 maggio 2013 (ud. 31 gennaio 2013), n. 23866
I contrasti risolti
dalle Sezioni unite penali
La pena applicabile alla violazione dell’obbligo di corre‑
sponsione dell’assegno divorzile deve intendersi riferita alla
pena indicata nel primo comma della disposizione del codice
penale di cui all’art. 570 c.p. In tema di assegno divorzile il generico rinvio, quoad
poenam, all'art. 570 c.p., effettuato dalla l. 1 dicembre 1970,
n. 898, art. 12 sexies, come modificato dalla l. 6 marzo 1987,
n. 74, art. 21, deve intendersi riferito alle pene alternative
previste dal comma primo della disposizione codicistica".
●
A cura di Angelo Pignatelli
Avvocato
La questione di diritto devoluta alle Sezioni unite può es‑
sere riassunta nei seguenti termini: «se il generico rinvio,
quoad poenam all'art. 570 c.p., effettuato dalla l. 1 dicembre
1970, n. 898, art. 22 sexies, come modificato dalla l. 6 mar‑
zo 1987, n. 74, art. 21, debba intendersi riferito alle pene
previste dal comma primo oppure a quelle indicate nel com‑
ma secondo della disposizione codicistica».
Il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite rilevando la
potenziale insorgenza di un contrasto interpretativo in merito
alla questione, dell'applicabilità quoad poenam del com‑
ma primo ovvero dell'art. 570 c.p., comma 2, all'ipotesi di
violazione dell'obbligo di corresponsione dell'assegno divorzi‑
le di cui alla l. n. 898 del 1970, art. 12 sexies.
Secondo un primo orientamento, la Cassazione ha più
volte affermato che il rinvio, quoad poenam, all'art. 570 c.p.,
operato dalla l. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12 sexies, come
modificato dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 21, deve inten‑
dersi riferito alle pene previste dal comma secondo e non a
quelle indicate nel primo comma della disposizione codicistica,
in quanto il citato art. 12 sexies, ha ad oggetto la violazione
di obbligo di natura economica e non di assistenza morale (tra
le tante, sez. 6, n. 205 del 07 novembre 2011, dep. 2012, P.E.,
n.m.; sez. 6, n. 28557 del 24 giugno 2009, P., Rv. 244805;
sez. VI, n. 1071 del 31 ottobre 1996, dep. 1997, Greco, Rv.
206782).
Secondo un altro indirizzo, non mancano precedenti par‑
zialmente difformi, sia pure con riferimento al problema della
procedibilità di ufficio o a querela (sez. 6, n. 21673 del 02
marzo 2004, Cappellari, Rv. 229636).
Ad avviso delle Sezioni unite va innanzitutto sottolineato
che la l. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12 sexies, (introdotto
dalla l. 6 marzo 1987, n. 74, art. 21) delinea una fattispecie di
reato, nella parte precettiva, del tutto autonoma rispet‑
to all'art. 570 c.p..
La condotta è puntualmente definita dall'art. 12 sexies:
"Al coniuge che si sottrae all'obbligo di corresponsione dell'as‑
segno dovuto a norma degli artt. 5 e 6 della presente legge si
applicano le pene …". Tale disposizione delinea una precisa e
specifica fattispecie integrata dalla violazione di un provvedi‑
mento del giudice. Si tratta di un reato omissivo proprio, di
carattere formale, essendo individuato il soggetto attivo sol‑
tanto in chi è tenuto alla prestazione dell'assegno di divorzio
e consistendo la condotta nell'inadempimento dell'obbligo
economico stabilito dal provvedimento del giudice. Il richia‑
mo all'art. 570 c.p., è limitato soltanto alla pena. In mancan‑
penale
***
86
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
za di sicuri elementi testuali orientativi scaturenti dal testo
legislativo, siffatto rinvio deve intendersi riferito – in sintonia
con il rapporto di proporzione e con il criterio di stretta ne‑
cessità della sanzione penale ‑ all'art. 570 c.p., comma 1, che
costituisce l'opzione più favorevole all'imputato.
Non vi è secondo i Giudici Ermellini alcuna necessità di
ricorrere ad argomenti "contenutistici" o di "affinità sostan‑
ziale" o di "contiguità repressiva", che – in materia penale,
retta dai principi di tassatività e determinatezza – rischiano
di sospingere pericolosamente l'interprete all'integrazione del
testo legislativo, con esorbitanza dal proprio ambito istituzio‑
nale e applicazione analogica in malam partem.
Conclusivamente le Sezioni unite hanno affermato il se‑
guente principio di diritto « il generico rinvio, quoad poe‑
nam, all'art. 570 c.p., effettuato dalla l. 1 dicembre 1970,
n. 898, art. 12 sexies, come modificato dalla l. 6 marzo 1987,
n. 74, art. 21, deve intendersi riferito alle pene alternative
previste dal comma primo della disposizione codicistica ».
Tale interpretazione evita secondo le sez.un. ulteriori di‑
sarmonie di trattamento tra la tutela del coniuge convivente,
penalmente tutelato soltanto se versa in stato di bisogno
(art. 570 c.p., comma 2, n. 2) e quella del coniuge divorziato;
tra la tutela dei figli minori in costanza di matrimonio (situa‑
zione disciplinata soltanto dall'art. 570 c.p., comma 2, n. 2)
e la tutela dei figli minori nell'ipotesi di divorzio (e, dopo il
2006, anche di separazione); tra la tutela di figli maggiori
inabili al lavoro (art. 570 c.p., comma 2, n. 2) e quella dei
figli maggiori non autosufficienti in caso di divorzio (e, dopo
il 2006, anche di separazione).
CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza del
02 maggio 2013 (ud. 20 dicembre 2012), n. 19054
L'utilizzo da parte di un pubblico funzionario di un'uten‑
za cellulare, posseduta per ragioni d'ufficio per l'effettuazio‑
ne di numerose telefonate di carattere privato intercorse
nell'arco di un biennio e per importi consistenti integra il
delitto di «peculato d'uso».
***
La questione per la quale il ricorso è stato rimesso alle
Sezioni unite è «se l'utilizzo per fini personali di utenza tele‑
fonica assegnata per ragioni di ufficio integri o meno l'appro‑
priazione richiesta per la configurazione del delitto di pecu‑
lato ex art. 314 c.p., comma 1, ovvero una condotta distrat‑
tiva o fraudolenta rispettivamente inquadrabile nel delitto di
abuso di ufficio o in quello di truffa aggravata a danno dello
Stato».
Un primo e più remoto orientamento ha ritenuto che la
condotta in questione integri il reato di peculato d'uso
ex art. 314 c.p. co. 2. Essa, infatti, non realizzerebbe un'ap‑
propria‑ zione degli impulsi elettronici (gli "scatti"), ma
un'interversione momentanea del possesso (seguita da resti‑
tuzione immediata) dell'apparecchio (sez. VI, n. 3009 del 28
gennaio 1996, Catalucci, Rv. 204786; sez. VI, n. 7364 del 24
giugno 1997, Guida, Rv. 209746; sez. VI, n. 353 del 07 no‑
vembre 2000, dep. 2001, Veronesi), per la quale non sarebbe
necessaria la fuoriuscita della cosa dalla sfera di disponibilità
p e n a l e
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F O R E N S E
e controllo del proprietario, essendo sufficiente che l'agente si
comporti nei confronti della cosa medesima, sia pure in modo
oggettivamente e soggettivamente provvisorio, uti dominus,
realizzando finalità estranee agli interessi del proprietario
(sez. VI, n. 788 del 14 febbraio 2000, Mari, Rv. 217342).
Secondo il più recente, e prevalente, orientamento giuri‑
sprudenziale, la condotta in esame integra, invece, gli estremi
del peculato comune.
Osservano i Giudici dell’Alto Consesso, che l'uso del tele‑
fono si connoterebbe non nella fruizione dell'apparecchio
telefonico in quanto tale, ma nell'utilizzazione dell'utenza
telefonica, e l'oggetto della condotta appropriativa sarebbe
rappresentato (non già dall'apparecchio nella sua fisicità ma‑
teriale, bensì) dall'energia occorrente per le conversazioni, la
quale, essendo dotata di valore economico, ben può costitui‑
re l'oggetto materiale del delitto di peculato, in virtù della sua
equiparazione ope legis alla cosa mobile. Così individuata la
"cosa mobile altrui", vi sarebbe da parte dell'intraneus una
vera e definitiva appropriazione degli impulsi elettronici oc‑
correnti per la trasmissione della voce e non restituibili dopo
l'uso (di tal che l'eventuale rimborso delle somme corrispon‑
denti all'importo delle telefonate può valere solo come ristoro
del danno cagionato). In sostanza, il pubblico agente, attra‑
verso l'uso indebito dell'apparecchio telefonico, si approprie‑
rebbe delle energie, entrate a far parte della sfera di disponi‑
bilità della p.a., occorrenti per le conversazioni (sez. VI,
n. 10671 del 15 gennaio 2003, Santone, Rv. 223780; sez. VI,
n. 7772 del 15 gennaio 2003, Russo, Rv. 224270; sez. VI,
n. 7347 del 14 gennaio 2003, Di Niro, Rv. 223528; sez. VI,
n. 3883 del 14 novembre 2001, dep. 2002, Chirico, Rv.
221510; sez. VI, n. 9277 del 06 febbraio 2001, Menotti, Rv.
218435; sez. VI, n. 3879 del 23 ottobre 2000, Di Maggio, Rv.
217710). Si precisa peraltro che in tanto è configurabile il
peculato ordinario, in quanto possa riconoscersi un apprez‑
zabile valore economico agli impulsi utilizzati per ogni singo‑
la telefonata, ovvero anche per l'insieme di più telefonate,
quando queste siano così ravvicinate nel tempo da poter esse‑
re considerate come un'unica condotta (sez. VI, n. 25273 del
09 maggio 2006, Montana, Rv. 234838; v. anche, sul punto,
sez. VI, n. 256 del 20 dicembre 2010, dep. 2011, Di Maria,
Rv. 249201). Sul piano della applicazione concreta possono
segnalarsi casi di chiamate a linee telefoniche a contenuto
erotico dall'im‑ porto assai elevato (sez. VI, n. 21335 del 26
febbraio 2007, Maggiore e altro, Rv. 236627; sez. VI, n. 2963
del 04 ottobre 2004, dep. 2005, Aiello, Rv. 231032), ovvero
a Paesi esteri per scopi ludici (sez. VI, n. 21165 del 29 aprile
2009, G.A.), o comunque personali (sez. VI, n. 2525 del 04
novembre 2009, dep. 2010).
Ulteriore indirizzo interpretativo ha ricondotto talora
l'uso indebito del telefono alla fattispecie dell'abuso d'ufficio
(v. sez. VI, n. 20094 del 04 maggio 2011, Miscia, Rv. 250071),
relativa alla condotta di un ispettore della Polizia di Stato che
utilizzava l'apparecchio telefax in dotazione dell'ufficio, per
procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale al coniuge),
anche se in genere questa possibilità viene esclusa, in ragione
della impossibilità di configurare, in tale comportamento, una
"violazione di norme di legge o di regolamento", quale requi‑
sito essenziale per l'integrazione del delitto punito dall'art. 323
c.p., quale risultante della nuova formulazione della fattispe‑
cie introdotta dalla l. 16 luglio 1997, n. 234.
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
Per completezza i Giudici Ermellini richiamavano anche
un orientamento sporadicamente emerso nella giurisprudenza
di merito (Trib. Trento, 29 marzo 2000, Zanlucchi; Trib.
Sanremo, 19 ottobre 1995, X), secondo il quale l'uso privato
del telefono d'ufficio sia sempre penalmente irrilevante, non
potendosi equiparare il semplice "uso" alla "appropriazione".
A supporto della tesi, si rileva che l'uso del telefono da luogo
soltanto ad un addebito a carico della pubblica amministra‑
zione delle somme corrispondenti all'entità delle utilizzazioni
di volta in volta effettuate, con la conseguenza che parrebbe
inopportuno parlare di "appropriazione". L'oggetto materiale
della condotta, infatti, è rappresentato nella specie dal telefono
come strumento di utilizzazione dell'utenza telefonica d'uffi‑
cio, e, siccome tale apparecchio rimane sempre nella disponi‑
bilità della pubblica amministrazione di appartenenza, la
condotta di indebita utilizzazione da parte del pubblico fun‑
zionario dell'utenza telefonica intestata all'amministrazione
per l'effettua‑ zione di conversazioni personali non può inte‑
grare né gli estremi del peculato comune, né quelli del pecula‑
to d'uso. In altri termini, viene negata la stessa configurabilità
di una condotta di appropriazione, stante il mancato perfezio‑
namento "negativo" della stessa, consistente nell'esclusione
totale del proprietario dal rapporto con la cosa.
Per la corretta soluzione della questione di diritto, la Su‑
prema Corte ha ritenuto preliminarmente indispensabile
tracciare, un, sia pur rapido, profilo di alcuni tratti salienti
del delitto di peculato, nelle due forme previste dall'attuale
testo dell'art. 314 c.p..
Nella sua originaria formulazione, la condotta di pecula‑
to si articolava in due forme, l'appropriazione e la distrazione.
Con la riforma introdotta dalla legge 26 aprile 1990, n. 86,
si è:
a) formalmente soppressa l'ipotesi della distrazione a
profitto proprio o di altri;
b) abrogato il delitto (di cui all'art. 315 c.p.) di malversa‑
zione a danno di privati (rifluito nella modificata fattispecie
di peculato);
c) introdotto, al comma secondo dell'art. 314, l'ipotesi del
peculato d'uso.
La introduzione del peculato d'uso come figura autono‑
mamente disciplinata è stata in particolare spiegata con l'in‑
tento sia di superare le precedenti incertezze sulla rilevanza
penale delle condotte ad essa riconducibili, sia di colmare
possibili vuoti di tutela al riguardo.
La riforma del '90, pur se ha tendenzialmente accentuato
l'aspetto del disvalore in sè dell'abuso qualificato e interessa‑
to del possesso, rispetto alla protezione del patrimonio, non
ha sostanzialmente inciso sul carattere plurioffensivo del re‑
ato, quale tradizionalmente riconosciuto in dottrina e in
giurisprudenza, in relazione alla duplice tutela del buon an‑
damento dell'attività della pubblica amministrazione (sotto i
profili della legalità, efficienza, probità e imparzialità) e del
patrimonio della stessa o di terzi (v., fra le tante, sez., VI,
n. 8009 del 10 giugno 1993, n. 8009, Ferolla, Rv. 194921):
plurioffensività ritenuta peraltro, generalmente, alternativa,
con la conseguenza, in particolare, che l'eventuale mancanza
di danno patrimoniale non esclude la sussistenza del reato, in
presenza della lesione dell'altro interesse, protetto dalla nor‑
ma, del buon andamento della pubblica amministrazione (sez.
un., n. 38691 del 25 giugno 2009, Caruso, Rv. 244190;
2 0 1 3
87
sez. VI, n. 2963 del 04 ottobre 2004, Aiello, Rv. 231032;
sez. VI, n. 4328 del 02 marzo 1999, Abate, Rv. 213660).
Il costante orientamento della giurisprudenza, in confor‑
mità al tenore letterale del dato normativo di cui all'art. 314
c.p., interpreta la nozione del previo rapporto del pubblico
agente con la res in senso più ampio del possesso civilistico
(sez. VI, n. 396 del 06 giugno 1990, Di Salvo), ricomprenden‑
dovi, oltre alla detenzione materiale, anche la (mera) disponi‑
bilità giuridica della cosa (sez. VI, n. 6753 del 04 giugno 1997,
dep. 1998, Finocchi, Rv. 211008), intesa come concreta pos‑
sibilità del soggetto agente di inserirsi, con un atto dispositi‑
vo – derivante dalla sfera di competenza o comunque da
prassi e consuetudini invalse nell'ufficio, anche se in contrasto
con norme giuridiche o atti amministrativi – nelle operazioni
finalizzate alla concreta apprensione (si vedano al riguardo
sez. VI, n. 11633 del 22 gennaio 2007, Guida, Rv. 236146).
I Supremi Giudici segnalano come anche in dottrina si
aderisce ad una nozione di possesso in senso lato, sganciata
dalla visione civilistica di possesso ex art. 1140 c.c., ritenen‑
dosi che il possesso, e la disponibilità, sono poteri giuridici
che attribuiscono all'agente pubblico la possibilità di operare
sulla destinazione della cosa mobile, per distoglierla dal fine
tutelato dal diritto ed avviarla indebitamente verso una fina‑
lità propria del soggetto attivo.
Continuando nell’analisi del delitto di peculato, ricordano
che l’oggetto materiale del delitto di peculato è il denaro o
altra cosa mobile.
L'espressione "cosa mobile" denota ogni entità oggettiva
materiale, fungibile o infungibile, idonea ad essere trasporta‑
ta da un luogo all'altro.
Secondo la più recente giurisprudenza (sez. II, n. 20647
dell'11 maggio 2010, Corniani, Rv, 247271) in tema di reati
contro il patrimonio, per "cosa mobile" deve intendersi qual‑
siasi entità di cui sia possibile la fisica detenzione, sottrazione,
impossessamento od appropria‑ zione e che possa essere tra‑
sportata da un luogo ad un altro, compresa quella che, pur
non mobile originariamente, sia resa tale mediante l'avulsione
o l'enucleazione dal complesso immobiliare di cui faceva
parte.
Alla "cosa", inoltre, è parificata ex art. 624 c.p., comma 2,
"l'energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore
economico" Da tale ambito si ritengono però generalmente
escluse le energie umane, o muscolari, inscindibili dalla per‑
sona e insuscettibili, come tali, di autentica appropriazione.
Il requisito del valore economico – presunto per l'energia
elettrica, da dimostrarsi per le altre energie – definisce l'am‑
bito di applicabilità della disposizione, in cui rientrano solo
le energie che vengono captate dall'uomo, mediante l'appre‑
stamento di mezzi idonei, in modo tale da essere impiegate a
fini pratici, distribuite, scambiate, etc.: deve trattarsi, dunque,
di una forza della natura misurabile in denaro, per cui deve
esservi sia un soggetto che la controlla, sia un soggetto dispo‑
sto normalmente a versare un corrispettivo per averla in go‑
dimento.
Si ritiene in dottrina che l'equiparazione dell'energia alla
cosa mobile sussiste solo se l'energia possa venire posseduta
separata‑ mente dalla cosa da cui promana. Di conseguenza,
tutte le volte che il possesso dell'energia dipenda e sia insepa‑
rabile dal possesso della cosa da cui promana (es., possesso
di animali, macchinari), la configurabilità del reato deve es‑
penale
Gazzetta
88
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
sere giudicata in rapporto alla cosa, non in rapporto all'ener‑
gia; con la conseguenza che, in tali ipotesi, si applicheranno,
se del caso, i principi validi per il peculato d'uso.
Sia in dottrina che in giurisprudenza (sez. II, n. 20647
dell'11 maggio 2010, Comiani, Rv. 247270; sez. II, n. 36592
del 26 settembre 2007, Trementozzi, Rv. 237807) si esclude
che i beni immateriali – sia personali (vita, onore, prestigio,
etc.), che patrimoniali (opere dell'ingegno, invenzioni indu‑
striali, ditta, insegna, marchio, etc.) – possano costituire og‑
getto di peculato, perché non sono cose.
Tradizionalmente si esclude anche che possa costituire
oggetto di possesso e, quindi, di appropriazione, un diritto.
La condotta di "appropriazione" identifica il comporta‑
mento di chi fa propria una cosa altrui, mutandone il posses‑
so, con il compimento di atti incompatibili con il relativo ti‑
tolo e corrispondenti a quelli riferibili al proprietario. Essa si
articola in due momenti: il primo, negativo (c.d. "espropria‑
zione"), di indebita alterazione dell'originaria destinazione del
bene; il secondo, positivo (c.d. "impropriazione"), di strumen‑
talizzazione della res a vantaggio di soggetto diverso dal tito‑
lare del diritto preminente.
Con l'interversio possessionis, il soggetto inizia a trattare
il denaro o la cosa mobile come fossero suoi, compiendo su di
essi uno o più atti di disposizione – comportamenti materiali
o atti negoziali – che, incompatibili con il titolo del possesso,
rivelano una signoria che non gli compete e che egli indebita‑
mente si attribuisce.
Nell'esercizio effettivo di una o più facoltà spettanti solo
all'autentico dominus si realizza quella "conversione della
cosa a profitto proprio o altrui" che, tradizionalmente indi‑
cata come ricompresa nel concetto stesso di appropriazione,
non può non emergere anche là dove, come nell'art. 314 c.p.,
e diversamente da quanto avviene per il delitto di appropria‑
zione indebita (dove, previsto come "ingiusto", compare
quale finalizzazione del dolo specifico), il profitto proprio o
altrui non risulti testualmente menzionato dalla norma.
Secondo la giurisprudenza, la nozione di appropriazione
nell'ambito del delitto di peculato – realizzantesi con l'inver‑
sione del titolo del possesso da parte del pubblico agente, che
si comporta, oggettivamente e soggettivamente, uti dominus
nei confronti della res posseduta in ragione dell'ufficio, che
viene, correlativamente, estromessa in toto dal patrimonio
dell'avente diritto – è rimasta invariata anche dopo l'entrata
in vigore della L. n. 86 del 1990 (sez. VI, n. 8009 del 10 giu‑
gno1993, Ferolla, Rv. 194923).
L'espunzione della distrazione dal nuovo testo dell'art. 314
c.p., ha reso particolarmente delicato il problema dei rappor‑
ti tra le nozioni di "appropriazione" e "distrazione".
In giurisprudenza si ritiene che l'eliminazione della parola
"distrazione" dal testo dell'art. 314 c.p., operata dalla l. n. 86
del 1990, non ha determinato puramente e semplicemente il
transito di tutte le condotte distrattive poste in essere
dall'agente pubblico nell'area di rilevanza penale dell'abuso
d'ufficio. Qualora, infatti, mediante la distrazione del denaro
o della cosa mobile altrui, tali risorse vengano sottratte da
una destinazione pubblica ed indirizzate al soddisfacimento
di interessi privati, propri dello stesso agente o di terzi, viene
comunque integrato il delitto di peculato. La condotta distrat‑
tiva, invece, può rilevare come abuso d'ufficio nei casi in cui
la destinazione del bene, pur viziata per opera dell'agente,
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
mantenga la propria natura pubblica e non vada a favorire
interessi estranei alla p.a. (sez. VI, n. 17619 del 19 marzo
2007, Porpora; sez. VI, n. 40148 del 24 ottobre 2002, Gen‑
nari).
E' interessante notare che anche in relazione al delitto di
appropriazione indebita di cui all'art. 646 c.p., che non ha mai
incluso formalmente la condotta di distrazione, prevale l'opi‑
nione che ritiene tale condotta – intesa nel suo significato di
"deviare la cosa dalla sua destinazione o nel divergerla
dall'uso legittimo" – riconducibile sostanzialmente a quella
appropriativa (sez. un., n. 9863 del 28 febbraio 1989, Vita,
Rv. 181789; sez. un., n. 1 del 28 febbraio 1989, Cresti, Rv.
181792; sez. II, n. 5136 del 04 aprile 1997, Bussei, Rv. 208059;
sez. II, n. 2829 del 19 novembre 1991, Griffa, Rv. 189314;
sez. II, n. 5523 del 27 febbraio 1991, B.N.L., Rv. 187512).
Discorso analogo, per il delitto di cui all'art. 646 c.p., si
fa anche per l'uso indebito della cosa, ove esso si connoti per
l'eccedenza dai limiti del titolo in virtù del quale l'agente de‑
teneva in custodia la stessa, di modo che l'atto compiuto
comporti un impossessamento, sia pur temporaneo, del bene
(sez. II, n. 47665 del 27 novembre 2009, Cecchini, Rv. 245370;
sez. II, n. 5136 del 04 aprile 1997, Bussei, Rv. 208059; sez. III,
n. 3445 del 02 febbraio 1995, Carnovale, Rv. 203402; sez. II,
n. 2954 del 15 dicembre 1971, dep. 1972, Rv. 120966).
La nozione di appropriazione, nello stesso ambito del
delitto di cui all'art. 646 c.p. (il quale, com'è noto, ove aggra‑
vato ex art. 61 c.p., n. 9, si distingue dal peculato in ragione
del titolo del possesso: sez. VI, n. 34884 del 07 marzo 2007,
Rv. 237693; sez. VI, n. 377 del 08 novembre 1988, Rv.
180167), ha, dunque, finito per assumere, con il passare del
tempo, un significato sempre più ampio, comprensivo sia
dell'appropriazione in senso stretto (di cui le più tipiche forme
di manifestazione sono l'alienazione, la consumazione e la
ritenzione), sia della distrazione, sia dell'uso arbitrario dal
quale derivi al proprietario la perdita del denaro o della cosa
mobile.
Quanto in particolare al peculato d'uso, si osserva che
tale figura replica strutturalmente lo schema del furto d'uso,
mirando, da un lato, ad arginare arbitrarie dilatazioni inter‑
pretative del peculato comune e, dall'altro, a reprimere con‑
dotte che nel previgente sistema erano irrilevanti, con un
temperamento del trattamento sanzionatorio in relazione al
minor disvalore del fatto.
Secondo la giurisprudenza di legittimità e la dottrina
prevalente, il peculato d'uso previsto dal comma secondo
dell'art. 314, non costituisce un'attenuante del delitto di pe‑
culato, bensì una figura del tutto autonoma, per impianto
strutturale, rispetto al reato di peculato di cui al comma 1. I
due commi prevedono, pertanto, due diverse ipotesi di reato
(sez. VI, n. 6094 del 27 gennaio 1994, Liberatore, Rv. 199187;
sez. VI, n. 8156 del 29 aprile 1992, De Bortoli, Rv. 191407).
In effetti, la previsione contenuta nel secondo comma, con‑
notata dalla finalità dell'agente quale elemento specializzante,
delinea una condotta intrinsecamente diversa da quella del
primo comma, in quanto l'uso momentaneo, seguito dall'im‑
mediata restituzione della cosa, non integra un'autentica appro‑
priazione, realizzandosi, quest'ultima, solo con la definitiva
soppressione della destinazione originaria della cosa.
Per la giurisprudenza nettamente prevalente (contrastata
da parte della dottrina), l'ipotesi lieve di peculato prevista dal
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
capoverso dell'art. 314 c.p. non è configurabile rispetto al
denaro (sez. VI, n. 27528 del 21 maggio 2009, Severi, Rv.
244531; sez. VI, n. 3411 del 16 gennaio 2003, Ferrari, Rv.
224060; sez. VI, n. 8286 del 03 maggio 1996 Galdi, Rv.
205928) – bene fungibile per eccellenza, menzionato in modo
alternativo solo nell'art. 314, comma 1 ‑, nè, analogamente,
in relazione a cose di quantità, per le quali non sarebbe pos‑
sibile la restituzione della eadem res, ma solo del tantundem,
irrilevante ai fini dell'integrazione del reato de quo (sez. VI,
n. 8009 del 10 giugno 1993, Ferolla, Rv. 194925; sez. VI,
n. 12218 del 17 ottobre 1991, Bulgari, Rv. 189004; in senso
contrario, isolatamente, con riferimento a cose fungibili e,
quindi, anche al denaro, sez. VI, n. 4195 del 14 marzo 1995,
Greco, Rv. 201264).
La nozione di restituzione viene intesa in modo assai ri‑
goroso dalla giurisprudenza (sez. VI, n. 4195 del 14 marzo
1995, Greco, Rv. 201264), per la quale tra la cessazione
dell'uso momentaneo e la restituzione deve intercedere il
tempo minimo necessario e sufficiente, in concreto, per la
restituzione medesima; al riguardo non è possibile fissare un
rigido criterio cronologico, ma è necessario che le due attività
(ossia, l'uso e la restituzione) si pongano in un continuum
dell'operato dell'agente: occorre, cioè, che egli, dopo l'uso,
non compia altre attività che non siano quelle finalizzate alla
restituzione.
Resta fermo poi che l'intenzione di restituire la cosa im‑
mediatamente dopo l'uso momentaneo deve esser presente sin
dall'inizio: non si tratta, infatti, di un peculato proprio, che
successivamente si trasforma, per effetto dell'uso momentaneo
e della restituzione della cosa, in peculato d'uso, bensì, sin
dall'origine, di un fatto caratterizzato dal contenuto intenzio‑
nale del reo.
Si ritiene comunque che non integri alcun reato l'utilizzo
a scopo personale di beni appartenenti alla p.a., quando la
condotta non leda la funzionalità dell'ufficio nè causi un
danno patrimoniale apprezzabile (sez. VI, n. 5010 del 18
gennaio 2012, Borgia, Rv. 251786).
Ciò chiarito, secondo le sez.un. non può non rilevarsi,
giusta quanto già segnalato nell'analisi generale del peculato
(ma la sottolineatura è qui particolarmente doverosa), che il
raggiungimento della soglia della rilevanza penale presuppo‑
ne comunque l'offensività del fatto, che, nel caso del peculato
d'uso, si realizza con la produzione di un apprezzabile danno
al patrimonio della p.a., o di terzi ovvero (ricordando la plu‑
rioffensività alternativa del delitto di peculato) con una con‑
creta lesione della funzionalità dell'ufficio: eventualità
quest'ultima che potrà, ad esempio, assumere autonomo de‑
terminante rilievo nelle situazioni regolate da contratto c.d.
"tutto incluso". L'uso del telefono d'ufficio per fini personali,
economicamente e funzionalmente non significativo, deve
considerarsi, quindi (anche al di fuori dei casi d'urgenza,
espressamente previsti dal D.M. 28 novembre 2000, art. 10,
comma 3, o di eventuali specifiche e legittime autorizzazioni),
penalmente irrilevante.
Considerata, poi, la struttura del peculato d'uso (che im‑
plica l'immediata restituzione della cosa), la valutazione in
discorso non può che essere riferita alle singole condotte poste
in essere, salvo che le stesse, per l'unitario contesto spa‑
zio‑temporale, non vadano di fatto a costituire una condotta
inscindibile.
89
2 0 1 3
Sulla scorta dell’analisi della norma sinteticamente ripor‑
tata le Sezioni unite hanno enucleato il seguente principio di
diritto: «La condotta del pubblico agente che, utilizzando
illegittimamente per fini personali il telefono assegnatogli per
ragioni di ufficio, produce un apprezzabile danno al patri‑
monio della pubblica amministrazione o di terzi o una con‑
creta lesione alla funziona‑ lità dell'ufficio, è sussumibile nel
delitto di peculato d'uso di cui all'art. 314 c.p., comma 2».
CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza del
13 giugno 2013 (ud. 28 febbraio 2013), n. 25939
In tema di reato continuato, la violazione più grave va
individuata in astratto in base alla pena edittale prevista per
il reato ritenuto dal giudice in rapporto alle singole circostan‑
ze in cui la fattispecie si è manifestata e all'eventuale giudizio
di comparazione fra di esse
***
Le Sezioni unite sono state chiamate a risolvere la seguen‑
te questione «se, in tema di reato continuato, l'individuazio‑
ne della violazione più grave ai fini del computo della pena
debba essere effettuata in concreto oppure con riguardo alla
valutazione compiuta in astratto dal legislatore».
In termini strutturali il reato continuato rappresenta un
particolare figura di concorso materiale di reati, unificati dal
"medesimo disegno criminoso" che sta alla base della loro
commissione.
L'art. 81 c.p., comma 2, stabilisce per il reato continuato
il cumulo giuridico delle pene in deroga al regime del cumulo
materiale previsto per il concorso materiale di reati. Il sogget‑
to agente che, con più azioni esecutive di un medesimo disegno
criminoso, commette più violazioni soggiace al trattamento
sanzionatorio previsto per tale ipotesi di concorso di reati,
ossia alla pena prevista per la violazione più grave, aumenta‑
ta fino al triplo.
Secondo un'autorevole dottrina e la prevalente giurispru‑
denza, la ratio di questo più mite trattamento sanzionatorio
risiede proprio nella minore riprovevolezza complessiva
dell'agente – che cede ai motivi a delinquere una sola volta,
quando concepisce il disegno criminoso – e nella necessità di
mitigare l'effetto del cumulo delle pene, al quale viene sosti‑
tuito un cumulo giuridico.
Questa funzione dell'istituto – secondo i Giudici dell’Alto
Consesso – è stata resa ancor più evidente dalla novel‑
la dell'art. 81 c.p. ad opera del d.l. 11 aprile 1974, n. 99,
convertito dalla l. 7 giugno 1974, n. 220, che, nel consentire
l'applicazione della continuazione anche in presenza di viola‑
zioni di norme incriminatrici sanzionate con pene eterogenee,
si colloca in una linea di tendenza contraria all'automatismo
repressivo, propria del sistema del cumulo materiale, e favo‑
revole, invece, ad un'accentuazione del carattere personale
della responsabilità penale, con un'esaltazione del ruolo e del
senso di responsabilità del giudice nell'adeguamento della
pena alla personalità del reo (sez. un., n. 5690 del 07 febbra‑
io 1981, Viola, Rv. 149260‑66;cfr. anche Corte Cost. sent.
n. 254 del 1985; sent. n. 312 del 1988).
Tenuto conto dell'evoluzione normativa, dei ripetuti inter‑
venti della Corte Costituzionale (sentenze. nn. 115 del 1987,
361 del 1994, 324 del 2008), della complessa elaborazione
penale
Gazzetta
90
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
giurisprudenziale che ha avuto significativi approdi in deci‑
sioni delle Sezioni unite (sez. un., n. 3286 del 27 novembre
2008, dep. 23 gennaio 2009, Chiodi, Rv. 241755; sez. un.,
n. 1 del 26 febbraio 1997, Mammoliti, Rv. 207939‑40;
sez. un., n. 2780 del 24 gennaio 1996, Panigoni, Rv. 203965‑78;
sez. un., n. 14 del 30 giugno 1994, Ronga, Rv. 214535;
sez. un., n. 18 del 16 novembre 1989, dep. 15 gennaio 1990,
Fiorentini, Rv. 183004), è possibile ritenere ormai superata la
concezione unitaria del reato continuato in favore dell'auto‑
nomia giuridica delle singole violazioni che confluiscono nel
reato continuato, tranne che per gli effetti espressamente
previsti dalla legge.
I reati legati dal vincolo della continuazione devono, quin‑
di, considerarsi come una vera e propria pluralità di reati
autonomi e diversi in funzione del carattere più o meno favo‑
revole degli effetti che ne discendono. In tal modo è possibile
garantire, conformemente alla natura dell'istituto, quel trat‑
tamento privilegiato che è imposto dalla sua minore riprove‑
volezza complessiva. La concezione unitaria del reato conti‑
nuato opera, quindi, soltanto per gli effetti espressamente
presi in considerazione dalla legge, come quelli relativi alla
determinazione della pena, e sempre che garantisca un risul‑
tato favorevole al reo.
L'art. 81 cpv. c.p. stabilisce che al reato continuato si ap‑
plica la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più
grave aumentata sino al triplo, con il limite massimo stabilito
dalle norme che regolano il cumulo materiale (art. 72 e ss.
c.p.).
Ciò posto, occorre ricostruire i criteri di individuazione
della violazione più grave ex art. 81 cpv. c.p. In proposito si registrano orientamenti contrapposti sia in
dottrina che in giurisprudenza.
In giurisprudenza si confrontano due diversi orientamen‑
ti interpretativi.
Secondo un indirizzo maggioritario, occorre fare riferi‑
mento alla pena comminata in astratto, tenendo, però, con‑
to – a differenza di quanto sostiene la dottrina – non della
specie e dell'entità della pena, bensì del genere e dell'entità
della sanzione comminata, con le conseguenti ricadute: il
delitto è da considerare sempre più grave della contravvenzio‑
ne e ciò anche nel caso in cui quest'ultima sia punita con una
pena edittale di maggiore quantità rispetto a quella prevista
per il delitto; in presenza di una pluralità di delitti (o di con‑
travvenzioni) si deve considerare più grave il delitto (o la
contravvenzione) che ha il massimo edittale più elevato; in
presenza di un massimo edittale identico, occorre avere ri‑
guardo al delitto (o alla contravvenzione) con il minimo
edittale più elevato (sez. un., n. 15 del 26 novembre 1997,
dep. 03 febbraio 1998, Varnelli, Rv. 209487; sez. un., n. 748
del 12 ottobre 1993, dep. 25 gennaio 1994, Cassata, Rv.
195805; sez. un., n. 4901 del 27 marzo 1992, Cardarilli,
Rv.191128‑29; sez. V, n. 13573 del 20 gennaio 2012, Santoni,
Rv. 253299; sez. III, n. 11087 del 26 gennaio 2010, S., Rv.
246468; sez. VI, n. 34382 del 14 luglio 2010, Azizi Aslan, Rv.
248247; sez. V, n. 12473 dell' 1 febbraio 2010, Salviani, Rv.
246558; sez. 2, n. 47447 dei 06 novembre 2009, Sali, Rv.
246431; sez. IV, n. 6853 del 27 gennaio 2009, Maciocco, Rv.
242866; sez. 1, n. 26308 del 27 maggio 2004, Micale, Rv.
229007; sez. V, n. 1781 del 19 aprile 1999, Ciccinato, Rv.
213400).
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
Si è tuttavia precisato che, nella concreta quantificazione
della pena, il giudice non può irrogare una sanzione che risul‑
ti inferiore a quella minima stabilita per uno dei reati‑satelli‑
te rispetto ai quali venga ravvisata la continuazione (sez. un.,
n. 15 del 26 novembre 1997, Varnelli, cit.; v. anche Corte
Cost., ord. n. 11 del 1997). In tale contesto, si argomenta che
il riferimento al minimo edittale di maggiore gravità assume
una precisa valenza unicamente nei casi in cui il giudice riten‑
ga di dovere applicare la pena – individuata sulla base del
massimo edittale più elevato – nel minimo di legge o, comun‑
que, in misura inferiore al minimo edittale stabilito per l'altro
reato, mentre se il giudice ritiene di dovere applicare una pena
superiore, ben può assumere quale parametro di riferimento
il massimo edittale più elevato (sez. VI, n. 44336 del 05 otto‑
bre 2004, Mastrolorenzi, Rv. 230252; sez. VI, n. 18173 del
04 novembre 2002, dep. 16 aprile 2003, Broccolo, Rv.
225186; sez. V, n. 1749 del 19 aprile 1999, Schirra, Rv.
213211; sez. VI, n. 4087 del 19 febbraio 1997, Bassi,
Rv.207402).
Secondo un diverso orientamento, invece, l'individuazione
della violazione più grave ai fini del computo della pena deve
essere sempre effettuata in concreto e non già con riguardo
alla valutazione compiuta in astratto dal legislatore (sez. VI,
n. 25120 del 06 marzo 2012, Cicala, Rv. 252613; sez. V,
n. 12765 del 09 febbraio 2010, Scuderi, Rv. 246895; sez. III,
n. 19978 del 24 marzo 2009, Angioni, Rv. 243723; sez. 1,
n. 4322 del 13 gennaio 1996, dep. 10 maggio 1997, Murgio‑
ni, Rv. 207433).
Le decisioni riconducibili a questo indirizzo, valorizzando
il tenore letterale dell'art. 187 disp. att. cod. proc. pen. e una
risalente pronunzia delle Sezioni unite (sez. un., n. 9559 del
19 giugno 1982, Alunni, Rv. 155673), affermano che, ai fini
della determinazione della pena‑base, la violazione più grave
deve essere individuata con riferimento alla pena da infligge‑
re in concreto per ciascuno dei reati, dopo la valutazione di
ogni singola circostanza e l'eventuale giudizio di comparazio‑
ne di cui all'art. 69 c.p., secondo i criteri indicati nell'art. 133
c.p., senza alcun riguardo al titolo ed alle relative pene edit‑
tali. Rilevano poi che, in ogni caso, l'individuazione del reato
ritenuto in concreto più grave incontra un limite invalicabile
nel fatto che la pena prescelta non può mai essere inferiore a
quella che sarebbe stata irrogabile per un reato concorrente,
sanzionato con pena edittale maggiore nel minimo.
Successive pronunzie delle Sezioni unite, nell'approfondi‑
re ulteriormente la problematica, hanno argomentato che, ai
fini dell'individuazione della violazione più grave da assume‑
re come base per il calcolo delle pene, occorre riferirsi alle
valutazioni astratte compiute dal legislatore, ossia si deve
avere riguardo alla pena prevista dalla legge per ciascun rea‑
to, sicché la violazione più grave va individuata in quella
punita dalla legge più severamente (sez. un., n. 15 del 26 no‑
vembre 1997, Varnelli, cit.; sez. un., n. 748 del 12 ottobre
1993, Cassata, cit.; sez. un., n. 4901 del 27 marzo 1992,
Cardarilli, cit.). Sulla pena in concreto inflitta per tale illecito
deve essere, poi, applicato l'aumento di pena per la continua‑
zione, contenuta nel limite massimo del triplo.
Il Supremo Collegio ha ritenuto di confermare quest'ulti‑
mo orientamento esegetico in favore del quale militano pluri‑
me considerazioni di tipo letterale e logico‑sistematico.
In una prospettiva costituzionale l'approdo ermeneutico
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
in base al quale, ai fini della individuazione della violazione
più grave nell'ambito del reato continuato, deve aversi riguar‑
do all'astratta previsione normativa si giustifica alla luce dei
principi enunciati dall'art. 101 Cost., comma 2 e art. 3
Cost. La nozione di "violazione più grave" in astratto assume
come parametro di riferimento le valutazioni compiute dal
legislatore in relazione al tipo di condotta trasgressiva. Qua‑
lora si attribuisse rilievo alla decisione adottata in concreto
dal giudice in relazione alla singola fattispecie sottoposta al
suo esame, si invaderebbe uno spazio riservato alla competen‑
za esclusiva del legislatore, al quale soltanto spetta stabilire
se una condotta contraria alla legge debba essere qualificata
più o meno grave di un'altra e configurare come delitto anzi‑
ché come contravvenzione una determinata condotta contra
ius.
Inoltre la determinazione giudiziale caso per caso della
violazione più grave in concreto potrebbe essere foriera delle
soluzioni più disparate con conseguente possibile lesione
dell'affidamento in una parità di trattamento di situazioni
analoghe.
Sul piano dell'interpretazione letterale, deve essere attri‑
buita una particolare valenza all'espressione "violazione",
contenuta nell’art 81 c.p.: essa evoca la condotta illecita de‑
scritta dalla norma incriminatrice che, in un'ottica sanziona‑
toria, è assistita da un minimo e da un massimo edittale e si
connota concettualmente in maniera distinta ed autonoma
rispetto alla nozione di "pena".
Da un punto di vista logico‑sistematico, tale lettura è
quella maggiormente coerente con le scelte effettuate dal le‑
gislatore in ambito processuale; si richiamano, a tale riguardo,
le disposizioni in tema di competenza per materia (art. 4
c.p.p.), competenza per connessione (art. 16 c.p.p., comma 1),
nonché in materia di applicazione di misure cautelari perso‑
nali (sez. un., n. 15 del 26 novembre 1997, Varnelli, cit.;
sez. un., n. 4901 del 27 marzo 1992, Cardarmi, cit.; sez. VI,
n. 34382 del 14 luglio 2010, Azizi Aslan Detto, Rv. 248247;
sez. V, n. 12473 dell'11 febbraio 2010, Salviani, Rv. 246558;
sez. III, n. 11087 del 26 gennaio 2010, S., Rv. 246468; sez. II,
n. 47447 del 06 novembre 2009, Sali, Rv. 246431; sez. IV,
n. 6853 del 27 gennaio 2009, Maciocco, Rv. 242866; sez. 1,
n. 44860 del 05 novembre 2008, Ficara, Rv.242198; sez. 1,
n. 26308 del 27 maggio 2004, Micale, Rv. 229007).
Il criterio della gravità "in concreto", consacrato
dall'art. 187 disp. att. cod. proc. pen., non può essere valoriz‑
zato a sostegno di una diversa interpretazione, atteso il carat‑
tere derogatorio della disposizione rispetto a quanto stabili‑
to dall'art. 81 cod. pen., desumibile dalla stessa dizione della
norma che usa l'espressione "si considera violazione più grave".
Il legislatore ha utilizzato l'espressione "violazione più grave"
e non "pena più grave", come avrebbe fatto se avesse voluto
attribuire alla pena da infliggere in concreto – tenuto conto dei
criteri di cui all'art. 133 c.p. – l'efficacia determinatrice della
più grave violazione. L'art. 187 disp. att. cod. proc. pen. è,
pertanto, espressamente e logicamente limitato alla fase
dell'esecuzione, in cui si può solo prendere atto della valuta‑
zione effettuata dal giudice della cognizione, sicché, per esa‑
minare sentenze o decreti irrevocabili ai fini del concorso
formale o della continuazione, ci si deve necessariamente rife‑
rire alle pene più gravi che siano state concretamente inflitte.
Sotto il profilo dell'evoluzione storica dell'istituto, infine,
2 0 1 3
91
il concetto di violazione più grave da cui prendere le mosse
quanto al calcolo della pena non è stato in alcun modo inte‑
ressato dalla novella del 1974 e, in assenza di un espresso
mutamento legislativo, non è consentito all'interprete, traendo
spunto da una modifica riguardante altri profili, prospettare
una diversa disciplina che non trova alcun fondamento nel
dato testuale dell'art. 81 c.p..
Per tutte queste ragioni non appare condivisibile l'opposto
indirizzo esegetico che afferma la necessità di una valutazio‑
ne in concreto della violazione più grave unicamente sulla
base di un'interpretazione logico‑sistematica dell'art. 187
disp. att. cod. proc. pen. (sez. V, n. 12765 del 09 febbraio
2010, Scuderi, cit.; sez. III, n. 19978 del 24 marzo 2009,
Angioni, cit.) e di un iter argomentativo avulso dal complesso
delle specifiche considerazioni sviluppate nel tempo da pluri‑
me decisioni delle Sezioni unite (sez. un., n. 15 del 26 novem‑
bre 1997, Varnelli, cit.; sez. un., n. 748 del 12 ottobre 1993,
Cassata, cit.; sez. un., n. 4901 del 27 marzo1992, Cardarilli,
cit.) e non corredato da ulteriori rilievi critici e da prospettive
esegetiche atti a suggerire un ripensamento dell'intera proble‑
matica.
Una volta individuata la "violazione più grave" nel senso
sopra chiarito, i reati meno gravi perdono la loro autonomia
sanzionatoria e il relativo trattamento sanzionatorio conflui‑
sce nella pena unica irrogata per tutti i reati concorrenti.
Costituisce, infatti, una pena legale non solo quella stabilita
dalle singole fattispecie incriminatrici, ma anche quella risul‑
tante dalle varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzio‑
natorio, quali sono, appunto, tra le altre, quelle concernenti
il reato continuato (sez. un., n. 4901 del 26 novembre 1997,
Varnelli, cit.; sez. un., n. 748 del 12 ottobre 1993, Cassata,
cit.; sez. un., n. 4901 del 27 marzo 1992, Cardarilli, cit.;
sez. un., n. 5690 del 07 febbraio 1981, Viola, Rv.
149259‑149263). Tale lettura appare coerente con i principi
enunciati dalla Corte Costituzionale che, avallando l'orienta‑
mento espresso dalla giurisprudenza di legittimità (sez. un.,
n. 5656 del 26 maggio 1984, Rabassi, Rv. 164862), ha affer‑
mato che pena legale non è solo quella prevista dalla singola
norma incriminatrice, ma quella che risulta dall'applicazione
delle varie disposizioni che incidono sul trattamento sanzio‑
natorio e che, quindi, la pena unica progressiva, applicata
come cumulo giuridico ex art. 81 c.p., è anch'essa pena lega‑
le, perché prevista dalla legge (Corte Cost., sent. n. 312 del
1988).
Anche se essa deve essere il risultato di una operazione
unitaria, occorre tuttavia che sia individuabile la pena stabi‑
lita dal giudice in aumento per ciascun reato‑satellite
(sez. un., n. 7930 del 21 aprile 1995, Zouine, Rv. 201549), e
ciò sia per la verifica dell'osservanza del limite di cui all'art. 81
c.p., comma 3 sia perché a taluni effetti il cumulo giuridico
si scioglie: basti pensare alla prescrizione che va considerata
distintamente per ciascun reato (sez. un., n. 2780 del 24
gennaio 1996, Panigoni, cit.; sez. un., n. 10928 del 10 ottobre
1981, Cassinari, Rv. 151241‑151242); all'indulto, in cui oc‑
corre applicare il beneficio a quei reati che in esso rientrano
(sez. un., n. 18 del 16 novembre 1989, dep. 15 gennaio 1990,
Fiorentini, Rv. 183004); all'estinzione di misure cautelari
personali, quando la suddivisione della pena irrogata per i
reati‑satellite rilevi per il calcolo della durata massima della
custodia cautelare o per l'accertamento dell'avvenuta espia‑
penale
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zione di pena (sez. un., n. 1 del 26 febbraio 1997, Mammo‑
liti, Rv. 207939‑40); alla sostituzione delle pene detentive
brevi (l. n. 689 del 1981, art. 53, u.c.) in cui la pena del rea‑
to continuato si scompone per determinare la porzione di
pena suscettibile di sostituzione per quei reati che la ammet‑
tono.
L'applicabilità della continuazione anche tra norme incrimi‑
natrici eterogenee comporta che il cumulo giuridico possa av‑
venire tra pene diverse sia nel genere (detentive o pecuniarie) che
nella specie (reclusione o arresto ovvero multa o ammenda).
La giurisprudenza di legittimità, dopo un iniziale atteg‑
giamento di chiusura (sez. un., n. 12189 del 23 ottobre 1976,
Abbate, Rv. 134811; sez. un., n. 12190 del 23 ottobre 1976,
Desideri, cit.), ha successivamente inverato il precetto norma‑
tivo riconoscendo la possibilità della continuazione fra reati,
di cui uno punito con pena pecuniaria e detentiva congiunte
e l'altro con pena unica, sempreché le pene congiunte siano
previste per il reato più grave (sez. un., n. 14890 del 22 otto‑
bre 1977, Zavatti, cit.). Ha, poi, esteso tale principio al caso
inverso, stabilendo che al reato più grave va aggiunta la pena
pecuniaria prevista per il reato satellite (sez. un., n. 6219 del
30 aprile 1983, Piccione, Rv. 159726; sez. un., n. 6220 del 30
aprile 1983, Anaclerio, cit.).
E', così, progressivamente emersa la consapevolezza che,
in caso di concorso di pene eterogenee, una volta ritenuta la
continuazione tra più reati, il trattamento sanzionatolo origi‑
nariamente previsto per i reati‑satellite perde la sua specifici‑
tà, proprio per la ragione che, individuata la violazione più
grave, essi vanno a comporre una sostanziale unità, discipli‑
nata e sanzionata diversamente mediante le regole dettate
all'uopo dal legislatore. L'avere il legislatore espressamente
disciplinato questa possibilità con conseguente previsione
sanzionatoria, consente di affermare che non vi è violazione
del principio di legalità, dovendosi ogni norma incriminatrice
leggere, per quanto riguarda l'aspetto punitivo, come se essa
contenesse un'eccezione derogativa della sanzione per il caso
che la violazione contemplata vada a comporre un reato con‑
tinuato.
Qualora l'aumento della sanzione del reato principale
venisse calcolato sulla base della pena qualitativa edittalmen‑
te prevista per il reato o i reati satellite, si violerebbe il preci‑
so disposto normativo che prevede un aumento della pena
base determinato per la più grave delle violazioni, quella pena
cioè prevista per il reato più grave e non mediante aumenti
derivati da pene di specie diversa.
13. Sulla base delle considerazioni sinora svolte, è indub‑
bio che, in tema di determinazione della pena ai sen‑
si dell'art. 81 c.p., deve aversi riguardo alla violazione consi‑
derata più grave in astratto e non in concreto (sez. un., n. 15
del 26 novembre 1997, Varnelli, cit.; sez. un., n. 748 del 12
ottobre 1993, Cassata, cit.; sez. un., n. 4901 del 27 marzo
1992, Cardarilli, cit.), sicché, allorché occorra individuare il
reato più grave, deve farsi riferimento alla pena edittale, ov‑
vero alla gravità "astratta" dei reati per i quali è intervenuta
condanna, dandosi rilievo esclusivo alla pena prevista dalla
legge per ciascun reato, senza che possano venire in rilievo
anche gli indici di determinazione della pena di cui all'art. 133
c.p.. che possono contribuire alla determinazione di quella da
infliggere in concreto (cfr. sez. un., n. 4901 del 27 marzo
1992, Cardarilli, cit. che, per prima, ha rivisto l'orientamen‑
Gazzetta
p e n a l e
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to espresso da sez. un., n. 9559 del 19 giugno 1982, Alunni,
che proprio a tali indici aveva fatto riferimento).
Ciò posto, però, occorre considerare che la nozione di "vio‑
lazione più grave" ha una valenza "complessa", che muovendo
dalla sanzione edittale comminata in astratto per una determi‑
nata fattispecie criminosa, implica la valutazione delle sue
concrete modalità di manifestazione. Nel sistema del codice
penale, infatti, per sanzione edittale deve intendersi la pena
prevista in astratto con riferimento al reato contestato e ritenu‑
to (in concreto) in sentenza, tenendo conto, cioè, delle singole
circostanze in cui la fattispecie si è manifestata, salvo che spe‑
cifiche e tassative disposizioni escludano, a determinati effetti,
la rilevanza delle circostanze o di talune di esse. Di conseguen‑
za, una volta che sia stata riconosciuta la sussistenza delle cir‑
costanze attenuanti e che sia stato effettuato il doveroso giudi‑
zio di bilanciamento delle stesse rispetto alle aggravanti, l'indi‑
viduazione in astratto della pena edittale non può prescindere
dal risultato finale di tale giudizio, dovendosi calcolare nel
minimo l'effetto di riduzione per le attenuanti e nel massimo
l'aumento per le circostanze aggravanti (sez. un., n. 3286 del
27 novembre 2008, Chiodi, cit; sez. 1, n. 24838 del 15 giugno
2010, Di Benedetto, Rv. 248047; sez. 1, n. 9828 del 05 febbra‑
io 2009, Russo, Rv.243426; sez. IV, n. 47144 del 09 ottobre
2007, Ferrentino, Rv. 238352; cfr. sez. VI, n. 1318 del 12 di‑
cembre 2002, dep. 14 gennaio 2003, Bombasaro, Rv.223343;
sez. II, n. 3307 del 20 gennaio 1992, Sorvillo, Rv. 189675;
sez. 1, n. 8238 del 08 aprile 193, Bombaci, Rv. 160649).
Sulla scorta delle considerazioni innanzi sviluppate i Su‑
premi Giudici hanno conclusivamente affermato, ai sen‑
si dell'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 3, il seguente principio
di diritto: «In tema di reato continuato, la violazione più
grave va individuata in astratto in base alla pena edittale
prevista per il reato ritenuto dal giudice in rapporto alle
singole circostanze in cui la fattispecie si è manifestata e
all'eventuale giudizio di comparazione fra di esse».
CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza del
28 giugno 2013 n. 28243
Le c i rcosta n ze at tenua nt i e delit to tentato:
la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenu‑
ità si applica al delitto tentato.
***
«Nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante
comune del danno di speciale tenuità, di cui al n. 4 dell'art. 62
cod. pen., può applicarsi anche al delitto tentato, sempre che
la sussistenza della attenuante in questione sia desumibile con
certezza dalle modalità del fatto, in base a un preciso giudizio
ipotetico che, stimando il danno patrimoniale che sarebbe
stato causato alla persona offesa, se il delitto di furto fosse
stato portato a compimento, si concluda nel senso che il dan‑
no cagionato sia di rilevanza minima»
Alle Sezioni unite della Suprema Corte è stata devoluta la
controversa questione di diritto riassumibile nei seguenti
termini: «se, nei reati contro il patrimonio, la circostanza
attenuante comune del danno di speciale tenuità possa, o
meno, applicarsi anche al delitto tentato»
Sul punto, secondo un primo orientamento si riconosce la
compatibilità della attenuante di cui all'art. 62, comma pri‑
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m a g g i o • g i u g n o
mo, n. 4, cod. pen. con i delitti tentati contro il patrimonio,
in genere, e con il delitto di furto tentato, in particolare.
Un secondo orientamento, di minor consistenza numeri‑
ca – giunge alla opposta conclusione. Si sostiene infatti, da
parte della "corrente minoritaria" che, non essendo il danno
elemento costitutivo del delitto di furto, l'attenuante in que‑
stione non può trovare applicazione in tema di furto tentato,
atteso che, nel tentativo, per definizione e per presupposto, il
danno non è presente (tra le più recenti: sez. V, n. 11923 del
27 gennaio 2010, Luongo, Rv. 2465S6, relativa al tentato
furto di una serranda; sez. V, n. 11142 del 06 ottobre 2005,
dep. 2006, Buonarota, Rv. 233885, relativa al tentato furto
di un ciclomotore). Poiché, in sintesi, si sostiene, l'attenuante
in questione presuppone Indefettibilmente la consumazione
del reato e l'esistenza di un danno (effettivo e non ipotetico),
che appunto della sottrazione della cosa è conseguenza, essa
può essere invocata solo in presenza di furto consumato
(sez. IV, n. 14204 del 09 luglio 1990, Venuti, Rv. 185566).
I Giudici dell’Alto consesso dopo aver analiticamente ri‑
assunto lo sviluppo e le "linee di tendenza" della giurispru‑
denza di legittimità dall'entrata in vigore del codice Rocco ad
oggi, riconoscono che un'accorta riflessione sulla problema‑
tica che ha determinato l'assegnazione del ricorso alle Sezioni
unite non può non prendere le mosse da considerazioni che,
avendo riguardo alla struttura stessa del delitto tentato, ap‑
profondiscono, innanzitutto, il tema della ipotizzabilità di un
delitto tentato circostanziato.
Sul punto i Giudici Ermellini ricordano che proprio in
dottrina, d'altra parte, si è distinto il delitto circostanziato
tentato (ovvero il tentativo di delitto circostanziato), dal de‑
litto tentato circostanziato (ovvero il tentativo circostanziato
di delitto).
Il primo (delitto circostanziato tentato) è il tentativo di un
delitto che, se fosse giunto a consumazione, sarebbe apparso
qualificato da una o più circostanze. Il secondo (delitto ten‑
tato circostanziato) si realizza quando, nella fase esecutiva del
tentativo, risultino integrate circostanze attenuanti o aggra‑
vanti, anche se il delitto avuto di mira non giunge a consuma‑
zione. Dunque: nel primo caso, la circostanza non si è, di
fatto, è realizzata, ma, per così dire, è rimasta assorbita nel
tentativo (es. art. 61, comma primo, n. 7, e, appunto, art. 62,
comma primo, n. 4, c.p.); nel secondo gli elementi costitutivi
della circostanza si sono effettivamente realizzati (es. art. 61,
comma primo, n. 6, art. 62, comma primo, n. 2, c.p.). Ebbe‑
ne riesce difficile, per non dire impossibile, sostengono le sez.
un. che, nella seconda ipotesi (delitto tentato circostanziato),
la circostanza – aggravante o attenuante – non sia applicabile,
dal momento che essa, indubitabilmente, sussiste in rerum
natura.
9.2. Il problema, evidentemente, rimane, allora, circoscrit‑
to alla prima ipotesi: quella in cui la circostanza, pur ineren‑
te alla condotta dell'agente, non è stata posta in essere, in
quanto detta condotta si è arrestata prima che la circostanza
potesse essere realizzata. Il che accade sempre quando "il
venire al mondo" della circostanza coincide con la consuma‑
zione del delitto. Trattasi, ad evidenza, del caso in esame, in
quanto, come è ovvio, il danno patrimoniale (di speciale te‑
nuità) postula la consumazione del furto: evidentemente, se
la res non viene sottratta, il soggetto passivo non subisce alcun
danno patrimoniale diretto. Il che però è insito nel concetto
2 0 1 3
93
stesso di delitto tentato, in quanto reato senza evento (in
senso naturalistico). Da questo punto di vista, dunque, il de‑
litto tentato può essere assimilato – come pure è stato fat‑
to – ai reati di pura condotta o anche a quelli a consumazione
anticipata, reati per i quali, come è noto, il legislatore ha
previsto la punibilità prima del (o a prescindere dal) verificar‑
si dell'evento. Invero, sia nel delitto tentato che in quello a
consumazione anticipata è richiesta tanto la idoneità dell'atto,
quanto un principio di esecuzione, dal quale si possa desume‑
re la unidirezionalità della condotta (cfr. sez. 1, n. 11344 del
10 maggio 1993, Algranati, Rv. 195753; sez. 1, n. 11394 del
11 febbraio 1991, Abel, Rv. 188642). D'altra parte, nei reati
di pura condotta, come è noto, la consumazione coincide con
il compimento di quell'azione (ovvero di quell'omissione)
descritta nella norma incriminatrice.
Per quel che si è detto prima, tuttavia, proseguono i Giu‑
dici, deve trattarsi di circostanze riconoscibili in base a quel
frammento di condotta che il soggetto ha effettivamente posto
in essere. E la riconoscibilità, va da sé, costituisce il riflesso
nella mente dell'interprete della inequivocità dell'azione. In‑
vero, da un punto di vista logico, il giudizio sulla inequivoci‑
tà degli atti (e dunque sulla direzione dell'azione) sembra
precedere quello sulla loro idoneità, in quanto solo un atto
riconoscibilmente diretto a uno scopo può essere valutato
sotto il profilo della sua (potenziale) efficacia. Vero è, tuttavia,
che solo un atto (sia pure astrattamente) idoneo si presta a un
giudizio di tipo teleologia), essendo la potenziale efficacia
dello stesso un presupposto per individuarne la finalità. Di
talché idoneità e univocità si pongono come due connotazio‑
ni dell'agire volontario che, congiuntamente apprezzate,
rendono – ad un tempo ‑riconoscibile (dai terzi) e raggiungi‑
bile (potenzialmente) lo scopo perseguito dall'agente.
Ma l'azione diretta a uno scopo – questo è il punto – ben
può inglobare quella che l'ordinamento considera una circo‑
stanza del reato, in quanto caratterizzante, come si è premes‑
so, le modalità della condotta, ovvero in quanto inerente
all'oggetto della attività criminosa.
Il problema, allora, si risolve, da un lato, nel vagliare la
compatibilità logica e giuridica della circostanza (di quella
circostanza) con il tentativo di delitto, dall'altro, in una mera
questione di prova, vale a dire nella valutazione della compa‑
tibilità in concreto, cioè nel verificare la ravvisabilità, nell'am‑
bito del singolo episodio criminoso e sulla base delle evidenze
raccolte, della circostanza in questione. In tal senso, non a
caso, si è espressa quella giurisprudenza che ha esaminato
funditus il problema (cfr. sez. V, n. 16313 del 24 gennaio
2006, Cartillone, Rv. 234424; sez. IV, n. 4098 del 17 genna‑
io 1989, Lamusta, Rv. 180846).
9.6. La soluzione, dunque, non può essere ricercata in linea
meramente astratta e non può essere univoca; in realtà essa
dipende, da un lato, dalla tipologia della particolare aggra‑
vante in questione, dall'altro, dallo sviluppo dell'azione posta
In essere dall'agente. E invero, In determinati casi, è indub‑
biamente necessaria la realizzazione dell'evento che costituisce
oggetto di quella determinata circostanza, ovvero occorre il
perfezionamento dei relativi presupposti costitutivi nel fram‑
mento di condotta posta in essere dal soggetto agente; in altri
casi non è necessario che ciò si verifichi.
A ben vedere, il tentativo stesso è configurabile, come è
pacifico, in base alla "combinazione" di due norme: la norma
penale
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incriminatrice speciale e la norma estensiva di cui all'art. 56
c.p. Trattasi di una metodica tipica del codice penale e che si
applica, ad esempio, in ipotesi di concorso di persone nel re‑
ato (norma incriminatrice speciale e norma estensiva
dell'art. 110), nonché, ovviamente, in tema di reato caratte‑
rizzato da circostanze comuni (norma incriminatrice speciale,
cui ineriscono le circostanze di cui agli artt. 61 e 62 c.p.). Non
vi è dunque ragione di non ammettere, in linea generale e
salva, come si è detto, la verifica di compatibilità logico‑giu‑
ridica, un doppio "meccanismo combinatone)", che veda
agire sulla norma incriminatrice tanto l'art. 56, quanto gli
artt. 61 e/o 62 c.p.).
Superate le obbiezioni degli orientami contrari, evidenzia‑
no le sez.un. come sia necessario che l'Interprete verifichi la
compatibilità della circostanza con la condotta concretamen‑
te posta in essere dall'agente, allo scopo di desumere se, sulla
base della predetta condotta (della sua idoneità e della sua
inequivocità, come manifestatesi nei fatti), la predetta circo‑
stanza sia riscontrabile.
Si tratta certamente di una valutazione ipotetica, ma, non
per questo, di una valutazione inibita al giudice, atteso che,
ad esempio, del tutto ipotetico è il così detto giudizio contro‑
fattuale, cui lo stesso è chiamato in tema di reato omissivo
(cfr.: sez. un., n. 30328 del 10 luglio 2002, Franzese, Rv
222138) e ipotetico, in ultima analisi, è il giudizio in tema
proprio di delitto tentato (o dei delitti a consumazione antici‑
pata), posto che al giudicante è richiesto di valutare, non la
condotta – in sé – tenuta dall'agente, ma tale condotta in re‑
lazione all'obiettivo che l'agente si proponeva di raggiungere,
di valutare detta condotta, vale a dire, "come se" l'evento
voluto si fosse, in realtà, realizzato.
Le conclusioni sull’ammissibilità nel delitto tentato del
riconoscimento delle circostanze ricevono conferma testuale,
dalle modifiche (recenti e meno recenti) introdotte dal legisla‑
tore nel codice penale di rito e in quello sostanziale.
p e n a l e
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F O R E N S E
Invero, l'art. 380 c.p.p. (arresto obbligatorio in flagranza),
come è noto, fa obbligo agli ufficiali e agli agenti di polizia
giudiziaria di procedere all'arresto di chiunque sia colto in
flagranza di una serie di delitti non colposi – consumati o
tentati – individuati in base alle pene edittali, ovvero specifi‑
camente elencati. Ebbene, detto articolo ha subito modifica,
ad opera della legge 15 luglio 2009, n. 94, nel suo comma 2,
che, attualmente, recita: “anche fuori dei casi previsti dal
comma 1, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria proce‑
dono all'arresto di chiunque è colto in flagranza di uno dei
seguenti delitti non colposi, consumati o tentati: […] e) delit‑
to di furto, quando ricorre la circostanza aggravante prevista
dall'art. 4 della legge 8 agosto 1977, n. 533, o quella prevista
dall'articolo 625, primo comma, numero 2, prima ipotesi, del
codice penale, salvo che, in quest'ultimo caso, ricorra la cir‑
costanza attenuante di cui all'art. 62, primo comma, n. 4, del
codice penale; e‑bis) delitti di furto previsti dall'art. 624 bis
del codice penale, salvo che ricorra la circostanza attenuante
di cui all'art. 62, primo comma, n. 4, del codice penale”.
Ne consegue che, dalla lettura coordinata dei vari commi,
si deduce necessariamente che le circostanze – aggravanti o
attenuanti – debbano essere valutate (quantomeno ai fini
dell'arresto in flagranza), sia con riferimento ai delitti consu‑
mati, sia ai delitti tentati.
Per tutte le ragioni sopra esposte, le sez. un. nel risolvere
la questione giuridica statuiscono il seguente principio di di‑
ritto «nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuan‑
te comune del danno di speciale tenuità, di cui al n. 4
dell'art. 62 c.p., può applicarsi anche al delitto tentato, sem‑
pre che la sussistenza della attenuante in questione sia desu‑
mibile con certezza dalle modalità del fatto, in base a un
preciso giudizio ipotetico che, stimando il danno patrimonia‑
le che sarebbe stato causato alla persona offesa, se il delitto
di furto fosse stato portato a compimento, si concluda nel
senso che il danno cagionato sia di rilevanza minima».
F O R E N S E
●
Rassegna
di legittimità
●
A cura di Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
e Andrea Alberico
Assegnista di Ricerca in Diritto Penale
Avvocato
m a g g i o • g i u g n o
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Circolazione stradale (Nuovo Codice) – Norme di comportamen‑
to – Circolazione – Guida in stato di ebbrezza – Da alcool – Pena
detentiva e pecuniaria – Sostituzione con il lavoro di pubblica
utilità – Applicabilità ai fatti commessi prima dell'entrata in vigo‑
re della legge n. 120 del 2010 – Condizioni
In tema di reato di guida sotto l'influenza dell'alcool, la
sostituzione della pena detentiva o pecuniaria – irrogata per
il predetto reato – con quella del lavoro di pubblica utilità di
cui all'art. 186, comma nono bis, C .d.S., – introdotto
dall'art. 33, comma primo, lett. a), punto 1 legge n. 120 del
2010 – è applicabile, in virtù dell'art. 2, comma quarto, cod.
pen., anche ai fatti commessi anteriormente alla predetta
novella, a condizione, però, che non sia passata in giudicato
la sentenza di condanna.
Cass., sez. I, sentenza 10 aprile 2013, n. 20025
(dep. 09 maggio 2013) Rv. 255056
Pres. Chieffi, Est. Caprioglio, Imp. Dal Santo,P.M. D'Angelo (Diff.)
(Rigetta, Gip Trib. Bassano Del Grappa, 03 luglio 2012).
Finanze e tributi – In genere – Condotte elusive – Rilevanza pena‑
le – Possibilità – Condizioni – Fattispecie
Il reato di dichiarazione infedele dei redditi può essere
integrato anche dai comportamenti elusivi posti in essere dal
contribuente per trarre indebiti vantaggi dall'utilizzo in modo
distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio
fiscale in mancanza di ragioni economicamente apprezzabili
che possano giustificare l'operazione. (Fattispecie relativa
alla cessione dei diritti di utilizzazione economica dell'imma‑
gine di un attore ad una società appositamente costituita,
nella quale le quote erano ripartite dall'indagato con la sorel‑
la, il ruolo di procuratrice era svolto dalla moglie e le funzio‑
ni di amministratore unico erano esercitate da un'altra sorel‑
la, con il fine di ottenere la riduzione della base imponibile
mediante trasformazione dei guadagni costituenti poste atti‑
ve in costi deducibili come poste passive).
Cass., sez. III, sentenza 6 marzo 2013, n. 19100
(dep. 03 maggio 2013) Rv. 254992
Pres. Teresi, Est. Amoresano, Imp. Pm in proc. Bova, P.M.
Izzo (Conf.)
(Annulla con rinvio, Trib. lib. Roma, 02 ottobre 2012)
Impugnazioni – Interesse ad impugnare – Impugnazione dell'im‑
putato – Esclusione di una circostanza aggravante – Giudizio di
prevalenza di circostanze attenuanti – Interesse – Sussisten‑
za – Ragioni
Sussiste l'interesse all'impugnazione dell'imputato diretta
all'esclusione di una circostanza aggravante anche quando gli
effetti aggravatori del trattamento sanzionatorio siano stati
neutralizzati dal giudizio di prevalenza con circostanze atte‑
nuanti, posto che il riconoscimento della sussistenza di un'ag‑
gravante, qualificando il fatto in termini di maggiore gravità,
può comunque avere influenza sulla determinazione della
pena ex art. 133 cod. pen. (Fattispecie in cui la Corte ha rite‑
nuto insussistente l'aggravante di cui all'art. 80 del d.P.R.
n. 309 del 1990 pur ritenuta subvalente rispetto alle circo‑
stanze attenuanti generiche).
Cass., sez. VI, sentenza 10 gennaio 2013, n. 19188
(dep. 03 maggio 2013) Rv. 255071
Pres. De Roberto, Est. Cortese, Imp. P.,P.M. Viola (Conf.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Napoli, 10 giugno 2010)
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Lavoro – Prevenzione infortuni – Destinatari delle norme – Unico
cantiere edile – Subappalto per esecuzione di opere – Obblighi
antinfortunistici – Estensione al subappaltatore – Sussisten‑
za – Fattispecie
In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, gli ob‑
blighi di osservanza delle norme antinfortunistiche, con
specifico riferimento all'esecuzione di lavori in subappalto
all'interno di un unico cantiere edile predisposto dall'appal‑
tatore, grava su tutti coloro che esercitano i lavori e, quindi,
anche sul subappaltatore interessato all'esecuzione di un'ope‑
ra parziale e specialistica, il quale ha l'onere di riscontrare ed
accertare la sicurezza dei luoghi di lavoro, sebbene l'organiz‑
zazione del cantiere sia direttamente riconducibile all'appal‑
tatore, che non cessa di essere titolare dei poteri direttivi
generali. (Fattispecie nella quale la S.C. ha dichiarato inam‑
missibile il ricorso del titolare di una ditta subappaltatrice
che aveva omesso di recintare l'area in cui si trovava una gru
a rotazione bassa).
Cass., sez. III, sentenza 26 marzo 2013, n. 19505
(dep. 07 maggio 2013) Rv. 254993
Pres. Fiale, Est. Andreazza, Imp. Bettoni, P.M. Policastro
(Conf.)
(Dichiara inammissibile, Trib. Lodi, 12 aprile 2011)
Pena – Estinzione (cause di) – Indulto – Singoli provvedimen‑
ti – Reato abituale – Consumazione protrattasi in epoca successi‑
va alla scadenza del termine di operatività dell'indulto – Indulto
frazionato per le condotte precedenti – Possibilità – Esclusio‑
ne – Fattispecie.
A fronte di un reato abituale, la cui consumazione si sia
protratta in epoca successiva alla scadenza del termine di
operatività del provvedimento di concessione dell'indulto,
non sussiste il diritto ad un indulto frazionato con riferimen‑
to alla parte di condotta posta in essere nel periodo prece‑
dente. (Fattispecie relativa al delitto di maltrattamenti, le cui
condotte iniziali erano state commesse prima della scadenza
del termine di operatività dell'indulto previsto dalla l. n. 241
del 2006).
Cass., sez. VI, sentenza 16 aprile 2013, n. 18616
(dep. 24 aprile 2013) Rv. 254845
Pres. Agrò, Est. Cortese, Imp. Carluccio, P.M. Scardaccione
(Diff.)
(Annulla senza rinvio, App. Milano, 17 febbraio 2012)
Reati contro la Pubblica Amministrazione – Delitti – Dei pubblici
ufficiali – Corruzione – In genere – Art. 318 c.p. – Nuova formula‑
zione introdotta dalla legge n. 190 del 2012 – "Abolitio criminis" di
condotte punite dal previgente testo – Esclusione – Fattispecie
Il nuovo testo dell'art. 318 c.p., così come integralmente
riscritto dall'art. 1, comma 75 della legge n. 190 del 2012,
non ha proceduto ad alcuna "abolitio criminis", neanche
parziale, delle condotte previste dalla precedente formula‑
zione ed ha, invece, determinato un'estensione dell'area di
punibilità, configurando una fattispecie di onnicomprensiva
monetizzazione del "munus" pubblico, sganciata da una lo‑
gica di formale sinallagma. (Principio affermato in relazione
a fattispecie in precedenza qualificata come corruzione im‑
propria).
Cass., sez. VI, sentenza 11 gennaio 2013, n. 19189
(dep. 03 maggio 2013) Rv. 255073
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
Pres. De Roberto, Est. Cortese, Imp. Abbruzzese, P.M. Spi‑
naci (Diff.)
(Dichiara inammissibile, App. Salerno, 14 febbraio 2012)
Reato contro la Pubblica Amministrazione – Delitti – Dei pubblici
ufficiali – Corruzione – Istigazione alla corruzione – Istigazione
alla corruzione – Fattispecie di cui al comma quarto dell’art. 322
c.p. – Condotta di sollecitazione – Condotte di “costrizione” e di
“induzione” integranti i delitti di cui agli artt. 317 e 319 qua‑
ter – Differenze – Indicazione – Fattispecie
La condotta di sollecitazione, punita dal comma quarto
dell’art. 322 c.p., si distingue sia da quella di costrizione – cui
fa riferimento l’art. 317 c.p., nel testo come modificato
dall’art. 1, comma 75 della l. n. 190 del 2012 – che da quella
di induzione – che caratterizza la nuova ipotesi delittuosa
dell’art. 319 quater c.p., introdotta dalla medesima l. n. 190 – in
quanto si qualifica come una richiesta formulata dal pubblico
agente senza esercitare pressioni o suggestioni che tendano a
piegare ovvero a persuadere, sia pure allusivamente, il sogget‑
to privato, alla cui libertà di scelta viene prospettato, su basi
paritarie, un semplice scambio di favori, connotato dall’assen‑
za sia di ogni tipo di minaccia diretta o indiretta sia, soprat‑
tutto, di ogni ulteriore abuso della qualità o dei poteri. (Nella
specie, la Corte ha ritenuto integrata l’ipotesi di cui al com‑
ma quarto dell’art. 322 c.p. in un caso in cui un consulente
tecnico di ufficio in una causa civile per la determinazione
dell’indennità di esproprio aveva contattato una parte proces‑
suale, prospettandole una supervalutazione del bene immobi‑
le come alternativa alla corretta valutazione, che avrebbe co‑
munque effettuato, in cambio di una percentuale sulla diffe‑
renza).
Cass., sez. VI, sentenza 25 gennaio 2013, n. 19190
(dep. 03 maggio 2013) Rv. 255074
Pres. Agrò, Est. De Amicis, Imp. Fabbri, P.M. Volpe (Parz.
Diff.)
(Annulla con rinvio, App. Roma, 24 ottobre 2011)
Reati contro la Pubblica Amministrazione – Delitti – Dei pubblici
ufficiali – In genere – Modifiche previste dalla legge n. 190 del
2012 – Ipotesi delittuose ex artt. 317 e 319 quater c.p. – Rapporti
con il precedente testo dell'art. 317 c.p. – Successione normativa
ex art. 2, comma quarto, c.p. – Configurabilità
La successione normativa fra il previgente testo
dell'art. 317 c.p., quello introdotto dall'art. 1 comma 75
della l. n. 190 del 2012 e quello del nuovo ed autonomo
art. 319 quater c.p., si colloca all'interno del peculiare feno‑
meno della successione di leggi penali, disciplinato dal quar‑
to comma dell'art. 2 c.p.
Cass., sez. VI, sentenza 7 maggio 2013, n. 21701
(dep. 21 maggio 2013) Rv. 255075
Pres. Agrò, Est. Citterio, Imp. Ancona e altro,P.M. Mura
(Diff.)
(Rigetta, App. Lecce, 12 luglio 2012)
Reati contro la Pubblica Amministrazione – Delitti – Dei pubblici
ufficiali – In genere – Reato di cui all'art. 319 quater c.p. – Elemento
oggettivo – Attività di induzione – Significato – Fattispecie
La induzione, richiesta per la realizzazione del delitto
previsto dall'art. 319 quater c.p.(così come introdotto
dall'art. 1, comma 75 della legge n. 190 del 2012), necessita
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di una pressione psichica posta in essere dal pubblico ufficia‑
le o dall'incaricato di pubblico servizio che si caratterizza, a
differenza della costrizione, che integra il delitto di concussio‑
ne di cui all'art. 317 c.p., per la conservazione, da parte del
destinatario di essa, di un significativo margine di autodeter‑
minazione o perché la pretesa gli è stata rivolta con un'aggres‑
sione più tenue o in maniera solo suggestiva ovvero perché egli
è interessato a soddisfare la pretesa del pubblico ufficiale, per
conseguire un indebito beneficio. (In applicazione del princi‑
pio, la Corte ha confermato la condanna per tentata concus‑
sione di un agente di polizia che, avendo mostrato ad una
prostituta, straniera e priva di permesso di soggiorno, il pro‑
prio tesserino, pretendeva che essa salisse in macchina per
consumare con lui un rapporto sessuale, prospettando tale
soluzione come il modo "per non crearle problemi").
Cass., sez. VI, sentenza 8 maggio 2013, n. 20428
(dep. 13 maggio 2013) Rv. 255076
Pres. Garribba, Est. Aprile, Imp. Milanesi,P.M. D'Angelo
(Parz. Diff.)
(Rigetta, App. Bologna, 07 dicembre 2011)
2 0 1 3
97
Sentenza – Deliberazione – Immediatezza – Ammissione delle
prove – Mutamento del giudice prima dell'inizio dell'istruttoria
dibattimentale – Violazione del principio di immutabilità del
giudice – Esclusione
Non sussiste alcuna violazione del principio di immuta‑
bilità del giudice qualora, successivamente al provvedimento
di ammissione delle prove ma prima dell'inizio dell'istrutto‑
ria dibattimentale, muti l'organo giudicante, in assenza di
obiezione o esplicita richiesta delle parti di rivisitazione
dell'ordinanza ex art. 495 c.p.p. (In motivazione la Corte ha
precisato che il principio di immutabilità, funzionale al ri‑
spetto dei principi di oralità ed immediatezza, esige soltanto
che a decidere sia lo stesso giudice che ha presieduto all'istrut‑
toria).
Cass., sez. VI, sentenza 16 aprile 2013, n. 18615
(dep. 24 aprile 2013) Rv. 254843
Pres. Agrò, Est. Cortese, Imp. Poloni, P.M. Scardaccione
(Parz. Diff.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Brescia, 23 maggio
2011).
penale
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D i r i t t o
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F O R E N S E
DIRITTO PENALE
Rassegna
di merito
●
e
A cura di Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
e Giuseppina Marotta
Avvocato
Associazione per delinquere: circostanza attenuante della colla‑
borazione – Riconoscimento – Limiti e presupposti
(art. 416 bis c.p. – art. 8 l. 203/91)
Ai fini del riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 8
l. 203/ 91, si osserva che tale speciale attenuante ricorre ‑nel
caso dell'art. 416 bis c.p. e per i delitti commessi avvalen‑
dosi delle condizioni di cui all'art. 416 bis c.p. o per agevo‑
lare una organizzazione mafiosa quando il soggetto si sia
dissociato dal gruppo di appartenenza e, nel contempo, si
sia adoperato per evitare che l'attività delittuosa sia portata
a conseguenze ulteriori, aiutando concretamente l'autorità
di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta di elementi
decisivi per la ricostruzione dei fatti o per l'individuazione
e la cattura degli autori dei reati. Può dunque concretare
l'attenuante in esame anche la confessione e le chiamate in
correità che abbiano consentito di interrompere la perma‑
nenza del reato associativo e la consumazione di ulteriori
delitti che del primo integrino lo sviluppo o comunque ri‑
entranti nel programma criminale del sodalizio, con la sola
esclusione degli apporti collaborativi che si limitano a raf‑
forzare un quadro probatorio a carico di responsabili già
identificati o all' identificazione di soggetti aventi un ruolo
secondario nella complessiva economia criminosa già accer‑
tata.
Tribunale Napoli, G.u.p. Conte
sentenza 6 maggio 2013, n. 1072
Associazione per delinquere: Partecipazione – Condotta – Carat‑
teristiche
(art. 416 bis c.p.)
La condotta tipica della partecipazione ad associazione di
tipo mafioso, per giurisprudenza costante, si ritiene realizza‑
ta allorquando risulti che il singolo consociato è attivamente
inserito nell'organizzazione medesima, in modo non occa‑
sionale ed in misura tale da arrecare un contributo non insi‑
gnificante e permanente alla vita ed agli scopi dell'istituzione
criminosa attraverso una consapevole e fattiva condivisione
della logica d'intimidazione, di omertà e di dipendenza per‑
sonale proprie del gruppo, essendo di conseguenza del tutto
irrilevante l'individuazione del momento iniziale della sua
adesione. Dunque la partecipazione all'associazione di stam‑
po camorristico presuppone un contributo costante, signi‑
ficativo e funzionale alla vita e all'operatività della struttura
criminale.
Tribunale Napoli, G.u.p. Conte
sentenza 6 maggio 2013, n. 1072
Circostanze: attenuanti generiche – Riconoscimento – Presuppo‑
sti
(art. 62 bis c.p.)
È legittimo il diniego delle attenuanti generiche qualora
l’imputato le richieda in relazione ad una confessione che,
lungi dal palesare puro e semplice ravvedimento, costituisca
viceversa la manifestazione di un preciso calcolo di fronte
alle inequivocabili prove esistenti a suo carico.
Tribunale Nola, G.M. Napolitano
sentenza 30 aprile 2013, n. 1006
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Concorso di persone nel reato: concorso anomalo – Presupposti
per il riconoscimento della diminuente
(art. 116 c.p.)
Ed invero. come è di tutta evidenza e come peraltro ripe‑
tutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità "In
caso di concorso anomalo nel reato, il riconoscimento della
diminuente a chi volle quello meno grave esclude la conte‑
stuale applicazione, in suo favore. del regime della conti‑
nuazione tra più reati connessi. in quanto esso è preclusivo
della simultanea sussistenza di una previa programmazione
unitaria dei fatti criminosi, sorretta da una volizione piena e
non soltanto dalla prevedibilità dell’evento diverso o ulteri‑
ore" (Cass. sez. l. n. 25938 del 27.5.2008).
Tribunale Napoli, G.u.p. Terzi
sentenza 20 marzo 2013, n. 788
2 0 1 3
99
Detenzione materiale pornografico: elementi costitutivi – Ratio
legislativa
(art. 600 quater c.p.)
La ratio dell'art. 600 quater c.p. ha come elementi costi‑
tutivi, sul piano obiettivo la detenzione di materiale a conte‑
nuto pedopornografico, sul piano soggettivo la consapevo‑
lezza non solo, com'è ovvio, della detenzione del materiale,
ma soprattutto della natura illecita e, in specifico afferente
allo sfruttamento di minori, del materiale stesso. La norma
‑si legge‑punendo chi "si procura o dispone di materiale ille‑
cito, e non chi semplicemente lo visiona, consente lo svolgi‑
mento della pretesa punitiva non nei confronti di tutti coloro
i quali, navigando in internet entrino in contatto con imma‑
gini aventi quel contenuto, ma coloro che "se ne appropri‑
no", "salvandole" e veicolandole o sul disco fisso del p.c. o
su altri supporti, con esso interfacciabili, che ne consentano
la visione o comunque la riproduzione. Lo scaricamento dei
materiali, ovviamente, deve essere consapevole e volonta‑
rio, dovendosi escludere profili di responsabilità penale nei
casi in cui il materiale rinvenuto sul p.c. costituisca la mera
traccia di una trascorsa consultazione del web, creata dai
sistemi di salvataggio automatico del personal computer".
Tribunale Portici, G.M. Odorino
sentenza 12 febbraio 2013, n. 2307
Confisca: nesso strumentalità – Presupposto
(art. 240 c.p.)
Il nesso di strumentalità tra la cosa ed il reato che legit‑
tima la misura di sicurezza reale, va ricercato in concreto,
considerando il ruolo rivestito dalla cosa nella realizzazione
dell'illecito e considerando le modalità stesse di commissio‑
ne del reato. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito sul
punto che la confisca delle cose che servirono o furono desti‑
nate a commettere il reato è misura di sicurezza patrimoniale
che tende a prevenire la consumazione di futuri reati median‑
te l'esproprio di cose che, per essere collegate all'esecuzione
di illeciti penali, manterrebbero, se lasciate nella disponibi‑
lità del reo, viva l'idea e l'attrattiva del reato. Ne deriva che
la confisca in esame implica un rapporto di "asservimento"
tra cosa e reato, nel senso che la prima deve essere oggettiva‑
mente collegata al secondo da uno stretto nesso strumentale
che riveli effettivamente la possibilità futura del ripetersi di
un'attività punibile, non essendo invece sufficiente un rap‑
porto di mera occasionalità. Di conseguenza è stata ritenuta
legittima la confisca di un veicolo in ipotesi di furto, laddove
il veicolo sia servito per trasportare la merce sottratta che
sia talmente voluminosa da renderne "impossibile il traspor‑
to a braccia". Anche da ultimo è stata ritenuta legittima la
confisca di un'autovettura utilizzata dall'autore del furto per
raggiungere il luogo di esecuzione del reato e, successiva‑
mente alla sua consumazione, per nascondere e trasportare
altrove la refurtiva, ancorché l'impiego della stessa non pos‑
sa ritenersi indispensabile. (cfr. Cass. pen. sez. 6, sentenza
n. 18531 del 27/04/2012 Rv. 252526, Imputato:Coman).
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 20 maggio 2013, n. 7998
Evasione: elemento soggettivo
(art. 385 c.p.)
Il reato di evasione non è a dolo specifico, essendo suf‑
ficiente per la sussistenza dell’elemento soggettivo, la consa‑
pevolezza e volontà del reo di usufruire di una libertà di
movimento vietata dal precetto penale, voluta anche unica‑
mente come fine a sé stessa.
Tribunale Nola, G.M. Napolitano
sentenza 30 aprile 2013, n. 1006
Detenzione materiale pornografico: concorso con il reato di por‑
nografia minorile – Esclusione
(art. 600 quater c.p.)
In virtù della clausola di riserva prevista dall'art. 600
quater c.p., non è configurabile il concorso tra il delitto di
detenzione di materiale pornografico ed il reato di porno‑
grafia minorile, costituendo la detenzione un post factum
non punibile rispetto al più grave reato di cui all'art. 600
ter c.p. Tribunale Napoli, G.u.p. Gallo
sentenza 9 maggio 2013, n. 29191
Falsità materiale commessa da p.u. in autorizzazioni e/o certifica‑
ti: presupposti
(art. 477c.p.)
Integra il reato di cui all'art. 477 c.p. la fotocopia di un
documento autorizzativo legittimamente detenuto, realizza‑
ta con caratteristiche e dimensioni tali da avere l'apparenza
dell'originale. Ciò perché neppure al titolare del documento
stesso (certificato o autorizzazione) è consentita la ripro‑
duzione in maniera da creare un secondo documento che si
presenti e sia utilizzato come l'originale. (in tal senso cfr.
Cassazione penale. sez. V, 31 ottobre 1995. n..12589.)
Evasione: domicilio – Nozione
(art. 385 c.p.)
La nozione di domicilio ex art. 385 c.p. è estensi‑
bile soltanto ai luoghi che siano di stretta ed esclusiva
pertinenzialitàdell’abitazione del ristretto e non invece, a
pertinenze condominiali o comunque comuni, in uso ad una
molteplicità di nuclei familiari e tantomeno ai marciapiedi
a servizio della pubblica via sebbene posti nelle adiacenze
dell’abitazione, ciò coerentemente al fine di agevolare i con‑
trolli di polizia sulla reperibilità dell’imputato, che devono
avere il carattere della prontezza e della non aleatorietà.
Tribunale Nola, G.M. Napolitano
sentenza 30 aprile 2013, n. 1006
penale
Gazzetta
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Tribunale Portici, G.M. Odorino
sentenza 25 febbraio 2013, n. 3388
Favoreggiamento personale: differenze con il concorso di persona
nel reato –Criteri di accertamento
(art.378 c.p. – 110 c.p.)
L'intervento di un terzo volto a favorire l'autore del rea‑
to non sì risolve necessariamente in un apporto concreto alla
protrazione dell'illecito e può quindi dar luogo al reato di favo‑
reggiamento allorché l'aiuto prestato si risolva nella sottrazio‑
ne alle ricerche e non costituisca un contributo alla perpetua‑
zione della situazione antigiuridica. Appare quindi necessario
considerare la direzione in cui si svolge l'azione: da un lato le
condotte che danno un contributo al permanere della situazio‑
ne illecita, dall'altro quelle che sono indirizzate solo sottrarre
alle indagini l'autore del reato.
Tribunale Nola, G.u.p. Sepe
sentenza 30 aprile 2013, n. 236
Favoreggiamento personale: elemento soggettivo
(art. 378 c.p.)
Per la sussistenza dell’ elemento soggettivo è sufficiente il
dolo generico, che consiste nella consapevolezza dell' agente
di fuorviare con la propria condotta, le ricerche poste in esse‑
re dalla competente autorità nei confronti del latitante, nella
ragionevole consapevolezza dell’apprezzabilità del suo contri‑
buto di aiuto al detto soggetto.
Tribunale Napoli, G.o.t. Lotti
sentenza 15 maggio 2013, n. 7506
Favoreggiamento personale: elemento soggettivo
(art. 378 c.p.)
Il delitto di favoreggiamento personale è costituito da qual‑
siasi atteggiamento cosciente mente e volontariamente in for‑
za del quale l'opera di investigazione dell'autorità possa essere
intralciata, rallentata o resa vana, in tal modo prestando aiuto
all'autore di un reato già commesso. Per tale delitto è suffici‑
ente il dolo generico risolventesi nella consapevole volontà di
prestare aiuto a favore dell'autore di un reato già commesso.
Quindi la fattispecie di cui all'art.378 c.p. ha come presupposto
la commissione (senza compartecipazione) di altro reato per il
cui accertamento siano in corso indagini e quindi favoreggiato
può essere solo colui che è indagato o imputato del medesimo.
Tribunale Napoli, G.o.t. Lotti
sentenza 15 maggio 2013, n. 7506
Favoreggiamento personale: esimente speciale – Scriminante stato
necessità – Differenze
(art. 384 c.p.)
L’’esimente speciale prevista dall’art. 384 co. 1 c.p. diffe‑
risce dalla scriminate dello stato di necessità perché, fra l’altro,
non presuppone che il pericolo di grave nocumento non sia
causato dall’agente, trattandosi di norma specificatamente
volta a garantire il diritto di difesa.
Tribunale Nola, G.u.p. Sepe
sentenza 30 aprile 2013, n. 236
Favoreggiamento personale: natura del reato – Condotta punibi‑
le – Elementi costitutivi
(art. 378 c.p.)
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Il reato di cui all'art. 378 c.p., rimane integrato da qual‑
siasi comportamento idoneo a intralciare il corso della giusti‑
zia. Il reato di favoreggiamento personale è di pura condot‑
ta, la quale, tuttavia, per costituire aiuto alla elusione delle
investigazioni dell'autorità deve essere potenzialmente idonea
al conseguimento di un tale risultato e deve, inoltre, essere
consapevolmente diretta ad inserirsi nell’ ambito operativo di
detta autorità, pur non essendo necessario che quest’'ultima
sia effettivamente fuorviata.
Tribunale Napoli, G.o.t. Lotti
sentenza 15 maggio 2013, n. 7506
Favoreggiamento personale: reato principale – Rapporto cronolo‑
gico – Reato permanente – Effetti e conseguenze – Differenze con il
concorso nel reato
(art. 378 c.p.)
La configurabilità del delitto di favoreggiamento, sotto il
profilo del rapporto cronologico con il reato principale, “po‑
stula necessariamente che la commissione di quest'ultimo, nel
suo momento iniziale, sia anteriore alla condotta assunta come
favoreggiatrice, ma non anche che il reato principale sia già
esaurito nell'atto in cui detta condotta viene posta in essere.
Ne consegue che, l'aiuto consapevolmente prestato a soggetto
che perseveri attualmente nella condotta costitutiva di un reato
permanente, da luogo generalmente a concorso in tale reato e
non a favoreggiamento, a meno che tale aiuto, per le caratteri‑
stiche e per le modalità pratiche con le quali viene attuato, non
possa in alcun modo tradursi in un sostegno o incoraggiamen‑
to dell'altro nella protrazione della condotta criminosa, ma al
contrario costituisca soltanto una facilitazione alla cessazione
di essa, sia pure al fine di tentare di ottenere l'impunità.
Tribunale Nola, G.u.p. Sepe
sentenza 30 aprile 2013, n. 236
Furto: aggravante della pubblica fede – Presupposti
(art. 625 c.p.)
Per pubblica fede deve intendersi il senso di affidamento
verso la proprietà altrui sul quale fa affidamento chi deve las‑
ciare una cosa, anche solo temporaneamente, incustodita. Il
furto dell’autoradio, anche se estraibile, lasciata all'interno di
un'autovettura deve ritenersi aggravato dall'esposizione alla
pubblica fede in quanto l'autoradio costituisce normale dota‑
zione del mezzo di trasporto.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 20 maggio 2013, n. 7998
Incauto acquisto: assorbimento nel furto – Presupposti e modalità
(art. 707 c.p.)
L'assorbimento della contravvenzione di cui all'art. 707
c.p. nel furto si verifica qualora il possesso ingiustificato de‑
gli strumenti indicati dall'art. 707 risulti strettamente colle‑
gato all'uso degli stessi fatto dall'agente per la commissione
del furto e quindi per le sole ipotesi di impiego effettivo delle
attrezzature da scasso nell'azione delittuosa e di detenzione
attuatasi esclusivamente con l'uso momentaneo necessario
all'effrazione, dovendosi escludere il collegamento ogni volta
che gli arnesi atti all'effrazione, trovati in possesso del soggetto
attivo, siano tali da assumere autonoma rilevanza giuridica.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 20 maggio 2013, n. 7998
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
Incauto acquisto: natura del reato –Condotta penalmente rilevante
(art. 707 c.p.)
L’art.707 c.p. – reato commissivo di pericolo‑ sanziona la
condotta del soggetto che, condannato per delitti determinati
da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la pre‑
venzione dei delitti contro il patrimonio, è colto in possesso
di chiavi alterate o contraffatte ovvero di chiavi genuine o di
strumenti atti ad aprire o a sforzare serrature dei quali non
giustifichi l’attuale destinazione. È onere di colui che detiene
gli strumenti fornire la prova che gli oggetti rinvenuti in suo
possesso siano destinati ad un uso legittimo, prova che può es‑
sere offerta anche successivamente alla sorpresa in flagranza
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 20 maggio 2013, n. 7998
Inosservanza di provvedimenti dell’Autorità: legittimità dell’at‑
to – Criteri di accertamento
(art. 650 c.p.)
Ai fini del giudizio di responsabilità in ordine al rea‑
to di inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità di cui
all'art. 650 c.p.. il giudice è tenuto a verificare previamente la
legalità sostanziale e formale del provvedimento che si assume
violato sotto i tre profili tradizionali della violazione di legge,
dell'eccesso di potere e dell'incompetenza. Ne consegue che.
ove venga rilevato il difetto del presupposto della legittimità
sotto uno di tali profili, l'inosservanza del provvedimento non
integra il reato in questione per la cui sussistenza è richiesto
esplicitamente che il provvedimento sia "legalmente dato" (in
tal senso cfr. Cass.. sez.1. 1 luglio 1996. n, 7954)
Tribunale Napoli, G.u.p. D’Auria
sentenza 14 maggio 2013, n. 1189
Inosservanza di provvedimenti dell’A.G.: convocazione di p.g. per
mera notifica – Esclusione del reato
(art. 650 c.p.)
Non integra la contravvenzione di cui all'art. 650 cod.
pen. chi non ottemperi ad una convocazione di polizia fina‑
lizzato alla più agevole notifica di un provvedimento inibito‑
rio di prevenzione adottato nei suoi confronti dal Questore.
La facoltà dell’Autorità di Polizia di impartire, per motivi
di giustizia, ordini la cui inosservanza è sanzionata penal‑
mente dall'art. 650 cod. pen.. trova un limite nei diritti dei
cittadini, che non possono essere conculcati anche quando
l'imposizione abbia come unico fine quello di rendere più age‑
vole per gli organi di polizia l'adempimento dei loro compiti
istituzionali. Ne consegue che non integra la contravvenzione
di cui alla citata norma l'inottemperanza a una convocazio‑
ne di polizia avente come unico fine la notifica di un invito
o comparire e a nominare un difensore, ben potendo tali atti
preliminari all'interrogatorio essere compiuti con consegna
personale all’interessato o a persona con lui convivente, senza
l'imposizione dell'obbligo, per il destinatario della convoca‑
zione, di recarsi negli uffici di polizia.
Tribunale Napoli, G.u.p. D’Auria
sentenza 14 maggio 2013, n. 1189
Introduzione nella Stato prodotti con segni falsi: autore del reato
(art. 474 c.p.)
Il reato di cui all'art.474 c.p. può essere commesso anche
dallo stesso autore della contraffazione oppure da un sogget‑
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to che ha acquistato i prodotti, successivamente commerciati,
senza la iniziale consapevolezza della falsità del marchio o dei
segni distintivi. In tali casi, manca un elemento costitutivo del
delitto di ricettazione: nel primo caso, l'elemento dell'acquisto
da terzi di cose provenienti da delitto, nel secondo caso
dell'elemento soggettivo del dolo.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 27 maggio 2013, n. 8499
Introduzione nella Stato prodotti con segni falsi: bene tutelato
(art. 474 c.p.)
L'ipotesi di reato prevista dall'art 474 c.p. è volta a tute‑
lare in via principale e diretta non la libera determinazione
dell'acquirente ma la pubblica fede, intesa come affidamento
della collettività nei marchi o nei segni distintivi che individua‑
no le opere dell’ ingegno o i prodotti industriali, e ne garantis‑
cono la circolazione, trattasi quindi di reato di pericolo, per la
cui configurazione, non è necessaria l'avvenuta realizzazione
dell’ inganno nei confronti del singolo che sia indotto ad effet‑
tuare l'acquisto.
Tribunale Napoli, G.o.t. D’Amato
sentenza 16 maggio 2013, n. 7630
Introduzione nella Stato prodotti con segni falsi: elemento sogget‑
tivo – Requisiti
(art. 474 c.p.)
In relazione alla configurabilità del reato di cui all'art. 474
c.p. è richiesta nell'agente la coscienza e volontà di detenere
per porre in vendita merce con marchi contraffatti di società o
produttori, i cui marchi siano protetti da brevetto, senza che
sia necessario dimostrare le concrete trattative per la vendi‑
ta. Secondo l'orientamento costante della Corte di Cassazio‑
ne, l'art 474 c.p. costituisce un reato di pericolo volto in via
principale a tutelare la pubblica fede quale affidamento della
collettività nei marchi e nei segni distintivi che individuano
i prodotti industriali. La realizzazione dell'inganno nei con‑
fronti dell'acquirente pertanto non è necessaria ai fini della in‑
tegrazione della fattispecie che risulta ravvisabile anche quan‑
do l'imperfezione della contraffazione sia tale da escludere la
possibilità di inganno degli acquirenti.
Tribunale Napoli, G.o.t. D’Amato
sentenza 16 maggio 2013, n. 7630
Introduzione nello Stato di prodotti falsi: presupposto – Confusione
tra i marchi
(art. 474 c.p.)
Ai fini della configurabilità del reato di introduzione nel‑
lo Stato e commercio di prodotti con segni falsi, in quanto
posto a tutela della fede pubblica – intesa come affidamento
nei marchi o nei segni distintivi – e non degli acquirenti, è del
tutto irrilevante che l'acquirente sia in grado, avuto riguardo
alla qualità del prodotto, al prezzo, al luogo dell'esposizione
nonché alla figura del venditore, di escludere la genuinità del
prodotto, in quanto ciò che rileva è esclusivamente la possi‑
bilità di confusione tra i marchi – per la cui individuazione è
sufficiente ma imprescindibile un raffronto tra i segni – e non
già quella tra i prodotti.
Nell'ipotesi di immissione in circolazione di prodotti con‑
trassegnati da falsi marchi di provenienza, non rileva, in altri
termini, che il singolo acquirente sia stato effettivamente in‑
penale
Gazzetta
102
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gannato, bensì rileva solo che il marchio contraffatto sia ido‑
neo a far apparire falsamente quel dato prodotto come prove‑
niente da un determinato produttore.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 27 maggio 2013, n. 8499
Minaccia: aggravante – Utilizzo di una bottiglia in vetro – Sussisten‑
za
(art. 612 co. 2 c.p.)
Il delitto di minaccia aggravata si configura in caso di uti‑
lizzo di strumenti quali un bastone o una bottiglia di vetro, dal
momento che, in base al disposto dell'art. 4 comma 2 della leg‑
ge 18 aprile 1975 n. 110, si considerano armi, sia pure impro‑
prie, tutti quegli strumenti, anche non da punta o da taglio,
che, in particolari circostanze di tempo e di luogo, possono
essere utilizzati per l'offesa alla persona. Ne deriva che anche
un bastone o una bottiglia, quando siano utilizzati al fine di
minaccia ed in un contesto aggressivo, costituiscono armi, ri‑
entrando in tale categoria non solo le armi proprie ma anche
quelle improprie e cioè gli strumenti atti ad offendere dei quali è
vietato dalla legge il porto in modo assoluto, ovvero senza giu‑
stificato motivo. Nella specie, l’utilizzo della bottiglia di vetro,
accompagnata da una gestualità indicativa della intenzione di
colpire la vittima, diventa uno strumento atto ad offendere e
deve quindi considerarsi arma ai fini dell'applicazione della
aggravante, sia in relazione al capoverso dell'art. 612 C.P., sia
anche con riguardo al disposto dell'art.585 c.p.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 3 giugno 2013, n. 8804
Minaccia: bene tutelato – Lesione – irrilevanza
(art. 612 c.p.)
Non è, peraltro, necessario che il bene tutelato dalla nor‑
ma incriminatrice sia realmente leso e che il soggetto passivo si
sia sentito effettivamente intimidito, essendo sufficiente che il
male prospettato sia potenzialmente idoneo ad incutere timore
nel soggetto passivo e che la minaccia sia stata percepita dalla
vittima e sia astrattamente idonea ad incidere sulla sua libertà
morale, dovendosi valutare la condotta nella sua attitudine a
produrre effetti intimidatori, secondo un criterio medio ed in re‑
lazione alle concrete circostanze del fatto oggettive e soggettive
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 3 giugno 2013, n. 8804
Minaccia: elementi costitutivi
(art. 612 c.p.)
Il reato di cui all'art.612 c.p. richiede che l'agente pon‑
ga in essere, attraverso espressioni verbali ovvero con gesta
esplicite o tacite, una condotta univocamente idonea ad in‑
generare nel soggetto passivo il pericolo futuro di un danno
ingiusto alla persona o al patrimonio, dipendente dalla vo‑
lontà dell'agente e capace di turbarne o limitarne la libertà
psichica di autodeterminazione. È sufficiente il dolo generi‑
co ovverossia la mera coscienza e volontà di minacciare ad
altri un danno ingiusto indipendentemente dal fine specifico
che il soggetto intende perseguire ed a prescindere dai motivi
che lo hanno indotto all'azione (cfr. tra le altre Cass.pen. sez.
Vosent.24/08/2001nr.31693).
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 3 giugno 2013, n. 8804
p e n a l e
Gazzetta
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Ricettazione: commercio di prodotti falsi: concorso di reati – Ammis‑
sibilità e limiti
(art. 648 c.p. – 474 c.p.)
Il delitto di ricettazione ben può concorrere con quello di
cui all'art.474 c.p., fattispecie che sanziona la condotta di chi
detiene per vendere o pone in vendita prodotti industriali con
marchi o segni distintivi contraffatti. I due reati hanno infatti
diversa oggettività giuridica di talché non può trovare applica‑
zione il principio di specialità, trattandosi di fattispecie incri‑
minatrici che descrivono condotte diverse sotto il profilo strut‑
turale e cronologico. Pertanto, tali reati possono concorrere
laddove l'agente abbia acquistato i prodotti recanti i segni falsi
con la consapevolezza della loro contraffazione e, dunque, a
conoscenza della provenienza delittuosa. Il legislatore, infatti,
con il delitto di cui all'art.474 c.p. che tutela la pubblica fede,
ha inteso colpire la contraffazione specificamente nel momen‑
to della immissione in commercio del bene contraffatto, quale
condotta a sè stante senza contemplare, dunque, il momento
dell'acquisto, ricezione o dell'occultamento del bene proveni‑
ente da delitto, elemento tipizzante del delitto di ricettazio‑
ne posto a tutela dell'offesa al patrimonio. Di conseguenza,
poiché il reato di cui all'art.474 c.p. a protezione della pubbli‑
ca fede commerciale, non contiene tutti gli elementi costitutivi
del delitto di ricettazione, non sussiste rapporto di specialità
(cfr. da ultimo Cass.pen. sez.Unite 7/06/2001 nr.23427 Ndia‑
ye; conformi Cass.pen.IIo 23/11/2000 nr.12102 Alberino ed
altri; Cass.pen.sez.IIo 27/7/1996 nr.3154; Sez. 2, Sentenza
n. 12452 del 04/03/2008).
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 27 maggio 2013, n. 8499
Ricettazione: delitto presupposto – Accertamento giudiziale – Irri‑
levanza
(art. 648 c.p.)
Quanto al delitto presupposto, è orientamento consolida‑
to giurisprudenziale che, ai fini della configurabilità del reato,
non è richiesto l'accertamento giudiziale della commissione
del delitto presupposto, nè dei suoi autori, nè dell'esatta ti‑
pologia del reato, potendo il giudice affermarne l'esistenza
attraverso prove logiche. Tuttavia, è stato affermato che la
fattispecie criminosa è configurabile non già con il riferimento
ad una generica provenienza delittuosa del bene non meglio
identificata poiché è necessario che il delitto presupposto, se
pure non giudizialmente accertato, sia però specificato. In‑
oltre, il delitto di ricettazione sussiste anche quando il reato
presupposto sia quello di furto e lo stesso non sia punibile per
difetto di querela.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 27 maggio 2013, n. 8499
Ricettazione: elemento materiale – acquisto del possesso – Modali‑
tà del fatto – Accertamento – Criteri
(art. 648 c.p.)
Il reato di cui all'art.648 c.p. richiede per la sua configu‑
rabilità che l'imputato acquisti o, comunque, riceva cose di
provenienza delittuosa al fine di trarne profitto. Pertanto,
elemento essenziale sotto il profilo materiale è l'acquisto del
possesso di beni di illecita provenienza (delitto presupposto),
mentre, sotto il profilo dell'elemento psicologico, è necessario
che l'imputato sia consapevole della provenienza delittuosa
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m a g g i o • g i u g n o
del bene in suo possesso. A tal fine il giudice di merito è tenuto
ad indagare se, date le particolari modalità del fatto, l'agente
poteva, allorché ricevette, acquistò od occultò il bene, aver
raggiunto la certezza della sua illecita provenienza e, dunque,
dell'anteriorità di un reato commesso da altri, ciò che il giudice
desumerà da elementi gravi, univoci e concordanti raggiun‑
gendo la prova certa del dolo diretto anche per distinguere la
fattispecie da quella di cui all'art.712 c.p. (incauto acquisto).
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 27 maggio 2013, n. 8499
Ricettazione: elemento soggettivo – Dolo eventuale
(art. 648 c.p.)
L'elemento psicologico della ricettazione può essere inte‑
grato anche dal dolo eventuale, che è configurabile in presen‑
za della rappresentazione da parte dell'agente della concreta
possibilità della provenienza della cosa da delitto e della re‑
lativa accettazione del rischio, non potendosi desumere da
semplici motivi di sospetto, né potendo consistere in un mero
sospetto. (in tal senso cfr. Cass. sez.un., sentenza n.12433 del
26/11/2009).
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 27 maggio 2013, n. 8499
Ricettazione: lieve entità – Requisiti e presupposti
(art. 648 co. 2 c.p.)
L' ipotesi di cui al secondo comma dell'art. 648 c.p., va
valutata in considerazione di tutti gli elementi integrativi del
fatto reato, ossia non solo per le modalità esecutive e l'entità
dell'oggetto ricettato, ma anche per la potenzialità del danno
derivante dalla circolazione della cosa ricettata e quindi sulla
base di un esame globale del fatto esteso a tutti gli elementi
menzionati nell'art. 133 c.p.
Tribunale Napoli, G.o.t. D’Amato
sentenza 16 maggio 2013, n. 7630
Ricettazione: possesso veicolo con dati di identificazione altera‑
ti – Provenienza illecita – Sussistenza del reato
(art. 648 c.p.)
Il possessore di un veicolo alterato nella parte riservata
alla sua identificazione deve essere ritenuto autore della fal‑
sificazione e della ricettazione, se non dimostri la legittimità
del possesso. Invero l'abrasione di un marchio di fabbrica ha
pieno valore ai fini della dimostrazione della provenienza ille‑
cita dell’oggetto e della conoscenza di esso da parte del pos‑
sessore (possesso di veicolo con numero di telaio alterato cfr.
Cass. sez. 1/03/83 n. 1861).
Tribunale Napoli, G.o.t. Lotti
sentenza 15 maggio 2013, n. 7507
2 0 1 3
103
Ricettazione – Commercio di prodotti falsi: concorso di reati – Am‑
missibilità
(art. 648 c.p. – 474 c.p.)
Inoltre i reati di cui agli artt. 474 e 648 co. 2 c.p. non si
pongono tra di loro in rapporto di specialità, bensì concorrono
tra loro nonostante la diversa obiettività giuridica, quando i
prodotti recanti i segni falsi siano stati acquistati o ricevuti
con la consapevolezza dell'avvenuta contraffazione dei segni
distintivi. Si può configurare dunque un concorso formale tra
i due reati e la violazione più grave va individuata nel reato di
cui all'art. 648 capoverso c.p.
Tribunale Napoli, G.o.t. D’Amato
sentenza 16 maggio 2013, n. 7630
Ricettazione – Commercio di prodotti falsi: concorso di reati – Am‑
missibilità e limiti
(art. 648 c.p. – 474 c.p.)
I reati di ricettazione, di cui all'art. 648 c.p., e di com‑
mercio di prodotti con segni falsi, di cui all'art. 474 dello
stesso codice, possono concorrere qualora i prodotti suddetti
siano stati acquistati o ricevuti con la consapevolezza della
contraffazione dei segni distintivi; in tal caso non può trovare
applicazione, infatti, la disciplina del reato complesso di cui
all'art. 84 c.p., in quanto le condotte previste dagli art. 648
e 474 c.p. non hanno elementi in comune: invero la disposi‑
zione di cui all'art. 474 c.p. non contempla affatto i momen‑
ti dell'acquisto, della ricezione o dell'occultamento di cose
mobili provenienti da delitto o della intromissione per farle
acquistare, ricevere o occultare, che rappresentano invece le
condotte attraverso le quali si realizza il delitto di ricettazione,
con la cui disciplina, pertanto, non può porsi in rapporto di
specialità'. (in tal senso cfr. Cassazione penale sez. II, 10 luglio
1996, n. 3154 ‑Casso peno 1997,2076 (s.m.) Giust. peno
1997,11,312 (s.m.)
Tribunale Portici, G.M. Odorino
sentenza 27 febbraio 2013, n. 3499
Violenza e minaccia a p.u.: natura di reato – Condotta punibile
(art. 336 c.p.)
Il reato di cui all’art. 336 c.p. è un reato di mera condotta,
per integrare il quale è necessaria una qualsiasi coazione, an‑
che morale, che sia però idonea a coartare la libertà del pubbli‑
co ufficiale.
Tribunale Nola, G.M. Napolitano
sentenza 9 aprile 2013, n. 812
penale
Gazzetta
104
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PROCEDURA PENALE
Giudice dell’esecuzione: cognizione
(art. 656 c.p.p.)
il giudice dell'esecuzione, investito della questione di nul‑
lità/invalidità del titolo esecutivo e contestualmente della
istanza di restituzione nel termine per impugnare in ragione
di difetto di effettiva conoscenza dello stesso, è tenuto pre‑
giudizialmente a verificare dapprima la validità del suddet‑
to titolo e, qualora ne abbia accertato l'esecutività, è tenuto
altresì ad esaminare autonomamente la successiva istanza di
cui all'art. 175 c.p.p. Tribunale Napoli, G.M. Daniele
ordinanza 14 maggio 2012, n. 190
Giudizio abbreviato: inutilizzabilità patologiche – Criteri di indivi‑
duazione
(art. 453 c.p.p.)
In sede di giudizio abbreviato, non possono essere utilizzati,
solo quegli atti probatori la cui assunzione sia avvenuta in modo
contrastante con i principi fondamentali dell'ordinamento o
tale da pregiudicare in modo grave e insuperabile il diritto di
difesa dell'imputato, dunque le nullità di carattere assoluto e le
inutilizzabilità cosiddette "patologiche". Dunque a parte atti
probatori assunti contra legem – la cui utilizzazione è vietata
in modo assoluto in tutte le fasi procedimentali e nelle proce‑
dure incidentali cautelari e di merito – il giudice può valuta‑
re quegli atti affetti da una inutilizzabilità "solo fisiologica"
o acquisiti con modalità irrituali, dal momento che la scelta
negoziale delle parti, di tipo abdicativo, neutralizza eventuali
irritualità e fa assurgere a dignità di prova gli atti di indagine
assunti senza il rispetto delle forme di rito.
Tribunale Napoli, G.u.p. Conte
sentenza 6 maggio 2013, n. 1072
Giudizio abbreviato: utilizzabilità degli atti – Limiti ed esclusioni
(art. 453 c.p.p.)
Il rito abbreviato, procedimento speciale a prova contrat‑
ta, consente ai fini della decisione, l'utilizzabilità di tutti gli atti
delle indagini preliminari legittimamente acquisiti al fascicolo
del dibattimento, con l'esclusione e la conseguente inutilizza‑
bilità di quelle prove illegittimamente acquisite anche se non
venga eccepita dalle parti interessate la nullità dell'atto prima
della richiesta di accesso al rito semplificato
Tribunale Napoli, G.u.p. Conte
sentenza 6 maggio 2013, n. 1072
Intercettazioni: attribuzione della voce – Modalità – Limiti
(art. 266 c.p.p.)
L’attribuzione di una conversazione oggetto
di captazione da parte del Giudice è possibile anche solo
in ragione di quanto affermato dal personale di polizia giudi‑
ziaria che ha proceduto all’ascolto individuando le voci sulla
scorta di precedenti intercettazioni, o ancora, sulla scorta di un
accesso avvenuto in costanza di intercettazione nel luogo ove
si tenevano i colloqui nel corso del quale la P.G. procedeva ad
identificare i presenti associando ciascuno di essi ad una voce.
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 12 marzo 2013, n. 622
Pres. Est. Aschettino
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Intercettazioni: utilizzabilità – Limiti
(art. 266 c.p.p.)
I risultati delle intercettazioni telefoniche disposte per un
reato rientrante tra quelli indicati nell’art. 266 c.p.p., sono uti‑
lizzabili anche relativamente ad altri reati per i quali si procede
nel medesimo procedimento, pur se per essi le intercettazioni
non sarebbero state consentite.
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 12 marzo 2013, n. 622
Pres. Est. Aschettino
Notificazioni: modalità – Interventi legislativi e giurisprudenziali
(art. 157 c.p.p.)
Se le persone abilitate a ricevere il piego, in luogo del desti‑
natario, rifiutano di riceverlo, ovvero se l'agente postale non
può recapitarlo per temporanea assenza del destinatario o
per mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra men‑
zionate, il piego è depositato lo stesso giorno presso l'ufficio
postale preposto alla consegna o presso una sua dipendenza.
Del tentativo di notifica del piego e del suo deposito presso
l'ufficio postale o una sua dipendenza è data notizia al de‑
stinatario, a cura dell'agente postale preposto alla consegna,
mediante avviso in busta chiusa a mezzo lettera raccoman‑
data con avviso di ricevimento che, in caso di assenza del
destinatario, deve essere affisso alla porta d'ingresso oppure
immesso nella cassetta della corrispondenza dell'abitazione,
dell'ufficio o dell'azienda …… con l'espresso invito al destina‑
tario a provvedere al ricevimento del piego a lui destinato me‑
diante ritiro dello stesso entro il termine massimo di sei mesi,
con l'avvertimento che la notificazione si ha comunque per
eseguita trascorsi dieci giorni dalla data del deposito e che, de‑
corso inutilmente anche il predetto termine di sei mesi, l'atto
saràrestituito al mittente." In linea con tale impostazione la
SC di Cassazione ha, poi, recentemente affermato il principio
per cui “Alla modalità di prima notificazione all'imputato non
detenuto, per mezzo del deposito dell'atto nella casa del co‑
mune con conseguente comunicazione di tale adempimento
a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento,
non si applica la disposizione, prevista dalla disciplina delle
notificazioni a mezzo del servizio postale, sulla ultragiacenza
dell'atto presso l'ufficio postale per la durata di mesi sei” (cfr.
Cass. pen., sez. I, sent. n.24035 de15.5.2012, dep. 18.6.2012,
imp. Zefi, Rv. 253346). Con detta pronuncia il Supremo Col‑
legio, oltre a ribadire che la norma di cui al novellato art. 8
della l. 890/82 riguarda esclusivamente le notificazioni ese‑
guite per mezzo del servizio postale, previste rispettivamente
dall'art. 170 c.p.p., e art. 149 c.p.c., e non afferisce alle noti‑
ficazioni con il deposito dell'atto presso la casa comunale (pre‑
viste rispettivamente dall'art. 157 c.p.p. e art. 140 c.p.c.) – cui
segue la comunicazione a mezzo posta da parte dell'ufficiale
giudiziario dell'avvenuto deposito presso la casa comuna‑
le – ha posto in rilievo il significativo dato che “alle notifica‑
zioni con deposito presso la casa comunale non può estendersi
la declaratoria di illegittimità costituzionale della L. n. 890 del
1982, art. 8, comma 3, perché in tali ipotesi, decorso il termi‑
ne di dieci giorni, l'atto non è restituito al mittente (nel che la
Consulta ha ravvisato l'impossibilità o l'estrema difficoltà per
il notificatario di rintracciare il plico), ma è depositato presso
la casa comunale di residenza del destinatario, il quale ben sa
dove poter agevolmente ritirare l'atto”.
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Tribunale Napoli, G.M. Daniele
ordinanza 14 maggio 2012, n. 190
Valutazione della prova: testimonianza dei testi di p.g.
(art. 192 c.p.p.)
Al testimone di polizia giudiziaria, in quanto soggetto
qualificato in virtù delle conoscenze acquisite nel corso della
sua abituale e specifica attività, non può essere precluso di es‑
primere apprezzamenti inscindibili dalla deposizione sui fatti
direttamente percepiti dallo stesso.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 27 maggio 2013, n. 8499
2 0 1 3
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LEGGI PENALI SPECIALI
Circolazione stradale: guida sotto l’effetto di stupefacenti – Altera‑
zione psicofisica – Necessità
(art. 187 C.d.s.)
La condotta tipica del reato previsto dall’art. 187
C.d.s.non è quella di chi guida dopo aver assunto sostanze
stupefacenti, bensì quella di colui che guida in stato di altera‑
zione psico‑fisica determinato da tale “assunzione” di talché,
“perché possa affermarsi la penale responsabilità dell’agente,
non è sufficiente provare che, precedentemente al momento in
cui lo stesso si è posto alla guida, avesse assunto stupefacenti,
ma altresì che egli guidava in stato di alterazione causato da
tale assunzione.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 24 giugno 2013, n. 10210
Circolazione stradale: guida sotto l’effetto di stupefacenti – Altera‑
zione psicofisica – Necessità – Accertamento – Modalità
(art. 187 C.d.s.)
Ai fini della configurabilità del reato di guida sotto l'effetto
di sostanze stupefacenti lo stato di alterazione del conducen‑
te dell'auto non può essere desunto da elementi sintomatici
esterni, così come avviene per l'ipotesi di guida in stato di eb‑
brezza alcolica, ma è necessario che venga accertato nei modi
previsti dall'art. 187 comma secondo cod. strad., attraverso
un esame su campioni di liquidi biologici, trattandosi di un
accertamento che richiede conoscenze tecniche specialistiche
in relazione alla individuazione ed alla quantificazione delle
sostanze.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 24 giugno 2013, n. 10210
Circolazione stradale: guida sotto l’effetto di stupefacenti – Accer‑
tamento – Rifiuto – Valutazione del comportamento
(art. 187 co. 8 C.d.s.)
Pur trattandosi di un dato comportamentale da apprezzar‑
si in sede di merito e di graduazione della pena, va evidenziato
che la norma sanziona la condotta omissiva formale del rifiuto
in sé ad essere sottoposto agli esami specialistici, esami funzio‑
nali alla verifica sia della effettiva sussistenza dell’alterazione
psicofisica (rilevante ai fini del reato concorrente di cui
all’art.187 comma 1) sia del grado di alterazione stessa inci‑
dente sul trattamento sanzionatorio, sicché la confessione resa
in merito alla assunzione della droga non esclude la configura‑
bilità del reato né costituisce prova della buona fede.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 24 giugno 2013, n. 10210
Edilizia: costruzione abusiva – Natura del reato
(d.P.R. 380/01)
Il reato di costruzione abusiva ha natura di reato formale
e di pericolo presunto, connesso con il suo inserimento in un
sistema di tutela basato sulla pianificazione amministrativa
dell'attività urbanistica del territorio, rispetto al quale ogni
abuso edilizio costituisce comunque ed obiettivamente, una
lesione, con conseguente sottrazione al giudice di un qualsiasi
sindacato in ordine alla concreta pericolosità della condotta.
Tribunale Napoli, G.o.t. Lotti
sentenza 13 maggio 2013, n. 9816
penale
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Edilizia: intervento di rifacimento e copertura del solaio con cemen‑
to e ferro – DIA – Sufficienza
(art. 44 d.P.R. 380/01)
L’intervento consistito nel rifacimento, ai fini di consoli‑
damento statico, della pregressa muratura in tufo di sostegno
del solaio di copertura con l’apposizione di elementi strut‑
turali diversi (cemento e ferro), senza alcuna modifica della
originaria consistenza urbanistica e senza alcun incremento
di superficie e volume, né modifica di prospetti o cambio di
destinazione d’uso, essendo un intervento ‑interno all’unità
immobiliare, di modesta portata ed eseguito in zona non
sottoposta a vincoli paesistici‑ non ha, dunque, determina‑
to alcuna apprezzabile incidenza sull’assetto del territorio
sicché esso non richiede il rilascio del permesso a costruire
ma ben potendo essere eseguito previa denuncia di inizio at‑
tività. Nel caso in esame, la tipologia di intervento realizzata
dall’imputato è stata inquadrabile tra gli interventi di ristrut‑
turazione edilizia “minori” per i quali è sufficiente la semplice
denunzia di inizio attività.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 11 marzo 2013, n. 4143
Edilizia: interventi di ristrutturazione – Caratteristiche
(d.P.R. 380/01)
Con riferimento agli interventi di ristrutturazione edilizia
di cui all'art. 31 lett. d) Legge 5 agosto 1978 n. 457 (definiti
dal TU edilizia come «interventi rivolti a trasformare gli or‑
ganismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che
possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente»), essi sono realizzabili previa mera de‑
nunzia di inizio attività qualora trattasi di interventi di portata
minore che determinano una semplice modifica dell'ordine in
cui sono disposte le diverse parti che compongono la costruzio‑
ne, in modo che, pur risultando complessivamente innovata,
questa conservi la suo iniziale consistenza urbanistica. Vice‑
versa, qualora tali interventi abbiano comportato la modifica‑
zione dei prospetti, non sono sottratti al regime concessorio
allo stesso modo delle opere di manutenzione straordinaria
che sono assoggettate alla denuncia di inizio attività ai sen‑
si dell'art. 1, comma sesto, della l. 21 dicembre 2001 n. 443,
purchénon comportino modifiche dei prospetti, della sagoma
o alterazione dello stato dei luoghi.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 11 marzo 2013, n.4143
Edilizia: normativa antisismica – Natura dei materiali usati – Irrile‑
vanza
(d.P.R. 380/01)
In tema di edilizia, le disposizioni della normativa antisis‑
mica, si applicano, a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa
interessare la pubblica incolumità a nulla rilevando la natura
dei materiali usati e delle strutture realizzate – a differenza
della disciplina relativa alle opere in conglomerato cementizio
armato, in quanto l'esigenza di maggiore rigore nelle zone di‑
chiarate sismiche rende ancor più necessari i controlli e le cau‑
tele prescritte, quando si impiegano elementi strutturali meno
solidi e duraturi del cemento armato
Tribunale Napoli, G.o.t. Lotti
sentenza 13 maggio 2013, n. 9816
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
Edilizia: opere penalmente rilevanti
(art 44 d.P.R. 380/01)
La fattispecie di cui all'art.44 lett. B) del d.P.R. 380/2001
sanziona penalmente l'esecuzione di opere in assenza o diffor‑
mità dalla concessione edilizia e sono da reputarsi tali tutti gli
interventi che comportano significativi aumenti di superficie
o volume, modifiche della sagoma, alterazione dei prospetti.
In altri termini, la norma sanziona gli interventi edilizi che
incidono in modo significativo sul territorio comportan‑
ti aumenti plano volumetrici e, quindi, una trasformazione
dell'assetto edilizio ed urbanistico che richiede necessariamen‑
te l'autorizzazione della Pubblica Amministrazione deputata
alla sua tutela attraverso il rilascio della concessione edilizia.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 11 marzo 2013, n.4143
Edilizia: realizzazione volontaria di opere abusive – Sussistenza
(d.P.R. 380/01)
Quanto l'elemento soggettivo dei reati suindicati, la sua
sussistenza emerge dalla stessa condotta tenuta degli imputa‑
ti; questi volontariamente facevano realizzare le opere edilizie
sopra descritte. L'autore di un intervento edilizio è tenuto ad
acquisire con diligenza e particolare approfondimento, infor‑
mazioni sull'esatta portata dei precetti normativi statali e re‑
gionali, che in materia edilizia non possono derogare ai princi‑
pi fondamentali dell'ordinamento statale.
Tribunale Napoli, G.o.t. Lotti
sentenza 13 maggio 2013, n. 9816
Misure di prevenzione: violazioni delle prescrizioni – Modifiche ed
interventi legislativi
(d.l. 144/2005)
Il panorama normativo è mutato all’esito della entrata in
vigore del Decreto Legge 27/07/2005 nr.144 (pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale del 27.07.2005 nr.173) convertito con mo‑
dificazioni dalla Legge 31/7/07/2005 nr.155 (pubblicata sulla
Gazzetta Ufficiale del 1.08.2005 nr.177). Invero, in base alle
nuove disposizioni legislative (cd. Pacchetto antiterrorismo),
la violazione delle prescrizioni accessorie inerenti alla sorveg‑
lianza speciale caratterizzata dall’obbligo o divieto di soggior‑
no non rientra più nell’ipotesi contravvenzionale, bensì è stata
inglobata in quella delittuosa di cui al comma dell’art.9 Legge
1423/56. Ne consegue che il delitto concerne non solo la inos‑
servanza in sé dell’obbligo o divieto di soggiorno, ma si esten‑
de anche alle violazioni delle prescrizioni accessorie diverse,
purché commesse dal sorvegliato speciale gravato dall’obbligo
o divieto di soggiorno, sebbene gli obblighi del soggiorno non
siano stati nella specie violati.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 6 maggio 2013, n. 6900
Misure di prevenzione: violazione delle prescrizioni – Natura del
reato e differenze
(art. 9 l. 1423/56)
L'art.9 della Legge 1423/56 sanziona la condotta di chi,
sottoposto alla sorveglianza speciale, contravviene alle prescri‑
zioni imposte dal Tribunale in sede di provvedimento di appli‑
cazione delle misure di prevenzione. La fattispecie di cui al Io
comma del citato articolo ha natura di reato contravvenziona‑
le, mentre è sanzionata più gravemente nei casi di pericolosità
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
qualificata del soggetto, ovverossia quando alle comuni im‑
posizioni prescritte al sorvegliato speciale si aggiunga quella
‑specializzante‑ dell'obbligo o del divieto di dimora. In altri
termini, le violazioni delle sole prescrizioni accessorie imposte
dal provvedimento del Tribunale, diverse dalla inosservanza
dell’obbligo o divieto di soggiorno, anche laddove la misura
di prevenzione contempli la più grave imposizione dell’obbligo
o del divieto di soggiorno, integrano l’ipotesi contravvenzio‑
nale e non già quella delittuosa di cui all’art.9 comma Legge
1423/56.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 6 maggio 2013, n. 6900
Misure di prevenzione: violazione obbligo di frequentare pregiudi‑
cati – Onere del sorvegliato di accertamento
(art. 9 l. 1423/56)
Grava sul sorvegliato speciale, l'onere di accertare, in forza
della sua condizione di persona raggiunta da misura di pre‑
venzione, se i soggetti che con lui si approcciano in modo ap‑
prezzabilmente significativo appartengano o meno al novero
di quelli la cui frequentazione gli è preclusa.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 6 maggio 2013, n. 6900
Misure di prevenzione: violazione dell’obbligo di frequentare pre‑
giudicati – Reiterazione della condotta
(art. 9 l. 1423/56)
La reiterata frequentazione con il soggetto pregiudicato,
accertata dalla P.G. a distanza di pochi giorni l’una dall’altra,
è indice di abitualità della condotta e, quindi, della pericolo‑
sità sociale che la misura di prevenzione mira ad eliminare.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 6 maggio 2013, n. 6900
Misure di prevenzione: violazione dell’obbligo di non associarsi a
persone pericolose – Familiare – Irrilevanza
(art. 9 l. 1423/56)
In tema di contravvenzione agli obblighi inerenti alla sor‑
veglianza speciale di pubblica sicurezza, la prescrizione di non
associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condan‑
ne o sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza
non va intesa nel senso letterale che l'espressione ha nella legis‑
lazione penale, con il richiamo a profili di comunanza di vita e
di interessi, ma deve essere riferita esclusivamente alla nozio‑
ne di pericolosità sociale che qualifica la materia delle misure
di prevenzione. Ne consegue che, ai fini della configurabilità
della citata contravvenzione, non è richiesta la costante e as‑
sidua relazione interpersonale, ben potendo la reiterata fre‑
quentazione essere assunta a sintomo univoco dell'abitualità
di tale comportamento. Non assume rilievo, secondo i giudici
di legittimità, la circostanza che la persona frequentata sia un
familiare del sorvegliato speciale posto che la norma non pre‑
vede eccezioni al riguardo.
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 6 maggio 2013, n. 6900
Stupefacenti: attenuante della lieve entità – Criteri di applicazione
(art. 73 co. 5 d.P.R. 309/90)
Non si ritiene possa essere concessa la circostanza attenu‑
ante di cui all’art. 73 co. 5 d.P.R. 309/90, in caso di gestione
2 0 1 3
107
dell'attività illecita in argomento all’interno del domicilio, ove
gli imputati disponevano di un rilevante quantitativo di stupe‑
facente caduto in sequestro e di denaro che era certo provento
dell’illecita attività, non risultando percettori di redditi di na‑
tura diversa.
Tribunale Napoli, G.u.p. Ferri
sentenza 15 maggio 2013, n. 1050
Stupefacenti: concorso nel reato permanente – Accertamento – Cri‑
teri di distinzione con il reato di favoreggiamento
(art. 73 d.P.R. 309/90)
In tema di violazione della disciplina degli stupefacenti,
alla cui stregua, se nel corso dell'azione relativa a reato perma‑
nente posto in essere da taluno, altri intervenga per prestare
la propria opera, in quest'ultima condotta deve ravvisarsi al‑
ternativamente il concorso nel reato permanente o il delitto di
favoreggiamento personale, secondo una concreta valutazione
dell'elemento soggettivo. Secondo tale insegnamento, quindi,
il giudice di merito “deve portare il suo esame sull'animus
dell'agente per accertare se in lui vi fosse l'intenzione di par‑
tecipare positivamente all’azione già posta in essere da altri
oppure di aiutare il responsabile del reato ad eludere le investi‑
gazioni dell'autorità.
Tribunale Nola, G.u.p. Sepe
sentenza 30 aprile 2013, n. 236
Stupefacenti: favoreggiamento e reato permanente – Compatibili‑
tà – Distinzione con il concorso nel reato – Individuazione dell’ele‑
mento soggettivo
(art. 73 d.P.R. 309/90 – 110 c.p. – 378 c.p.)
La condivisa giurisprudenza della S.C. che ammette la
compatibilità tra favoreggiamento e reato permanente enfatiz‑
za il ruolo dell'elemento psicologico ai fini della distinzione tra
le due figure. Tuttavia merita di essere rimarcato il prioritario
e non minore ruolo discretivo dell'apporto causale dell'azione:
per ritenere il concorso nell'illecito permanente occorre che si
configuri un'influenza concreta e significativa sulla situazione
illecita in atto. Tale ordine concettuale, può essere applicato
in linea di principio anche a fattispecie come quelle in tema
di detenzione illegale di stupefacenti o di armi. Tuttavia, oc‑
corre pure considerare che tali illeciti presentano una struttura
assai semplificata rispetto a reati complessi come quelli asso‑
ciativi; sicché una condotta di aiuto al reo si risolve di regola
in un apporto alla protrazione della situazione antigiuridica.
Peraltro, sebbene questo sia l'ordinario andamento delle cose,
non può pregiudizialmente escludersi che l'aiuto prestato non
incida positivamente sull'illecito, o addirittura sì risolva in‑
teramente in un apporto alla sua cessazione; come nel caso,
riscontrato nella prassi (Cass. VI, 6 giugno 1995, Rv. 202186),
in cui l'agente, senza cooperare nella detenzione illecita, aiuti
il detentore a disperdere la sostanza illecita nell'imminenza di
un controllo di polizia. Nei casi dubbi un ruolo significativo
assume, come si è già accennato, l'elemento psicologico. Si
tratta di verificare l'esistenza del dolo di concorso nel reato
permanente, che vale senza dubbio a colorare e caratterizzare
situazioni dubbie, consentendo di distinguere tra l'una fat‑
tispecie e l'altra.”.
Tribunale Nola, G.u.p. Sepe
sentenza 30 aprile 2013, n. 236
penale
Gazzetta
Diritto amministrativo
Attribuzione dei compensi ai membri di organi collegiali
(consiglio di amministrazione e collegio sindacale) di aziende speciali ed istituzioni 111
Francesco Rinaldi e Luigi Molvetti
Il sistema normativo delle immissioni acustiche
(Legge 447/95 e Dpcm 14.11.1997)
114
Marialetizia Margarita
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture
(d.lgs. 12 Aprile 2006, n.163 e ss. mm.)
121
amministrativo
A cura di Almerina Bove
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
●
Attribuzione dei compensi
ai membri di organi
collegiali (consiglio
di amministrazione
e collegio sindacale)
di aziende speciali
ed istituzioni
● Francesco Rinaldi e Luigi Molvetti
Avvocati
2 0 1 3
111
Sommario: Premessa – 1. La mens legis della scelta legislati‑
va – 2. La problematica individuazione del momento di
«azzeramento» dei compensi, anche per effetto della soprav‑
venuta «legge di interpretazione autentica» – 3. Segue: la
«legge di interpretazione autentica» (l. n. 35 del 4.4.2012,
art. 35, co. 2, bis) ed i suoi effetti – 4. L’art. 6, co. 3, del
78/2010, conv. in l. 122/2010 – 5. Considerazioni conclusive:
la controversa configurazione ed efficacia delle leggi di inter‑
pretazione autentica.
Premessa
Le brevi riflessioni qui proposte traggono spunto dalla
complessa problematica interpretativa di recente manifesta‑
tasi in relazione alla controversa attribuzione di compensi in
favore di componenti di organi collegiali di aziende speciali o
istituzioni a queste facenti riferimento.
Si discute, in particolare, dell’ambito di applicazione del
divieto di attribuzione di compensi di cui al D.L. 78 del 2010
conv. in l. 122 del 2010, spec. art. 6, co. 2, modificato con
«legge di interpretazione autentica», art. 35 co. 2 bis l. n. 35
del 4.4.2012.
Ebbene, la disposizione normativa, nella sua formulazione
antecedente alla sopravvenuta modifica legislativa, stabiliva
testualmente quanto segue: «a decorrere dalla data di entrata
in vigore del presente decreto la partecipazione agli organi
collegiali, anche di amministrazione, degli enti, che comunque
ricevono contributi a carico delle finanze pubbliche, nonché
la titolarità di organi dei predetti enti è onorifica; essa può
dar luogo esclusivamente al rimborso delle spese sostenute ove
previsto dalla normativa vigente; qualora siano già previsti i
gettoni di presenza non possono superare l’importo di 30
euro a seduta giornaliera. La violazione di quanto previsto dal
presente comma determina responsabilità erariale e gli atti
adottati dagli organi degli enti e degli organismi pubblici in‑
teressati sono nulli. Gli Enti privati che non si adeguano a
quanto disposto dal presente comma non possono ricevere,
neanche indirettamente, contributi o utilità a carico delle
pubbliche finanze (…)».
Ci si chiede, dunque, se i componenti del collegio sinda‑
cale o collegio dei revisori e del c. di a. di una azienda specia‑
le possano continuare a ricevere i compensi attribuiti, prima
dell’entrata in vigore della citata disciplina; ed in particolare,
prima della riforma sopravvenuta nel mese di aprile del
2012.
1. La mens legis della scelta legislativa
Al quesito, come posto ed ante riforma, può essere data,
forse a ragione, risposta negativa, nel senso, cioè, che, «sicu‑
ramente, dopo l’entrata in vigore del citato decreto legge
(art. 6, comma 2) non possibile attribuire alcun compenso ai
soggetti che facciano parte di organi collegiali delle aziende
speciali».
Non sembra sorgano dubbi circa l’applicabilità del citato
art. 6. co. 2 al caso dell’azienda speciale, ente strumentale del
Comune e, dunque, ente pubblico, secondo la previsione di
cui all’art. 114 T.U.E.L..
Nota e condivisa è la mens legis della previsione norma‑
tiva annotata. ovvero, da un lato, la natura onorifica e gratu‑
ita di simili incarichi; da un altro lato, la necessità di conte‑
nere e, dunque, ridurre i costi relativi alla spesa pubblica, in
amministrativo
Gazzetta
112
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
attuazione di ovvie regole di razionalizzazione della spesa
pubblica, sia dello Stato che degli enti locali, anche in funzio‑
ne di controllo e di rispetto dei vincoli di bilancio. In tal
senso, sembrano deporre anche le disposizioni del citato
TUEL e, segnatamente, dell’art. 114.
In una simile prospettiva, appare, dunque, condivisibile la
scelta legislativa anche al fine di evitare il rischio di una «du‑
plicazione di compensi per remunerare le medesime funzioni
amministrative perseguite dall’ente strumentale, ma imputa‑
bili all’ente locale costituente».
Non pare, difatti, potersi lasciare in ombra la circostanza
che, specialmente nei casi di aziende speciali e strumentali di
enti locali, sembra configurabile appieno quel rapporto di
«contribuzione» diretta tra l’ente locale e l’ente strumentale,
in questa direzione ricevendo detti enti «contributi a carico
delle finanze pubbliche» (art. 6, co. 2, cit.). Locuzione, questa,
da intendersi in senso particolarmente ampio, «quale attribu‑
zione da parte dell’ente pubblico di qualsiasi utilità suscetti‑
bile di valutazione economica»; «in aderenza alla ratio di
razionalizzazione degli organismi intermedi tra ente locale e
cittadino», proprio in quella delineata prospettiva di riduzio‑
ne dei costi degli apparati amministrativi.
In simili ipotesi, difatti, per intenderci, è il Comune che
conferisce il capitale in dotazione all’azienda, ed inoltre, cor‑
risponde direttamente il canone per la gestione del servizio
affidato all’azienda speciale e strumentale.
Appare, dunque, chiara e ragionevole la indicata scelta
legislativa di azzerare i compensi per la partecipazione a det‑
ti organo collegiali in organismi strumentali che dipendono
finanziariamente dall’ente locale di riferimento.
2. La problematica individuazione del momento di «azzeramento»
dei compensi, anche per effetto della sopravvenuta «legge di
interpretazione autentica»
Ciò posto, per la verità, già ante riforma del mese di apri‑
le del 2012, un profilo della complessa fattispecie in esame,
appariva problematico.
Si tratta del momento a decorrere dal quale diventa appli‑
cabile il descritto «azzeramento» dei compensi.
Ci si chiede, cioè, se l’art. 6, co. 2, trovi immediata appli‑
cazione, naturalmente a decorrere dalla data di entrata in
vigore; ovvero, se, invece, come sembra accadere specifica‑
mente nel caso della riduzione di compensi per le partecipate
di cui al co. 6 dell’art. 6, decorra dalla scadenza del primo
mandato successivo all’entrata in vigore del d.l. 78 del 2010.
Per quanto si tratti di due distinte disposizioni normative,
peraltro, di stretta interpretazione, l’una dettata per gli enti
strumentali e con portata particolarmente ampia e generale
(il co. 2 dell’art. 6), l’altra, con portata particolarmente ristret‑
ta ai casi ivi precisati e segnatamente al caso delle società
partecipate (il co. 6 dell’art. 6); tuttavia, non può non pren‑
dersi in debita considerazione la circostanza che detti com‑
pensi prima dell’entrata in vigore della normativa venivano
corrisposti ai componenti dei suddetti organi collegiali, i
quali, ora, invece, ne vengono privati, con ovvie conseguenze
in termini di programmazione finanziaria individuale.
In effetti, il dubbio interpretativo può porsi, nel senso,
cioè, se detto azzeramento dei compensi – come nel caso del‑
la riduzione – possa o meno essere applicato successivamente
alla scadenza del primo mandato successivamente all’entrata
Gazzetta
F O R E N S E
in vigore della annotata disciplina. E per quanto neppure
pare potersi tralasciare quella che sembra pur sempre costitu‑
ire l’interpretazione condivisa specialmente dagli organi di
controllo (Corte dei Conti), ossia della immediata applicabi‑
lità – e dunque eliminazione dei compensi – nel caso previsto
dell’art. 6, co. 2, ossia degli enti strumentali.
In definitiva, prima della suindicata disposizione di «in‑
terpretazione autentica» (art. 35 co. 2 bis l. n. 35 del 2012),
che ha modificato la portata dell’art. 6., co. 2 bis, poteva,
forse correttamente, concludersi nel senso che, senza operare
alcuna distinzione tra organo di gestione (consiglio di ammi‑
nistrazione) e organo di controllo (collegio sindacale o dei
revisori) di azienda speciale, i relativi incarichi avevano esclu‑
sivamente natura onorifica e, dunque, gratuita, per intender‑
ci, remunerati solo con un gettone di presenza di importo non
superiore a trenta euro.
3. Segue: la «legge di interpretazione autentica» (l. n. 35 del
4.4.2012, art. 35, co. 2, bis) ed i suoi effetti
La situazione è mutata, in parte, dopo l’intervento legisla‑
tivo ad opera del citato art. 35 co. 2 bis l. n. 35 del 2012.
Questa disposizione, che lo stesso legislatore autodefinisce
di interpretazione autentica dell’art. 6 co. 2, sembra, in effet‑
ti, introdurre una differenziazione tra l’organo di controllo
(collegio sindacale, collegio dei revisori) e l’organo di gestione
(consiglio di amministrazione), nel senso, cioè, che l’organo
collegiale di controllo è escluso dalla previsione normativa
preclusiva dell’attribuzione dell’emolumento (art. 6 co. 2);
invece, l’organo amministrativo ne rimane assoggettato.
L’art. 35, co. 2 bis, stabilisce, difatti, testualmente quanto
segue: «la disposizione di cui all’art. 6 co. 2 del d.l. 31.5.2010
n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30.7.2010
n. 122, si interpreta nel senso che il carattere onorifico della
partecipazione agli organi collegiali e della titolarità degli
organi degli enti che comunque ricevono contributi a carico
della finanza pubblica è previsto per gli organi diversi dai
collegi dei revisori dei conti e sindacali e da revisori dei con‑
ti».
La norma – che, come accennato, si autodefinisce di in‑
terpretazione autentica –, dunque, esclude la natura onorifi‑
ca (ossia gratuita e remunerata solo con il gettone di presenza
di 30 euro) dell’incarico solo con riferimento all’organo col‑
legiale di controllo (collegio sindacale e dei revisori), con
l’ovvia conseguenza che detto organo potrà continuare ad
essere remunerato.
La necessità di una, peraltro discutibile, norma di inter‑
pretazione autentica (art. 35, co. 2, bis) sembra, tuttavia,
porre in debita evidenza l’oggettiva ambiguità del dato nor‑
mativo e, per effetto, l’incertezza della relativa interpretazio‑
ne.
4. L’art. 6, co. 3, del 78/2010, conv. in l. 122/2010
Un’ulteriore considerazione pare utile effettuare.
La norma di interpretazione autentica è intervenuta esclu‑
sivamente in relazione all’ambito di applicazione dell’art. 6
co. 2, lasciando aperta, pertanto, la ulteriore problematica
relativa all’applicabilità dell’art. 6. co. 3, senza alcuna distin‑
zione per tipologia di organo (collegiale o no e di controllo o
meno) e di compenso, stabilisce una riduzione del 10 % del
compenso in precedenza pattuito.
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
Ove si ritenga detta ultima disposizione (art. 6 co. 3) ap‑
plicabile anche gli Enti Locali ed alle Aziende speciali, potrà,
allora, essere comunque applicata detta riduzione percentua‑
le. In argomento, secondo il parere della Corte dei Conti
Lombardia, sez. Controllo, del 20.8.2012, n. 378, «l’art. 6 co.
3 si applica anche ai revisori dei conti. E ciò vale anche dopo
l’introduzione dell’art. 35, co. 2 bis, del d.l. n. 5 del 2012,
conv. in l. n. 35 del 2012, che interpretando l’art. 6 co. 2 (e
non compare il 3), si riferisce al “carattere onorifico della
partecipazione agli organi collegiali”, che non si applica al
collegio dei revisori. Ciò significa che l’attività svolta dai
collegi di revisione non può avere carattere onorifico: ciò non
togie, però, che anche ai revisori si applichi la riduzione del
10 % prevista dall’art. 6. In altre parole, i revisori devono
essere retribuiti in misura ridotta secondo i criteri stabiliti dal
comma 3 dell’art. 6 della l. 122 del 2010».
5. Considerazioni conclusive: la controversa configurazione ed
efficacia delle leggi di interpretazione autentica
Un ultimo profilo dell’indagine qui intrapresa rende ne‑
cessarie alcune ulteriori considerazioni, ovvero la dibattuta
configurazione ed efficacia delle leggi c.d. di interpretazione
autentica che, seppure con ogni dovuta distinzione e precisa‑
zione, in linea generale non sembrano poter, sic et simpliciter,
introdurre nuove disposizioni normative, peraltro, con effica‑
cia retroattiva.
In argomento, è da segnalare una significativa decisione
della Corte Costituzionale, per la quale «il legislatore può
adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in
presenza di incertezza sull'applicazione di una disposizione o
di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la scelta impo‑
sta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo
originario, così rendendo vincolante un significato ascrivibile
ad una norma anteriore. Non è decisivo verificare se la norma
censurata abbia carattere interpretativo, e sia perciò retroattiva,
ovvero sia innovativa con efficacia retroattiva. Invero, in en‑
trambi i casi si tratta di accertare se la retroattività della norma,
il cui divieto non è stato elevato a dignità costituzionale, salvo
il disposto dell'art. 25, secondo comma, Cost., trovi adeguata
giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti
con altri valori e interessi costituzionalmente protetti».
Sorge, dunque, altra questione, alla quale in questa sede,
2 0 1 3
113
anche per ovvie ragioni di sintesi, è possibile soltanto un
cenno, meritando ben altro approfondimento.
Ebbene, ci si chiede se, nel caso di specie, ci si trovi dinan‑
zi ad una legittima ed ammissibile disposizione normativa di
effettiva interpretazione autentica o, più semplicemente, si
tratti di una norma sopravvenuta di modifica della pregressa
disciplina, con l’ovvia conseguenza dell’opportunità di un
vaglio anche in termini di costituzionalità, al fine pure di
chiarire la portata retroattiva o meno della stessa.
Con specifico riferimento al caso delle aziende speciali può
sorgere, difatti, questione in relazione ai compensi eventual‑
mente erogati (consiglio di amministrazione) ed a quelli
eventualmente non erogati (collegio sindacale e revisori), e
conseguenti diritti ed obblighi restitutori.
La complessità delle questioni poste appare, dunque, eviden‑
te, unitamente all’assenza, allo stato, di un consolidato orienta‑
mento, se non altro per la giovane età della disciplina, suggeri‑
scono, anche per ovvie ragioni di prudenza (attese le gravi re‑
sponsabilità conseguenti: responsabilità erariale, nullità della
delibera e conseguenze finanziarie), non soltanto interpretazio‑
ni restrittive della disciplina di riferimento, nella direzione di un
giusto e ragionevole contenimento della spesa pubblica, ma
anche un’adeguata interlocuzione collaborativa da parte dell’En‑
te Pubblico con l’Organo di controllo dei giudici contabili, in‑
nanzi ai quali potranno essere rimessi i relativi quesiti.
Ed in particolare, ci si chiede, al riguardo, se, ed ove pos‑
sibile, potrebbe la Corte dei Conti, in sede consultiva e di
controllo, chiarire anche la natura di effettiva norma di in‑
terpretazione autentica dell’art. 35 co. 2 bis l. 35/2012, al
fine di definirne la sua portata retorattiva o meno circa even‑
tuali diritti ed obblighi restituori, nel senso dianzi chiarito; e,
se del caso, sollevare eventuale questione di costituzionalità
della suddetta norma, per contrasto con il principio di ragio‑
nevolezza, di eguaglianza e di irretroattività della legge di cui
in Costituzione (art. 3 Cost.).
Non sembra, difatti, da doversi considerare «concepibile
uno straripamento del potere legislativo, essendo la funzione
giurisdizionale necessariamente applicativa delle disposizioni
vigenti, per cui, se la legge muta o se, con ulteriore legge,
viene attribuito a precedenti disposizioni un determinato si‑
gnificato, il giudice non può non essere vincolato dalla volon‑
tà del legislatore».
amministrativo
Gazzetta
114
d i r i t t o
●
Il sistema normativo
delle immissioni acustiche
(Legge 447/95 e Dpcm 14.11.1997)
● Marialetizia Margarita
Dottore in giurisprudenza‑specializzata
in Diritto d’Impresa
a m m i n i s t r at i v o
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F O R E N S E
Sommario: 1. Il sistema normativo delle immissioni acustiche
(legge 447/95 e dpcm 14.11.1997 – 2. Diversità rispetto al
sistema civilistico delle immissioni ex art. 844 c.c.; “accetta‑
bililtà pubblicistica e tollerabilità privatistica” – 3. La dibat‑
tuta questione del rumore da movida e il potere di ordinanza
extra ordinem.
1. Il sistema normativo delle immissioni acustiche (legge 447/95
e dpcm 14.11.1997)
La normativa anti‑inquinamento acustico è assai vasta ed
intricata, frutto della stratificazione e dell’intreccio di nome
riconducili a diversi livelli ordinamentali1.
La normativa fondamentale si rinviene nella legge quadro
447/95 che obbliga le Regioni a definire, mediante apposite
norme tecniche attuative, i criteri in base ai quali i Comuni
devono effettuare la zonizzazione acustica e cioè la suddivi‑
sone del territorio in zone a diverso livello di protezione, come
previsto dal Dpcm marzo 1991.
Le Regioni devono predisporre un piano triennale di in‑
tervento per la bonifica del territorio dell’inquinamento
acustico, al quale i singoli piani di risanamento acustico co‑
munali devono adeguarsi.
Il Dpcm 14 novembre 1997 ha determinato i valori limite
di emissioni dei rumori, di immissione, di qualità e di atten‑
zione così come definiti nella legge quadro. Il Dcpm di cui
sopra ha introdotto il criterio differenziale, basato appunto
sulla differenza tra il livello equivalente del rumore ambien‑
tale e quello del rumore residuo; il limite è stabilito in 5 deci‑
bel per il periodo diurno e 3 per quello notturno; la verifica
basata sui limiti connessi col criterio differenziale va effettua‑
ta all’interno degli ambienti abitativi e nel tempo di osserva‑
zione del fenomeno acustico, fatte salve determinate eccezio‑
ni tassativamente previste nelle quali tali limiti non si appli‑
cano2.
È nota la distinzione tra inquinamento indoor‑outdoor3:
l’inquinamento outdoor è prodotto in larga misura dalle
emissioni che entrando nella sfera individuale dei soggetti, si
traducono in immissioni; spesso quest’ultime anche se non
direttamente nocive per la salute umana risultano comunque
intollerabili.
La tollerabilità è uno dei punti cruciali del tema trattato
e su di essa si tornerà più nello specifico di seguito, va comun‑
que fin d’ora affermato che per la che risoluzione del problema
è necessaria una attenta e meticolosa prevenzione che può e
deve concretizzarsi attraverso un meccanismo legato da saldi
anelli composto da normative scientifiche rigorose e autorità
di controllo dotate di poteri e strumenti efficaci.
Nel caso di vuoti normativi causati dall’inerzia del Comu‑
ne nel formulare il piano di zonizzazione acustica si applicano
transitoriamente (e solo per le sorgenti fisse), i limiti assoluti
e differenziali riportati nella Tabella 1 dell’articolo 6 del so‑
prarichiamato Dcpm marzo 1991.
Il quadro normativo parte, dunque, dalla legge quadro
1 Utili indicazioni, da ultimo, in Giorgio Campolongo, Il rumore del vicinato nelle
controversie giudiziarie, 2012, 2 ed. Maggioli Editore.
2 Il Sole 24 Ore, Le Guide, La lotta al rumore, lunedì 15 dicembre 2008, articolo a
cura di Ezio Rendina, p. 3 e ss.
3 Cfr. Le immissioni, Giurisprudenza critica di Marcello Adriano Mazzola edizioni
UTET, p. 239 e ss.
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447/95, e, fatto salvo il ruolo decisivo dei governi decentrati
e locali, appare utile specificarne il contenuto: i protagonisti
della “lotta al rumore” sono i Comuni.
Ai comuni spettano sia il compito della redazione della
relazione biennale sullo stato acustico (obbligatoria per i
Comuni che superano i 50.000 abitanti), sia del piano comu‑
nale di azzonamento acustico con cui si definiscono i limiti di
legge che l’amministrazione intende mantenere nel proprio
territorio nonché del piano comunale di risanamento acustico
con cui si mira a raggiungere gli obiettivi fissati nella zoniz‑
zazione e i progetti di mitigazione sonora.
Le province hanno poteri più limitati perché la legge qua‑
dro 447/95 demanda alle Regioni il compito di definirle
competenze in materia, anche se spetta loro il compito di
esercitare le funzioni di controllo e vigilanza tramite le ARPA
locali.
L’ARPA, agenzia regionale per l’ambiente, fu istituita
dalla legge 21 gennaio 1994, n.61. Divenuta operative trami‑
te apposite normative locali in tutte le regioni e province au‑
tonome, l’ARPA ha almeno quattro compiti:
‑ raccogliere ed elaborare dati ambientali;
‑ fornire pareri sulla congruità normativa;
‑ eseguire consulenze tecniche per le Regioni;
‑ verificare il rispetto della legge.
Inoltre, ciascun ARPA mette a disposizione consulenze a
pagamento e attività di controllo in favore di associazioni di
imprese e dei cittadini.
In fine, alle Regioni spetta l’obbligo di emanare i criteri
tecnici di dettaglio per la definizione dei piani di zonizzazio‑
ne e risanamento acustico, il potere di sostituzione in caso di
inerzia dei Comuni, l’obbligo di verificare il rispetto della
legge dello Stato in relazione alle concessioni edilizie e le
modalità per il rilascio delle relative autorizzazioni comunali;
devono poi identificare gli interventi di bonifica con priorità,
organizzare i controlli regionali e tenere l’albo dei tecnici
autorizzati.
Perinquadrare le dimensioni del fenomeno dell’inquina‑
mento acustico, basti considerare che l’Ufficio regionale per
l’Europa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha con‑
statato che un europeo su cinque è esposto a rumori prolun‑
gati, anche nelle ore notturne:in Italia sono ben 6 milioni le
persone colpite da inquinamento acustico, sono circa cinque‑
cento mila le cause civili ed altrettante le persone che reagi‑
scono al rumore con gli strumenti che l’ordinamento consen‑
te loro.
Si tratta di cifre elevate e quindi preoccupanti, se si consi‑
dera quella fetta di popolazione, al di fuori di ogni statistica,
la quale, non conoscendo gli strumenti giuridici, subisce ras‑
segnata gli effetti del rumore.
La tutela contro il rumore si articola in quattro strumen‑
ti4: il ricorso al giudice di pace ex art. 884 c.c., un esposto
amministrativo con richiesta di sopralluogo all’Agenzia Re‑
gionale dell’Ambiente in base alla legge 447/95, la richiesta di
intervento della forza pubblica in base all’articolo 659 c.p. ed,
infine, la citazione in giudizio del costruttore.
2. Diversità rispetto al sistema civilistico delle immissioni ex art. 844
c.c.; “accettabilità pubblicistica e tollerabilità privatistica”.
L’art. 844, del codice civile, vieta le “immissioni di fumo
e di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti” che supe‑
rino la normale tollerabilità e, al contempo, afferma che il
giudice “deve contemperare le esigenze della produzione con
le ragioni della proprietà”. È la norma fondamentale per il
singolo che subisce il rumore, consentendo la reazione e tute‑
la in sede giudiziale,allorché le immissioni cui è sottoposto,
superino la normale tollerabilità.
L’intenzione del legislatore del 1942 era quella di regolare
i conflitti che sarebbero potuti sorgere tra proprietari di fon‑
di contigui, contemperando le esigenze del proprietario con
quelle della produzione.
L’unico requisito che il produttore doveva soddisfare era
quello di mantenere le immissioni entro la soglia della norma‑
le tollerabilità. Il problema principale posto dalla norma in
esame, è quello di individuare la linea di demarcazione fra
immissioni che non possono essere impedite ma solo subite
dal proprietario immesso, e quelle che invece possono essere
inibite perché superano il limite della normale tollerabilità5.
Il criterio della normale tollerabilità non è assoluto, ma va
contemperato con la condizione dei luoghi in cui si produce
l’immissione. La giurisprudenza tende a differenziare l’accer‑
tamento a seconda che si tratti di una zona industriale ovvero
residenziale, avendo riguardo alla situazione del fondo che
riceve le immissioni.
La giurisprudenza, inoltre, dietro indicazioni di tipo me‑
dico scientifico, considera intollerabili le immissioni che su‑
perino di tre decibel il rumore di fondo di quella zona. La
normativa pubblicistica, invece, non ha come suo obiettivo
primario la tutela del singolo bensì è finalizzata alla tutela
della collettività: contempera le esigenze collettive alla frui‑
zione di un ambiente meno inquinato con le altre esigenze,
spesso con questo configgenti, della produzione, del commer‑
cio: considera che il rumore sia un male necessario e cerca di
contenerlo e gestirlo, fissa dei limiti di accettabilità del rumo‑
re, sia in emissione (rumore misurato in prossimità della
fonte), sia di immissione (rumore misurato in prossimità del
ricevente); limiti che possono cambiano a seconda della zona
della città e la fascia oraria, diurna (6‑22) o notturna (22‑6).
I Comuni hanno, tra i molti altri in materia, il compito di
verificare il rispetto dei limiti di accettabilità, procedendo a
verifiche con loro tecnici (Polizia Municipale, sezione acusti‑
ca) e/o dell’ ARPA.).
Senza entrare nello specifico, si può pacificamente affer‑
mare che i limiti della normale tollerabilità sono molto più
rigorosi rispetto ai limiti della accettabilità. Un rumore può
rientrare nei limiti di accettabilità, ma essere superiore alla
“normale tollerabilità”. In tal caso il singolo danneggiato può
reagire e far cessare o diminuire il rumore.
La distinzione sostanziale, spesso ricorrente nelle corti
civili riguarda i concetti di accettabilità (prescritta dalle nor‑
mative antinquinamento) e di tollerabilità (prescritta dall’ar‑
ticolo 844 c.c. e ricavata dal giudice con l’uso dei criteri ripo‑
sti nella norma).
4 Il Sole 24 Ore, Le Guide, La lotta al rumore, lunedì 15 dicembre 2008, articolo a
cura di Silvio Rezzonico e Giovanni Tucci, p. 11 e ss.
5 Itinerari schematici di diritto civile edizione Simone ED MCM Militerni, p. 267
e ss.
amministrativo
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Al fine di determinare quando le immissioni sonore sono
tollerabili, i limiti di accettabilità fissati dal Dpcm 1 marzo del
1991 sono del tutto diversi dai limiti di tollerabilità ex art. 884
c.c.: i primi ben possono essere rispettati pur non essendolo i
secondi, dato che questi ultimi fanno riferimento a situazioni
che possono anche non determinare un fenomeno di inquina‑
mento acustico e risultare egualmente intollerabili.
La distinzione formale‑nominale intende rimarcare una
distinzione sostanziale.
Nel diritto pubblicistico la metodologia di valutazione è
affidata ai Tecnici competenti in acustica ambientale, iscritti
in un elenco regionale; le norme pubblicistiche si applicano
alla Pubblica Amministrazione e ne regolano le funzioni.
Queste norme non hanno un indirizzo di “tutela della salute”
o di salvaguardia dei diritti dei singoli, ma hanno valenza
socio – economica e politica, impongono, infatti, criteri di
valutazione sulla accettabilità delle immissioni.
Nel diritto privatistico, invece, si vuole valutare se le im‑
missioni rientrano nei limiti della tollerabilità, che viene va‑
lutata dal punto di vista medico e giuridico sulla base della
percettibilità soggettiva e pertanto ne consegue che se l’im‑
missione è chiaramente percettibile allora è intollerabile.
L’ammissibilità indica quel livello di immissione rumoro‑
sa, considerata in relazione ad un ambiente esterno o abitati‑
vo, che, prescindendo dalle esigenze del suo fruitore, sia
compresa entro ilimiti stabiliti.
Quindi il soggetto passivo dell’immissione è normativa‑
mente irrilevante, non avendo tutela, nel caso in cui l’immis‑
sione sia per lui intollerabile, ma ammissibile.
La tollerabilità indica un livello massimo di immissione
rumorosa, considerata in relazione al soggetto passivo di un
bene immesso, con l’intento di salvaguardare la sua integrità
psicofisica.
Quindi il soggetto passivo specificamente individuato
costituisce il parametro essenziale per la qualificazione giuri‑
dica della tollerabilità, che non può mai essere astratta, ma
deve essere valutata e rapportata alle specificità della situa‑
zione di cui si controverte.
L’articolo 844 c.c. tutela il soggetto in quanto individuo
vittima di immissioni intollerabili e quindi prescinde dal ri‑
lievo pubblicistico delle stesse. Ne consegue che le immissioni
potrebbero essere rispettose dei limiti di ammissibilità pub‑
blicistici, ma risultare in concreto intollerabili.
É indiscutibile il fatto che l’individuo disturbato in quan‑
to cittadino abbia diritto a fruire della tutela apprestata dalle
normativa pubblicistica contro l’inquinamento acustico.
Questa tutela termina nell’istante in cui il livello di am‑
missibilità del rumore normativamente fissato risulti esser
stato rispettato, dopo esser stato misurato – attenzione a
questo passaggio sul quale si ritornerà – con le tecniche fissa‑
te dalla normativa pubblicistica stessa.
La mancata autonoma considerazione degli interessi pri‑
vati emerge da un rilievo evidente: la legge non prevede alcu‑
na azione del privato diretta alla sua autonoma tutela, quindi
a prescindere dall’interesse pubblico.
Si può quindi affermare che la normativa antinquinamen‑
to di cui si discute, concerne esclusivamente il profilo pubbli‑
cistico della tutela, quello cioè che la p.a. deve apprestare in
via generale a presidio della incolumità psicofisica della col‑
lettività.
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In tale ambito gli eventuali interessi particolari dei citta‑
dini trovano tutela solo indirettamente e nella misura in cui
coincidono, in tutto od in parte, con l’interesse pubblico an‑
zidetto (il che è applicazione del principio generalissimo del
diritto amministrativo per cui l’interesse individuale è tutela‑
to solo se coincide con quello pubblico).
Per la porzione di non coincidenza, la Legge Quadro non
offre tutela, e per il singolo la sola via resta l’art. 844 c.c.
Sempre sul punto che la L. 447/95 non considera il singo‑
lo come destinatario della sua tutela, che appresta solo se il
di lui interesse coincide con quello collettivo, è da osservare
che il campo di applicazione della norma pubblicistica varia
in riferimento ad ampie e generali classi di destinazione d’uso
del territorio, mentre invece il solo ed unico ambito conside‑
rato dall’art. 844 c.c. è il (e solo quello) fondo immesso.
Il solo destinatario diretto dell’art. 844 é il giudice, cui è
demandato di individuare il precetto a seconda del caso con‑
creto mentre destinatari solo indiretti, in quanto tenuti al ri‑
spetto della pronuncia giudiziale, sono i cittadini.
Della legge 1995, n. 447 i destinatari sono i vari enti pub‑
blici la cui competenza é fissata ex art. 117 Cost. dalla legge
stessa, e così lo Stato, la Regione, la Provincia ed il Comu‑
ne.
Il criterio non può essere lo stesso dell’ammissibilità, per‑
ché – come si è detto – concerne un ambito ed un bene giuri‑
dico del tutto diversi da quelli che vengono in considerazione
ex art. 844 c.c.
Il criterio della normativa pubblicistica considera il livello
equivalente di rumorosità, e cioè la media di tutte le immis‑
sioni sonore ricevute dal soggetto passivo, inclusa l’immissio‑
ne indicata come intollerabile.
Ciò è incompatibile con la struttura della domanda basa‑
ta sull’art. 844 c.c. in quanto qui si chiede tutela contro una
determinata, specifica immissione rumorosa, ragion per cui
si deve isolare e valutare l’intollerabilità di questa.
I limiti di accettabilità sono dati rilevabili soltanto trami‑
te l’apparecchiatura tecnica, attraverso metodiche rigide e
predeterminate.
L’accertamento del limite della normale tollerabilità im‑
plica una valutazione che varia da caso a caso. Come sappia‑
mo, la giurisprudenza ha assunto come parametro di valenza
generale quello comparativo relativo (rilevato il rumore di
fondo, costituito dalla somma dei rumori normali, diversi da
quello dell’immissione dedotta in giudizio, eliminati quindi i
picchi anomali, occorre verificare se l’inserimento del rumore
dell’immissione determina un innalzamento del rumore, per
il soggetto passivo, pari o superiore a + 3dB (A) rispetto al
rumore di fondo), ma non è un parametro rigido tanto che il
Giudice potrebbe individuare la soglia del concreto disturbo
per quel singolo caso di cui si controverte in un valore diverso
dal + 3 dB.
Si segnala che la Corte di Cassazione, ancora con le recen‑
ti sentenze n. 3438 del n. 5564 del 2010 e la n. 939 del 2011,
ha riaffermato i seguenti concetti e regole nel rapporto tra le
due normative:
‑ un rumore che supera i limiti della accettabilità ammi‑
nistrativa è sempre eccedente il limite della normale tollerabi‑
lità;
‑ un determinato rumore può rientrare nei limiti di accet‑
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tabilità amministrativa ma essere eccedente il limite della
normale tollerabilità, con la conseguenza che quella attività
produttiva che emette il rumore “è in regola” nei confronti
della Pubblica Amministrazione; ma ciò non toglie che quel
rumore, nei confronti del privato, proprio perché superiore al
limite della normale tollerabilità, sia illecito;
‑ il parametro da utilizzare per stabilire se vi sia o meno
concreto disturbo per il privato non è tanto quello dell’accet‑
tabilità amministrativa, bensì quello della normale tollerabi‑
lità ex art. 844 c.c. al cui rispetto anche la Pubblica Ammini‑
strazione, laddove svolga delle attività, è comunque tenuta6.
Per effetto della una rumorosità che superi i limiti consen‑
titi dalla legge può essere riconosciuto al danneggiato il risar‑
cimento per danno al patrimonio ovvero ad altri interessi
protetti.
Per i primi si può pensare alla svalutazione commerciale
del proprio immobile ove esposto a gravi fenomeni inquinan‑
ti; per i secondi il danno alla salute o al peggioramento della
qualità della vita (danno esistenziale). Il soggetto che subisce
questi danni ha diritto ad ottenere il relativo risarcimento.
Il primo passo da consigliare per il soggetto che si ritiene
disturbato è quello di scrivere una diffida, direttamente o
tramite legale, intimando al responsabile la cessazione o la
riduzione delle immissioni rumorose. Se la diffida non ottiene
effetto, vi sono due strade: il ricorso all’autorità giudiziaria
(previa verifica che il rumore superi la normale tollerabilità o
i limiti di accettabilità, verifica che va fatta tramite tecnico
specializzato) oppure, purché il rumore derivi da attività
produttiva, può presentare un esposto al Comune. Questo,
avvalendosi di propri tecnici o del personale dell’ARPA, pro‑
cede alle verifiche con appositi strumenti. Ma attenzione, ciò
che i tecnici del Comune o ARPA controllano è se sono o
meno rispettati i limiti di accettabilità che, lo si ripete, sono
cosa diversa dalla normale tollerabilità di cui all’art. 844 cod.
civ., anche per i criteri di rilevazione. Se i tecnici riscontrano
che il rumore supera questi limiti di accettabilità, il Comune
sanziona il soggetto disturbante e dispone la cessazione /
contenimento del rumore. Se per qualsiasi ragione il soggetto
disturbato non ottiene rimedio (ad esempio, perché i tecnici
non hanno riscontrato il supero dei limiti di accettabilità ma
il rumore è comunque intollerabile – vedi esempio fatto in
precedenza‑ oppure perché il soggetto obbligato non adempie)
allora non vi sono alternative al ricorso all’azione giudiziale.
Proprio in considerazione del fatto che la sottoposizione a
rumore è causa di danno alla salute dell’individuo, bene pri‑
mario tutelato dall’art. 32 della Costituzione, è possibile ot‑
tenere in via di urgenza, e quindi in tempi molto brevi, un
ordine al soggetto disturbante (che sia privato o impresa o
Pubblica amministrazione è indifferente), di cessazione dell’at‑
tività causa di inquinamento o di contenimento del rumore
nei limiti della tollerabilità/accettabilità. La giurisprudenza
ha avuto, ed ha, un ruolo di primaria importanza nella lotta
contro il rumore, pronunciando innumerevoli sentenze che
hanno disposto sia la rimozione o il contenimento nei limiti
della tollerabilità/accettabilità del rumore disturbante,sia ri‑
conosciuto il diritto al risarcimento del danno, patrimoniale
6 Relazione sul tema Avvocati e cause: le forme di tutela dal rumore. Avv. Santo Durelli, Acustica in edilizia “Corso per tecnico acustico edile” ANIT.
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e non, per il soggetto che lo ha subito. Si rinvengono sentenze
su ogni tipologia di rumore (ad esempio: il rumore prodotto
dal vicino di casa, a quello del locale di intrattenimento mu‑
sicale, a quello delle campane, a quello di animali). Partico‑
larmente interessanti, per il fatto che trattasi di problematica
che interessa fasce estese di popolazione le sentenze che han‑
no disposto la chiusura di locali rumorosi e condannato pe‑
nalmente il gestore i cui avventori si intrattenevano fuori del
locale disturbando gli abitanti degli immobili circostanti.
Prima di dar corso all’azione giudiziale è tuttavia oppor‑
tuno che il soggetto faccia eseguire una perizia da tecnico
specializzato per verifica che il rumore disturbante superi
effettivamente il limite della normale tollerabilità o i limiti di
accettabilità.
Sono parecchie le pronunce giurisdizionali volte alla defi‑
nizione e netta separazione delle discipline in esame: la sen‑
tenza della Corte di Cassazione n. 17051 del 5.8.2011 torna
utile in questo caso in quanto precisa una questione di estrema
importanza: il contenzioso risolto prendeva origine dalle
immissioni rumorose causate dalle apparecchiature refrige‑
ranti di una salumeria, disturbanti ed “intollerabili” per il
proprietario dell’appartamento soprastante. La Corte non
statuisce l’intollerabilità in quanto gli accertamenti sono
stati condotti sulla base della valutazione soggettiva dell’in‑
tollerabilità non secondo il criterio comparativo. Ebbene
quando sorgono questioni relative al rumore tra privati il ri‑
spetto dei limiti di legge non è elemento in grado di qualifica‑
re come tollerabile o meno la fonte di rumore. L’accertamen‑
to è più complesso e richiede una valutazione del giudice caso
per caso, la verifica del mero rispetto del limite tabellare
previsto dalla legge 477/95 acquista rilevanza determinante
nei rapporti tra Pubblica Amministrazione e privato, quella
prevista dall’art. 844 c.c. incide, invece su questioni sorte tra
i privati. L’accertamento della normale tollerabilità ex art. 844
c.c. non coincide dunque con l’accertamento della violazione
del limite di accettabilità della legge pubblica n. 447/95.
Anche il Tar Toscana con sentenza n. 670 del 17.4.2009
ha statuito che: “Lo strumento che la legislazione di settore
mette a disposizione per reprimere le violazioni della discipli‑
na sull’inquinamento acustico è specificamente – nonché
unicamente – il potere di ordinanza ex art. 9 della l.
n. 447/1995: rimedio ordinario in materia di inquinamento
acustico, non attribuendo la citata legge speciale altri stru‑
menti alle Amministrazioni comunali. Non può peraltro es‑
sere reputato ordinario strumento di intervento – sul piano
amministrativo – la facoltà che l’art. 844 c.c. attribuisce al
privato di adire il G.O. per far cessare le immissioni dannose
eccedenti la normale tollerabilità”.
Ed ancora, il Tar Lombardia con sentenza n. 1814 del
2.11.2009 ha confermato: “Il superamento dei limiti di legge,
in materia di inquinamento acustico, implica automaticamen‑
te la sussistenza di una situazione di rischio per la salute
pubblica che i soggetti preposti al controllo sono tenuti a ri‑
muovere attraverso l’unico mezzo a disposizione rappresenta‑
to, per l’appunto, dall’ordinanza ai sensi dell’art. 9 della legge
447/95. La motivazione espressa per relationem al verbale dei
rilievi fonometrici operati dall’USSL appare, quindi, del tutto
sufficiente ad integrare il rispetto dell’obbligo di legge” e con
sentenza n. 5007 dell’ 11.11.2009 ha ribadito che: “Il Comu‑
ne ha il dovere di garantire per motivi di salute pubblica che
amministrativo
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la soglia del rumore prodotta nell’ambiente dalle varie attivi‑
tà umane non superi i livelli stabiliti dalla normativa per
evitare forme di inquinamento acustico e ciò niente ha a che
vedere con la tutela apprestata dall’ordinamento attraverso
l’istituto regolato dall’art. 844 c.c.”.
3. La dibattuta questione del rumore da movida e il pote‑
re di ordinanza extra ordinem
Le ordinanze di urgente necessità sono provvedimenti
amministrativi che pur rispettando il principio di legalità,
costituiscono un’eccezione alla regola della tipicità, ponendo‑
si come provvedimenti atipici. Il potere di ordinanza è ritenu‑
to quindi extra ordinem.
Si tratta di uno strumento posto a disposizione dell’am‑
ministrazione locale che si concretizza in un’ordinanza con‑
tingibile e urgente del sindaco, tale potere è stato attribuito
dal legislatore ad alcuni organi amministrativi specificamen‑
te indicati “di creare il diritto per il caso singolo, limitatamen‑
te a quelle situazioni di necessità e urgenza per le quali nes‑
suna norma può provvedere”7.
L’istituto in esame è caratterizzato da un’ampia discrezio‑
nalità amministrativa e tecnica riconosciuta al sindaco al fine
di far fronte ad imprevedibili situazioni di emergenza.
La contingibilità si verifica quando occorre provvedere in
relazione ad una situazione di necessità determinata da un
fatto di indole accidentale, fuori dall’ordine delle cose norma‑
li, imprevisto o imprevedibile al tempo in cui si è manifestato
ed avente il carattere della temporaneità (Tar Lombardia,
Brescia, sent. n. 672 del 11.6.1997); che la circostanza di
pericolo si protragga da tempo è però irrilevante sicché non è
illegittima un’ordinanza contingibile e urgente intervenuta su
una situazione di pericolo per la salute pubblica già esistente
e nota da tempo.
La proporzione del contenuto dell’ordinanza va poi valu‑
tata con riferimento al bene oggetto della tutela, spesso appa‑
re irragionevole una misura repressiva immediata e deve es‑
sere favorita una gradualità che sia frutto dell’esito del proce‑
dimento di accertamento che si articola in pareri, controlli o
audizioni delle parti interessate, questa fase, nota come istrut‑
toria tecnica, può soddisfare pienamente l’obbligo di motiva‑
zione tipico dell’istituto.
In fine non rileva la responsabilità soggettiva del soggetto
cui l’ordinanza è indirizzata in quanto non vi è natura san‑
zionatoria ma solo ripristinatoria né il provvedimento può
essere considerato illegittimo per violazione di legge e eccesso
di potere se è stato adottato senza la comunicazione di avvio
del procedimento.
I caratteri dell’istituto si delineano atipici se inquadrati
nell’abito del diritto amministrativo.
Il provvedimento non può essere adottato per far fronte a
situazioni privatistiche ed è molto difficile è tracciare una linea
tra salute pluri‑individuale e collettiva.
I provvedimenti d’urgenza rappresentano dunque stru‑
menti della Pubblica Amministrazione in grado di produrre
modificazioni nella sfera dei diritti e dei doveri soggettivi nei
confronti dei destinatari cui sono rivolte e sono caratterizza‑
7 Le immissioni, Giurisprudenza critica di Marcello Adriano Mazzola, edizioni UTET,
p. 250 e ss.
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ti da una situazione di immanenza, trovando il proprio pre‑
supposto in una situazione necessità.
Sono espressione del potere autoritativo della Pubblica
Amministrazione, in quanto svincolate dal consenso dei sog‑
getti da esse direttamente interessati, traggono la propria le‑
gittimità dalla finalità attribuita loro dalla legge, consistente,
in ultima analisi, nella tutela dell’interesse pubblico.
Nondimeno, caratteristica distintiva delle ordinanze con‑
tingibili e urgenti rispetto agli altri provvedimenti ammini‑
strativi è la loro “straordinarietà”. Esse, infatti, costituiscono
uno strumento eccezionale di intervento, atto a consentire
alla Pubblica Amministrazione di prevenire o eliminare gravi
pericoli per l’incolumità dei cittadini in presenza di situazioni
impreviste di emergenza, non fronteggiabili per mezzo dei
normali provvedimenti amministrativi.
Le ordinanze di necessità sono state introdotte nel nostro
ordinamento con il T.U. 4 febbraio 1915 n. 148, art. 153, che
ha attribuito al Sindaco un generale potere extra ordinem per
tutti i casi di urgenza e necessità in ambito locale.
Il quadro normativo di riferimento è attualmente costitu‑
ito dal Decreto Legislativo 18 agosto 2000, n. 267, (Testo
Unico Enti Locali) che all’articolo 50 (competenze del Sinda‑
co e della Provincia), comma 5, stabilisce che “(…) in caso di
emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusiva‑
mente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate
dal Sindaco, quale rappresentante della Comunità locale (…)”,
mentre all’articolo 54 (attribuzioni del Sindaco nei servizi di
competenza statale), dispone che “il Sindaco, quale ufficiale
del Governo, adotta, con atto motivato e nel rispetto dei
principi generali dell’ordinamento giuridico, provvedimenti
contingibili e urgenti al fine di prevenire ed eliminare gravi
pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini; per l’esecu‑
zione dei relativi ordini può richiedere al Prefetto, ove occor‑
ra, l’assistenza della forza pubblica”. La norma definisce i
presupposti del potere di ordinanza del sindaco, attraverso il
riferimento ad una pluralità di parametri, i quali devono es‑
sere tutti accertati dalla Pubblica Amministrazione proceden‑
te ed adeguatamente evidenziati nella motivazione dell’atto.
In tale contesto, pertanto, condizione ineluttabile è che
l’ordinanza sia destinata a porre rimedio ad una situazione di
grave pericolo per l’incolumità dei cittadini, non evitabile
mediante il ricorso agli ordinari mezzi dell’amministrazione.
Non è sufficiente, quindi, che il provvedimento miri, generi‑
camente, a realizzare un miglioramento delle condizioni
igieniche ed ambientali, occorrendo anche la dimostrazione
della esistenza di una effettiva situazione di pericolo.
I presupposti per l’adozione dei provvedimenti de quibus
possono, pertanto, essere individuati nell’urgenza, intesa
quale indifferibilità dell’atto, dovuta alla situazione di peri‑
colo inevitabile che minaccia gli interessi pubblici, nella
contingibilità, e cioè nella straordinarietà, accidentalità ed
imprevedibilità dell’evento, nella temporaneità, caratteristica
quest’ultima che attiene agli effetti del provvedimento in re‑
lazione alla cessazione dello stato di necessità (cfr. Determi‑
nazione Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici 14 gen‑
naio 2004, n. 14).
La straordinarietà, pertanto, contraddistingue e differen‑
zia le ordinanze contingibili e urgenti dagli altri provvedimen‑
ti amministrativi, e proprio questa peculiarità fa si che i
provvedimenti d’urgenza si collochino in una posizione sin‑
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m a g g i o • g i u g n o
golare all’interno del nostro ordinamento. Questi infatti, al
pari di altre categorie di provvedimenti amministrativi, rap‑
presentano strumenti della Pubblica Amministrazione in
grado di produrre modificazioni nella sfera dei diritti e dei
doveri soggettivi dei destinatari cui sono rivolte.
Tuttavia, la particolare finalità dell’ordinanza, che non
svolge una funzione sanzionatoria di comportamenti od omis‑
sioni, ma mira esclusivamente a salvaguardare le esigenze
primarie della collettività, spiega perché essa è idonea a sacri‑
ficare anche interessi giuridicamente protetti di soggetti de‑
terminati, entro ragionevoli limiti oggettivi e temporali, e con
il rispetto di rigorose garanzie sostanziali (i principi generali
dell’ordinamento) e formali (la motivazione e l’adeguata
istruttoria) (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 2 aprile 2001,
n. 1904).
L’attuale Testo Unico, nel riprodurre sostanzialmente la
precedente normativa, ha omesso di specificare le materie
(sanità, igiene, edilizia e polizia locale) in cui il potere sinda‑
cale può estrinsecarsi, determinandone in conseguenza l’am‑
pliamento: si tratta nuovamente di un potere che spetta al
Sindaco nella sua qualità di ufficiale di governo. Come si
evince dalla formulazione della norma, i provvedimenti in
oggetto costituiscono atti a contenuto indeterminato. Fatto
salvo il principio generale di gerarchia delle fonti, le ordinan‑
ze non possono derogare alla Costituzione ed alle norme
imperative primarie, ma possono interagire con quelle dispo‑
sitive o suppletive, proprio in base ai principi generali che in
rapporto a queste consentono maggiori possibilità di inter‑
vento.
Ed invero, in quanto espressione del potere autoritativo
della Pubblica Amministrazione, tali ordinanze traggono la
propria legittimità dalla finalità attribuita loro dalla legge, e
devono essere adottate “nel rispetto dei principi generali
dell’ordinamento giuridico” (art. 5, comma 2, L. 225/1991).
Benché siano ricomprese nel principio di legalità, costituisco‑
no, tuttavia, un’eccezione rispetto alla regola della tipicità.
Dette ordinanze, infatti, a causa della situazione di parti‑
colare eccezionalità e urgenza cui sono chiamate a far fronte,
non solo sfuggono ad una definizione normativa del loro
contenuto, ma possono esplicarsi liberamente, ove ciò si ren‑
da necessario, anche contra legem, in tutte le materie non
coperte da riserva assoluta di legge.
Neppure in questo caso, però, il principio della legalità
viene effettivamente trasgredito. L’effetto delle ordinanze,
infatti, non è mai abrogativo, ma meramente derogatorio:
esse non modificano la disciplina vigente, ma ne sospendono
soltanto l’applicazione, in via temporanea, fino alla cessazio‑
ne della situazione di grave necessità e urgenza.
Altri limiti, poi, sono stati ravvisati dalla giurisprudenza
della Corte costituzionale nei canoni della ragionevolezza,
della proporzionalità tra il provvedimento e la realtà circo‑
stante, dell’obbligo di motivazione (dovendo, infatti, fondar‑
si su una congrua motivazione, all’esito di un’istruttoria
adeguata) e dell’eventuale pubblicazione nei casi in cui il
provvedimento non sia a contenuto individuale, infine nell’in‑
dicazione di un preciso termine finale, non essendo configu‑
rabili effetti di durata indefinita, in quanto un’efficacia sine
die contrasterebbe con il carattere eccezionale e temporaneo
del provvedimento.
Unitamente a tali presupposti, la giurisprudenza è concor‑
2 0 1 3
119
de nell’individuarne altri quattro, la cui sussistenza è oggetto
di puntuale ed approfondito accertamento: la contingibilità,
intesa come attualità o imminenza di un fatto eccezionale,
quale causa da rimuovere con urgenza; il previo accertamen‑
to, da parte degli organi competenti, della situazione di peri‑
colo o di danno che s’intende fronteggiare, corredato da una
congrua motivazione che tale presupposto evidenzi; la man‑
canza di strumenti alternativi, previsti dall’ordinamento,
stante il carattere extra ordinem del potere sindacale in og‑
getto; la necessità che, in relazione al suo scopo, il provvedi‑
mento non rivesta il carattere della continuità e stabilità di
effetti e, pertanto, non ecceda le finalità di un momentaneo
rimedio alla situazione contingente (tra gli altri, si veda Con‑
siglio di Stato, sez. V, 8 maggio 2007, n. 2109, Consiglio
Stato, sez. VI, 27 febbraio 2001, n. 1374; Tar Toscana, sez. I,
23 febbraio 2000, n. 323; Consiglio Stato, sez. V, 29 luglio
1998, n. 1128; Tar Piemonte, sez. I, 15 gennaio 1998,
n. 12).
Ne consegue che per essere legittima, l’ordinanza deve
rivelarsi idonea alla situazione di rischio ed essere emanata
entro ragionevoli limiti temporali dati dalla persistenza della
situazione eccezionale verificatasi.
Non deve poi, risultare sproporzionata. Pertanto, sotto il
profilo del merito amministrativo, le ordinanze contingibili e
urgenti devono far fronte alle situazioni di pericolo utilizzan‑
do, ove possibile, misure che salvaguardino l’interesse pubbli‑
co con il minor sacrifico di quello privato (cfr. Consiglio
Stato, sez. VI, 16 aprile 2003, n. 1990), mentre la situazione
di pericolo deve essere attuale e concreta: l’ordinanza non può
mirare genericamente a realizzare un miglioramento in assen‑
za di un’effettiva minaccia per l’incolumità dei cittadini.
A fondamento del provvedimento d’urgenza, non è richie‑
sta la sussistenza di un danno, ma il rischio oggettivo che
questo si realizzi (Consiglio Stato, sez. V, 2 dicembre 2002,
n. 6624).
La sentenza n. 5369 del 4.12.2006 emessa da Tar di Puglia
sancisce che: “Le ordinanze con le quali viene esercitato il
potere di disporre temporaneamente speciali forme di conte‑
nimento e riduzione delle emissioni sonore inquinanti (inclu‑
sa l’inibitoria totale o parziale delle attività), hanno natura di
provvedimenti contingibili e urgenti, sia per la ontologica
temporaneità delle misure adottabili, sia per il carattere inno‑
minato ed atipico delle misure stesse (in deroga al principio
di rigorosa nominatività e tipicità degli atti amministrativi.
Siffatte ordinanze devono considerarsi adottate ai sensi
dell’art. 9 della Legge 26 Ottobre 1995 no 447 (“Legge quadro
sull’inquinamento acustico”) e sono riservate alla competenza
del Sindaco (nei casi di inquinamento acustico che riguardano
aree ricadenti nel territorio comunale). Sono peraltro estranee
alle ordinarie funzioni di mera vigilanza e controllo (“sull’os‑
servanza delle prescrizioni attinenti il contenimento dell’in‑
quinamento acustico”) contemplate dagli artt. 6 e 14 della
Legge 26 Ottobre 1995 no 447, nonché dalle Leggi Regionali
Pugliesi nno 17/2000 e 3/2002. Questa come molte altre deci‑
sioni giurisprudenziali in tal senso, è la risposta che i collegi
hanno dato in relazione al problema dei rumori da “movida”,
nel caso di specie la norma di riferimento è l’art. 659 c.p. in
materia “di immissioni di rumore e di disturbo delle occupa‑
zioni e riposo delle persone”; tale articolo rappresentava fino
a pochi anni fa, l’unico strumento repressivo utilizzabile per
amministrativo
Gazzetta
120
d i r i t t o
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combattere l’inquinamento acustico, è inserito nelle contrav‑
venzioni concernenti l’ordine pubblico e la tranquillità pub‑
blica8.
L’articolo in esame prevede due distinte ipotesi di reato:al
primo comma viene punito il disturbo della pubblica quiete
da chiunque determinato e cagionato con modalità espressa‑
mente e tassativamente determinate; al secondo, invece, viene
punita l’attività rumorosa, industriali o professionali eserci‑
tate in difformità delle prescrizioni di legge.
La Cassazione, inoltre, ricorda che per far scattare la
multa prevista dall’art. 659 c.p. “e’ necessario che le emissio‑
ni sonore rumorose siano potenzialmente idonee a disturbare
il riposo o le occupazioni di un numero indeterminato di
persone, anche se non tutte siano state poi in concreto distur‑
bate e una sola di esse si sia in concreto lamentata”.
L’articolo 659 c.p. e l’istituto in esame forniscono risposta
al diffuso problema dei rumori che scaturiscono a seguito di
concessioni di tavolini all’aperto per bar, dal vociare presso
pub o davanti i locali notturni fino a tarda notte.
Ha fatto storia la sentenza n.69/2011 della Cassazione con
cui fu detto stop ai locali notturni che turbano la tranquillità
e il riposo delle persone. Secondo i giudici di piazza Cavour
quei locali che a causa di rumori molesti e di schiamazzi di‑
sturbano il riposo dei loro vicini devono risarcire il danno
morale. La Suprema Corte ha convalidato un risarcimento per
danni morali pari a 5.000 euro nei confronti di un uomo e del
suo nucleo familiare a causa dei disturbi provocati da un di‑
sco‑pub di Soleto in provincia di Lecce. Nella sentenza della
prima sezione penale, la Suprema Corte chiarisce che l’arti‑
colo 659 del codice penale, che considera reato il disturbo
alla quiete dei cittadini, non riguarda tanto il superamento di
determinati decibel ma si basa su “criteri di normale sensibi‑
lità e tollerabilità in un determinato contesto socio‑ambien‑
tale”. Sotto questo profilo gli accertamenti acustici operati
dai tecnici dell’Arpa “in quanto accertamento di carattere
amministrativo trasfuso in atto pubblico, non ha valore peri‑
tale ed è come tale liberamente valutabile dal giudice che può
basarsi su altri elementi probatori acquisiti agli atti per rite‑
nere i rumori non connaturati al normale esercizio dell’attivi‑
tà lavorativa e al normale uso dei suoi mezzi tipici e causa di
disturbo della quiete, a prescindere dalla conoscenza dei de‑
cibel raggiunti”.
In tal senso si è pronunciato con sentenza n. 1985/2012 il
Tar Lombardia statuendo che è fondata l’impugnazione pro‑
posta da alcuni soggetti residenti in prossimità di un pubblico
esercizio nei confronti degli atti, provvedimenti e silenzi degli
enti preposti in grazia dei quali un esercizio commerciale
autorizzato esclusivamente allo svolgimento di attività di
somministrazione di alimenti e bevande ha potuto effettiva‑
mente svolgere un’attività ulteriore ed abusiva – l’organizza‑
zione di intrattenimenti musicali, talvolta con la presenza di
disk jockey ed artisti professionisti –, produttiva di immissio‑
ni rumorose pregiudizievoli per la quiete dei ricorrenti.
Altrettanto significativa èl a recentissima pronuncia del
Consiglio di Stato n. 2025/2013 secondo cui “ricorrendone le
condizioni, è legittima l’ordinanza sindacale contingibile e
8 http://geoappunti.altervista.org/Legislazione_ambientale/Inquinamento_Acustico/
Normative_Italiane.htm.
Gazzetta
F O R E N S E
urgente di cessazione delle emissioni sonore in ore notturne a
fronte del superamento dei limiti assoluti delle emissioni pre‑
visti dalla normativa vigente (Dpcm marzo 1991)”.
Il Consiglio di Stato conferma la decisione del Tar per la
Puglia sezione distaccata di Lecce n 1108/2004, ritenendo
legittima l’ordinanza di un Sindaco che aveva disposto la
cessazione delle emissioni sonore di una discoteca, con prov‑
vedimento di urgenza, in quanto avevano superato il limite
assoluto di 60 dB, valido su tutto il territorio nazionale (Dpcm
marzo 1991), limite di per sé intollerabile (anche in assenza
di piano comunale di zonizzazione acustica) che giustificava
un intervento urgente per la sua cessazione.
Inoltre, contrariamente a quanto esposto dalla discoteca
appellante, l’articolo 9 legge quadro sull’inquinamento acu‑
stico (447/1995) non richiede che l’inquinamento acustico
incida su una vasta collettività a fine di definire “pubblica”
la salute da tutelare con un provvedimento urgente del Sinda‑
co, basta che esso incida anche su un condominio vicino alla
discoteca, come nel caso di specie, per giustificare l’interven‑
to. A ciò va aggiunto il dato che l’area interessata fosse di
fatto residenziale, il periodo estivo, che costringeva gli abitan‑
ti a tenere aperte le finestre, e la sistematicità (cioè non occa‑
sionalità) dell’attività in questione: tutte ragioni che giustifi‑
cavano la necessità e l’urgenza indilazionabili di agire per
tutelare la salute pubblica dall’inquinamento acustico.
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
●
Rassegna di giurisprudenza
sul Codice dei contratti
pubblici di lavori, servizi
e forniture
(d.lgs. 12 Aprile 2006, n.163 e ss. mm.)
●
A cura di Almerina Bove
Dottore di ricerca e Avvocato
presso l’Avvocatura Regionale della Campania
2 0 1 3
121
Avvalimento – L'impresa ausiliaria deve presentare integralmen‑
te i requisiti mancanti, senza potersi ammettere un numero im‑
precisato di sub ausiliari ovvero un avvalimento per saltum
L’art. 49 del d.lgs. n.163 del 2006‑ come sottolineato dal
Consiglio di Stato, Sezione III, 1 ottobre 2012, n. 5161 – uti‑
lizza l’espressione “concorrente”, con la quale si riferisce
inequivocabilmente al solo operatore economico che presen‑
ta domanda di partecipazione alla gara. Questi, ove voglia
ricorrere all’avvalimento, è tenuto a dichiarare ed allegare,
unitamente alla domanda di partecipazione, il possesso da
parte del soggetto avvalso dei requisiti che, sommati ai pro‑
pri, integrano la prescrizione del bando.
Va, dunque, escluso dalla gara chi si avvale di impresa
ausiliaria a sua volta priva del requisito richiesto dal bando
nella misura sufficiente ad integrare il proprio requisito di
qualificazione mancante, posto che la possibilità di ricorrere
ad ausiliari presuppone che i requisiti mancanti siano da que‑
sti integralmente ed autonomamente posseduti, senza poter
estendere teoricamente all’infinito la catena dei possibili su‑
bausiliari ovvero realizzare un avvalimento per saltum.
Tar Napoli, sez. I, 21 maggio 2013, n. 2611
Pres. C. Mastrocola, Est. P. Russo
Avvalimento cd. "interno"‑ Ammissibilità
La partecipazione alla gara di un’impresa che riveste
contemporaneamente le qualità di ausiliaria e di partecipan‑
te è vietata laddove la stessa impresa partecipi a compagini
diverse, fra le quali essa forma un collegamento sostanziale.
Non vi è,invece, motivo per escludere che una delle impre‑
se facenti parte di un’associazione temporanea fornisca i propri
requisiti ad altra impresa dello stesso raggruppamento.
Cons. Stato, sez. V, 3 giugno 2013, n. 3031
Pres. S. Baccarini, Est. M. Atzeni
Danno da mancata aggiudicazione‑ Danno curriculare‑ Quantifi‑
cazione
Nel caso di annullamento dell’aggiudicazione di appalto
pubblico e di certezza della spettanza dell’aggiudicazione in
favore del ricorrente, il danno curriculare è da liquidarsi in
via equitativa, in un importo non superiore ad un quinto di
quanto riconosciuto a titolo di lucro cessante.
Cons. Stato, sez. V, 11 giugno 2013, n. 3230
Pres. L. Barra Caracciolo, Est. A. Bianchi
Danno da mancata aggiudicazione‑ Risarcimento per equivalen‑
te‑ Lucro cessante‑ Criteri di quantificazione
Ai fini della quantificaziobe del lucro cessante, il criterio
del 10% del prezzo a base d'asta, se pure è in grado di indi‑
viduare in via presuntiva l'utile che l'impresa può trarre
dall'esecuzione di un appalto, non può formare oggetto di
applicazione automatica e indifferenziata, risultando per
l'imprenditore ben più favorevole dell'impiego del capitale;
ai sensi dell'art. 124 c.p.a., appare invero necessitato criterio
di ciò che l'impresa dimostri rigorosamente rispetto alla
percentuale di utile effettivo che avrebbe conseguito se fosse
risultata aggiudicataria dell'appalto, con riferimento all'of‑
ferta economica presentata al seggio di gara (cfr., Consiglio
di Stato, sez. V, 5 luglio 2012, n. 3940), suddivisa per il nu‑
mero di partecipanti alla gara medesima (dovendosi risarcire,
come detto, la chance di aggiudicazione, che rappresenta
amministrativo
Gazzetta
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d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
l’interesse strumentale che ha legittimato il ricorso e la con‑
seguente pronuncia di annullamento).
L’importo determinato sulla base dei suddetti parametri
deve, comunque, essere ridotto in considerazione del fatto
che il mancato utile spetta nella misura integrale solo se si
dimostra di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze
e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista dell'aggiudi‑
cazione. In difetto di tale dimostrazione, che compete comun‑
que al concorrente fornire, è da ritenere che l'impresa possa
aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per
altri lavori o servizi e da qui la decurtazione del risarcimento
di una misura a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum,
considerato anche che, ai sensi dell'art. 1227 c.c., il danneg‑
giato ha un puntuale dovere di non concorrere ad aggravare
il danno (cfr. Consiglio di Stato, 20 aprile 2012, n. 2317 e 8
novembre 2012, n. 5686).
Cons. Stato, sez. V, 7 giugno 2013, n. 3135
Pres. P. G. Trovato, Est. P. G. Nicolò Lotti
Danno da mamcata aggiudicazione‑ Risarcimento per equivalen‑
te – Lucro cessante‑ Quantificazione
Nel caso di risarcimento per equivalente, salva l’adozione
di criteri di aggiudicazione dell’offerta di applicazione auto‑
matica e indifferenziata, va esclusa la pretesa di ottenere
l’equivalente del 10% dell’importo a base d’asta. È viceversa
necessaria un’ apposita prova ex art. 2697 c.c. a carico
dell’impresa circa la percentuale di utile effettivo che avrebbe
conseguito se fosse risultata aggiudicataria dell’appalto,
prova desumibile in primis dall’esibizione dell’offerta econo‑
mica preseta al seggio di gara; tale principio trova conferma
nell’art. 124 del codice del processo amministrativo che, nel
rito degli appalti, prevede il risarcimento del danno (per
equivalente) subito e provato.
Cons. Stato, sez. V, 11 giugno 2013, n. 3230
Pres. L. Barra Caracciolo, Est. A. Bianchi
Dichiarazioni e documentazione di gara‑ Presentazione di falsa
dichiarazione o falsa documentazione‑ Determina l'obbligo di
segnalazione all’ Autorità di Vigilanza, a pena di sanzione ammi‑
nistrativa pecuniaria
In caso di presentazione di falsa dichiarazione o falsa
documentazione nelle procedure di gara e negli affidamenti
in subappalto, deve ritenersi che in forza degli artt. 6, com‑
ma 11, e 38, comma 1, lettera h), del d. lgs. n. 163 del 2006,
alla luce delle modifiche apportate all’art. 38 del codice dal
d.l. 13 maggio 2011, n. 70 (decreto sviluppo), convertito,
con modificazioni, dalla l. 12 luglio 2011, n. 106,la stazione
appaltante è tenuta a segnalare all’Autorità di Vigilanza le
ipotesi di false dichiarazioni relative ai requisiti di ordine
generale. Tale segnalazione è doverosa per la stazione appal‑
tante e l’eventuale omissione è sanzionata con l’irrogazione
di sanzione amministrativa pecuniaria. Una volta effettuata
la segnalazione è rimessa poi all’Autorità, laddove ritenga
che siano state rese con dolo o colpa grave, l’eventuale iscri‑
zione nel casellario informatico ai fini dell’esclusione dalle
procedure di gara e dagli affidamenti in subappalto.Tale
iscrizione avviene a seguito di procedimento della stessa
Autorità, del quale la parte deve essere notiziata.
Cons. Stato, sez. V, 3 giugno 2013, n. 3045
Pres. C. Volpe, Est. D. Durante
Gazzetta
F O R E N S E
Garanzia di qualità ex art.43 del Codice‑ Costituisce un requisito
soggettivo che non può costituire oggetto di avvalimento‑ Ove la
lex specialis la richieda anche in capo all'impresa ausiliaria, anche
quest'ultima deve possederla in proprio‑ La relativa previsione e'
legittima
L’art. 43 del codice degli appalti prevede che le stazioni
appaltanti possano richiedere la presentazione di certificati
rilasciati da organismi indipendenti per attestare “l’ottempe‑
ranza dell’operatore economico a determinate norme in ma‑
teria di garanzia della qualità”, ove nella generale nozione di
“operatore economico” rientra, in ipotesi di avvalimento,
anche l’impresa ausiliaria.
Se si muove dal presupposto – invero non unanimemente
condiviso (v., sul punto, Cons. St., sez. III, 18.4.2011,
n. 2344 e AVCP, parere n. 15 del 22.6.2011) – che la certifi‑
cazione di qualità sia un requisito soggettivo, che non può
essere oggetto di avvalimento, la richiesta di tale certificazio‑
ne anche alle ausiliarie, secondo le disposizioni della lex
specialis, costituisce non un inutile formalismo né un ingiu‑
stificato aggravio procedimentale ma un’ulteriore garanzia
della qualità del sistema produttivo nella sua interezza e
singolarmente, tanto nelle fasi che si svolgono presso l’impre‑
sa concorrente ausiliata auanto quelle presso le ausiliarie.
Proprio l’affermata natura soggettiva del requisito, se da
un lato impedisce alla partecipante di avvalersi delle certifi‑
cazioni di qualità delle ausiliarie, dall’altro e per converso
vieta alle ausiliarie di giovarsi, a loro volta, delle certificazio‑
ni di qualità della partecipante.
Cons. Stato, sez. III, 4 giugno 2013, n. 3053
Pres. P. L. Lodi, Est. M. Noccelli
Impugnativa degli atti del procedimento di evidenza pubblica‑
Legittimazione al ricorso‑ La mera partecipazione alla gara non è
sufficiente a legittimare il ricorso
La mera partecipazione (c.d. di fatto) ad una gara non è
sufficiente per attribuire la legittimazione al ricorso, poiché
la situazione legittimante deriva da una qualificazione di
carattere normativo, che postula il positivo esito del sindaca‑
to sulla ritualità dell’ammissione del soggetto ricorrente alla
procedura selettiva.
La definitiva esclusione oppure l’accertamento dell’illegit‑
timità della partecipazione alla gara, pertanto, impediscono
di assegnare al concorrente la titolarità di una situazione so‑
stanziale che lo abiliti ad impugnare l’esito della procedura
selettiva. E il positivo riscontro della legittimazione al ricorso,
secondo le puntualizzazioni dell’Adunanza Plenaria, è neces‑
sario tanto per far valere un interesse, c.d. finale, al consegui‑
mento dell’appalto, quanto per perseguire un interesse mera‑
mente strumentale diretto alla caducazione dell’intera gara e
alla sua riedizione (Cons. St., sez. V, 22.9.2012, n. 4842).
Cons. Stato, sez. III, 4 giugno 2013, n. 3053
Pres. P. L. Lodi, Est. M. Noccelli
Impugnativa degli atti del procedimento di evidenza pubblica‑
Non compete alle organizzazioni sindacali, alle quali non può
estendersi analogicamente la legittimazione degli ordini profes‑
sionali
Il principio di diritto enunciato dall’Adunanza plenaria con
la decisione n. 10 del 3 giugno 2011, secondo la quale sussiste
la legittimazione degli ordini professionali ad agire contro atti
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
che si assumano lesivi dell’interesse istituzionale della categoria
rappresentata e perciò contro procedure di evidenza pubblica,
quando l’interesse fatto valere è quello all’osservanza di prescri‑
zioni a garanzia della par condicio dei partecipanti (nonostan‑
te che in fatto dalla singola procedura selettiva sia stato avvan‑
taggiato un singolo professionista), non può essere evocato in
analogia ai sindacati, atteso che sussiste una differenza sostan‑
ziale circa i soggetti che è di ostacolo a una tale estensione.
Ed infatti gli ordini professionali – a differenza delle as‑
sociazioni sindacali – sono enti pubblici con funzioni pubbli‑
cistiche valevoli erga omnes, istituzionali ed autoritative, fi‑
nalizzate alla disciplina dell’esercizio della professione. Gli
ordini, inoltre, sono enti istituiti dalla legge, sono ad appar‑
tenenza necessaria e sono monopolisti legali di quelle funzio‑
ni (cfr. art. 2229 cod.civ.).
I sindacati, viceversa, sono associazioni private non rico‑
nosciute, ossia figure organizzative libere e non soggette a
vigilanza, verifiche o controlli pubblici, con carattere plura‑
listico e ad adesione eventuale. In ragione di tale libertà, e
del pluralismo che ne discende, indipendentemente dalle
autoqualificazioni statutarie, essi rappresentano, su base
volontaria, solo i loro iscritti – e non tutti gli appartenenti
alla categoria – e per ciò che concerne le relazioni sindacali.
Non sono in altre parole enti esponenziali della categoria di
riferimento e dunque non possono essere considerati come
portatori, ciascuno, di un proprio compito generale di difesa,
anche in giudizio, dell’interesse dell’intera categoria unitaria‑
mente considerata.
Cons. Stato, sez. V, 3 giugno 2013, n. 3033
Pres. P. G. Trovato, Est. A. Bianchi
N.O.S. (nulla osta di sicurezza)‑ Costituisce requisito speciale di
capacità tecnica‑ Può costituire oggetto di avvalimento
Il possesso del nulla osta di sicurezza‑ N.O.S. di cui
all’art.17, comma 3 d.lgs. 163/2006 non concerne un requi‑
sito “generale” di partecipazione alle gare d'appalto. La co‑
struzione letterale e la collocazione sistematica della dispo‑
sizione al di fuori dell’art. 38 del Cod. dei contratti rendono,
anzi, evidente che il legislatore non ha considerato il N.O.S.
come facente parte della categoria dei requisiti generali di
partecipazione relativi ai c.d. “requisiti morali”, quanto un
requisito soggettivo speciale, espressamente previsto come
una condizione legale obbligatoria sia per la partecipazione
alla gara e sia per l'effettuazione della prestazione da parte
dell’appaltatore. In quanto “requisito speciale di capacità
tecnica”, vi è la possibilità di dimostrare la sua titolarità
anche in modo indiretto, attraverso l’istituto dell’avvalimen‑
to, utilizzando i requisiti posseduti da altri secondo i princi‑
pi generali posti dalla Corte di giustizia (a partire dalla deci‑
sione 14 aprile 1994, causa C‑389/92).
Cons. Stato, sez. IV, 4 giugno 2013, n. 03059
Pres. S. De Felice, Est. U. Realfonzo
Requisiti di moralità‑ Dichiarazione ex art.38 del Codice‑ Tassati‑
vità delle fattispecie previste
L’art. 38 del d. lgs. n. 163 del 2006 rappresenta il punto
di equilibrio tra le esigenze di trasparenza dell’azione ammi‑
nistrativa e di speditezza e certezza delle situazioni giuridiche
che sono corollari ineludibili nei rapporti economici e che
verrebbero compromessi, ove si rimettesse alla stazione ap‑
2 0 1 3
123
paltante di indagare volta per volta sui poteri di soggetti,
quali per esempio i procuratori di una società, sia generali che
speciali, onde farne derivare l’esclusione dalla gara.
Tale sistema finirebbe con il trasferire alla commissione
di gara ed in ultima analisi al giudice il potere di introdurre
in una gara cause di esclusione non previste né da fonte nor‑
mativa primaria o secondaria, né dalla lex di gara.
Cons. Stato, sez. V, 3 giugno 2013, n. 3047
Pres. P. G. Trovato, Est. D. Durante
Requisiti di moralità – Obbligo di dichiarazione di assenza di
pregiudizio penale‑ Procuratori generali e speciali‑ non sono te‑
nuti a rendere la dichiarazione, ove non espressamente previsto
dalla lex specialis
Qualora il bando di gara non contenga un'espressa previ‑
sione in tal senso, non sussiste l’obbligo per i procuratori ge‑
nerali di rendere la dichiarazione di assenza del pregiudizio
penale ex art. 38 del d. lgs. n. 163 del 2006.
Non può, invero, essere condivisa la tesi secondo cui
sussisterebbe un tale obbligo anche per i procuratori, in virtù
di un’interpretazione estensiva o analogica dell’art. 38, del
d. lgs. n. 163 del 2006‑ secondo la quale i soggetti tenuti a
rendere la suddetta dichiarazione sono gli amministratori
muniti di poteri di rappresentanza e i direttori generali‑ non
sussistendo i presupposti per comprendere nella tassativa
disposizione di legge figure ontologicamente diverse da quel‑
le espressamente menzionate. La figura dell’amministratore
munito di poteri di rappresentanza e quella del procuratore
generale sono diverse, non solo per il nomen iuris, ma per le
modalità di nomina e per la diversità delle funzioni.
Cons. Stato, sez. V, 3 giugno 2013, n. 3047
Pres. P. G. Trovato, Est. D. Durante
Responsabilità della PA‑ Necessaria la sussistenza dell’elemento
soggettivo, salvo il caso degli appalti pubblici così come discipli‑
nato dalla giurisprudenza comunitaria
Preso atto dell’orientamento per cui, in materia di appal‑
ti pubblici, la giurisprudenza comunitaria ha affermato che
la normativa dell’UE osta alle norme nazionali che subordi‑
nano il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno
compiuto da una Pubblica Amministrazione al carattere
colpevole della violazione commessa dalla PA medesima,
tale indirizzo interpretativo è strettamente connesso alle
violazioni in materia di procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici.
Resta centrale, quindi, l'idea che l'elemento soggettivo
della fattispecie aquiliana debba configurarsi come colpa
dell'apparato coerentemente con l’indirizzo espresso dalle
Sezioni Unite della Cassazione e che, ai fini dell'ammissibili‑
tà della domanda di risarcimento del danno a carico della
Pubblica amministrazione, non è sufficiente il solo annulla‑
mento del provvedimento lesivo, ma è altresì necessaria la
prova del danno subito e la sussistenza dell'elemento sogget‑
tivo del dolo ovvero della colpa.
Cons. Stato, sez. V, 7 giugno 2013, n. 3133
Pres. P. G. Trovato, Est. P. G. Nicolò Lotti
amministrativo
Gazzetta
124
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
Risarcimento per equivalente del danno da mancata aggiudica‑
zione‑ Mancato utile‑ Quantificazione
Nel caso di annullamento dell’aggiudicazione di appalto
pubblico e di certezza dell’aggiudicazione in favore del ricor‑
rente, il mancato utile spetta nella misura integrale solo se si
dimostra di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze
e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista dell’aggiudi‑
cazione.
In difetto di tale dimostrazione, che compete comunque
al ricorrente fornire, è da ritenere che l’impresa possa aver
ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri
Gazzetta
F O R E N S E
lavori o servizi e da qui la decurtazione del risarcimento di
una misura a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum,
considerato anche che, ai sensi dell’art. 1227 c.c., il danneg‑
giato ha un puntuale dovere di non concorrere ad aggravare
il danno (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 20 aprile 2012,
n. 2317).
Ove il ricorrente non fornisca la dimostrazione anzidetta,
è ragionevole stabilire una detrazione dal risarcimento del
mancato utile nella misura del 30%.
Cons. Stato, sez. V, 11 giugno 2013, n. 3230
Pres. L. Barra Caracciolo, Est. A. Bianchi
Diritto tributario
L’abuso del diritto nel sistema tributario: evoluzione legislativa e giurisprudenziale
127
tributario
Clelia Buccico
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
●
La Riforma Previdenziale
e i suoi risvolti fiscali,
prima e dopo
il governo Monti
● Elisabetta Cataldi
Avvocato e funzionario ex INPDAP, ora INPS
2 0 1 3
127
Sommario: 1. Quadro di riferimento – 2. La disciplina pen‑
sionistica ex lege 335/95 (Riforma Dini) – 2.1 Metodo retri‑
butivo o misto – 2.2 Metodo contributivo – 3. La disciplina
pensionistica ex lege 214/11 – 4. Eccezioni – 5. Gli effetti
della riforma – 6. Risvolti fiscali – 7. Le liquidazioni nel
pubblico impiego – 7.1 Termini di liquidazione ante legge
148/11 – 7.2 Termini di liquidazione ex lege 148/11 – 8. La
sentenza della Corte Costituzionale n. 223 dell’8/12 ottobre
2012 – 9. La pensione di reversibilità.
1. Quadro di riferimento
La materia previdenziale da sempre è stato oggetto di
profonde riforme normative, sempre alla ricerca di un giusto
equilibrio sociale tale da dare sicurezza alla collettività nel
rispetto del principio costituzionale di “solidarietà sociale”.
In verità proprio quest’ultimo brocardo ha caratterizzato la
riforma degli ultimi decenni nell’ambito del settore Pubblico
e che lo ha distinto dal mondo più strettamente privatistico;
ciò che ha caratterizzato il settore pubblico è l’attuazione del
principio di “solidarietà generazionale, ovvero il versamento
dei contributi ai fini previdenziali da parte dei lavoratori
pubblici e degli Enti pubblici in qualità di datori di lavoro,
doveva costituire il fondo per permettere l’effettiva liquida‑
zione dei trattamenti di coloro che andavano in pensione.
Purtroppo soprattutto l’evasione contributiva, che si è avuta
per decenni, ha portato al fallimento di questo sistema ed il
Governo Monti è dovuto intervenire a riformare il sistema
pubblicistico cercando così di riempire il profondo buco fi‑
nanziario accumulatosi negli anni.
Bisogna far riferimento in particolare alla Legge 214 del
22 dicembre 2011 di conversione, con modificazioni, del
decreto legge n. 201 del 6 dicembre 2011, cd. Decreto Salva
Italia, ad oggetto: “Disposizioni urgenti per la crescita,
l’equità e il consolidamento dei conti pubblici”. Successiva‑
mente la normativa è stata ulteriormente modificata dalla
legge n. 14 del 24 febbraio 2012, di conversione del Decreto
Legge n. 216 del 29 dicembre del 2011.
La legge 214 del 2011 ha profondamente rivoluzionato i
requisiti per aver diritto alla pensione, estendendo il metodo
del calcolo Contributivo a tappeto, elevando i requisiti per
l’accesso alla pensione, accelerando l’equiparazione dei re‑
quisiti tra uomini e donne, tra lavoratori privati e pubblici.
La stessa Legge n. 214/11 ha anche previsto la soppressione
dell’INPDAP (Istituto Nazionale di Previdenza Dipendenti
Amministrazione Pubblica) e dell’ENPALS (Ente Nazionale
di Previdenza e di Assistenza per i Lavoratori dello Spetta‑
colo e dello Sport Professionistico), facendo sì che a decor‑
rere dal gennaio 2012 l’unico polo previdenziale nello stato
Italiano andasse riconosciuto nell’INPS (Istituto Nazionale
della Previdenza Sociale).
Per quanto riguarda le liquidazioni (TFS e TFR) nel
pubblico impego, anche il loro regime è stato modificato per
effetto del D.L. 138 del 13 agosto 2011, convertito con mo‑
dificazioni dalla Legge n. 148 del 14 settembre del 2011 re‑
cante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanzia‑
ria e per lo sviluppo, prevedendo – nello specifico – il regime
del TFR per tutti e allungando i tempi di attesa per l’effetti‑
vo pagamento delle liquidazioni per coloro che vanno in
pensione.
tributario
Gazzetta
128
d i r i t t o
2. La disciplina pensionistica ex lege 335/95 (Riforma Dini)
Col governo Monti, vi è stata una totale inversione di
marcia per quanto riguarda la materia previdenziale finaliz‑
zata soprattutto a fare “cassa” così da permettere al Governo
di evitare ulteriori emorragie di denaro dai forzieri pubblici
creando un blocco alle ondate di pensionamento da parte di
lavoratori del mondo del pubblico impiego.
Per comprendere la portata innovativa della riforma For‑
nero necessariamente bisogna inquadrare la disciplina nor‑
mativa in materia pensionistica vigente fino al 2011.
La disciplina di riferimento è la legge 335 del 1995 e le
modifiche ad essa apportate dapprima dalla legge 243 del
2004 e poi dalla legge 247 del 2007.
Fino al 2011 era necessario distinguere tra pensione cal‑
colata col metodo retributivo o misto e pensione calcolata col
metodo contributivo. Quest’ultima modalità di calcolo si
basa su tutti i contributi versati durante l’intera attività vita
assicurativa; al contrario il sistema di calcolo retributivo si
basa sulla media delle retribuzioni percepite negli ultimi
anni di vita lavorativa. Ciò comporta che a decorrere dal
01.01.02012 le anzianità contributive maturate dopo il 31
dicembre 2011 vengono calcolate con il sistema di calcolo
contributivo, mentre le anzianità già maturate fino a tale
data vengono calcolate col sistema retributivo. Naturalmente
anche col sistema contributivo si realizza un sistema di “as‑
sicurazione sociale”, costruito sempre “su misura” per cia‑
scun individuo in ragione dei contributi versati durante la
propria vita lavorativa.
2.1 Metodo retributivo o misto
Si distingueva tra pensioni di vecchiaia e pensioni di an‑
zianità.
a) Pensioni di vecchiaia:
Può essere richiesta dal lavoratore con almeno 20 anni di
contribuzione oltre al requisito anagrafico di 65 anni per gli
uomini, di 60 anni per le donne: per effetto della legge
n. 122/10 però l’età pensionabile per le donne era stato ele‑
vato a 65 anni a decorrere dal 1o gennaio 2012.
Sempre la legge n. 122/10 aveva previsto delle novità per
le decorrenze delle pensioni di vecchiaia introducendo le
“finestre mobili” per l’effettiva riscossione dell’assegno pen‑
sionistico dopo 12 mesi dalla maturazione dei requisiti.
b) Pensioni di anzianità:
Il calcolo va fatto per le c.d “quote” ovvero tenendo con‑
to sia dell’età anagrafica, sia dell’anzianità contributiva ma‑
turata:
Dal 01/01/2008 al 30/06/2009: 58 anni di età + 35 anni
di contributi
Dal 01/07/2009 a tutto il 2010: 59 + 36 oppure 60 + 35
(quota 95)
Nel 2011: 60 + 36 oppure 61 + 35 (quota 96)
Per le decorrenze delle pensioni di anzianità, la legge
n.122/10 aveva stabilito l’erogazione della rata pensionistica
dopo 12 mesi dalla data di maturazione del requisito ex lege,
sempre con riferimento ai soli dipendenti pubblici, per tutti
coloro con 40 anni di anzianità contributiva indipendente‑
mente dall’età o per coloro che avessero maturato le c.d.
Quote dopo il 31 dicembre 2010. Successivamente la legge
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
n. 111/11 aveva previsto per coloro che avessero maturato il
diritto a pensione dopo il 2011, la decorrenza della rata ve‑
niva ulteriormente prolungata a 13 mesi per il 2012, a 14
mesi per 2013 e così via.
Tra le deroghe previste alla normativa indicata, nell’am‑
bito del Comparto Scuola ed Università prima la legge 449/97
disponeva che, per coloro che maturavano i requisiti di pen‑
sione entro il 31 dicembre dell’anno in corso, la pensione
sarebbe dovuta decorrere dalla data di inizio dello stesso
anno scolastico o accademico; successivamente la legge
n. 148//11 ha previsto per coloro che maturavano il requisito
nel 2011, la decorrenza della pensione veniva differita all’an‑
no scolastico o accademico successivo.
2.2.Metodo contributivo
La legge n. 335/95 ha previsto per le pensioni calcolate
col metodo contributivo un’unica forma di pensione definita
di “vecchiaia”, abbandonando la pensione chiamata di an‑
zianità, prevedendo come requisiti: 5 anni di contribuzione
effettiva + l’età anagrafica di 65 anni per gli uomini e di 61
anni per le donne, con decorrenza sempre di 12 mesi dalla
data di maturazione del requisito ex legge; oppure era neces‑
sario almeno 40 di contributi a prescindere dall’età anagra‑
fica
3. La disciplina pensionistica ex lege 214/11
Con l’art. 24 del D.l. n. 201/2011 (Decreto “Salva Italia”),
convertito in legge n. 214/2011 è stata profondamente modi‑
ficata la disciplina pensionistica nel pubblico impiego.
La prima fondamentale novità è stata che per tutte le
anzianità contributive maturate successivamente al 31 dicem‑
bre 2011, il calcolo va fatto solo con il sistema contributivo;
inoltre viene eliminata la c.d. pensione di anzianità ma si
parla ormai soltanto di pensione di vecchiaia – legata all’aspet‑
to anagrafico – e di pensione anticipata – legata all’ammon‑
tare dei contributi effettivamente versati. Il meccanismo
delle quote viene abolito e anche la c.d. “Finestra Mobile”
dello scorrimento a 12 mesi della decorrenza della rata pen‑
sionistica, prevedendo che ormai tutte le pensioni decorrono
dal 1o giorno del mese successivo alla maturazione del requi‑
sito pensionistico.
a) Pensione di vecchiaia:
La legge 214/11 prevede un allungamento in progressione
dell’età anagrafica pensionabile ed una equiparazione tra
uomini e donne con effetto immediato nel pubblico impego.
Per il 2012 è richiesto, oltre ad una anzianità contributiva
di 20 anni, un’età anagrafica di 66 anni, che dal 2013 fino al
2015 diventa di 66 anni e 3 mesi, dal 2016, va anche fatto
riferimento all’ulteriore requisito legato alla variazione per la
“speranza di vita”. Infatti la legge n. 214 applica il meccani‑
smo dell’adeguamento dei requisiti anagrafici delle pensioni
e dell’assegno sociale alla variazione alla variazione della
speranza di vita calcolata dall’ISTAT. Ciò comporta che ogni
3 anni dal 2010 ed ogni 2 anni dal 2019 l’ISTAT dovrà cal‑
colare la variazione dell’aspettativa di vita della popolazione
a 65 anni così da stabilire l’incremento dei requisiti pensioni‑
stici.
Inoltre è possibile procrastinare l’età di pensionamento
fino a i 70 anni.
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
b) Pensione anticipata:
La legge n.214/11 sempre a decorrere dal 1o gennaio 2012
ha abbandonato il sistema di calcolo della pensione di anzia‑
nità e ha previsto la c.d. pensione anticipata, la quale fa rife‑
rimento sempre all’anzianità contributiva solo che non basta‑
no più i 40 anni ma nel 2012 vengono richiesti 42 anni + 1
mese per gli uomini e 41 anni + 1 mese per le donne;
‑ nel 2013 vengono richiesti 42 anni + 5 mesi per gli uomi‑
ni e 41 anni + 5 mesi per le donne;
‑ per il 2014 e 2015 vengono richiesti 42 anni + 6 mesi per
gli uomini e 41 anni + 6 mesi per le donne; dal 2016 ven‑
gono richiesti 42 anni + 5 mesi per gli uomini e 41 anni +
5 mesi per le donne + l’ulteriore variazione dall’aspettati‑
va di vita.
4. Eccezioni
La stessa legge n. 214/11 prevede delle deroghe alla nor‑
mativa di nuova vigenza, infatti non si applica:
‑ ai lavoratori che maturano i requisiti previsti secondo la
precedente normativa entro il 31 dicembre 2011;
‑ alle lavoratrici dipendenti, in presenza di un’anzianità
contributiva pari o superiore a trentacinque anni e di
un’età pari o superiore a 57 anni per le lavoratrici dipen‑
denti per le quali, in via sperimentale fino al 31 dicembre
2015, è confermata la possibilità di conseguire il diritto
all’accesso al trattamento pensionistico di anzianità qua‑
lora optino per una liquidazione del trattamento medesi‑
mo secondo le regole di calcolo del sistema contributivo,
a condizione che la decorrenza del trattamento pensioni‑
stico si collochi entro il 31 dicembre 2015.
La legge n. 214 poi prevede anche dei disincentivi per
coloro che chiedono la pensione anticipata prima di aver
compiuto i 62 anni di età; infatti sulla quota del trattamento
pensionistico relativa alle anzianità contributive maturate
antecedentemente al 1o gennaio 2012 è applicata una riduzio‑
ne pari a 1 punto percentuale per ogni anno di anticipo
nell'accesso al pensionamento rispetto all'età di 62 anni; tale
riduzione è elevata a 2 punti percentuali per ogni anno ulte‑
riore di anticipo. Tale abbattimento però non è previsto colo‑
ro che maturano il requisito di anzianità contributiva entro il
31 dicembre 2017, purché tale anzianità sia da prestazione
effettiva di lavoro, inclusi i periodi di astensione per materni‑
tà, per servizio militare, infortunio o malattia.
5. Gli effetti della riforma
Seppure probabilmente è troppo prematuro esprimere un
giudizio informato sulla bontà o meno della scelta del Gover‑
no Monti, di certo però si può affermare che gli effetti a ca‑
tena prodotti dalla bomba della riforma Fornero sono stati
destabilizzanti per l’economia dell’Italia.
In primo luogo non ha tenuto in debito conto la problema‑
tica dei cd. Esodati (coloro a cui era stata data la possibilità di
svolgere attività di carattere sociale per pochi anni così da
fargli raggiungere il requisito pensionistico richiesto dalla pre‑
cedente riforma previdenziale) in numero fortemente superiore
alle previsioni e il cui finanziamento pensionistico non è stato
adeguatamente messo a bilancio; inoltre l’allungamento dell’età
pensionabile ha comportato un esodo di massa da parte di
tutti i pubblici impiegati che avevano raggiunto al 31 dicembre
2011 i requisiti minimi pensionistici creando così un’ulteriore
2 0 1 3
129
emorragia economica per lo Stato e allo stesso tempo paraliz‑
zando l’attività delle Amministrazioni pubbliche che si trovano
a dover assicurare sempre le stesse attività istituzionali ma con
un personale sempre più esiguo siccome il forte sottorganico
non può essere rimpinguato da nuovo personale visto il blocco
dei concorsi pubblici. Altro aspetto da dover tenere in debito
conto è stata la soppressione dell’INPDAP e dell’ENPALS al
fine di “risparmiare” creando così un unico polo previdenziale
sia pubblico che privato. Scelta che sembra essere stata più
politica che economica siccome ad oggi questi grandi risparmi
non si sono visti né tanto meno la fusione dell’INPS con l’IN‑
PDAP – ente non di certo di piccole dimensioni è stata reale.
Così si è creato un Ente previdenziale, il più grande di Europa,
con al vertice un Presidente che si trova a gestire un potere
senza limiti e che potrebbe far presagire una sempre più pres‑
sante volontà a privatizzare anche i servizi essenziali tutelati
costituzionalmente a discapito delle classi più deboli.
6. Risvolti fiscali
L’incorporazione dell’Inpdap e dell’Enpals nell’Inps pro‑
duce i suoi effetti sui pensionati anche dal punto di vista fi‑
scale. L’Inps ha abbinato e confluito in una unica certifica‑
zione CUD 2013 tutte le prestazioni pensionistiche erogate
dai tre istituti previdenziali in favore dello stesso soggetto. Ne
consegue che è stato calcolato in maniera automatica da par‑
te dell’ente previdenziale il conguaglio fiscale 2012, con
l’addebito delle imposte sul reddito (Irpef, addizionali regio‑
nali e comunali) nella rata di pensione del mese di marzo 2013.
Questo per coloro che hanno più di una prestazione pensio‑
nistica in proprio favore.
Con il messaggio n. 5447 del 2 aprile 2013, l’Inps spiega
appunto il “conguaglio 2012 – Cud 2013 per pensionati della
Gestione dipendenti pubblici”, ossia coloro che erano nell’ex
Inpdap. Con questo messaggio l’Inps elenca tutte le modalità
con le quali, da sostituto d’imposta, ha operato il conguaglio
fiscale, determinando le imposte da pagare. Il pensionato
contribuente, ricevendo l’addebito delle imposte sulla rata di
pensione, se non ha altri redditi, o spese con le quali fruire
delle detrazioni fiscali o degli oneri deducibili dal reddito, può
evitare di presentare la dichiarazione dei redditi, modello 730
2013 o Unico 2013.
Per effetto dell’incorporazione dell’Inpdap e dell’Enpals
nell’Inps, tutte le prestazioni erogate dall’Istituto nel 2012
relative al singolo contribuente, in base all’art. 23 del D.P.R.
29 settembre 1973, n. 600, sono state abbinate e sono conflu‑
ite in un’unica certificazione fiscale (CUD 2013) determinan‑
do il conguaglio fiscale e, nel caso sia stato accertato un de‑
bito fiscale, il recupero è stato effettuato sul trattamento
pensionistico di maggiore importo.
Pertanto, il debito d’imposta risultante dal conguaglio
fiscale dell’anno reddituale 2012, completato dall’Istituto
entro il 28 febbraio 2013, è stato recuperato in un’unica so‑
luzione mediante ritenuta sulla rata di pensione del mese di
marzo 2013 ad eccezione di coloro che percepiscono redditi
da pensione non superiori a 18.000 euro.
Per coloro che non hanno redditi da pensione superiore a
18.000 euro il conguaglio fiscale a debito di importo superio‑
re a € 100, è stato rateizzato a decorrere dal mese di marzo
2013 in un numero massimo di 10 rate senza l’applicazione
degli interessi.
tributario
Gazzetta
130
d i r i t t o
Nei confronti degli altri pensionati il debito d’imposta
risultante dal conguaglio fiscale è stato recuperato integral‑
mente nei limiti della capienza della rata di pensione di marzo
2013, in base a quanto prevede la disciplina tributaria.
A seguito di specifica richiesta in tale senso da parte
dell’Inps, l’Agenzia dell’Entrate ha tuttavia autorizzato a
decorrere dalla rata di aprile 2013 una maggiore rateizzazio‑
ne che sarà effettuata con specifici termini, come precisati
dal messaggio dell’Inps, e che ora vediamo. Per i pensionati
che sono titolari di un reddito da pensione pari o superiore
a 18 mila euro e per i pensionati per i quali non è stato pos‑
sibile recuperare integralmente il debito fiscale sulla rata di
marzo 2013, il recupero del residuo debito avverrà a decor‑
rere dalla rata di aprile 2013 con l’applicazione di una par‑
ticolare salvaguardia che opererà nei termini di seguito de‑
scritti.
Per i pensionati che hanno un trattamento pensionistico
mensile netto di importo superiore ad € 1.238,58, il recupero
del residuo debito fiscale sarà effettuato dalla rata di aprile
2013 assicurando il pagamento di un importo mensile netto
di € 990,86, corrispondente al doppio del trattamento mini‑
mo per l’anno 2013; tale modalità sarà applicata anche nei
mesi successivi fino alla totale eliminazione del debito fiscale,
utilizzando anche l’importo della tredicesima eccedente
€ 990,86 qualora il debito non venga estinto prima.
Per i pensionati il cui trattamento pensionistico mensile
(al netto di tutte le ritenute comprese le addizionali regionali
e comunali) è uguale o inferiore ad € 1.238,58 mensili, il
debito fiscale sarà recuperato entro il limite della trattenuta
di un quinto della pensione; tale modalità sarà applicata anche
nei mesi successivi fino alla totale eliminazione di quanto
dovuto all’erario, utilizzando anche l’importo della tredicesi‑
ma qualora il debito non venga estinto prima.
Ove il debito non venga interamente recuperato entro il
mese di Dicembre 2013, l’Inps comunicherà all’interessato
l’obbligo di provvedere personalmente al saldo entro il 15
gennaio 2014, mediante versamento con Modello F24 pre‑
stampato con gli importi ed inviato tempestivamente unita‑
mente alla comunicazione. Nel caso in cui la rateizzazione sia
in corso e si interrompa la corresponsione della pensione
(esempio in caso di decesso del titolare), il residuo debito ed i
relativi termini di scadenza saranno comunicati agli eredi che
dovranno provvedere al saldo di quanto dovuto.
Ad esclusione dei pensionati con unica rata di conguaglio
fiscale 2012 effettuata nel mese di marzo 2013, il procedi‑
mento di rateizzazione troverà esatta corrispondenza nella
dichiarazione del sostituto d’imposta Modello 770/2013 – CUD
2013, dove, dopo aver indicato al punto 5 le ritenute totali
dovute nell’anno 2012 da parte del contribuente e aver prov‑
veduto a trattenere la prima rata nel mese di marzo 2013, al
punto 201 del CUD‑770/2013 sarà indicato l’importo del
debito residuo, rateizzato successivamente. Per i conguagli
rateizzati di che trattasi, tale importo è il debito totale detrat‑
to quanto già recuperato a marzo e sarà versato mensilmente
dall’Istituto, salvo i casi particolari di interruzione sopra in‑
dicati.
L’importo indicato al punto 201 del CUD/770 non terrà
conto degli interessi, eventualmente già calcolati e trattenuti
dall’Istituto, sulle somme rateizzate. Per i pensionati interes‑
sati, nelle annotazioni (cod. AW) della dichiarazione sarà
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
specificato che sulle somme indicate nel punto 201 sono do‑
vuti gli interessi nella misura dello 0,50% mensile.
Ma dove scaricare il CUD 2013 e perché si paga il con‑
guaglio fiscale?. La domanda sorge spontanea per il contri‑
buente: perché pagare nuovamente le imposte se si è già paga‑
to le stesse con addebito sulle prestazioni Inps ricevute. La
risposta sta nel meccanismo di calcolo dell’Irpef.
Coloro che posseggono due o più redditi, possono essere
tenuti al pagamento di imposte da conguaglio fiscale pur
avendo pagato per ogni reddito singolo le relative imposte.
L’Irpef, l’imposta sul reddito delle persone fisiche, è una im‑
posta progressiva ed a scaglioni di reddito. Ossia colpisce il
reddito con aliquote che aumentano in relazione agli scaglio‑
ni di reddito posseduto.
Ad esempio, fino a 15.000 euro si paga il 23% di Irpef,
poi da 15.000 a 28.000 euro si paga il 27% sulla parte ecce‑
dente i 15.000, da 28.000,01 a 55.000 euro si paga il 38%
sulla parte eccedente i 28.000 (sulla quale si paga il 15% fino
a 15.000 euro ed il 27% fino a 28.000). Ne consegue che è
differente avere due redditi da 15.000 euro oppure uno som‑
mato da 30.000 euro. Cioè se si calcolano le imposte su
15.000 euro, su questa cifra si paga il 23% di imposte. Aven‑
do due redditi da 15.000 euro in sostanza si è pagato il 23%
su 30.000 euro.
Ma il meccanismo di calcolo dell’Irpef prevede che su
30.000 euro totali di reddito, somma delle due prestazioni
Inps, si paghi il 23% su 15.000 euro, poi si paghi il 27%
sulla differenza tra 15.000 euro e 28.000 euro, ed infine il
38% sulla differenza tra 28.000,01 e 30.000 euro. In sostan‑
za non si deve pagare il 23% di 30.000 euro, ossia 6.900
euro, ma la cifra più alta di 7.720 euro, ossia con un congua‑
glio di 820 euro.
Ricordiamo che a partire dal 2013, l’Inps non invierà più
il CUD a domicilio del pensionato, ma è necessario provve‑
dere a scaricarlo telematicamente oppure utilizzare una delle
nuove procedure previste dall’ente previdenziale in via defini‑
tiva, ed in alcuni casi provvisoria, a partire dal 2013. Il Cud
è scaricabile online nel proprio cassetto previdenziale, per
coloro che sono in possesso del codice PIN, oppure è otteni‑
bile tramite Caf, Patronati, all’Ufficio postale e presso le sedi
dell’Inps. Per maggiori informazioni su tutte le modalità,
vediamo la consegna del modello Cud 2013 Inps.
7. Le liquidazioni nel pubblico impiego
Nella Gazzetta ufficiale del 16 settembre 2011 n. 216 è
stata pubblicata la legge 148 del 14 settembre 2011 che ha
modificato buona parte dei termini per il pagamento delle
liquidazioni dei pubblici impiegati.
Nel pubblico impiego va distinto tra la c.d Indennità Pre‑
mio Servizio (IPS) che è la liquidazioni per i dipendenti delle
Autonomie Locali e della Sanità assunti a tempo indetermi‑
nato prima del 1o gennaio 2001; la Indennità di Buonuscita
che è la liquidazione per i dipendenti Statali assunti a tempo
indeterminato prima del 1o gennaio 2001; Trattamento di
Fine rapporto (TFR) per tutti i dipendenti assunti dal 1o gen‑
naio 2001 e coloro assunti anche prima di tale data ma con
un contratto di lavoro a tempo determinato. La differenza tra
questi non è solo nominativa ma è il regime giuridico di rife‑
rimento che è diverso.
L’IPS è regolamentato dalla legge 152/68,dal D.l. n. 359/87
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
e dalla legge n. 662/96 per i dipendenti di Enti Locali iscritto
almeno da un anno alla cassa ex INADEL.
La Buonuscita è regolamentata dal D.p.r. n. 1032/73 e
riguarda i dipendenti statali sempre con almeno un anno di
iscrizione alla cassa ex ENPAS.
Il TFR al contrario non è regolamentato da specifica nor‑
mativa di settore ma dall’art. 2120 del codice civile e quindi
è la medesima regolamentazione del dipendete privato e il suo
diritto sorge d’ufficio (quindi non a domanda) alla risoluzio‑
ne del contratto di lavoro della durata minima di 15 giorni
continuativi nell’arco di un mese.
7.1 Termini di liquidazione ante legge 148/11
La legge n. 148/11 ha indicato la data del 13 agosto 2011
come termine di spartiacque tra le scadenze per la liquidazio‑
ne del TFS previste dalla previgente disciplina e quelle stabi‑
lite dalla riforma.
Per coloro che avevano maturato i requisiti contributivi e
anagrafici per il pensionamento ante 13 Agosto 2011 i termi‑
ni di liquidazione erano di:
‑ 105 giorni dalla data di cessazione dal servizio per inabi‑
lità, decesso, limiti di età o di servizio;
‑ 270 giorni per dimissioni volontarie o recesso da parte del
datore di lavoro
Decorsi tali termini, scattava il diritto agli interessi legali per
il periodo di ritardo di liquidazione.
7.2 Termini di liquidazione ex lege 148/11
Sempre al fine di fare “cassa” il governo Monti ha previsto
un forte allungamento dei tempi per ricevere la liquidazione
da parte dei dipendenti pubblici rispetto alla data di cessazio‑
ne dal servizio.
La prima novità introdotta da questa legge è il subentro
del calcolo del TFR, secondo la normativa del codice civile,
per tutto il periodo lavorativo prestato successivamente al 1o
gennaio 2011; nello specifico tale regola si applica anche per
i dipendenti con contratto di lavoro a tempo indeterminato,
per i quali viene previsto un doppio calcolo: secondo le rego‑
le della normativa in materia di Buonuscita e IPS (c.d TFS) per
il periodo lavorativo fino al 31 dicembre 2010; secondo le
regole della disciplina civilistica per il periodo in regime di
TFR dall’1 gennaio 2011.
I nuovi termini di liquidazione vanno distinti sempre a
seconda della causa della cessazione dal servizio:
105 giorni dalla cessazione dal servizio per causa di ina‑
bilità e decesso;
270 giorni per le cessazioni per limiti di età o di servizio
e per cessazioni per estinzione del rapporto di lavoro a tempo
determinato (questo riguarda in particolare le insegnanti che
hanno contratti annuali di lavoro). La normativa prevede,
così come per il passato che sussiste il blocco di legge di 6
mesi prima del quale l’INPS non può proprio pagare le liqui‑
dazioni, scaduti i quali, l’Istituto poi ha tempo 3 mesi entro
cui mettere in pagamento le liquidazioni a scadenza, altrimen‑
ti scattano gli interessi legali;
27 mesi per cessazioni per dimissioni volontarie o recesso
da parte del datore di lavoro. Anche in questo caso sussiste il
blocco di legge di 24 mesi prima dei quali non è possibile la‑
vorare la pratica e poi scattano i 3 mesi entro cui la liquida‑
zione va messa in pagamento.
2 0 1 3
131
L’introduzione dei nuovi termini di pagamento, allo stesso
tempo, lascia inalterata la modalità di erogazione rateale in‑
trodotta dall’art.12 del D.l. n. 78 del 2010, convertito con
modifiche dalla legge n. 122 del 30 luglio del 2010. Infatti è
previsto che per le liquidazioni di importo superiore a
€ 90.000,00 il pagamento avviene in due o tre rate annuali.
In particolare: se la liquidazione a cui si ha diritto è di un
importo che va dai € 90.000,00 e i € 150.000,00, rispettati
i termini previsti dalla legge per il pagamento della prima
rata, la seconda potrà essere messa in liquidazione dopo un
anno dal pagamento della prima rata; se la prestazione a cui
si ha diritto è superiore a € 150.000,00, la terza rata che
eccede questo importo è pagata dopo due anni dal pagamen‑
to della prima rata.
8. La sentenza della Corte Costituzionale n. 223 dell’8/12 ottobre 2012
Al fine di avere un inquadramento compiuto della disci‑
plina normativa in materia, fondamentale è stata la sentenza
della Corte Costituzionale n. 223 dell’8/12 ottobre 2012, che
si è pronunciata in merito alla legittimità di alcuni articoli del
D.l. n.78/10, convertito in l. n. 122/10, prevedendo il ripristi‑
no, con efficacia retroattiva dall’01.01.2011, delle precedenti
modalità di calcolo della buonuscita, basate sulla valutazione
della retribuzione dell’ultimo giorno di servizio in rapporto
alla totalità degli anni utili, già previste dal D.p.r. n.1032/73.
Conseguentemente, i trattamenti di fine servizio, già pagati,
devono essere rideterminati in conformità delle nuove regole,
tenuto conto che, per essi, la trattenuta previdenziale del
2,50% a carico del dipendente è già stata operata per l’intero
periodo. Dette riliquidazioni devono avvenire d’ufficio entro
un anno dall’entrata in vigore delle nuove norme.
In questo modo il governo prende atto della recente sen‑
tenza della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittima
la “rivalsa” del 2,5% su Tfr dei dipendenti pubblici, ma allo
stesso tempo ha risolto il problema alla radice con il ripristino
del Tfs. nel privato, con il sistema del Tfr, il prelievo è del
6,91% sull’intera retribuzione utile e completamente a carico
del datore di lavoro; nel pubblico, con il Tfs, la norma conte‑
nuta nel D.p.r. n. 1032/73 prevede un versamento contributi‑
vo del 9,6% sull’80% delle retribuzione utile (di cui 7,10% a
carico del datore di lavoro e 2,5% a carico del dipendente).
Le amministrazioni pubbliche avevano considerato l’in‑
troduzione del Tfr come relativa al solo computo della buo‑
nuscita, senza che ciò incidesse sul sistema di finanziamento,
continuando così ad applicare la trattenuta del 2,5%, alla
voce “opera di previdenza”. La Corte costituzionale ha ribal‑
tato tale interpretazione dichiarando illegittimo il prelievo a
carico del dipendente e aperto le porte alle azioni legali da
parte dei lavoratori. Tuttavia – in considerazione del fatto che
l’applicazione della sentenza avrebbe finito per gravare inte‑
ramente sul bilancio dello Stato, non solo per quanto attiene
alla sospensione delle trattenute ma, anche per la restituzione
delle quote già effettuate – il governo ha disposto l’abrogazio‑
ne tout court dell’articolo di legge che introduceva il Tfr nel
pubblico impiego, ripristinando le modalità di calcolo previste
dal Tfs. Ora l’Inps dovrà procedere al ricalcolo dei trattamen‑
ti di fine servizio già liquidati in pro quota applicando
l’art. 12, comma 10 della l. n. 122/2010; per il periodo suc‑
cessivo al 1o gennaio 2011 il conteggio dovrà seguire le mo‑
dalità precedenti.
tributario
Gazzetta
132
d i r i t t o
In ogni caso, le amministrazioni non potranno provvede‑
re nei confronti del dipendente al recupero delle eventuali
somme già erogate in eccesso.
Altro effetto del decreto è che i procedimenti in corso
avviati dai lavoratori per ottenere la restituzione del contri‑
buto previdenziale obbligatorio del 2,5%, si estinguono di
diritto, tranne nel caso in cui siano state emesse sentenze
passate in giudicato.
9. La Pensione di Reversibilità
Sempre la legge n. 335/1995 all’art.1, comma 41, prevede
per tutti i dipendenti pubblici l’estensione della normativa
INPS in materia di pensione ai superstiti, innovando rispetto
al passato dove sussistevano singole normative di settore.
La pensione ai superstiti in verità può essere di due tipi:
‑ di reversibilità, se la persona deceduta era già pensionata;
‑ indiretta, se il soggetto alla data della morte, non era an‑
cora in pensione, ma ne possedeva i requisiti contributivi
minimi.
Riguardo a quest’ultima categoria, in caso di decesso del
lavoratore ancora in servizio, la legge richiede la sussistenza
di specifiche condizioni legate all’anzianità di servizio del de
cuius, al fine di essere comunque titolari del diritto alla pen‑
sione. Al contrario nulla è richiesto per le pensioni di reversi‑
bilità che si agganciano a una pensione diretta già liquidata.
Le categorie dei superstiti aventi diritto a pensione sono:
‑ il coniuge superstite; oppure il coniuge separato, anche con
addebito purché titolare di assegno di alimenti da parte
del de cuius, oppure il coniuge divorziato purché titolare
di assegno di alimenti e che non si sia risposato.
Ci può essere poi il caso che il de cuius abbia avuto due
matrimoni: la pensione di reversibilità deve essere ripartita fra
il coniuge superstite e l’ex coniuge divorziato, da parte del
giudice (che deve tenere in considerazione la durata del ma‑
trimonio, la situazione economica dei due coniugi ecc.) che ne
indica gli importi da erogare agli enti previdenziali. In caso
di morte o nuovo matrimonio da parte del coniuge superstite,
la pensione di reversibiltà deve essere pagata integralmente al
coniuge divorziato (60% della pensione del soggetto decedu‑
to). Le Sezioni Unite della Cassazione, sono intervenute in
materia chiarendo che al momento della morte dell’ex coniu‑
ge titolare di un diritto a pensione, se sopravvivono allo
stesso sia il coniuge divorziato (a sua volta titolare di assegno
divorzile) sia il nuovo coniuge superstite avente i requisiti per
la pensione di reversibilità, entrambi hanno pari e autonomo
diritto all’unico trattamento di reversibilità che l’ordinamen‑
to riconosce al coniuge sopravvissuto; inoltre la ripartizione
del trattamento tra detti coniugi deve essere fatto sulla base
del criterio della durata legale dei rispettivi matrimoni e in
rigorosa proporzione con i relativi periodi. Pertanto, nell’ipo‑
tesi di decesso o di successive nozze del coniuge superstite,
quello divorziato ha diritto all’intero trattamento di reversi‑
bilità. Successivamente la Corte Costituzionale ha temperato
tale criterio, precisando che la ripartizione del trattamento
deve essere effettuata non solo sulla base della durata dei ri‑
spettivi matrimoni, ma anche delle condizioni economiche e
reddituali delle parti;
‑ i figli: al riguardo si rammenta che l’art. 82 del T.U.
n. 1092/1973 prevede che “Gli orfani del dipendente civile o
militare di cui al primo comma dell’art. 81 ovvero del pen‑
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
sionato hanno diritto alla pensione di riversibilità; la pensio‑
ne spetta anche agli orfani maggiorenni inabili a proficuo
lavoro o in età superiore a sessanta anni, conviventi a carico
del dipendente o del pensionato e nullatenenti. Ai fini del
presente articolo sono equiparati ai minorenni gli orfani
maggiorenni iscritti ad università o ad istituti superiori equi‑
parati, per tutta la durata del corso legale degli studi e, co‑
munque, non oltre il ventiseiesimo anno di età […]”.
In particolare, hanno diritto al trattamento:
‑ i figli minori, ma con la sentenza della Corte costituzio‑
nale n. 180/1999 il diritto alla pensione di reversibilità
viene riconosciuto anche ai nipoti minorenni e viventi a
carico degli ascendenti;
‑ i figli studenti, a carico al momento del decesso, a condi‑
zione che non prestino attività lavorativa, fino a 21 anni
se studenti di scuola media superiore o fino a 26 anni se
studenti universitari, ma in tutti i casi non oltre la durata
legale del corso di laurea.
‑ i figli inabili di qualsiasi età, a carico del “de cuius” al
momento del decesso;
‑ i figli postumi nati entro il 300o giorno dalla data del
decesso del padre (presunzione di paternità, art. 232
c.c.).
‑ i genitori d’età superiore a 65 anni, che non siano titolari
di pensione e siano a carico dell’assicurato o del pensiona‑
to alla data della morte, quando non vi siano né coniuge
né figli superstiti o, pur esistendo, non abbiano titolo alla
pensione;
‑ i fratelli celibi e le sorelle nubili, che non siano titolari di
pensione, sempreché al momento della morte dell’assicu‑
rato o del pensionato risultino permanentemente inabili e
a suo carico, quando non vi siano né coniuge, né figli su‑
perstiti, né genitori, o, pur esistendo, non abbiano titolo
alla pensione.
Per erogare la pensione nei confronti dei figli minori e
degli equiparati maggiorenni studenti o inabili, viene richiesto
il requisito reddituale dell’essere a carico alla data di morte
del genitore. I criteri in vigore sono in tal modo riassumibili:
per i figli studenti il limite di reddito è pari all’importo della
pensione minima Inps, aggiornata ogni anno, maggiorata del
30%; per i figli maggiorenni inabili il limite di reddito da
utilizzare è quello per il diritto alla pensione nei confronti
degli invalidi civili totali; per i figli maggiorenni inabili, tito‑
lari dell’indennità di accompagnamento, il limite di reddito
da utilizzare è quello per il diritto alla pensione nei confronti
degli invalidi civili totali aumentato dell’importo dell’inden‑
nità di accompagnamento erogato ai sensi dell’art. 5 della
legge n. 222/1984.
Le percentuali dell’importo di pensione, spettanti ai su‑
perstiti, possono riassumersi come segue:
‑ al solo coniuge il 60%;
‑ al solo orfano il 70%;al coniuge con un orfano il 60% +
20% = 80%;
‑ al coniuge con due o più orfani il 60% + 20% + 20%… =
100%;
‑ a due orfani il 40% + 40% =80%;
‑ a tre o più orfani il 100%;
‑ ai genitori, fratelli o sorelle il 15% ciascuno.
Deve aggiungersi che la legge prevede, poi, che la pensio‑
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
ne di superstite possa variare in considerazione del reddito
percepito dallo stesso. L’art. 1, comma 41, della legge
n. 335/1995, prevede, infatti, precisi limiti al cumulo dei
redditi, indicati espressamente nella tabella F allegata alla
legge. Inoltre, la legge attribuisce al superstite lo specifico
obbligo di comunicare tempestivamente il mutamento delle
proprie condizioni economiche, come si evince chiaramente
dall’art. 86, comma 4, del Dpr 29 dicembre 1973 n. 1092
(sostituito dall’art. 30 della legge 29 aprile 1976 n. 177).
Anche la Corte dei Conti frequentemente è intervenuta in
materia ma specificamente ha chiarito che per i percettori di
pensione e, in particolare, di pensione di riversibilità, sussiste
l’obbligo di comunicazione di qualsiasi evento che comporti
la cessazione del pagamento ovvero la variazione della pen‑
2 0 1 3
133
sione stessa (si vedano gli artt. 86, comma 4, e 197, comma 7,
del Dpr n. 1092 del 1973 quale aggiunto dall’art. 44 del Dpr
n. 429 del 1986).
La legge 214/11 è intervenuta anche sulle pensioni di re‑
versibilità prevedendo che dal 1o gennaio 2012 l’importo
delle reversibilità viene ridotto nel caso in cui il matrimonio
col de cuius sia stato contratto ad una età del medesimo su‑
periore ai 70 anni e se la differenza di età tra i coniugi sia
superiore a 20 anni ed il matrimonio sia stato contratto da un
periodo di tempo inferiore ai 10 anni. La riduzione della
quota di reversibilità è pari al 10% in ragione di ogni anno di
matrimonio col dante causa mancante rispetto al numero di
dieci. Tale riduzione però non si applica qualora sussistano
figli minori, oppure studenti o inabili.
tributario
Gazzetta
Diritto internazionale
Debiti di gioco tra sistemi di common law e civil law
137
Diana Ferrara
Rassegna di diritto comunitario
141
internazionale
A cura di Francesco Romanelli
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
2 0 1 3
137
●
Sommario: Premessa. – 1. I sistemi di common law. – 2. Il
sistema italiano. – 3. La giurisprudenza di legittimità. – 3.1. Il
Caso Cass. 16511/12. – 3.2. Il Caso Cass 1163/13. Svolgi‑
mento del processo. – 3.2.1.La sentenza. – 4. Conclusioni.
Debiti di gioco
tra sistemi
di common law
e civil law
Premessa
I debiti di gioco nei vari sistemi giuridici sono stati da
sempre considerati come “debiti d’onore” facendo discendere
da tale classificazione l’impossibilità di far valere gli stessi
innanzi ai Tribunali.
Non vi era differenza riguardante la fonte del prestito, sia
se si fosse debitori nei confronti di un soggetto privato sia se
lo si fosse verso una struttura organizzata per consentire
l’altrui attività di gioco, i debiti risultavano inesigibili.
A fronte della nuova e differenziata offerta di gioco, i si‑
stemi giuridici hanno man mano approntato normative am‑
pliative dell’area legalizzata e delle modalità di esercizio lega‑
le delle attività economiche finalizzate al gioco d’azzardo. Per
contro un complesso organizzato ed organico di norme non
è tuttavia mai stato predisposto, lasciando i casi dubbi affi‑
dati alla tutela giudiziaria.
● Diana Ferrara
Dottore in giurisprudenza
1. I sistemi di common law
La legislazione inglese in materia si basava, fino a qualche
anno fa, su di una serie di norme raccolte nello Statue of
Anne del 1710 e nei vari Gaming Act susseguitisi negli anni
a partire già dai primi dell’800, queste fondavano le ragioni
del rifiuto a procedere sull’eccezione di ordine pubblico, inte‑
so come quel complesso di valori primari tra cui la salute
pubblica, la pubblica morale ed i diritti individuali quali la
libertà personale e la proprietà privata, appartenenti per na‑
scita a qualsiasi cittadino.
Ed invero, al tempo vi era la necessità di preservare la
società dagli effetti della perdita di titoli nobiliari o grandi
proprietà a causa del gioco. Per l’effetto di tali norme i con‑
tratti stipulati per la concessione di credito in ragione del
gioco sarebbero stati brutalmente invalidati dalle corti
dell’epoca.
Anche la giurisprudenza americana si ispirò alle stesse
normative quando si trovò a confrontarsi con l’esigenza di
porre un punto fermo sulla questione. Una corte del Nevada
riconobbe l’automatica applicazione delle norme della legisla‑
zione inglese in materia in quanto compatibili con la costitu‑
zione e le leggi degli Stati Uniti. Di conseguenza molti stati
ritennero i debiti di gioco non ripetibili. Il problema sorse nel
momento in cui il gioco d’azzardo si sviluppò a livello indu‑
striale dotandosi di strutture organizzate. Non è riscontrabi‑
le un’evoluzione omogenea dell’iter legislativo seguito negli
Stati Uniti in quanto particolarmente forte è stato l’influsso
delle radici culturali ispirate a valori morali particolarmente
pregnanti ecco perché ci si trova di fronte un notevole divario
tra le legislazioni dei vari stati anche limitrofi. Invero, quando
il legislatore americano estese le scommesse a nuove forme di
gioco (es. corse dei cavalli), le corti statali (es. Corte del Ken‑
tucky, Corte del Wisconsin) affermarono l’esistenza indipen‑
dente dei nuovi statuti che legalizzavano il gioco sul credito
rispetto alle vecchie leggi che lo proibivano senza che la loro
emanazione significasse automatica abrogazione della norma‑
tiva precedente né in base al principio lex specialis derogat
legi generali nè a quello lex posterior derogat priori. Le ra‑
internazionale
Gazzetta
138
D i r i t t o
I n t e r n a z i o n a l e
gioni di fondo di queste posizioni vengono rinvenute nella
stessa giurisprudenza: una per tutte la decisione di una corte
del Connecticut in cui si stabiliva la necessità, tutt’ora imper‑
versante, di tutelare i cittadini dalla rovina in campo finan‑
ziario. Le corti statunitensi rifiutarono di attestare che la le‑
galizzazione delle nuove forme di gioco d’azzardo potessero
automaticamente far considerare superata l’eccezione di ordi‑
ne pubblico.
Negli Stati in cui si veniva diffondendo la legalizzazione
di alcune forme di gioco d’azzardo, la loro previsione all’in‑
terno di statuti ha fatto nascere l’esigenza dell’istituzione di
commissioni di vigilanza e controllo con poteri concessori di
autorizzazione allo svolgimento delle relative attività econo‑
miche e annullamento di atti adottati in violazione delle
norme.
Attualmente negli Stati Uniti si assiste ad una netta diffe‑
renziazione tra Stati che applicano pedissequamente le vecchie
normative rifiutando categoricamente l’esistenza e la possibi‑
lità di porre in esecuzione le obbligazioni nascenti dal gioco
d’azzardo, ed altri stati che affermano l’esigibilità di diritti
validamente creati in altri stati la cui influenza non è consi‑
derata negativa sulle leggi locali. La Corte di Appello di New
York affermava già dal 1964 che “nello Stato di New York la
tendenza è a considerare moralmente accettabili le attività
legate al gioco legalizzato collegate ad un comportamento
socialmente approvato. Il sentimento pubblico è contro il
gioco non controllato e privo di licenza in quanto al di fuori
della regolamentazione della legge istituita a protezione dei
clienti ed a garanzia di equità ed onestà delle operazioni”. La
questione venne valutata dal legislatore statale del New Jersey
che analizzò entrambe le posizioni giungendo a sviluppare un
sistema intermedio che potesse contemperare entrambe le
esigenze, quella di prevenzione della corruzione e quella
dell’incremento del turismo legato ai casinò, ammettendo
quindi l’esigibilità dei debiti derivanti dal gioco d’azzardo
legalizzato in New Jersey. Pur aprendo a questa nuova possi‑
bilità l’interpretazione degli statuti vigenti che fu data, fu
particolarmente ristretta prevedendo unicamente l’esigibilità
dei cc.dd. “pagherò” rispondenti ai rigorosi modelli previsti
dagli statuti stessi. Un’ulteriore evoluzione verso l’ampliamen‑
to della categoria dei “pagherò” esigibili si ebbe grazie alle
corti di merito che rilevarono come una volta emesso un “pa‑
gherò” in conformità ai canoni stabiliti dalla Commissione
per il Gioco d’azzardo questo sarebbe in ogni caso esigibile
anche se tecnicamente violi gli statuti in quanto emessi in
base ai criteri contenuti in una normativa promulgata a segui‑
to della delega conferita alla Commissione.
A questo punto il passaggio naturale è stato quello di
ammettere l’esigibilità dei debiti di gioco legalmente sorti in
altre giurisdizioni. Il punto focale del problema risiede sempre
nella comparazione tra l’eccezione di ordine pubblico solleva‑
ta dallo Stato a cui è richiesto di far eseguire il pagamento e
la legge dello Stato in cui il credito è validamente sorto. A
risoluzione di tale contrasto sono state proposte varie opzioni:
a favore dell’applicazione dell’eccezione di ordine pubblico si
sostiene il ricorso agli statuti e leggi in vigore, a favore dell’esi‑
gibilità del credito l’utilizzo del principio della lex loci con‑
tractus e la necessità di conseguire prima una sentenza nello
stato in cui il credito è validamente sorto per poi chiederne
l’esecuzione in altro Stato. Ed è così che si giunge all’afferma‑
Gazzetta
F O R E N S E
zione del principio secondo cui sono esigibili i debiti di gioco
nel momento in cui non sono in contrasto con gli stardards
stabiliti dalla normativa interna e sono approvati in base al
sentimento comune della comunità.
Nel clima di incertezze che la normativa non risolve in
modo chiaro, gli operatori del settore hanno cercato vie alter‑
native per ottenere il pagamento dei debiti di gioco. Si è
dunque fatto ricorso, in sostituzione dei “pagherò”, alla sti‑
pula di contratti di mutuo oppure di finanziamento a favore
dei giocatori od ancora alla firma di documenti che potessero
rientrare nei “tipi” tutelati dalla normativa che punisce l’emis‑
sione di assegni scoperti. In tal guisa, i crediti divenivano
esigibili in quanto obbligazioni nascenti da contratto nel
primo caso, a seguito di condanna e relativa esecuzione nel
secondo.
Mentre negli Stati Uniti ferveva il dibattito giurispruden‑
ziale che ha portato, come appurato, all’evoluzione del con‑
cetto di ordine pubblico ed all’approvazione da parte di vari
stati di nuovi statuti che legalizzano alcune attività di gioco,
in Inghilterra si è dovuto attendere il 2005 per l’emanazione
di un nuovo Gambling Act (Legge sul gioco d’azzardo). Tale
atto è stato emanato al fine di sostituire quella che è stata
considerata un’obsoleta normativa risalente alla metà dell’800
per tutelare i soggetti più vulnerabili dai rischi connessi al
gioco d’azzardo anche e soprattutto nelle nuove forme in cui
lo stesso si sta diffondendo. Questa nuova legge risponde ad
esigenze di tutela sociale fortemente sentite nel Paese, a tal
fine viene istituita la Commissione per il Gioco d’azzardo con
compiti di sorveglianza, concessione di licenze e con poteri di
annullamento di alcuni contratti se rispondenti a determina‑
ti requisiti. La normativa pone a carico degli operatori del
settore nuovi obblighi di informazione sui rischi del gioco e
sulle possibilità di sostegno per i soggetti affetti da problemi
legati alle attività di gioco. Infine la grande innovazione è
costituita dalla possibilità di portare ad esecuzione i debiti di
gioco innanzi ai Tribunali soprattutto per assicurare il paga‑
mento dei vincitori. All’interno della sezione 17, rubricata
“Legalità e applicabilità dei contratti di gioco” sono contenu‑
te le nuove previsioni in materia di esigibilità dei debiti di
gioco nascenti da contratto i quali d’ora in avanti diventano
esigibili a prescindere dal fatto che il contratto sia nato al fine
di consentire il gioco d’azzardo, sancendo l’assimilazione di
questo tipo di contratto alla disciplina dei contratti in gene‑
rale. Tutte le previsioni statutarie che vietano l’esecuzione di
tali contratti sono abrogate automaticamente dall’atto
2. Il sistema italiano
La disciplina in materia di gioco d’azzardo è prevista nel
sistema giuridico italiano all’interno del codice penale per
quanto attiene il profilo di illiceità, in particolare nel Capo II,
sez. I,rubricata “Delle contravvenzioni concernenti la polizia
dei costumi”, agli articoli 718 e ss..
È chiaro lo scopo dell’originario legislatore di porre l’ac‑
cento sulla moralizzazione dei costumi sociali definendo im‑
plicitamente il gioco come attività immorale e socialmente
dannosa al cui svolgimento l’ordinamento deve necessaria‑
mente, per sua intrinseca funzione, comminare una pena. La
dottrina maggioritaria definisce infatti il gioco d’azzardo
come “attività parassitaria, antiproduttiva, immorale e peri‑
colosa”.
F O R E N S E
m a g g i o • g i u g n o
Esso trova una collocazione anche all’interno dei Testo
Unico di Pubblica Sicurezza (T.U.L.P.S.), emanato con regio
decreto 18 giugno 1931, n. 773, ed in particolare all’art. 110
che pone una particolare attenzione sul tema della disciplina
degli apparecchi di intrattenimento presenti nei luoghi pub‑
blici.
Sotto il profilo civilistico, dunque quello relativo alle atti‑
vità lecite, la questione è regolata all’articolo 1933 c.c. che
sancisce l’irripetibilità del pagamento effettuato in ragione di
una perdita al gioco anche se quest’ultimo è svolto nelle forme
autorizzate, in quanto tale azione viene a costituire esclusiva‑
mente l’adempimento di un dovere morale o sociale sentito
dal soggetto come doveroso (cd. obbligazione naturale).
Da ciò si evince come l’ordinamento non tuteli il contra‑
ente sotto il profilo dell'azione finalizzata alla riscossione
della vincita, ma anche e soprattutto come vada a considera‑
re nulle le pattuizioni per contrarietà a norme imperative
(tali le norme penali), nonché all'ordine pubblico.
Ed infatti la legislazione in materia dà prova dell’evoluzio‑
ne del pensiero sociale riguardo il gioco d’azzardo che si è
andata via via slegando dal giudizio di disvalore morale. Già
con il D. lgs 496/48 viene posta un’espressa riserva di legge
statale in merito all’ “organizzazione e l'esercizio di giuochi
di abilità e di concorsi pronostici”, per la quale si concede la
gestione delle relative attività agli operatori economici che
rispondano ai requisiti richiesti dalla normativa. Tutto il si‑
stema viene in tal guisa improntato alla repressione e control‑
lo del gioco abusivo e clandestino a tutela delle funzioni di
gestione e controllo avocate a sé dallo Stato. Proprio in
quest’ottica si fa strada, in relazione al gioco così organizzato,
il contrasto con il concetto di ordine pubblico, inteso come
“il complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi
pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile conviven‑
za nella comunità nazionale, nonché alla sicurezza delle isti‑
tuzioni, dei cittadini e dei loro beni». A conferma di questa
evoluzione degli scopi alla base della regolamentazione giuri‑
dica del gioco d’azzardo si pone la Legge n. 401 del 1989 la
quale va ad incriminare l’esercizio abusivo di attività di gioco
e scommessa confermando la disciplina del monopolio e del
controllo statale sull’organizzazione e gestione di lotterie,
concorsi pronostici, giochi e scommesse, al fine di tutelare
l’ordine pubblico e la sicurezza. Nello stesso senso l’art. 38
d.l. n. 223 del 2006 (cd.”decreto Bersani”) e l’art. 12 d.l. n. 39
del 2009 (cd. “decreto Abruzzo”): l’interesse da proteggere è
quello alla massima diffusione del gioco lecito al fine di evi‑
tare il deflusso di giocatori e capitali verso l’offerta illegale,
in modo da controllare e gestire la domanda di gioco (indi‑
rizzandola versa la legalità e la regolarità), in un’ottica di
costante “monitoraggio” e “tracciamento” dei flussi econo‑
mici derivanti dalle attività di gioco.
La stessa legge di stabilità per l’anno 2o11 enfatizza l’esi‑
genza di proteggere l’ordine e la sicurezza pubblica e di con‑
trastare l’offerta illegale e irregolare di prodotti ludici.
A chiusura e conferma dell’excursus subito dai principi a
fondamento della tutela contro il gioco d’azzardo, la giuri‑
sprudenza di legittimità, quella amministrativa e fin anche
quella comunitaria concordano nell’individuare l’obiettivo
delle normative sul gioco d’azzardo nelle sue varie forme in
quello della “difesa dell’offerta lecita”.
Secondo la Corte Costituzionale “anche nel gioco d’azzar‑
2 0 1 3
139
do si manifestano propensioni individuali che appartengono
di norma ai differenti stili di vita dei consociati (impiego del
tempo libero, svago, divertimento), stili di vita che, in una
società pluralistica, non possono formare oggetto di apriori‑
stici giudizi di disvalore. Le fattispecie penali di cui agli
artt. 718 e ss., rispondono invece all’interesse della collettivi‑
tà a veder tutelati la sicurezza e l’ordine pubblico in presenza
di un fenomeno che si presta a fornire l’habitat ad attività
criminali e la stessa preoccupazione è stata avvertita anche a
livello comunitario”.
Secondo la Corte di Cassazione ed il Consiglio di Stato,
“la legislazione italiana, volta a sottoporre a controllo pre‑
ventivo e successivo la gestione delle lotterie, delle scommesse
e dei giuochi d’azzardo, si propone non già di contenere la
domanda e l’offerta di giuoco, ma di canalizzarla in circuiti
controllabili al fine di prevenire la possibile degenerazione
criminale. Non vi è poi alcun dubbio sull’adeguatezza e pro‑
porzionalità di un sistema così articolato, essenzialmente
basato sulla riserva pubblica e la possibilità di concessione ad
altri soggetti, nonché sulla soggezione dei concessionari ad
autorizzazione di polizia”.
Si sono poste questioni interpretative nelle ipotesi, non
rare, in cui per aggirare i divieti di legge, in particolare si
puntava a superare l’eccezione di ordine pubblico che rendeva
impossibile richiedere il pagamento del debito di gioco, le
parti sottoscrivessero contratti di mutuo o finanziamento
affinché il giocatore potesse disporre della liquidità desidera‑
ta. Invero, anche tali contratti, sottoscritti al fine di consen‑
tire il gioco, risultavano rientranti nell’eccezione di ordine
pubblico e, pertanto, “costretti” ad essere soddisfatti solo
tramite un adempimento spontaneo.
La Cassazione si è dunque espressa statuendo circa l’am‑
missibilità dell’azione del mutuante al fine di recuperare le
somme prestate ove il prestito sia stato erogato senza che vi
sia interesse diretto del mutuante nella partecipazione al gio‑
co del mutuatario, sia che il mutuante corrisponda ad un
soggetto privato sia che corrisponda ad una struttura orga‑
nizzata. Ed invero, la costante giurisprudenza di legittimità
ricomprende nella categoria dei debiti di gioco le obbligazioni
sorte da negozi giuridici diversi dal contratto di gioco, ma
tali da costituire presupposti di esecuzione del gioco e da re‑
alizzare tra i giocatori, anche indirettamente, le stesse finali‑
tà pratiche.
Elemento rilevante al fine della sopra richiamata qualifica
di “debito di gioco”, è l’interesse del terzo finanziatore alla
partecipazione del giocatore alle operazioni di gioco. Tale
elemento non può essere, però, considerato determinante,
stante la necessità di procedere ad un apprezzamento ogget‑
tivo della reale volontà dei contraenti relativamente al rappor‑
to tra essi instaurato, come non è, altresì, considerato elemen‑
to determinante, la diretta o personale partecipazione al
gioco del soggetto finanziatore.
3. La giurisprudenza di legittimità
Ci si sofferma dunque al termine della trattazione sui casi
che hanno riguardato cittadini italiani che hanno contratto
debiti di gioco in Paesi esteri retti da sistemi giuridici di cd
“common law”. Sotto tali giurisdizioni i cittadini italiani ve‑
nivano condannati al pagamento di quanto dovuto in virtù
della perdita delle somme loro concesse attraverso ricognizio‑
internazionale
Gazzetta
140
D i r i t t o
I n t e r n a z i o n a l e
ni di debito, nella specie contratti di mutuo, sottoscritti al fine
di ottenere fiches per poter giocare nei casinò. Forti dei prin‑
cipi della legislazione italiana, consci della contrarietà all’or‑
dine pubblico del gioco d’azzardo nel nostro paese, essi rifiu‑
tavano di restituire le predette somme costringendo la società
titolare della casa da gioco ad adire la giustizia italiana e ri‑
chiedere la delibazione della sentenza emessa all’estero. In
particolare, nei casi esaminati la Suprema Corte della Baha‑
mas condannava i cittadini italiani al pagamento in forza
della legislazione interna che ammette il gioco d’azzardo e la
ripetibilità dei debiti contratti, rifacendosi le norme dello
Stato al sistema di common law vigente nel Regno Unito.
3.1. Il caso Cass. 16511/12.
Un casinò caraibico chiede che la Corte di appello di Na‑
poli dichiari l’efficacia della sentenza emessa dalla Corte
Suprema delle Bahamas nei confronti di un cittadino italiano,
condannato al pagamento della somma di un milione e due‑
centomila dollari del luogo per aver ottenuto, sottoscrivendo
le relative ricognizioni di debito, un fido di pari importo dal‑
la direzione del casinò. Il convenuto eccepisce che gli effetti
di tale pronuncia sono contrari all’ordine pubblico italiano.
La Corte d’Appello accoglie l’eccezione motivando che nel
nostro ordinamento l’esercizio e la partecipazione al gioco
d’azzardo sono vietati dal codice penale e che, pertanto, non
è ammessa azione per il relativo pagamento. La sentenza – «La
decisione emessa dalla Corte Suprema della Bahamas – ri‑
sponde la Cassazione – non riguarda un debito di gioco ben‑
sì un mutuo contratto per poter giocare presso il locale casinò,
ivi pienamente legale». E quindi la richiesta di delibazione va
accolta perché il provvedimento della Corte delle Bahamas
non produce effetti contrari all’ordine pubblico in Italia trat‑
tandosi nella specie di un’obbligazione nascente da normale
contratto e non riconducibile a quelle nascenti dal gioco con‑
siderate semplici obbligazioni naturali e per le quali non è
prevista l’obbligatorietà del pagamento ma la sua spontaneità
in ragione di un dovere morale o sociale che il debitore sente
come di dover adempiere. Questo per quanto riguarda il prin‑
cipale motivo di cassazione, ma gli ermellini colgono l’occa‑
sione per affrontare un’ulteriore e più pregnante questione
rilevando, in materia di gioco e scommesse, che «l’esame
delle norme che si sono succedute nel tempo non induce a ri‑
tenere che nel nostro ordinamento tali fenomeni siano consi‑
derati con disfavore. Avendo probabilmente le esigenze era‑
riali fatto premio su sempre più flebili istanze morali, deve
infatti constatarsi come l’area del gioco autorizzata (non dis‑
simile, nella sua essenza ontologica, a quello d’azzardo ‘proi‑
bito’) sia venuta man mano a estendersi». La Suprema Corte
prende così una posizione chiara a favore del disconoscimen‑
to del disvalore morale, legato all’eccezione di ordine pubbli‑
co, per tutte quelle attività via via autorizzate dalla legge in
virtù anche delle sentite necessità della tutela del diritto d’im‑
presa e delle ragioni creditorie che fanno “affidamento” sul
principio della responsabilità patrimoniale del debitore.
3.2. Il Caso Cass 1163/13. Svolgimento del processo.
La Paradise Enterprise Ltd, con sede in Nassau, Bahamas
(d’ora in avanti per brevità, Paradise) chiedeva che la Corte di
appello di Roma dichiarasse l’efficacia, ai sensi degli artt. 64
e 67 della l. n. 218 del 1995, della sentenza dalla Corte Supre‑
Gazzetta
F O R E N S E
ma del Commonwealth delle Bahamas nei confronti di F.S.,
con la quale costui era stato condannato al pagamento della
somma di 50.000 dollari delle Bahamas, per aver ottenuto,
sottoscrivendo le relative ricognizioni di debito, un fido di
pari importo dalla direzione del casinò delle Bahamas, allo
scopo di ottenere delle fiches da utilizzare per partecipare al
gioco d’azzardo, ivi considerato legale. Si costituiva il conve‑
nuto, eccependo l’insussistenza dei presupposti per la deliba‑
zione, e sostenendo, in particolare, che gli effetti di tale pro‑
nuncia erano contrari all’ordine pubblico italiano. La corte di
appello adita accogliendo la fondamentale eccezione del con‑
venuto, affermava che la domanda non poteva essere accolta,
essendo gli effetti della delibazione contrari all’ordine pubbli‑
co italiano. Il debito fatto valere dalla Paradise derivava, come
era pacifico fra le parti, dal gioco d’azzardo, che nel nostro
ordinamento è vietato, tanto che il suo esercizio e la stessa
partecipazione ad esso sono vietati ai sensi degli artt. 718 e
720 c.p., e che non è ammessa azione, ai sensi dell’art. 1933
c.c., per il relativo pagamento.
Veniva altresì richiamato il principio affermato dalla Su‑
prema Corte con la decisione n. 4209 del 1992, secondo cui
la previsione di cui all’art. 1933 c.c. è estensibile ai contratti
collegati al gioco, come i mutui, le dazioni di danaro o di fi‑
ches, quando concorre un diretto interesse del mutuante a
favorire la partecipazione al gioco del mutuatario: in propo‑
sito si affermava che il mutuo concesso al Sig. F.S. era funzio‑
nalmente connesso all’attuazione del giuoco d’azzardo.
Si aggiungeva, con riferimento alla denegatio actionis di
cui all’art. 1933 c.c., che il richiamo a tale disposizione da
parte della ricorrente era fuorviante, tanto più che nel caso di
specie si trattava proprio di una domanda di pagamento fon‑
data su un mutuo correlato al gioco d’azzardo.
3.2.1.La sentenza.
La Corte di Cassazione – Sezione I Civile – con sentenza
16 ottobre 2012 ‑17 gennaio 2013 n. 1163 ha stabilito che
“non produce effetti contrari all’ordine pubblico e, quindi,
può essere riconosciuta in Italia, ai sensi degli articoli 64 e
67 della legge n. 218 del 1995, la sentenza straniera recante
condanna per un debito attinente al gioco d’azzardo legal‑
mente esercitato, atteso che, in ambito nazionale ed in ambi‑
to comunitario, non esiste un disfavore dell’ordinamento
giuridico nei confronti del gioco d’azzardo in quanto tale,
ove esso non sfugga al controllo degli organismi statuali e
non si esponga, pertanto, alle infiltrazioni criminali”.
4. Conclusioni.
Con queste decisioni dei giudici della nomofiliachia non
vi è più alcun dubbio sull’esigibilità dei crediti derivanti dal
gioco d’azzardo sia se sorti in base a contratti di gioco, sia se
sorti in base a contratti di mutuo o finanziamento. Per contro
un limite ancora sussiste ed è rinvenuto nella necessità di una
precedente statuizione proveniente da una Corte di un paese
in cui il gioco d’azzardo è legalmente esercitato. Nella sostan‑
za nulla è cambiato all’interno del nostro ordinamento, né i
debiti di gioco contratti dai cittadini in Italia o in qualunque
paese in cui il gioco d’azzardo è illegale saranno ripetibili. Si
è dunque unicamente posto fine alla frequente prassi invalsa
tra i nostri concittadini di eludere il principio della lex loci
contractus internazionalmente riconosciuto.
F O R E N S E
●
Rassegna
di diritto comunitario
●
A cura di Francesco Romanelli
Avvocato e Specialista in diritto ed economia
delle Comunità Europee
m a g g i o • g i u g n o
2 0 1 3
141
Agricoltura – Autonomia procedurale degli Stati membri – Politi‑
ca agricola comune – Aiuti – Esame dei contenziosi amministrati‑
vi – Determinazione della giurisdizione competente – Criterio
nazionale – Tribunale amministrativo nella cui circoscrizione ha
sede l’autorità che ha adottato l’atto impugnato – Principio di
equivalenza – Principio di effettività – Articolo 47 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea
Il diritto dell’Unione, in particolare i principi di equiva‑
lenza e di effettività e l’articolo 47 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, non osta a una regola di
competenza nazionale, come quella enunciata all’articolo
133, paragrafo 1, del codice di procedura amministrativa
bulgaro (Administrativnoprotsesualen kodeks), che riserva
ad un unico organo giurisdizionale tutto il contenzioso rela‑
tivo alle decisioni di un’autorità nazionale incaricata del
pagamento degli aiuti all’agricoltura nell’ambito della politi‑
ca agricola comune dell’Unione europea, sempreché i ricorsi
per la tutela dei diritti che i singoli traggono dall’ordinamen‑
to dell’Unione non vengano esercitati in condizioni meno
favorevoli di quelle stabilite per i ricorsi a tutela dei diritti
derivati da eventuali regimi di sostegno all’agricoltura previ‑
sti dall’ordinamento interno e che una tale regola di compe‑
tenza non causi ai soggetti interessati inconvenienti procedu‑
rali, in termini segnatamente di durata del procedimento,
tali da rendere eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti
conferiti dall’ordinamento dell’Unione, circostanza che spet‑
ta al giudice del rinvio verificare.
C.G.U.E., sez. III, sent. 27 giugno 2013, causa C‑93/12.
La sentenza in commento ha ad oggetto la domanda di pronuncia
pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE,
dall’Administrativen sad Sofia‑grad (Bulgaria), con decisione del
9 febbraio 2012, pervenuta in cancelleria il 21 febbraio 2012.
La ricorrente è un’impresa agricola bulgara che aveva
chiesto l’erogazione di contributi ai sensi della normativa
sostanziale vigente. Il provvedimento di diniego dell’autorità
bulgara competente è stato impugnato innanzi al Tribunale
amministrativo dove ha sede la ricorrente e l’ufficio che aveva
rigettato l’istanza di contribuzione. Il Tribunale, preso atto
che il codice processuale amministrativo bulgaro prevede per
questo tipo di controversie la competenza nazionale del Tri‑
bunale amministrativo di Sofia, ha chiesto alla Corte se tale
competenza esclusiva violasse i diritti fondamentali assicura‑
ti dal diritto dell’Unione.
La Corte, con la pronuncia in epigrafe, ha risolto la que‑
stione in maniera del tutto pragmatica rilevando che una
violazione dei diritti fondamentali potrebbe configurarsi solo
se le norme procedurali provocassero inconvenienti al ricor‑
rente in particolare sotto il profilo della durata del processo.
Riconoscimento di diplomi e di titoli – Direttiva 2005/36/CE – Pro‑
fessione di fisioterapista – Riconoscimento parziale e limitato
delle qualifiche professionali – Articolo 49 TFUE
L’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che
esso osta a una normativa nazionale che nega l’accesso par‑
ziale alla professione di fisioterapista, regolamentata nello
Stato membro ospitante, a un cittadino di questo stesso Stato
il quale abbia conseguito in un altro Stato membro un titolo,
come quello di massaggiatore‑idroterapista, che gli consente
di esercitare, in tale secondo Stato membro, una parte delle
internazionale
Gazzetta
142
D i r i t t o
I n t e r n a z i o n a l e
attività riconducibili alla professione di fisioterapista, quando
le differenze tra gli ambiti di attività siano così rilevanti che
sarebbe in realtà necessario seguire una formazione comple‑
ta per accedere alla professione di fisioterapista. Spetta al
giudice nazionale stabilire se tale ipotesi ricorra nel caso di
specie.
C.G. U.E., sez. I, sent. 27 giugno 2013, causa C‑575/11.
La suddetta sentenza ha ad oggetto la domanda di pro‑
nuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo
267 TFUE, dal Symvoulio tis Epikrateias (Grecia), con deci‑
sione del 10 novembre 2011, pervenuta in cancelleria il 16
novembre 2011.
Il ricorrente è un cittadino greco in possesso di un diploma
di maturità presso un liceo ellenico. Dopo aver seguito, in
Germania, una formazione di massaggiatore‑idroterapista
(«Masseur und medizinischer Bademeister») della durata di
due anni e mezzo comprendente un insegnamento teorico e un
tirocinio, egli ha conseguito il titolo necessario per essere
autorizzato a esercitare tale professione. La formazione di
massaggiatore‑idroterapista è, in Germania, di istruzione
professionale di livello medio (secondario). Fondandosi sulle
qualifiche professionali conseguite in Germania, il ricorrente
ha depositato, presso il Ministero greco della Sanità, una
domanda di riconoscimento del diritto di accedere alla pro‑
fessione di fisioterapista, la più affine, in Grecia, a quella di
massaggiatore‑idroterapista. Detta richiesta è stata respinta.
Secondo le autorità elleniche, infatti, da un lato, la professio‑
ne di «massaggiatore‑idroterapista» non sarebbe regolamen‑
tata in Grecia. Dall’altro, il ricorrente non potrebbe esercitare
la professione di fisioterapista giacché possiede solo un certi‑
ficato attestante una formazione della durata di due anni e
mezzo, mentre in Grecia per accedere alla professione di fisio‑
terapista è richiesto il possesso di un diploma di istruzione
superiore rilasciato a compimento di un ciclo di studi della
durata di almeno tre anni. Il ricorrente ha proposto quindi
ricorso contro tale decisione presso il Symvoulio tis Epikratias
[Consiglio di Stato] facendo valere che quest’ultima disatten‑
deva il sistema di riconoscimento delle qualifiche professiona‑
li dell’Unione europea e violava il suo diritto al libero stabili‑
mento quale previsto all’articolo 49 TFUE. Secondo il giudice
del rinvio, la decisione delle autorità elleniche di non accorda‑
Gazzetta
F O R E N S E
re al ricorrente neanche un accesso parziale alla professione
regolamentata di fisioterapista in Grecia, perché potesse eser‑
citare in tale paese quella parte delle attività professionali dei
fisioterapisti (massoterapia e idroterapia) che è legittimato ad
esercitare in Germania, ben può essere revocata in dubbio,
segnatamente alla luce della giurisprudenza della Corte.
Ricorso – Articolo 19 dello Statuto della Corte – Ricorso per annul‑
lamento manifestamente irricevibile – Principi di uguaglianza di
trattamento e di proporzionalità – Motivi di ricorso manifesta‑
mente infondati
L’esigenza relativa alla posizione ed alla qualità di avvo‑
cato indipendente trova origine dalla concezione del ruolo
dell’avvocato nell’ordinamento giuridico dell’Unione, come
enunciato dall’art. 19 dello Statuto della Corte, il quale si
ricollega alle tradizioni giuridiche comuni degli Stati membri.
L’avvocato non può rappresentare se stesso nei giudizi dinan‑
zi alla Corte.
C.G.U.E, sez. VI, ord. 06 giugno 2013, causa C‑535/12 P,
Ricorrente R** F** O**, resistente,
Mediatore Europeo
L’ordinanza, avente ad oggetto un ricorso ai sensi
dell’art. 56 dello Statuto della Corte di Giustizia dell’Unione
Europea approvato il 18 novembre 2012, definisce un ricorso
in appello proposto da un avvocato spagnolo il quale aveva
impugnato la decisione del Tribunale di prima istanza che
aveva rigettato un provvedimento del Mediatore europeo.
L’avvocato si era costituito quale procuratore di se stesso nel
procedimento dinanzi al Tribunale che proprio per questo
aveva dichiarato irricevibile il ricorso.
Gravato detto provvedimento, la Corte ha confermato che
pur se la Convenzione dei Diritti dell’Uomo prescrive espres‑
samente la necessità di un difensore solo nei procedimenti
penali, è pur vero che per la considerazione della funzione
dell’avvocato che è quella di un collaboratore della giustizia,
chiamato a fornire, in tutta indipendenza e nell’interesse su‑
periore di quella, l’assistenza legale di cui il cliente necessità,
chiunque nei procedimenti dinanzi a quella giurisdizione ha
il diritto – dovere di essere assistito da un avvocato. Un’alta
considerazione della funzione che non sembra essere condivi‑
sa nelle sedi istituzionali italiane.
Questioni
[ A cura di Mariano Valente / Procuratore dello Stato ]
Se in tema di prescrizione di danni lungo‑latenti il dies a quo inizi a decorrere dalla piena
consapevolezza delnesso eziologico tra il fatto e l’evento o in virtù del principio dell’ordinaria
145
diligenza. / Federica Arbitrio
Quando il giudice penale accerta la mancanza in concreto dei presupposti oggettivi e/o sog‑
gettivi di una fattispecie di reato, deve assolvere utilizzando la formula «il fatto non sussiste»
o «il fatto non è previsto dalla legge come reato»? Il caso dell’art. 12‑quinquies del D.L. 08.06.1992
147
n. 306. / Giacomo Romano
questioni
La domanda di manleva proposta da un condominio, o comunque da un ente di gestione,
che sia volta a far accertare l’esclusiva responsabilità del Ministero chiamato in causa per i
danni derivanti dal silenzio serbato dalla Soprintendenza sull'istanza di autorizzazione ai lavori
di manutenzione avanzata dallo stesso condominio, va intentata davanti al G.O. o davanti al
151
G.A.? / Elia Scafuri
F O R E N S E
●
DIRITTO CIVILE Se in tema di prescrizione
di danni lungo‑latenti
il dies a quo inizi a decorrere
dalla piena consapevolezza
delnesso eziologico tra
il fatto e l’evento o in virtù
del principio dell’ordinaria
diligenza.
● Federica Arbitrio
Dottoressa in Giurisprudenza
Il tema della prescrizione e delle
relative conseguenze nell’ambito della
disciplina dei danni c.d. lungo‑latenti,
ossia quelle particolari ipotesi in cui la
verificazione dell’effetto del danno ri‑
sulta essere cronologicamente sfalsata
rispetto alla condotta antigiuridica che
lo ha causato, è stato oggetto di nume‑
rose analisi da parte della dottrina e
della giurisprudenza con particolare
riguardo alle ipotesi dei danni da emo‑
trasfusioni.
È necessario preliminarmente esa‑
minare le questioni ermeneutiche più
rilevanti al fine di comprendere la por‑
tata della sentenza 11 ottobre 2012
n. 3227 della Corte d’Appello di Napo‑
li espressasi proprio a tal riguardo.
Come è noto, l’istituto giuridico
della prescrizione è disciplinato dagli
articoli 2934 e ss. del codice civile, ove
si sancisce che ogni diritto si estingue
nel caso in cui il legittimo titolare non
lo eserciti per il tempo determinato
dalla legge, nei limiti in cui non si trat‑
ti di diritti indisponibili o di altri dirit‑
ti indicati dalla legge stessa.
La ratio sottesa a tale previsione è,
non solo quella di evitare che possano
sussistere situazioni giuridiche incerte
causate dall’inerzia del titolare di un
diritto esercitatile, in aderenza alle esi‑
genze di certezza del diritto cui è uni‑
formato il nostro ordinamento giuridi‑
co, ma anche quella di latamente “san‑
zionare” l’inattività del titolare del di‑
ritto in quanto sia essa frutto di negli‑
genza o comunque espressione di disin‑
teresse rispetto al diritto ed alla sua
tutela.
m a g g i o • g i u g n o
2 0 1 3
Siffatta natura sanzionatoria della
prescrizione e le relative conseguenze
pregiudizievoli a carico del titolare, si
inquadrano in un’ottica di autorespon‑
sabilità e quindi di colpa intesa come
incuria e negligenza nel far valere il
proprio diritto (in tal senso cfr. Remo
Caponi, “Gli impedimenti all’esercizio
dei diritti nella disciplina della prescri‑
zione” in Rivista di trimestrale di dirit‑
to e procedura civile, 1996: “affiora
ancora l’idea che la prescrizione, oltre
a quella appena descritta, abbia anche
la funzione di sanzionare l’inattività del
titolare del diritto, in quanto frutto di
negligenza o, comunque espressione di
disinteresse rispetto al diritto ed alla
sua tutela. A tale idea non rimane del
tutto estraneo neppure chi muove cor‑
rettamente dal presupposto che <anche
l’inerzia va considerata come una legit‑
tima manifestazione di volontà>, ma
afferma poi che l’inerzia del titolare a
fare valere il proprio interesse, protrat‑
ta per un periodo di tempo più o meno
lungo secondo le pre visioni
dell’ordinamento,può portare al venir
meno della protezione dell’interesse< in
quanto,appunto, da questa inerzia nel
far valere il proprio interesse, l’ordina‑
mento giuridico può logicamente de‑
durre che non l’interesse non c’è o sia
molto debole, per cui la protezione da
parte del diritto appare addirittura
esorbitante>. Tale argomentazione
presuppone che non l’inattività come
tale rilevi ai fini della prescrizione, ma
esclusivamente l’inerzia che sia espres‑
sione di disinteresse o di incuria del ti‑
tolare rispetto al diritto ed alla sua tu‑
tela. L’accoglimento di quest’ultimo
presupposto, collocato nella prospetti‑
va dell’autoresponsabilità, porterebbe
a riconoscere che il fondamento della
conseguenza pregiudizievole a carico
del titolare è la colpa”).
È proprio in tale prospettiva che
devono dunque essere inquadrati i pro‑
blemi ermeneutici relativi all’individua‑
zione del dies a quo nell’ipotesi di pre‑
scrizione breve, ex art. 2947 c.c., atti‑
nente al risarcimento del danno extra‑
contrattuale.
In tali ipotesi, infatti, il legislatore
individua il dies a quo nel momento
della verificazione del fatto antigiuridi‑
co e non nel momento della percezione
del danno, ponendo significativi proble‑
mi interpretativi proprio nel caso che ci
occupa di cd. illecito lungo latente,
145
dove la verificazione dell’effetto del
danno risulta essere temporalmente
sfalsata rispetto alla condotta antigiu‑
ridica che lo ha causato.
I numerosi contrasti interpretativi in
merito alla predetta tematica, hanno
fatto si che la questione approdasse alle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione
le quali, con le ormai famose sentenze
dalla 576 alla 585 del 2008, esaminan‑
do ipotesi di malattie infettive causate
da contagi virali post‑trasfusionali,
hanno posto alcuni importanti principi
generali in tema di prescrizione dell’il‑
lecito lungo‑latente.
In riferimento alla determinazione
dell’exordium praescriptionis è necessa‑
rio, innanzitutto, far riferimento alla
sentenza delle sezioni unite della Corte
di Cassazione n. 581 del 2008, ove si
statuisce che “il termine di prescrizione
del diritto al risarcimento del danno di
chi assume di avere contratto per con‑
tagio una malattia per fatto doloso o
colposo di un terzo inizia a decorrere,
a norma dell'art. 2947 c.c., comma 1,
non dal momento in cui il terzo deter‑
mina la modificazione che produce
danno all'altrui diritto o dal momento
in cui la malattia si manifesta all'ester‑
no, ma dal momento in cui la malattia
viene percepita o può essere percepita
quale danno ingiusto conseguente al
comportamento doloso o colposo di un
terzo, usando l'ordinaria diligenza e
tenuto conto della diffusione delle co‑
noscenze scientifiche”.
Sempre sul punto la corte chiarisce
che “il suddetto principio in tema di
exordium praescriptionis, non apre la
strada ad una rilevanza della mera co‑
noscibilità soggettiva del danneggiato.
Esso deve essere saldamente ancorato
a due parametri obiettivi, l'uno interno
e l'altro esterno al soggetto, e cioè da
un lato al parametro dell'ordinaria di‑
ligenza, dall'altro al livello di conoscen‑
ze scientifiche dell'epoca”.
Dunque, i principi che vengono in
considerazione sono quelli della “cono‑
scibilità del danno” e della “rapporta‑
bilità causale”, da valutarsi secondo il
duplice parametro della ordinaria og‑
gettiva diligenza e del livello di cono‑
scenze scientifiche dell’epoca.
Volendosi soffermare ora sul requi‑
sito della ordinaria oggettiva diligenza
in termini di prescrizione, si ritiene che
esso possa far riferimento, così come
pare anche aver sostenuto nel tempo la
questioni
Gazzetta
146
stessa Corte di Cassazione (Cass.685/82),
“al momento in cui il paziente avrebbe
potuto pervenire alla percezione del
danno con la normale diligenza”.
È, dunque, proprio l’ordinaria dili‑
genza che deve spingere il titolare di un
diritto ad informarsi circa la possibile
eziologia del contagio, richiedendo
chiarimenti e spiegazioni al personale
sanitario alle cui cure è affidato.
È per l’appunto in tale ottica che
assume particolare rilievo la pronuncia
della Corte di Appello di Napoli, che
nella sentenza n. 3227 del 2012 – che ha
rigettato la richiesta di risarcimento
danni nei confronti del Ministero in
quanto prescritta – individua, in modo
pregante, il dies a quo riferendosi alla
data della diagnosi dell’avvenuto conta‑
gio con il virus HCV, “atteso che le
conoscenze scientifiche diffuse all’epo‑
ca ponevano l’attrice in grado di ricon‑
durre eziologicamente l’infezione ri‑
scontrata a suo carico alle trasfusioni
di sangue alla stessa praticate…, e ciò
in quanto era comunemente e notoria‑
mente diffusa la nozione che le trasfu‑
sioni di sangue costituissero uno dei
principali veicoli di diffusione dei virus
epatici e del virus HCV…, non senza
tralasciare, che in ogni caso, in base ai
normali precetti di prudenza e diligen‑
za la stessa avrebbe potuto attivarsi ed
acquisire ogni utile informazione a ri‑
guardo rivolgendosi alle strutture ospe‑
daliere o al proprio medico di fidu‑
cia”.
Da tale pronuncia si evidenzia dun‑
que, in modo maggiormente pregnante
rispetto ad altre, quale sia il comporta‑
mento omissivo che potrebbe configu‑
rare la violazione del dovere di ordina‑
ria diligenza indicato dalla Corte di
Cassazione nelle sentenze del 2008 e che
permetterebbe di ricollegare tale obbli‑
go alla suesposta natura sanzionatoria
della prescrizione.
Non è infatti un caso che la Corte
d’ Appello di Napoli abbia fatto un
così chiaro ed in equivoco richiamo al
dovere di diligenza che, in linea con
quanto stabilito dalla Suprema Corte
rappresenta un corretto e pregnante
riferimento non ad una effettiva e sog‑
gettiva conoscenza, ma al “dover esse‑
re”, a ciò che la parte attrice, quanto‑
meno, avrebbe dovuto attivarsi per sa‑
pere.
La stessa sentenza da poi maggior
conferma della suindicata natura lata‑
q u e s t i o n i
mente sanzionatoria dell’istituto della
prescrizione, nella parte in cui statuisce
che: “la prescrizione inizia a decorrere
dal giorno in cui il danno si è verificato,
assumendo al riguardo rilievo, in base
al disposto dell’art. 2935 c.c., la mera
possibilità legale di esercizio del diritto,
e non anche gli impedimenti soggettivi
ancorché determinati dal fatto di un
terzo, e gli ostacoli di mero fatto, come
quelli che trovano la loro c ausa
nell’ignoranza, da parte del titolare,
dell’evento generatore del suo diritto e
nel ritardo con cui egli proceda ad ac‑
certarlo”.
Si fa dunque, in tale pronuncia, un
preciso richiamo alle cause di interru‑
zione della prescrizione, al fine di esclu‑
derne gli impedimenti soggettivi e gli
ostacoli di mero fatto quali l’ignoranza
dell’evento generatore del diritto e/o al
ritardo con cui si proceda ad accertarne
l’origine.
È chiaro quindi che nel caso di spe‑
cie il ritardo cui si fa riferimento è
quello con cui l’attrice ha agito al fine
di ottenere le informazioni idonee alla
ricostruzione del presunto nesso causa‑
le fra la trasfusione ed il contagio con il
virus HCV.
Anche sotto tale profilo quindi la
citata sentenza appare una fra le più
coerenti con la dottrina maggioritaria
secondo cui, per considerare l’inattività
de titolare come indice certo del suo
disinteresse o della sua incuria, tanto da
essere sanzionata con la prescrizione del
diritto, è necessario operare una valu‑
tazione dei fatti, eventualmente a lui
non imputabili, che ne impediscano
l’esercizio.
La costante interpretazione giuri‑
sprudenziale dell’articolo 2935 c.c., pur
richiamata dalla sentenza della corte
d’Appello di Napoli, attribuisce rilevan‑
za, ai fini del decorso della prescrizione,
alla sola impossibilità legale e non an‑
che a quella di fatto in cui venga a tro‑
varsi il titolare del diritto.
Sul punto si è infatti espressa più
volte la Suprema Corte chiarendo che:
“L’impossibilità di far valere il diritto,
alla quale l’art. 2935 c.c. attribuisce
rilevanza di fatto impeditivo della de‑
correnza della prescrizione, è solo quel‑
la che deriva da cause giuridiche che
ostacolino l’esercizio del diritto e non
comprende anche gli impedimenti sog‑
gettivi o gli ostacoli di mero fatto, per
i quali il successivo art. 2941 prevede
Gazzetta
F O R E N S E
solo specifiche e tassative ipotesi di
sospensione, tra le quali, salva l’ipotesi
di dolo prevista dal n. 8 citato articolo,
non rientra l’ignoranza, da parte del
titolare, del fatto generatore del suo
diritto, né il dubbio soggettivo sulla
esistenza di tale diritto ed il ritardo
i n d ot to d all a n ec e ssit à d el s uo
accertamento”(Cass. Civ. Sez. VI,
07‑03‑2012, n. 3584).
Ancora sul punto la Corte di Cassa‑
zione ha specificamente sffermato che:
“La prescrizione comincia a decorrere
dal giorno in cui il danno si è verificato,
assumendo al riguardo rilievo, in base
al disposto dell’art. 2935 c.c., la mera
possibilità legale di esercizio del diritto,
e non anche gli impedimenti soggettivi,
ancorché determinati dal fatto di un
terzo, e gli ostacoli di mero fatto, come
quelli che trovano la loro c ausa
nell’ignoranza, da parte del titolare,
dell’evento generatore del suo diritto e
nel ritardo con cui egli proceda ad ac‑
certarlo” (Cass. civ., sez. III, 22‑06‑2007,
n. 14576).
Gli impedimenti di fatto, allora,
acquisterebbero rilievo solo in via ecce‑
zionale ed attraverso l’intervento del
legislatore con norme specifiche e tassa‑
tive che fissino il dies a quo avendo ri‑
guardo a circostanze che impediscano
l’esercizio della situazione soggettiva o
che ricomprendano gli impedimenti di
fatto fra i motivi di sospensione della
prescrizione (es., nei casi di danni con‑
seguenti da incidenti nucleari o da pro‑
dotti difettosi sono state adottate norme
eccezionali e di stretta interpretazio‑
ne).
Al di fuori di tali tassative ed ecce‑
zionali ipotesi, gli ostacoli di fatto – fra
cui l’ignoranza “colpevole” del titolare
circa l’esistenza del diritto – non impe‑
discono la decorrenza della prescrizio‑
ne. Solo gli impedimenti legali e, non
anche quelli di mero fatto, impediscono
o sospendono il decorso della prescri‑
zione ed è quindi lecito, ora, ricollegare
tale tematica al caso che ci occupa.
A norma dell’art. 2941 n. 8 c.c.,
l’incolpevole ignoranza del titolare circa
l’esistenza del diritto è causa di sospen‑
sione della prescrizione solo laddove
essa dipenda dall’occultamento doloso
del debitore finché il dolo non si stato
scoperto.
Per integrare tale fattispecie sarebbe
necessaria la sussistenza di due elemen‑
ti: l’attività del debitore intenzional‑
F O R E N S E
mente diretta ad occultare nei riguardi
della controparte l’esistenza del diritto
e che tale comportamento abbia ogget‑
tivamente posto il creditore nell’impos‑
sibilità di fare valere le proprie pretese.
Dalla lettura combinata degli
artt. 2941, n. 8 e 1227 comma 2,.c.c. si
può desumere, con evidenza, che la pre‑
senza del dolo del debitore, inoltre, non
fa venire meno la necessità di ancorare al
parametro della ordinaria diligenza il
comportamento della controparte volto
a prendere cognizione del proprio dirit‑
to.
Pur se, con evidenza, l’ipotesi del
dolo è priva di qualsiasi attinenza al
caso di specie, la disposizione di legge è
un fortissimo indice della granitica rile‑
vanza che nel nostro ordinamento ha la
ratio sanzionatoria dell’istituto. Infatti,
anche nella estrema ipotesi del dolo, la
consolidata giurisprudenza, non ritiene
tale elemento sufficiente a “scusare” la
mancata attivazione del titolare del di‑
ritto, ma richiede comunque la diligen‑
za, un’accurata diligenza che possa su‑
perare il dolo della controparte.
Con evidenza, da tale ordinaria di‑
ligenza non potrebbe mai prescindersi
nella diversa ipotesi dei danni da emo‑
trasfusione in cui il dolo è senza alcun
dubbio assente.
A tal riguardo la suprema Corte,
mai contraddetta, ha stabilito che “la
sospensione ex art.2941, n.8 doveva
essere concessa solo laddove l’occulta‑
mento doloso del debitore non poteva
essere superato con un comportamento
ordinariamente diligente del creditore”
(Cass. n. 1044 del 1963).
Ancora sul punto la Suprema Corte
ha più volte affermato “che l'ignoranza
di fatto della esistenza e/o titolarità del
diritto non ne impedisce la decorrenza”
( C a s s . 18 / 0 9 / 1 9 9 7, n . 9 2 9 1 ,
Cass. 03/05/1999, n. 4389).
L’ignoranza della causa del danno
non può quindi considerarsi idonea a
sospendere o posticipare il decorso
della prescrizione. Essa realizza un’igno‑
ranza di fatto della titolarità del diritto
che, in difetto di previsione ad hoc,
come già sottolineato, non è sufficiente
ad impedire il decorso del termine di
prescrizione del diritto al risarcimen‑
to.
Dalla disamina appena condotta si
può quindi concludere che il merito
della sentenza n. 3227 del 2012 della
Corte d’appello di Napoli è senza dub‑
m a g g i o • g i u g n o
147
2 0 1 3
bio non solo quello di aver interpretato,
alla luce dalla natura latamente sanzio‑
natoria, l’istituto della prescrizione,
ponendolo in connessione con l’obbligo
di ordinaria diligenza ed individuando
quest’ultimo in un comportamento
prudentemente orientato all’informa‑
zione circa l’origine eziologica del con‑
tagio, ma anche quello di aver posto
tale obbligo in stretto contatto con le
cause di esclusione della prescrizione,
attribuendogli un valore rilevantissimo
con particolare riguardo all’ignoranza
dell’evento generatore del danno o del
ritardo nell’accertamento di quest’ulti‑
mo.
●
Diritto Processuale Penale
Quando il giudice penale
accerta la mancanza
in concreto dei presupposti
oggettivi e/o soggettivi
di una fattispecie di reato,
deve assolvere utilizzando
la formula «il fatto non
sussiste» o «il fatto non
è previsto dalla legge
come reato»? Il caso
dell’art. 12‑quinquies
del D.L. 08.06.1992 n. 306.
● Giacomo Romano
Dottore in Giurisprudenza
«Non si tocca il fatto se non nella
misura in cui non si tocca il diritto».
Con queste parole il Sostituto Procura‑
tore Generale, Cons. Francesco Iaco‑
viello. iniziava la sua requisitoria in un
famoso processo celebrato poco tempo
addietro (Cass. pen., sez. V, ud. 9 mar‑
zo 2012, imp. Dell’Utri).
In termini generali si può affermare
che il fatto giuridico risulta costituito
dalla sintesi di un duplice elemento: il
fatto naturale o umano (elemento ma‑
teriale) e la qualificazione giuridica del
fatto (elemento formale). Fatto giuridi‑
co è, dunque, qualsiasi situazione del
mondo dell’essere prevista dal diritto
come causa di effetti giuridici.
Com’è noto, nel sistema penale il
fatto è tipico, tassativamente determi‑
nato dal legislatore nei suoi elementi
strutturali e si manifesta nel processo
tramite l’imputazione. Esso va provato
nel contraddittorio tra le parti, e dun‑
que in dibattimento, onde emettere una
sentenza di condanna. Altrimenti si
impone un’assoluzione.
L’art. 530 c.p.p. contiene un venta‑
glio di formule di assoluzione nel meri‑
to, da adottare all’esito del dibattimen‑
to, che costituiscono, come tutte quelle
di proscioglimento, un numero chiuso
questioni
Gazzetta
148
(Illuminati, Giudizio, in Conso,
Grevi, Profili del nuovo codice di pro‑
cedura penale, 4a ed., Padova, 1996,
607), come si desume (anche se relativa
al regime transitorio) dalla disposizione
dell’art. 254 disp. att. c.p.p., secondo il
quale «le sentenze di proscioglimento
possono essere pronunciate solo con le
formule previste dal codice».
Come noto, le formule di assoluzio‑
ne sono ispirate al principio del favor rei
e sono pertanto elencate in un ordine
d’importanza, che ha come parametro
l’interesse dell’imputato, dato che esse
sono graduate da quelle più favorevoli
a quelle meno convenienti per lo stesso,
tenendo conto anche degli effetti extra‑
penali (efficacia nei giudizi civili, am‑
ministrativi e disciplinari) della pronun‑
cia e dell’eventuale pregiudizio morale
connesso con alcune formule, le quali
implicano un accertamento riguardante
la sussistenza del fatto e la commissione
di esso da parte dell’imputato (Tonini,
Manuale di procedura penale, Milano,
2007, 629).
Per effetto della disciplina codicisti‑
ca il giudice non può adottare, come
visto, formule diverse da quelle previste
dall’art. 530 c.p.p. e, nel caso in cui
concorrano i presupposti per la pronun‑
cia di diverse formule, deve scegliere
quella che si rivela essere la più favore‑
vole per l’imputato.
Invero, la dottrina (Tonini, op. cit.,
630) ha criticato la scelta del legislatore
di prevedere una pluralità di sentenze di
assoluzione, ritenendo che essa contra‑
sti col principio della presunzione d’in‑
nocenza, previsto dall’art. 27, co., Cost.,
che impone all’accusa di fornire la pro‑
va della responsabilità dell’imputato,
fugando "ogni ragionevole dubbio" ri‑
guardante la possibilità di ricostruzioni
alternative dei fatti. Il rispetto del prin‑
cipio costituzionale avrebbe, quindi,
voluto che si fosse prevista una sola
formula terminativa di assoluzione,
dichiarativa dell’assenza di colpevolez‑
za, riservando alla motivazione della
sentenza l’illustrazione dei motivi della
decisione.
Afferma l’art. 530, comma 1, c.p.p.,
che l’imputato deve essere assolto «se il
fatto non sussiste, se l’imputato non lo
ha commesso, se il fatto non costituisce
reato o non è previsto dalla legge come
reato, ovvero se il reato è stato com‑
messo da persona non imputabile o non
punibile per un’altra ragione» e che la
q u e s t i o n i
causa deve essere indicata nel dispositi‑
vo.
Tanto premsesso, il quesito su cui
vale la pena soffermarsi è entro che li‑
miti il giudice sia libero di adottare la
formula assolutoria che ritiene più op‑
portuna.
Invero, va evidenziato che l’assolu‑
zione perché «il fatto non sussiste» co‑
stituisce la formula più favorevole, che
si deve adottare quando l’istruttoria
dibattimentale non ha consentito di
accertare l’esistenza del fatto attribuito
all’imputato da intendersi in termini di
elemento oggettivo del reato quale azio‑
ne od omissione, evento e nesso di
causalità (Siracusano, Il giudizio, in
Siracusano, Galati, Tranchina,
Zappalà, Diritto processuale penale,
II, Milano, 1996, 377; Tonini, op. cit.,
673).
In dottrina è stato affermato che la
formula dell’insussistenza del fatto ri‑
guarda solamente la risoluzione di que‑
stioni storiche (Siracusano, op. cit.,
377). Appare evidente che l’assoluzione
con la formula indicata può dipendere
anche da valutazioni in diritto concer‑
nenti l’esistenza di alcuni presupposti
giuridici della fattispecie, ad esempio
quando la norma incriminatrice rinvia
a norme extrapenali che richiedono uno
specifico esame della fattispecie giuridi‑
ca ad esse sottesa, sempre che non si
ritenga di dover definire "questione di
fatto" ogni quesito concernente l’inter‑
pretazione e l’ambito di applicazione di
norme extrapenali diverse dal precetto
della norma incriminatrice, assunte
come presupposti di fatto della norma
penale (Rigo, La sentenza, in Spangher (diretto da), Trattato di procedu‑
ra penale, IV, 2, Torino, 2009, 616).
La giurisprudenza di legittimità, nel
corso degli anni, ha fornito preziosi
chiarimenti su quando deve essere uti‑
lizzata la formula assolutoria «il fatto
non sussite» prevista dall’art. 530, com‑
ma 1, c.p.p.
In particolare, nel caso di contesta‑
zione del reato di appropriazione inde‑
bita (art. 646 c.p.), basata sull’erroneo
presupposto che le somme trattenute
dall’imputato appartenessero a terzi, la
S.C. ha ritenuto che manchi del tutto
«l’elemento dell’altruità del bene, costi‑
tutivo della fattispecie astratta di ap‑
propriazione indebita» e che sia neces‑
sario assolvere l’imputato con la formu‑
la «il fatto non sussiste», vertendosi in
Gazzetta
F O R E N S E
un caso di difetto di un elemento costi‑
tutivo, di natura oggettiva, del reato
contestato (Cass. pen., Sez. Unite, Sent.,
(u d . 2 5 . 0 5 . 2 0 11) 2 0 .10 . 2 0 11 ,
n. 37954).
Così, in tema di diffamazione
(art. 595 c.p.) se il giudice escluda la
sussistenza di qualsiasi lesione alla re‑
putazione della persona offesa, l’impu‑
tato va assolto con la formula «il fatto
non sussiste» e non con quella «perché
il fatto non costituisce reato», riservata
ai casi in cui venga accertata l’esistenza
d i u n a c au sa d i g iu st i f ic a z ione
(C a s s . p en ., s e z . V, s ent ., (ud .
25‑02‑2010) 11‑06‑2010, n. 22598).
La formula de qua dovrebbe, ad
avviso d’un indirizzo dottrinale, essere
utilizzata anche nel caso in cui manchi‑
no i presupposti oggettivi della condot‑
ta (Tonini, op. cit., 630), come quando
difetti nell’agente la qualifica soggettiva
che permette la configurazione del rea‑
to proprio, oppure non si configuri la
qualità di imprenditore fallito nel delit‑
to di bancarotta. Ovviamente, la que‑
stione è opinabile, perché essa dipende
dalla soluzione che s’intende dare al
concetto di "fatto".
In particolare, se ad esso si attribu‑
isce la capacità di definire esclusivamen‑
te il complesso costituito dalla condot‑
ta, dall’evento e dal nesso di causalità,
diventa necessario dichiarare che il
fatto non costituisce reato quando non
sia ravvisabile alcun altro presupposto
oggettivo dell’azione. Qualora, al con‑
trario, si accolgano nel concetto di
"fatto" anche gli elementi costitutivi
diversi dall’elemento psicologico del
reato, si deve ritenere che la formula da
impiegare quando manchi un presuppo‑
sto della condotta sia quella dell’insus‑
sistenza del fatto (Rigo, op. cit., 616).
La dottrina più avveduta, d’altron‑
de, evidenzia che il concetto d’azione
non si limita ad una ricostruzione in
termini causali ma si esprime, invece, in
un accadere finalistico: «proprio perché
l’uomo è in grado di orientare i suoi
atti e controllarne gli effetti, così da
indirizzare il divenire causale esterno,
il suo agire cosciente e volontario, fina‑
listicamente sovradeterminato, si di‑
stingue in modo essenziale dal mero
accadimento causale. Questo, infatti,
non è che la risultante occasionale del‑
le preesistenti condizioni causali: in
questo senso, si può dire che la causa‑
lità è cieca, tanto quanto la finalità è
F O R E N S E
veggente» (fiore, Diritto penale – Par‑
te Generale, 3 ed., Torino, 2008, 133).
Sul piano dommatico ne consegue l’in‑
clusione del dolo nel fatto tipico, il cui
ufficio è quello di descrivere la condot‑
ta vietata, in tutti i suoi elementi costi‑
tutivi.
Ora, la scelta dell’una o dell’altra
soluzione determina effetti giuridici e
pratici di diversa rilevanza, come si
preciserà appresso.
La formula "il fatto non è previsto
dalla legge come reato", estranea alla
precedente codificazione, deve essere
impiegata, al contrario, quando il fatto
descritto nell’imputazione, e provato
nella sua esistenza, non sia riconducibi‑
le ad alcuna astratta fattispecie di reato
perché manchi la relativa norma incri‑
minatrice, perché essa sia stata abroga‑
ta o dichiarata costituzionalmente ille‑
gittima, o ancora depenalizzata, ovvero
sia entrata in vigore dopo la commissio‑
ne del fatto (Tonini, op. cit., 673; Illuminati, op. cit., 760).
Secondo una parte della dottrina, la
formula assolutoria che si commenta
dovrebbe essere considerata la prima
della scala gerarchica delle formule,
perché essa fa riferimento alla non in‑
quadrabilità del fatto in alcuna figura
di reato e pertanto costituisce una pro‑
nuncia di assoluzione in diritto (Cordero, Procedura penale, Milano, 2006,
988). Nel caso in cui la norma incrimi‑
natrice sia stata oggetto d’una dichiara‑
zione d’incostituzionalità, oppure sia
stata abrogata, successivamente alla
pronuncia di una sentenza di condanna,
questa deve essere revocata dal giudice
dell’esecuzione, il quale deve dichiarare
che "il fatto non è previsto dalla legge
come reato" (art. 673, comma 1, c.p.p.).
La Corte Costituzionale, con sentenza
04.04.2008, n. 85, ha ritenuto che la
categoria delle sentenze di prosciogli‑
mento non costituisce un genus unita‑
rio, ma abbraccia ipotesi eterogenee,
quanto alla possibilità di lesione degli
interessi morali e giuridici del prosciol‑
to perché, insieme a decisioni ampia‑
mente liberatorie – quelle pronunciate
con le formule «il fatto non sussiste» e
l’«imput ato non lo ha c o m m es‑
so» – comprende sentenze che, anche se
non applicano una pena, comportano
un sostanziale riconoscimento della
responsabilità dell’imputato o, comun‑
que, l’attribuzione del fatto allo stesso.
A seguito di tale sentenza, si può
m a g g i o • g i u g n o
2 0 1 3
ritenere che, in sostanza, l’imputato
possa proporre appello contro le senten‑
ze di proscioglimento che abbiano l’ef‑
fetto, diretto o indiretto, di pregiudica‑
re i suoi interessi giuridici o morali. Si
dovrebbero, pertanto, ritenere applica‑
bili i canoni interpretativi adottati dalla
giurisprudenza minoritaria (Cass. pen.,
Sez. Unite, (ud. 30.10.2003) 24.11.2003,
n. 45276; Cass. pen., sez. V, (ud.
24.10.2008) 04.12.2008, n. 45091;
Cass. pen., sez. V, (ud. 21.09.2004)
20.10.2004, n. 40826) prima della leg‑
ge di riforma 20.02.2006 n. 46 che
previde l’inappellabilità delle sentenze
di proscioglimento da parte dell’impu‑
tato o del P.M. e, per l’effetto, ritenere
appellabili anche le sentenze di assolu‑
zione con formule più ampie quando sia
ravvisabile un concreto ed attuale inte‑
resse dell’impugnante, come «nell’ipo‑
tesi in cui l’accertamento di un fatto
materiale sia suscettibile, una volta
divenuta irrevocabile la sentenza, di
pregiudicare le situazioni giuridiche a
lui (imputato) facenti capo in giudizi
civili o amministrativi diversi da quelli
di danno».
Al fine di ottenere una sentenza di
assoluzione piena, infatti, occorre la
prova positiva dell’innocenza dell’impu‑
tato ovvero la prova negativa della re‑
sponsabilità; entrambe le situazioni
devono essere considerate di pari valore
agli effetti del giudizio di colpevolez‑
za.
L’art. 530, co. c.p.p., impone la for‑
mula assolutoria oltre che quando sus‑
sista la prova positiva dell’innocenza
dell’imputato, o la prova negativa della
sua responsabilità, anche quando «man‑
ca, è insufficiente o è contraddittoria la
prova che il fatto sussiste, che l’impu‑
tato lo ha commesso, che il fatto costi‑
tuisce reato o che il reato è stato com‑
messo da persona imputabile». Invero,
secondo una parte della dottrina, l’ope‑
ratività della norma è esclusa con ri‑
guardo alla formula «perché il fatto non
è previsto dalla legge come reato», per‑
ché contrasterebbe con la sua natura di
formula in iure la considerazione di una
situazione di prova insufficiente o ini‑
donea.
Appare, ora, opportuno analizzare
gli effetti del giudicato penale nei giudi‑
zi civili ed amministrativi.
L’art. 652 c.p.p. dispone che la sen‑
tenza penale irrevocabile di assoluzione
pronunciata a seguito di dibattimento
149
ha efficacia di giudicato nel giudizio
civile o amministrativo per le restituzio‑
ni o il risarcimento del danno, nei limi‑
ti ed alle condizioni previste dalla stessa
norma. È evidente che la disposizione
predetta non contiene alcuna limitazio‑
ne in merito al tipo di sentenza di asso‑
luzione, perché non distingue fra l’asso‑
luzione piena e quella pronunciata ai
sensi dell’art. 530, 2o, co c.p.p. L’equi‑
parazione rappresenta la conseguenza
dei principi adottati dal legislatore che
reggono il processo penale, il più impor‑
tante dei quali è rappresentato dalla
presunzione d’innocenza consacrata
nell’art. 27, co., Cost., ed è in sintonia
con i principi del sistema processuale
accusatorio, che attribuisce all’accusa
l’onere di fornire la prova piena della
responsabilità dell’imputato, consenten‑
do di superare la presunzione d’inno‑
cenza solo con l’esclusione di qualsivo‑
glia ragionevole dubbio sulla responsa‑
bilità dell’imputato (fortuna, Senten‑
za (sentenza penale), in EG, XXVIII,
Roma, 1992, 15).
La giurisprudenza civile interpreta
il disposto degli artt. 652 e 654 c.p.p.
(riguardanti l’efficacia della sentenza
penale di assoluzione rispettivamente
nel giudizio di danno o in altri giudizi
civili o amministrativi) in contraddizio‑
ne con i principi ispiratori del processo
penale e della equiparazione della sen‑
tenza di assoluzione piena a quella di‑
sciplinata dall’art. 530, comma 2,
c.p.p.
Infatti, le Sezioni civili della Corte
Suprema hanno sostenuto che l’assolu‑
zione dell’imputato ha effetto preclusivo
nei giudizi civili solamente nel caso in
cui sia espressione di un accertamento
effettivo e specifico in merito all’insus‑
sistenza del fatto o della partecipazione
dell’imputato, ma non anche quando
l’assoluzione sia determinata dall’insuf‑
ficienza degli elementi di prova circa la
commissione del fatto o l’attribuibilità
di esso all’imputato e, cioè, quando
l’assoluzione tragga motivazione dalle
ipotesi delineate dall’art. 530, com‑
ma 2, c.p.p.; in tal caso spetta al giudi‑
ce civile procedere ad un autonomo
accertamento dei fatti sulla base delle
prove ammesse e raccolte, così da accer‑
tare autonomamente la responsabilità
dell’autore del fatto illecito (Cass. civ.,
sez. Lav., 11.02.2011, n. 3376).
Pertanto, ancora più importanza
viene attribuita alla “scelta” del giudice
questioni
Gazzetta
150
penale in ordine alla formula assoluto‑
ria da adottare in concreto onde tutela‑
re in pieno l’imputato e porlo a riparo
da eventuali giudizi di responsabilità
civili, amministrativi e/o disciplinari.
Ecco spiegata l’importanza del fatto
giuridico. Ed a seconda che nell’appli‑
carlo s’inclinerà a valorizzare l’aggetti‑
vo (giuridico) o il sostantivo (fatto),
sarà data la prevalenza al disegno
dell’ordinamento giuridico, così come
ricostruito dal giudice in un certo mo‑
mento, o alla vita nella sua ricchezza,
per come essa è riuscita a manifestarsi
nella condotta umana.
La questione fin qui delineata nei
suoi aspetti essenziali appare di tutta
attualità. Infatti, ancora recentemente
le Corti di merito sembrano applicare
restrittivamente l’art. 530 c.p.p. nella
misura in cui risultano poco avvezze ad
assolvere perché «il fatto non sussi‑
ste».
Da ultimo, infatti, il Tribunale di
Santa Maria Capua Vetere, sez. pen. II,
Coll. C., con sentenza dell’08.11.2012,
in un caso riguardante l’interpretazione
e l’applicazione dell’art. 12‑quinquies
del D.L. 306/92 (convertito con legge
356/92) rubricato «Trasferimento frau‑
dolento di valore», ha assolto gli impu‑
tati perché «il fatto non è preveduto
dalla legge come reato» pur in mancan‑
za della prova sia sugli elementi ogget‑
tivi che soggettivi della fattispecie di
reato contestata.
La suddetta norma, infatti, prevede
un reato a forma libera, che si concre‑
tizza nell’attribuzione fittizia della tito‑
larità o della disponibilità di denaro,
beni o altra utilità, realizzata in qual‑
siasi forma al fine di eludere misure di
prevenzione patrimoniali o di contrab‑
bando ovvero per agevolare la commis‑
sione di delitti di ricettazione, riciclag‑
gio o reimpiego di beni di provenienza
illecita.
La condotta di “attribuzione”, fina‑
lizzata a creare una situazione di appa‑
renza giuridica e formale della titolarità
e della disponibilità dei beni, del denaro
o delle altre utilità non corrispondente
alla realtà, presuppone, a tal fine, che il
soggetto che procede all’attribuzione
stessa, o nell’interesse del quale la me‑
desima è effettuata, sia il reale dominus,
che ricorre ad atti o operazioni simula‑
te per sottrarsi ad eventuali provvedi‑
menti ablativi previsti dalla legislazione
in tema di misure di prevenzione patri‑
q u e s t i o n i
moniali o per agevolare la commissione
di reati connessi alla circolazione di
mezzi economici di provenienza illeci‑
ta.
Da ciò allora deriva che per la con‑
figurabilità del reato è necessario accer‑
tare l’esatta identità del reale intestata‑
rio dei beni: solo in tal modo è possibi‑
le apprezzare la fittizietà dell’attribuzio‑
ne, da cui può farsi discendere l’addebi‑
to concorsuale a carico sia dell’intesta‑
tario reale che di quello fittizio.
Sono perciò penalmente irrilevanti
quelle situazioni preesistenti alla fittizia
attribuzione dei beni, che consistono in
condotte non finalizzate con certezza
alla realizzazione della situazione giuri‑
dica simulata, connessione che può de‑
dursi logicamente dalla necessità ovvero
dalla semplice utilità di quelle situazio‑
ni preesistenti al raggiungimento delle
finalità punite dalla norma. Un’inter‑
pretazione del genere è in linea con la
ratio della norma, che incrimina ogni
condotta che comporti il concreto risul‑
tato di una volontaria attribuzione fit‑
tizia della «titolarità o della disponibi‑
lità di denaro, beni o altre utilità» al
fine di eludere talune disposizioni legi‑
slative, in modo da determinare una
situazione di difformità tra titolarità
formale, meramente apparente, e titola‑
rità di fatto di un determinato compen‑
dio patrimoniale, realizzata con il fine
richiesto dalla norma.
È proprio l’ampiezza dello schema
tipico descritto dalla norma che impone
al giudice il massimo del rigore interpre‑
tativo onde impedire che ermeneutica‑
mente venga eccessivamente ampliata la
platea delle condotte punibili.
Orbene, la sentenza citata, esclude
che la titolarità del bene (oggetto di una
compravendita) in contestazione sia mai
stata formalmente degli imputati ed
esclude, altresì, l’esercizio sullo stesso
bene di una «signoria di fatto», essendo
stato provato nel corso del giudizio che
il bene apparteneva invero ad altri sog‑
getti; esclude che il denaro della vendita
del bene sia mai stato incassato dal
presunto titolare del bene, essendo stato
provato che il prezzo della compraven‑
dita veniva, invece, consegnato «all’ef‑
fettivo intestatario del bene»; esclude
che «alcuna attribuzione fittizia si è
realizzata», essendo stato provato che il
“probabile” prestanome (non imputato)
era invero un “soggetto terzo” interve‑
nuto «al solo scopo di favorire la con‑
Gazzetta
F O R E N S E
cessione di un c.d. mutuo di scopo»;
ribalta il ragionamento accusatorio af‑
fermando la non corrispodenza tra il
presunto prestanome (acquirente del
bene) e la realtà fattuale emersa nel
processo nella misura in cui concorren‑
te necessario del reato in contestazione
non poteva che essere il terzo interme‑
diario e non invece l’acquirente finale
del bene; esclude pure che l’intestazione
fittizia sarebbe avvenuta a monte ed in
favore del terzo intermediario perché il
bene in oggetto non era mai stato acqui‑
sito nel patrimonio giuridico del terzo;
infine, assolve perché il fatto non è
preveduto dalla legge come reato.
Invero, la sentenza in esame afferma
che, a prescindere dalla sussistenza
dell’elemento soggettivo (che però ritie‑
ne verosimile), l’assenza dell’elemento
oggettivo consente, di per sé, di perve‑
nire alla formula assolutoria “perché il
fatto non è previsto dalla legge come
reato”.
In particolare, si afferma che «non
può ritenersi che la condotta materiale
emersa in dibattimento sia sussumibile
nell’alveo dell’art. 12‑quinquies L .
356/92…».
Ebbene, così riassunta la vicenda,
appare evidente che la soluzione adot‑
tata dai giudici si discosta da quell’orien‑
tamento giurisprudenziale sopra ripor‑
tato favorevole all’utilizzo della formu‑
la assolutoria «il fatto non sussiste»
quando risulti che il fatto concreto po‑
sto in essere non sia sussumibile nella
fattispecie di reato contestata. Invero,
la sentenza di cui si discute sembra se‑
guire il cammino tracciato da quella
dottrina che ritiene opportuno assolve‑
re utilizzando la formula «il fatto non è
previsto dalla legge come reato» quan‑
do non risulta addebitale all’imputato
la “storicità” del fatto. In altri termini,
quest’ultima formula assolutoria an‑
drebbe utilizzata ogni qual volta vi sia
la prova negativa della responsabilità e
non invece quella positiva dell’innocen‑
za. Il discrimen è tra la nozione di “fatto”
e quella di “fattispecie”. Se, come appare
preferibile, in quest’ultima nozione ri‑
entrano tanto gli elementi oggettivi del
reato, quanto quelli soggettivi, anche
nel caso in cui sia accertata la mancan‑
za del solo elemento soggettivo si im‑
porrebbe la formula assolutoria più
ampia.
A nostro avviso, ed in linea di prin‑
cipio, andrebbe maggiormente incorag‑
m a g g i o • g i u g n o
F O R E N S E
giato il dibattito scientifico circa il
rapporto tra fatto‑prova‑assoluzione,
alla luce di criteri e valori unitariamen‑
te considerati in una visione d’insieme
costituzionalmente orientata. Occorre
tutelare, infatti, la personalità degli
imputati in tutte le sue esplicazioni:
dare più spazio al fatto per consentire
ad esso di aprirsi e chiarire così gli inti‑
mi e strutturanti rapporti di cui si costi‑
tuisce.
Il processo di reciproco adattamen‑
to tra regola e fattispecie concreta po‑
trebbe essere, così, maggiormente fe‑
condo di risultati.
2 0 1 3
●
Diritto Amministrativo
La domanda di manleva
proposta da un condominio,
o comunque da un ente
di gestione, che sia volta
a far accertare l’esclusiva
responsabilità del Ministero
chiamato in causa per i
danni derivanti dal silenzio
serbato dalla Soprintendenza
sull'istanza di autorizzazione
ai lavori di manutenzione
avanzata dallo stesso
condominio, va intentata
davanti al G.O. o davanti al G.A.?
● Elia Scafuri
Dottoressa in Giurisprudenza
La questione che s’intende analizza‑
re in tale sede trae spunto dalla senten‑
za no 19117 del 20 giugno 2013, emessa
dall’Ufficio del Tribunale Ordinario di
Napoli, nella persona del Dott. Pietro
Lupi.
Innestandosi sull’annosa e tuttavia
sempre attuale questio inerente al ripar‑
to di giurisdizione tra G.o. e G.a., la
pronuncia de qua dà adito ad interes‑
santi spunti di riflessione fondandosi
sulla particolare ipotesi in cui, pur cor‑
rettamente instauratosi il giudizio da‑
vanti al Giudice competente, il conve‑
nuto ottenga di chiamare in causa un
terzo su una domanda che, tuttavia,
avrebbe dovuto, come ritenuto dall’Au‑
torità giudicante, esperire davanti ad un
Giudice di altro grado.
La pronuncia in esame ha ad oggetto
la richiesta di risarcimento dei danni
avanzata dai condomini – proprietari di
alcuni appartamenti asseritamente dan‑
neggiati a causa delle infiltrazioni di ac‑
qua provenienti dal terrazzo di copertura
condominiale, stante l’inerzia del condo‑
minio, unico legittimato – come sostenu‑
to da parte attrice – ai lavori di imperme‑
alizzazione del terrazzo de quo.
151
La complessità della questione è
apprezzabile se già solo si consideri la
circostanza prospettata dal condominio
convenuto nei propri atti difensivi in
base alla quale gli immobili de quibus
sarebbero stati sottoposti a vincolo
paesaggistico e la natura straordinaria
dei lavori da farsi avrebbe imposto la
presentazione di una D.i.a. (rectius
Scia).
Stante tale vincolo paesaggistico, il
convenuto deduceva la richiesta esplici‑
ta, da parte del Comune di Napoli, del
parere vincolante della Soprintendenza
(per i beni architettonici, paesaggistici,
storici, artistici ed etnoantropologici
per Napoli e Provincia) per la presenta‑
zione, da parte del condominio, della
D.i.a.
Tanto premesso, il convenuto si di‑
fendeva adducendo, in primis, che il
terrazzo di copertura da cui sarebbero
derivati i danni era di proprietà dei
condomini attori, e che il parere richie‑
sto alla Soprintendenza, in quanto vin‑
colante, era indispensabile all’inizio dei
lavori di manutenzione straordinaria
sugli immobili in questione. Da tale
indispensabilità discendeva, nella spe‑
cie, l’impossibilità del convenuto ad
eseguire i lavori.
Il condominio addebitava, dunque,
ogni responsabilità al riguardo alla sola
Soprintendenza per i beni architettoni‑
ci – in quanto appalesatasi inerte nono‑
stante i solleciti ‑, e chiedeva all’Autori‑
tà giudicante di essere autorizzato alla
chiamata in causa del Ministero.
Il Giudice autorizzava la chiamata
in causa e la Soprintendenza, costitui‑
tasi, contestava la vincolatività del pa‑
rere de quo ai fini dell’inizio dell’esecu‑
zione dei lavori, potendo il condominio
agire secondo quanto previsto dalla
legge, anche in caso di inerzia da parte
della P.a.
Tant’è che ai sensi dell’art. 22, com‑
ma 4, D.lgs. n. 42/2004 (Codice dei
beni culturali e del paesaggio) il condo‑
minio avrebbe potuto diffidare la So‑
printendenza ed esperire il rimedio di
cui all’art. 21‑bis della L. 1034/1971
(ricorso avverso il silenzio‑inadempi‑
mento della P.a.), o, in alternativa, ai
sensi dell’art. 27 del Decreto sopracita‑
to, avrebbe potuto chiedere alla Soprin‑
tendenza l’autorizzazione per intrapren‑
dere gli interventi provvisori indispen‑
sabili, trattandosi nella specie di lavori
di assoluta urgenza. Non avendo il
questioni
Gazzetta
152
condominio fatto alcunché, la Soprin‑
tendenza chiedeva dichiararsi l’inam‑
missibilità e/o l’infondatezza di qualun‑
que domanda formulata nei riguardi
della medesima.
In sede di decisione il Giudice, so‑
stenendo che “dei danni cagionati
all’appartamento sottostante per le in‑
filtrazioni d’acqua provenienti dal la‑
strico, rispondono tutti gli obbligati
inadempienti alla funzione di conser‑
vazione, secondo le proporzioni stabi‑
lite dall’art. 1126 c.c.” accoglieva, sep‑
pur in parte, la domanda attorea, di‑
chiarando la responsabilità del condo‑
minio nella produzione dei danni accer‑
tati dal consulente tecnico d’ufficio e
per l’effetto lo condannava al pagamen‑
to in favore dei condomini di una som‑
ma di denaro a titolo di risarcimento,
riconducendo, contestualmente, un
terzo della responsabilità di quanto
accaduto sugli stessi attori.
Dichiarava, inoltre, la cessazione
della materia del contendere in ordine
alla domanda di condanna del convenu‑
to all’esecuzione degli interventi volti ad
eliminare le cause delle infiltrazioni di
acqua negli immobili rilevando, in cor‑
so di causa, l’ impermealizzazione del
terrazzo da parte del condominio.
Con riferimento alla domanda di
manleva avanzata dal convenuto che
chiamava in causa la Soprintendenza,
l’Autorità giudicante dichiarava d’uffi‑
cio il proprio difetto di giurisdizione.
Ritenendo nella specie che il condomi‑
nio lamentasse la lesione di una situa‑
zione soggettiva qualificabile in termi‑
ni di interesse legittimo, e riconducendo
alla giurisdizione del G.a. tutti i casi in
cui la lesione di una situazione sogget‑
tiva venga postulata quale conseguenza
di un comportamento inerte (ritardo
nell’emissione di un provvedimento ri‑
sultato favorevole o di silenzio), il Giu‑
dice, sulla scia della Suprema Corte,
(cfr. Cass., Sez.. Un., n. 13659/2006) si
spogliava della giurisdizione. Sebbene
infatti a venire in rilievo appariva, nel
caso di specie, un comportamento,
questo si risolveva palesemente nella
violazione di una norma regolante il
procedimento ordinato all’esercizio del
potere e dunque nella lesione di una
situazione di interesse legittimo preten‑
sivo, e non di diritto soggettivo.
Descritta brevemente, a meri fini
chiarificatori, la vicenda fattuale e giu‑
ridica sottesa alla pronuncia che si
q u e s t i o n i
esamina, è interessante ripercorrere il
ragionamento logico effettuato dall’Au‑
torità giudicante che, nell’addivenire ad
una soluzione, si è soffermata su diver‑
si aspetti.
In primis appare opportuno eviden‑
ziare che lo stesso Giudice ha dichiara‑
to d’ufficio il proprio difetto di giurisdi‑
zione con riferimento alla domanda di
manleva avanzata dal convenuto, aven‑
do riguardo alla posizione soggettiva
vantata dal condominio, qualificata dal
Giudice in termini di interesse legittimo
pretensivo.
A ben vedere, analizzando il caso di
specie, si evince che il giudizio promos‑
so è incentrato su due diversi rapporti:
da un lato, il rapporto privatistico
intercorrente tra condomini (proprieta‑
ri degli appartamenti in questione) e
condominio, con riferimento al quale i
primi agiscono nei confronti del secon‑
do al fine di ottenere il risarcimento dei
danni derivanti dalla mancata manu‑
tenzione agli appartamenti deteriorati a
seguito delle infiltrazioni acquose;
dall’altro il rapporto tra condomi‑
nio e Ministero (in particolare la So‑
printendenza ai beni architettonici)
chiamato in causa dal convenuto con la
richiesta che i danni siano imputati alla
responsabilità esclusiva del secondo,
con condanna di quest’ultimo ad ogni
eventuale risarcimento.
I due rapporti appaiono collegati per
le ragioni seguenti.
La responsabilità fatta valere dai
condomini attiene all’asserita circostan‑
za che il dovere di eseguire i lavori di
manutenzione incombe esclusivamente
sul condominio. I pregiudizi subiti dagli
immobili di proprietà dei condomini
giustificano la richiesta di risarcimento
dei danni.
Tuttavia nel caso di specie, sussi‑
stendo anche per gli immobili de quibus
il vincolo paesaggistico, l’esecuzione dei
lavori di manutenzione abbisogna di un
parere favorevole emesso dalla Soprin‑
tendenza sull’istanza di autorizzazione
avanzata dallo stesso condominio; per
cui, stante l’inerzia dell’Amministrazio‑
ne, il condominio chiama in causa la
Soprintendenza.
È palese, dunque, che il condomi‑
nio, con la domanda di garanzia, chiede
di essere manlevato dall’Amministra‑
zione in quanto l’eventuale inadempi‑
mento, con la richiesta di risarcimento
dei danni, fonda le sue radici nel ritenu‑
Gazzetta
F O R E N S E
to comportamento inerte della medesi‑
ma.
Con tale richiesta, nel rapporto tra
condomini e condominio – in ordine al
quale il convenuto si difende dall’impu‑
tazione di mancata esecuzione dei lavo‑
ri di manutenzione –, subentra il rap‑
porto di garanzia tra condominio ed
Amministrazione.
Al riguardo, sembra opportuno evi‑
denziare che l’istituto de quo annovera
le due species di garanzia propria ed
impropria. Mentre la domanda di ga‑
ranzia propria si configura ogniqualvol‑
ta la causa principale e quella accessoria
abbiano lo stesso titolo, ovvero quando
ricorra una connessione oggettiva tra i
titoli delle due domande, si è in presenza
di una domanda di garanzia impropria
allorquando il convenuto tenda a river‑
sare su di un terzo le conseguenze del
proprio inadempimento in base ad un
titolo diverso da quello dedotto con la
domanda principale, ovvero in base ad
un titolo connesso al rapporto principa‑
le solo in via occasionale o di fatto (in
tal senso: Cass., no17688, del 29.9.2009;
Cass., no 19208, del 30.9.2005,). È inol‑
tre pacifico che la normativa civilistica
si applichi anche qualora, come nel caso
esaminato, sia chiamata in causa, a
prestare la garanzia, la Pubblica Ammi‑
nistrazione.
Ne deriva che, nel caso di specie, si
configura palesemente una domanda di
garanzia impropria da parte del condo‑
minio, in quanto la domanda principa‑
le instauratasi inter cives, e la domanda
accessoria con cui il condominio chia‑
ma in garanzia l’Amministrazione, non
appaiono fondate sullo stesso titolo.
Riconosciuta la sussistenza di tale
situazione giuridica, situazione che di
per se stessa potrebbe comportare che
la relativa azione sia conoscibile dallo
stesso Giudice ordinario, ricorrendo
un'ipotesi di connessione per garanzia
con il rapporto principale, è necessario
comprendere quale sia il fondamento
dell’azione di garanzia esercitata dal
condominio nei confronti dell’Ammini‑
strazione.
Nel caso di specie tale azione di
garanzia impropria si fonda sull’asseri‑
to comportamento inerte tenuto dalla
Soprintendenza in merito alla richiesta
di autorizzazione ai lavori avanzata dal
condominio.
In questo caso, dunque, non v’è chi
non veda come la Pubblica Amministra‑
F O R E N S E
zione non agisce nell'ambito di un rap‑
porto privatistico, esercitando invece
pubblici poteri, ovvero quei poteri rela‑
tivi all'emissione, nella specie, di un
parere vincolante.
Ciò implica non solo, a conferma del
ragionamento operato del Giudice, che
la domanda di manleva de qua debba
essere correttamente conosciuta dal
Giudice amministrativo, ma anche che
il caso di specie rientri nella materia di
giurisdizione esclusiva del medesimo, ed
in particolare nelle ipotesi contemplate
dall’art. 133 c.p.a. (D.lgs. n. 104 del
2010), tra cui alla lett. a), punto 3) è
prevista proprio l’ipotesi del “silenzio di
cui all’articolo 31, commi 1, 2 e 3, e
provvedimenti espressi adottati in sede
di verifica di segnalazione certificata,
denuncia e dichiarazione di inizio atti‑
vità di cui all’art. 19 comma 6‑ter,
della legge 7 agosto 1990, no241”. Le
disposizioni in materia di giurisdizione
esclusiva del G.a., com’è noto, non sono
derogabili neppure per ragioni di con‑
nessione, come vi si potrebbe obiettare
nel caso di specie.
In conclusione, quindi, si può affer‑
mare che il Giudice abbia correttamen‑
te ritenuto sussistente la giurisdizione
del Giudice ordinario con riferimento al
rapporto privatistico intercorrente tra
condomini e condominio, e la giurisdi‑
zione del Giudice amministrativo nel
rapporto fra quest'ultimo e la P.a.
A conferma di tanto, la decisione in
questione può essere esaminata con ri‑
guardo a due principi essenziali del si‑
stema giurisdizionale il cui esame po‑
trebbe prima facie dare adito a qualche
dubbio in merito alla correttezza della
pronuncia.
Quanto al principio cardine dell’ef‑
fettività della tutela giurisdiziona‑
le – ovvero del “tutto quello e proprio
quello” del Chiovenda ‑, che trova il suo
fondamento negli artt. 3, 24 e 111
Cost., appare interessante chiedersi, con
una valutazione ex ante, se il condomi‑
nio nel caso di specie si fosse venuto a
trovare nell'impossibilità di proporre,
davanti al Giudice Amministrativo,
un'autonoma impugnazione del provve‑
dimento amministrativo, e dunque se
l’introduzione della domanda di manle‑
va nel giudizio davanti al Giudice ordi‑
nario costituisse l’unica possibilità per
tutelare il proprio diritto.
È palese che nel caso di specie si
configuri un’ipotesi di “silenzio‑ina‑
m a g g i o • g i u g n o
2 0 1 3
dempimento” della Pubblica Ammini‑
strazione. L’espressione, frutto di elabo‑
razione giurisprudenziale, fa riferimen‑
to a quella particolare ipotesi di inatti‑
vità della P.a. in cui la legge non abbia
conferito all’inerzia valore di provvedi‑
mento amministrativo. Al consolidato
e vetusto assioma “silenzio puro e sem‑
plice uguale rifiuto”, la giurisprudenza
ha infatti preferito la formula “silenzio
uguale inadempimento”, predisponen‑
do una figura che tenesse maggiormen‑
te in conto la necessità di effettiva tute‑
la del privato.
In tale ipotesi oggi il civis gode di
una tutela giurisdizionale che si forma
una volta spirati i termini a cui la P.a.
deve necessariamente attenersi per la
conclusione del procedimento; termini
espressamente indicati nell'art. 2 della
L. 241/90.
Dunque di fronte alla mancata emis‑
sione del provvedimento nei termini, il
singolo può adire il G.a. per ottenere
una pronuncia che impartisca all’Am‑
ministrazione un ordine di provvedere
seguita, in caso di perdurante inerzia,
da un giudizio di ottemperanza.
Da un punto di vista meramente
giurisdizionale, la tutela avverso il si‑
lenzio della P.A. è stata oggetto recen‑
temente di revisione, con l'approvazione
del Codice del processo Amministrativo
che ha previsto che, spirati i termini di
legge per la conclusione del procedi‑
mento, chi vi abbia interesse possa
chiedere l'accertamento dell'obbligo
dell’Amministrazione di provvedere.
Tale azione può essere incardinata non
oltre un anno da quando siano scaduti
i termini per la conclusione del procedi‑
mento; ed inoltre, per tale tipo di azione
è previsto, dall' art. 117 del codice, un
rito di tipo abbreviato. A i sensi
dell’art. 31 del C.p.a., nel rispetto delle
tesi giurisprudenziali e dottrinali mag‑
gioritarie, il Giudice amministrativo
può anche conoscere della fondatezza e
dei presupposti stessi dell'istanza del
privato ricorrente, (e quindi il giudizio
non risulta essere di mero accertamento
sul mancato rispetto dei termini da
parte della P.A.), ma ciò solo in caso di
attività vincolata, ovvero quando non
siano previsti margini di discrezionalità
amministrativa o ulteriori adempimen‑
ti di natura istruttoria.
Tanto premesso, è palese che la deci‑
sione esaminata non leda il diritto alla
difesa vantato dal condominio, che
153
avrebbe potuto ottenere il bene della
vita aspirato esperendo il ricorso avverso
il silenzio‑inadempimento della Soprin‑
tendenza ai sensi della normativa vigen‑
te. Ne consegue, dunque, che introdurre
nel giudizio davanti al Giudice ordinario
la domanda nei confronti del Ministero
non rappresentava l'unica possibilità per
tutelare il proprio diritto.
Quanto poi ad un’eventuale ed
astratta violazione della pronuncia in
esame del principio di economicità
processuale discendente dall’art. 111
Cost., comma, potrebbe sussistere qual‑
che dubbio guardando alla ratio dell’isti‑
tuto della chiamata in causa del terzo.
Nel caso di specie il Giudice, infatti,
pur avendo autorizzato la chiamata in
causa del Ministero ha poi conseguen‑
temente dichiarato d’ufficio il proprio
difetto di giurisdizione sulla domanda
avanzata dal condominio.
Com’è noto, il tema dell’intervento
del terzo in causa – sia esso spontaneo
o indotto da apposita iniziativa di parte
o iussu iudici – comporta conseguenze
di non poco momento sulla struttura
del processo, attese le implicazioni che
ne derivano sul piano dei limiti sogget‑
tivi del giudicato e della stessa proble‑
matica del diritto di azione. Quest’ulti‑
mo, invero, viene in considerazione
nella peculiare prospettiva del soggetto
che, pur formalmente estraneo alla lite
insorta tra altri, è nondimeno portatore
di un interesse sostanziale all’esito della
stessa, in quanto la decisione finale è
suscettibile di incidere in vario modo
sulle posizioni soggettive di cui è titola‑
re.
Ed è proprio nella consapevolezza
dell’interrelazione e connessione dei
rapporti che il vigente codice di rito ha
introdotto la possibilità di ampliare
l’oggetto del processo attraverso la
chiamata o l’intervento volontario di
terzi. Si è, in tal modo, inteso agevolare
la tutela delle posizioni soggettive col‑
legate a quelle in discussione nel proce‑
dimento già pendente, allo scopo di
realizzare una sostanziale economia dei
giudizi e di ridurre al massimo possibi‑
li contrasti tra medesime pretese fonda‑
te su giudicati contrastanti (nei sensi
suindicati, v. Chizzini, Intervento in
causa, in Digesto (disc. priv.), Torino,
1993, X, pp. 115‑117. Monteleone,
Diritto processuale civile, Padova,
1994, pp. 207‑210. Sul principio
dell’economia dei giudici, cfr. pure Co-
questioni
Gazzetta
154
moglio, Il principio di economia pro‑
cessuale, I, Padova, 1980, pp. 104 e ss.
153 e ss.)
Presupponendo l’istituto una valu‑
tazione che costituisce espressione di un
potere discrezionale riservato al Giudi‑
ce del primo grado, il cui esercizio non
è suscettibile di sindacato nelle fasi
successive, né, in particolare, in sede di
legittimità, anche nel caso in cui, estra‑
neità al rapporto controverso, il Giudi‑
ce ritenga di dover indurre o autorizza‑
re chi agisce ad estendere la propria
domanda nei confronti del terzo indi‑
cato come titolare del rapporto medesi‑
mo (cfr. Cass., 19 gennaio 2004,
n. 707), guardando al caso di specie
residua qualche dubbio, almeno in ap‑
parenza.
Ciò in quanto la scelta del Giudice
di ammettere la chiamata in causa del
terzo, e conseguentemente il rilievo
d’ufficio del proprio difetto di giurisdi‑
zione potrebbe apparire in spregio al
principio di economia processuale; così
come sembrerebbe venire in rilievo la
possibilità di un successivo giudicato
contrastante considerandosi, sulla base
di tutto quanto detto finora, il collega‑
mento che avvince le due domande
proposte in giudizio fondato da un rap‑
porto di garanzia impropria.
Tuttavia, nel caso di specie, la solu‑
zione logica ed opportuna di conserva‑
re davanti al G.O. anche la domanda
incidentale proposta avverso la Soprin‑
tendenza non avrebbe potuto essere
seguita dall’Autorità giudicante in
quanto il condominio convenuto non si
è solo limitato a far valere la circostan‑
za dell’inesistenza del parere vincolante
nel rapporto privatistico con i condomi‑
ni affinché il Giudice dichiarasse l'in‑
sussistenza delle pretese dei condomini,
ma ha fatto valere, nei confronti
dell’Amministrazione, una forma di
garanzia.
Ha, infatti, richiesto che in caso di
sua condanna nei confronti dei condo‑
mini, gli eventuali danni riconosciuti in
favore degli stessi fossero imputati al
Ministero, stante l’inerzia della Soprin‑
tendenza.
In tal senso la Suprema Corte di
Cassazione: “E' di tutta evidenza che il
petitum sostanziale – rilevante ai fini
del riparto della giurisdizione tra giu‑
dice ordinario e giudice amministrati‑
vo, e che va identificato soprattutto in
funzione della causa petendi, ossia
q u e s t i o n i
dell'intrinseca natura della posizione
dedotta in giudizio (ex multis si veda:
S.U. ord. 11.10.2011, n. 20902) – inte‑
gra una domanda finalizzata a far va‑
lere, nei confronti del Ministero, una
forma di garanzia – impropriamente
definita quale risarcimento del dan‑
no – conseguente al sostenuto compor‑
tamento inerte della pubblica ammini‑
strazione; comportamento che, in
quanto espressione di un potere pubbli‑
co, non può che essere oggetto di esame
da parte del giudice amministrativo”
(Cass., Sez. Un., n.14371/2012).
Ne deriva che, in una tale situazione
sostanziale, la giurisdizione del Giudice
amministrativo non possa essere messa
in dubbio, concernendo la domanda di
garanzia il rapporto tra un privato e la
Pubblica Amministrazione, fondato
sulla asserita inerzia del potere da eser‑
citare.
I principi di effettività della tutela e
di economia processuale non avrebbero
potuto, dunque, fondare "un’attrazio‑
ne" della domanda proposta nei con‑
fronti dell’Amministrazione, davanti ad
un Giudice ordinario sfornito di giuri‑
sdizione sulla domanda.
Quanto poi ad una eventuale con‑
nessione fra le domande proposte, og‑
getto di distinte giurisdizioni, che possa
legittimarne lo spostamento dall’uno ad
altro Giudice secondo l’istituto della
traslatio iudicii, sussistono dubbi nel
caso di specie.
Al riguardo, le sentenze nn. 77 e
4109 del 2007, rispettivamente della
Consulta e della Cassazione, hanno
affermato, attraverso un percorso logi‑
co‑argomentativo diverso, l’operatività
della c.d. translatio iudicii non solo
all’interno del medesimo ordine giuri‑
sdizionale, ma anche nel rapporto tra
diversi ordini giurisdizionali, ogniqual‑
volta vi sia una pronuncia concernente
la giurisdizione, conservando, com’è
noto, gli effetti interruttivi della prescri‑
zione ed impeditivi della decadenza
connessi all’originaria domanda davan‑
ti al giudice privo di giurisdizione. Ciò
implica che in caso di errore nella giu‑
risdizione, la causa può proseguire
presso l’altro Giudice.
La Consulta, in particolare ha chia‑
rito che, alla base del precedente siste‑
ma, vi era il “principio della incomuni‑
cabilità dei giudici appartenenti ad
ordini diversi”: da un lato, quella ordi‑
naria, istituita per la tutela dei diritti
Gazzetta
F O R E N S E
soggettivi e chiamata a dirimere le liti
tra soggetti privati; dall’altro, quelle
speciali (Giudice amministrativo, Corte
dei conti, Giudice tributario), ciascuna
dotata di giurisdizione in ambiti circo‑
scritti.
Tuttavia, mutati i rapporti tra Giu‑
dici di ordini diversi a partire dal D.lgs.
80/98, con la sentenza no 77 del 2007,
la Corte Costituzionale, partendo dai
principi dell’effettività della tutela e del
giusto processo ex art. 24 e 111 Cost.,
ha dichiarato incostituzionale l’art. 30
l.1034/1971 (Legge istitutiva dei T.a.r.)
che impediva di fare salvi gli effetti so‑
stanziali della domanda proposta erro‑
neamente al Giudice ordinario, in parte
sconfessando le argomentazioni propo‑
ste dalla Corte di Cassazione nella
sentenza 4109/2007, volte a reinterpre‑
tare, in base ad una lettura costituzio‑
nalmente orientata, le disposizioni rile‑
vanti del c.p.c. (artt. 328, 386 e 387) e
l’art. 34 della Legge no 1034/1971, allo
scopo di ammettere, già de iure condi‑
to, la translatio iudicii.
Appare dunque che, a fronte di una
pronuncia declinatoria della giurisdi‑
zione del Giudice adito, la parte oggi
non sia costretta a promuovere un nuo‑
vo giudizio, potendo riassumere l’origi‑
naria domanda davanti al giudice ad
quem, conconservazione dei relativi
effetti (cfr. T.a.r.. Napoli, sez. V, 26
ottobre 2006; 28 novembre 2006,
n. 1024).
Nel caso di specie il dubbio permane
in quanto, avendo il Giudice dichiarato
cessata del contendere sulla domanda
principale, allorquando si voglia segui‑
re il filone avallato dall’autorevole giu‑
risprudenza delle Sezioni Unite secondo
il quale la cessata materia del contende‑
re darebbe luogo all’estinzione del pro‑
cesso per il venir meno delle parti alla
naturale definizione del giudizio (cfr.
C a s s . , S e z . U n . , n . 10 4 8 / 2 0 0 0 ,
12887/2009, 9332/2001, 4714/2006),
sembrerebbe che il condominio possa
riassumere, nei termini di legge, la cau‑
sa davanti al G.a.
Tuttavia, l’istituto della traslatio
iudicii prevede che a “traslarsi” davan‑
ti ad altro Giudice sia la domanda ori‑
ginariamente proposta, nel caso di
specie estinta.
In conclusione, come sostenuto
dalla giurisprudenza della Corte di
Cassazione in un caso analogo a quello
esaminato: “Il riferimento al valore
F O R E N S E
della concentrazione della tutela giu‑
risdizionale, nel segno della sua effet‑
tività, nel quadro del principio costi‑
tuzionale del giusto processo – e come
premessa di un più impegnativo corol‑
lario, rappresentato dal principio di
tendenziale unicità della giurisdizione
al fine di non rendere difficile la tutela
dei diritti (Cass., Sez.Un. 19.4.2012,
n, 6102; Cass., Sez. Un. 17 novembre
2011 n. 24078, 16 novembre 2007
n. 23731, 26 luglio 2005 n. 15660),
non può operare come criterio di col‑
legamento per una sua estensione oltre
l'ambito specifico proprio ed esclusivo
m a g g i o • g i u g n o
2 0 1 3
delle diverse ed esclusive giurisdizioni”
(Cass., Sez. Un., n. 14371/2012).
Ad ulteriore conferma di tanto, si
evince a contrario, dalla recente pronun‑
cia della S.C. a Sezioni Unite del
03.05.2013, che in caso di chiamata in
manleva del convenuto avente ad oggetto
comportamenti inerti ed omissivi dei terzi
soggetti pubblici evocati in giudizio deri‑
vanti da obblighi meramente contrattuali
(nel caso di specie un contratto di appalto)
e non da provvedimenti illegittimi, il Giu‑
dice non possa dichiarare il proprio difet‑
to di giurisdizione (in tal senso anche:
Cass., Sez. Un.. n. 19291 del 09.11.2012,
155
e n. 28804 del 27.12.2011). Ne consegue
la correttezza del ragionamento logico
seguito dal Giudice che, nella pronuncia
analizzata, ha rilevato d’ufficio il proprio
difetto di giurisdizione sulla domanda di
manleva avanzata nel giudizio civile dal
condominio nei confronti della Pubblica
Amministrazione.
Trattandosi nella specie, come si è
visto, di un’ipotesi di silenzio‑inadem‑
pimento da parte della Soprintendenza,
il condominio avrebbe dovuto corretta‑
mente adire il Giudice amministrativo
ai sensi della normativa vigente in ma‑
teria.
questioni
Gazzetta
Recensioni
Le disposizioni testamentarie, Utet Giuridica, 2012 159
recensioni
A cura di Gabriele Burlarelli
F O R E N S E
●
Le disposizioni
testamentarie,
diretto da G. Bonilini
e Coordinato da G. Barba,
Collana Temi Notarili,
Utet Giuridica, 2012
● A cura di Gabriele Burlarelli
Avvocato
La materia successoria ha, già da tem‑
po, come noto, acquisito un proprio equi‑
librio normativo, dottrinario e giurispru‑
denziale.
A differenza di altre branche giuridi‑
che, infatti, è innegabile che il campo
delle successioni abbia raggiunto un certo
grado di stabilità interpretativa, frutto
anche di un apparato legislativo ben strut‑
turato, che permette agli operatori del di‑
ritto di applicare la legge con un non sot‑
tovalutabile grado di certezza giuridica. E
ciò, s’intenda, nonostante la recente intro‑
duzione di alcuni istituti “nuovi”, e per
certi versi dapprima sconosciuti al nostro
diritto successorio, quali il patto di fami‑
glia (art. 763‑bis ss. c.c.), come introdotto
nel nostro ordinamento con l. 14 febbraio
2006, n. 55 a testimonianza di una eviden‑
te deroga al principio dei patti successori
di cui all’art. 458 c.c. n. 55, nonché il cd.
atto stragiudiziale di opposizione alla do‑
nazione, di cui all’art. 563 c.c., introdotto
nel nostro ordinamento dalla l. 14 maggio
2005, n. 80.
Da ultimo, non può non menzionarsi la
recentissima rivoluzione legislativa opera‑
ta con la l. 10 dicembre 2012, n. 219, che
ha messo mano cospicuamente ad una or‑
ganica e, per certi versi, criticata, riforma
del diritto di famiglia, specie con riferi‑
mento all’abrogazione delle tradizionali
distinzioni circa la filiazione legittima e
naturale. La predetta legge ha peraltro
demandato all’Esecutivo il compito di
emanare dei cd. Decreti delegati volti a
chiarire gli eventuali profili di incompati‑
bilità tra le norme codicistiche preesisten‑
ti e la nuova disciplina (incompatibilità che
tocca, ovviamente, anche la materia suc‑
cessoria, specie in relazione ad alcuni
istituti quali il riconoscimento del figlio
m a g g i o • g i u g n o
2 0 1 3
naturale per testamento, il diritto di com‑
mutazione ex art. 537 c.c., oltre altri), e che
farà, si auspica, chiarezza circa le norme
che saranno da intendersi tacitamente o
espressamente abrogate.
Ciò debitamente premesso, va però
ribadito e confermato come, eccezioni
menzionate permettendo, l’assetto norma‑
tivo successorio abbia ormai trovato un
proprio equilibrio applicativo. Numerosi
autori si sono infatti succeduti in opere
dottrinarie, talvolta anche di notevole rilie‑
vo, aventi ad oggetto la generica tematica
delle “successioni”. Poca è stata, però,
l’innovazione, che tali opere hanno appor‑
tato all’interprete.
La tendenza era, in altri termini, quel‑
la di “standardizzare” l’analisi degli istitu‑
ti successori, privilegiando, per così dire,
un’interpretazione oggettiva, statica ed
esclusivamente teorica, della disciplina,
omettendo del tutto, o quasi, gli interessi
di natura soggettiva e morale che in con‑
creto sono spesso sottesi ad una disposi‑
zione testamentaria, e che anzi, nella mag‑
gior parte dei casi sono il motivo ispirato‑
re e la giustificazione causale che spingono
una determinata persona a pianificare,
mediante il testamento, un determinato
assetto dei propri interessi per il tempo
successivo alla sua morte.
L’opera oggetto della presente analisi
apre uno scenario ancora parzialmente
inesplorato, un’interpretazione innovativa
ed aggiornata ancora poco approfondita,
che riveste una rara importanza pratica per
l’operatore giuridico.
Gli autori, in altri termini, evitano sa‑
pientemente una tautologica rassegna og‑
gettiva degli istituti successori vigenti nel
nostro ordinamento, focalizzando, al con‑
trario l’attenzione sugli interessi sottesi
alla volontà testamentaria.
Gli autori non optano infatti per
un’analisi classica dell’istituto giuridico
nella sua oggettività normativa, dando atto
dei vari orientamenti assunti nel tempo
dalla dottrina e dalla giurisprudenza ma,
al contrario, vanno ad analizzare che cosa
il testatore possa o non possa fare, ed in
quali limiti normativi, a mezzo degli stru‑
menti giuridici messi a sua disposizione
dal legislatore. Si tende ad analizzare un
contorno, spesso labile, tra volontà testa‑
mentaria e limiti legislativi inderogabili, al
fine di stabilire fin dove si possa spingere
la prima senza ledere i secondi.
Una sapiente ed approfondita disamina
di tutte le disposizioni, patrimoniali e non
patrimoniali, che il negozio testamentario,
159
quale unico strumento attributivo a causa
di morte, possa o non possa contenere.
Gli autori passano in rassegna temati‑
che, per la verità poco studiate, o del tutto
tralasciate, dalla precedente dottrina in
merito. A titolo esemplificativo, si pensi
alle cd. disposizioni aventi ad oggetto il
nome del professionista, o alle vicende
successorie relative agli status e alle azioni familiari. Anche in materia di legati, la
casistica è ampissima. Dalle singole figure
“tipiche” di attribuzione a titolo particola‑
re, gli Autori si discostano sino ad appro‑
fondire, con assoluto rigore scientifico,
fattispecie mai (o quasi mai) prese in con‑
siderazione nelle pregresse opere civilisti‑
che in tema di successioni.
Si pensi, in particolare, e senza pretese
di esaustività, alla discussa – quanto in‑
consueta – figura del “legato di quota lite”,
o alle disposizioni aventi ad oggetto l’eventuale trasferimento della cosa legata o
l’attuazione del rapporto scaturente dal
legato stesso.
Inoltre, ricchi approfondimenti sono
altresì riservati alla tematica della cd. di‑
seredazione, recentemente oggetto di una
storica sentenza della Corte di Cassazione
(Cass. 25 maggio 2012, n. 8352) che ne ha
ammesso la legittimità anche ove intesa in
senso “meramente negativo”.
L’analisi si presenta, in altri termini,
molto ricca di riferimenti giurisprudenzia‑
li e dottrinari, volti a fornire al lettore un
quadro esaustivo e completo delle opinioni
teoriche e dei risvolti pratici che ogni sin‑
golo istituto inevitabilmente comporta.
Gli autori non mancano di prendere in
considerazione, tra le altre, le tematiche di
indubbia rilevanza notarile, delle cd. suc‑
cessioni anomale, ovverosia di quei parti‑
colari fenomeni successori che determina‑
no, in virtù di peculiarità del caso concre‑
to, una scissione di talune situazioni dalla
generale caduta in successione di beni e
rapporti giuridici a carattere non persona‑
le.
Tutte le principali figure di successio‑
ne anomala risultano essere, infatti, bril‑
lantemente trattate, ed in particolare viene
all’evidenza un istituto di indubbia rilevan‑
za pratica, come quello delle sorti mortis
causa del cd. maso chiuso, così come
quello dei rapporti agrari di cui alla l.
203/1982.
Nell’opera si rinvengono inoltre inte‑
ressantissimi cenni in ordine al rapporto
sussistente tra diritto successorio e diritto
processuale civile, specie con riferimento
alle disposizioni aventi ad oggetto la suc‑
recensioni
Gazzetta
160
cessione nel processo e nel diritto contro‑
verso, ritenute dagli autori, inammissibili.
Si sostiene, in altri termini, una impossi‑
bilità da parte del testatore di incidere con
una disposizione testamentaria in un pro‑
cedimento a rilevanza giuspubblicistica
inderogabile, regolato da norme proprie,
quale è il processo, laddove si afferma che
“il tema delle disposizioni relative alla
successione nel processo va qui evocato
per escludere, in realtà, che tali disposizioni possano avere cittadinanza nel nostro ordinamento, almeno là dove si tratti
di disposizioni concernenti la successione
nel processo separatamente considerata,
vale a dire dove il testatore pretenda di
stabilire a chi spetti il diritto di proseguire
la lite in sua vece, indipendentemente
r e c e n s i o n i
dalla destinazione riservata alla situazione soggettiva di diritto sostanziale oggetto
della controversia in atto”.
Lo spessore dottrinario emerge quindi
nitido in tutte le tematiche oggetto della
trattazione nell’opera. Un lavoro di espo‑
sizione semplice e chiarificatrice, atta a
rendere di facile intuizione e comprensione
anche concetti – quali, ad esempio, la col‑
lazione, la cd. imputazione ex se, il sistema
dell’azione di riduzione – che innegabil‑
mente risultano essere connaturati da un
intrinseco ed elevato indice di difficoltà.
Di grande interesse risultano anche
essere le disposizioni testamentarie (certa‑
mente ammesse) di nomina del tutore
dell’interdetto o del curatore dell’inabilitato
per testamento, con sapiente disamina delle
Gazzetta
F O R E N S E
problematiche ad esse connesse, stante la
tendenziale interferenza della volontà testa‑
mentaria con i procedimenti di giurisdizio‑
ne volontaria, ed in particolare per quei
procedimenti che prevedono l’intervento
obbligatorio dell’Autorità Giudiziaria.
Una tematica, quella del diritto delle
successioni, “rivista” e ristrutturata in
quest’opera, frutto di grande genialità
giuridica e di indubbia competenza dottri‑
naria e giurisprudenziale, che risulta esse‑
re volta a fornire all’interprete un prezioso
strumento di consultazione teorico‑pratica
al fine di chiarire i dubbi derivanti dallo
svolgimento delle quotidiane professioni
giuridiche, oltre che di valutare i mutevoli
ed altalenanti orientamenti frutto del cd.
diritto vivente della giurisprudenza.
Indice delle sentenze
Diritto e procedura civile
CORTE DI CASSAZIONE
Cass. civ, sez. I, 20.06.2013, n. 15481 s.m.
Cass. civ, sez. I, ord. 06.06.2013, n. 14329 s.m.
Cass. civ, sez. lav., 05.06.2013 n. 14206 s.m.
Cass. civ, sez. III, 17.05.2013, n. 12119 s.m.
Cass. civ, sez. un., 16.05.2013, n. 11830 s.m.
Cass. civ, sez. un., 14.05.2013, n. 11523 s.m.
Cass. civ, sez. I, 10.05.2013, n. 11232 s.m.
Cass. civ, sez. un., 07.05.2013, n. 10532 s.m.
Cass. civ., sez. un., 26.04.2013, n. 10064
(con nota di Tonia Raia)
Cass. civ, sez. lav., 15.04.2013, n. 9073 s.m.
Cass. civ., sez. un., 27.02.2013, n. 4847
(con nota di Caputo e Del Giudice)
Cass. civ., sez. III,02.10.2012 n. 16754
(con nota di Palagano)
TRIBUNALE
Trib. Napoli, G.M., 24.06.2013, n. 10210 s.m.
Trib. Napoli, G.M., 03.06.2013, n. 8804 s.m.
Trib. Napoli, G.M., 27.05.2013, n. 8499 s.m.
Trib. Napoli, G.M., 20.05.2013, n. 7998 s.m.
Trib. Napoli, G.o.t., 16.05.2013, n. 7630 s.m.
Trib. Napoli, G.o.t., 15.05.2013, n. 7507 s.m.
Trib. Napoli, G.o.t., 15.05.2013, n. 7506 s.m.
Trib. Napoli, G.M., ord. 14.05.2012, n. 190 s.m.
Trib. Napoli, G.o.t., 13.05.2013, n. 9816 s.m.
Trib. Napoli, G.M., 06.05.2013, n. 6900 s,m,
Trib. Nola, G.M., 30.04.2013, n. 1006 s.m.
Trib. Nola, G.M., 09.04.2013, n. 812 s.m.
Trib. Nola, coll. A), 12.03.2013, n. 622 s.m.
Trib. Napoli, GM, 11.03.2013, n. 4143 s.m.
Trib. Portici, G.M., 27.02.2013, n. 3499 s.m.
Trib. Portici, G.M., 25.02.2013 n. 3388 s.m.
Trib. Portici, G.M., 12.02.2013, n. 2307 s.m.
G.i.p / G.u.p.
CORTE D’APPELLO
App. Napoli, sez. I, 14.05.2013, Pres. Rel. Fralliciardi s.m.
TRIBUNALE
Trib. Napoli, sez. VII, 29.01.2013, Giud. Reale s.m.
Trib. Napoli, sez. II, 27.03.2013, Giud. Ciriello s.m.
Trib. Napoli, sez. IV, 03.06.2013, Giud. Lupi s.m.
Trib. Napoli, sez. XII, 18.02. 2013, n. 2195, Rel. Manzo s.m.
Trib. S.M. Capua Vetere, sez. lav., Giud. Grammatica
(con nota di Sabbatini)
Diritto e procedura penale
CORTE DI CASSAZIONE
Cass. pen., sez. VI, 08.05.2013, n. 20428 s.m.
Cass. pen., sez. un., 28.06.2013, n. 28243
(con nota di Pignatelli)
Cass. pen., sez. VI, 07.05.2013, n. 21701 s.m.
Cass. pen., sez. VI, 16.04.2013, n. 18616 s.m.
Cass. pen., sez. VI, 16.04.2013, n. 18615 s.m.
Cass. pen., sez. I, 10.04.2013, n. 20025 s.m.
Cass. pen., sez. III, 26.03.2013, n. 19505 s.m.
Cass. pen., sez. III, 06.03.2013, n. 19100 s.m.
Cass. pen., sez.un., 28.02.2013, n. 25939
(con nota di Pignatelli)
Cass. pen., sez.un., 31.01.2013, n. 23866
(con nota di Pignatelli)
Cass. pen., sez. VI, 25.01.2013, n. 19190 s.m.
Cass. pen., sez. VI, 11.01.2013, n.19189 s.m.
Cass. pen., sez. VI, 10.01.2013, n. 19188 s.m.
Cass. pen., sez.un., 20.12.2012, n. 19054 (con nota di Pignatelli)
Napoli, 15.05.2013, n. 1050 s.m.
Napoli, 14.05.2013, n. 1189 s.m.
Napoli, 09.05.2013, n. 29191s.m.
Napoli, 06.05.2013, n. 1072 s.m.
Nola, 30.04.2013, n. 236 s.m.
Napoli, 20.03.2013, n. 788 s.m.
Diritto amministrativo
CONSIGLIO DI STATO
Cons. Stato, sez. V, 11.06.2013, n. 3230 s.m.
Cons. Stato sez. V, 07.06.2013, n. 3135 s.m.
Cons. Stato sez. V, 07.06.2013, n. 3133 s.m.
Cons. Stato sez. IV, 04.06.2013, n. 3059 s.m.
Cons. Stato sez. III, 04.06.2013, n. 3053 s.m.
Cons. Stato sez. V, 03.06.2013, n. 3047 s.m.
Cons. Stato sez. V, 03.06.2013, n. 3045 s.m.
Cons. Stato sez. V, 03.06.2013, n. 3033 s.m.
Cons. Stato sez. V, 03.06.2013, n. 3031 s.m.
TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
T.a.r. Napoli, sez. I, 21.05.2013, n. 2611 s.m.
Diritto internazionale
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
C.G.U.E, sez. VI, ord. 06.06.2013, causa C‑535/12
(con nota di Romanelli)
C.G.U.E., sez. III, 27.06.2013, causa C‑93/12
(con nota di Romanelli)
C.G. U.E., sez. I, 27.06.2013, causa C‑575/11
(con nota di Romanelli)