Threadneedle (Lux) Enhanced Commodities Fund Le materie prime si confermano una copertura efficace contro l’inflazione Maggio 2011 Per lungo tempo le materie prime sono state considerate una copertura credibile contro l’inflazione, in particolare l’inflazione inattesa, ma la recente volatilità e l’inaspettato risveglio di quella che sembra essere un’inflazione da costi inducono a chiedersi se ciò sia ancora vero. Personalmente sostengo che le materie prime continueranno a fornire protezione dall’inflazione e dai suoi effetti distruttivi, in particolare finché la crescita dei mercati emergenti rimarrà robusta e i governi dei mercati sviluppati continueranno ad adottare politiche economiche non ortodosse. Primo driver: la domanda dei mercati emergenti La rapida crescita economica dei mercati emergenti è uno dei driver principali del recente rincaro delle commodity. L’aumento della domanda di materie prime degli ultimi dieci anni è riconducibile in prevalenza alla Cina, divenuta il maggior consumatore al mondo di energia e materie prime industriali. Con la continua espansione dell’urbanizzazione, in Cina come in altri paesi quali l’India, la domanda di risorse naturali è destinata ad aumentare senza sosta. Per alimentare la crescita i mercati emergenti fanno un uso estremamente intensivo delle materie prime, avendo la necessità di costruire infrastrutture e migliorare il tenore di vita di quasi metà delle popolazione mondiale, pertanto questo trend appare assai radicato. L’estrazione e la produzione di idrocarburi, e di greggio in particolare, diventano inoltre sempre più problematiche, mentre l’attuale domanda globale di petrolio, che ha superato i 90 milioni di barili al giorno, è ormai prossima alla capacità produttiva mondiale. Il prezzo rimane quindi l’unico strumento per razionare la domanda, senza contare che mentre in molti paesi emergenti l’energia è sovvenzionata dallo stato, e come tale non rappresenta un vero driver dell’inflazione, i prezzi più elevati a livello mondiale non necessariamente riducono la domanda di tali mercati. Associata a questa crescita si è sviluppata un’inflazione relativamente elevata, mentre l’inasprimento della politica monetaria cinese, sebbene avviato già nei primi mesi del 2010, non è altro che una fase di normalizzazione seguita agli enormi stimoli fiscali del 2009 e attenua solo lievemente il secondo driver dell’inflazione. Secondo driver: il calo del dollaro USA Il valore a lungo termine del dollaro USA e il suo status di valuta di riserva mondiale sono attualmente compromessi dalla continua emissione di debito a livello federale, statale, municipale e di consumo. Proseguendo su questa strada, nella migliore delle ipotesi il valore del dollaro subirà un drastico calo, e con le commodity denominate in dollari questo significa il costante aumento dei prezzi delle materie prime. Gli altri scenari contemplano la possibilità di una crisi del debito e della valuta statunitensi, con la brusca rimozione dello status di valuta di riserva del dollaro e vaste implicazioni per l’economia globale. Con questi due fattori macroeconomici saldamente radicati le materie prime continueranno a rappresentare un’efficace riserva di valore, come dimostrato dal rally del 30% dei prezzi delle commodity durante il secondo semestre 2010 che ha provocato un aumento generalizzato dell’inflazione nel primo semestre del 2011. Poiché all’interno di un portafoglio diversificato è facile ottenere un’esposizione del 5-10% verso le materie prime, è opportuno chiedersi perché un investitore non dovrebbe detenere una quota negli strumenti che con i loro prezzi causano l’impatto inflazionistico. Questo vale in particolare per gli investitori sulle cui passività l’inflazione incide in modo rilevante, come per esempio i fondi pensione. Sarebbe difficile giustificare l’assenza di un'allocazione alla classe di attivo che con maggiore probabilità può causare un effetto inflattivo inatteso. Il ritorno del rischio geopolitico Se nel 2010 i rincari delle materie prime sono stati trainati dalla domanda globale e dalle condizioni meteorologiche estreme, il 2011 ha visto riemergere il rischio geopolitico come driver del mercato. L’aumento del 24% del prezzo del greggio nel primo trimestre del 2011 è servito come garbato richiamo al potenziale vigore delle forze in gioco. Verso la fine del 1973, dopo che il governo statunitense rispose al rapido aumento dell’inflazione imponendo controlli sui prezzi del petrolio, l’OPEC pose l’embargo sulla vendita di petrolio agli Stati Uniti e aumentò il prezzo del greggio del 70%. Da ottobre 1973 a gennaio 1974 il prezzo del petrolio passò da 3 a 11 dollari al barile. Un analogo shock dei prezzi si verificò dopo la rivoluzione iraniana del 1979. Storicamente la tipica reazione a uno shock inflattivo è l’aumento i tassi di interesse, come accadde nel 1981 quanto Paul Volker aggredì l’inflazione USA spingendo i rendimenti dei titoli di stato USA a 3 mesi oltre il 15%. Questa risposta avvantaggiò gli investitori che riuscirono ad ampliare le proprie posizioni obbligazionarie dopo che i rendimenti erano aumentati di conseguenza. Attualmente la prospettiva di un aumento dei tassi da parte delle economie sviluppate non sembra molto probabile, e in questo c’è una certa logica, considerato che la domanda incrementale di risorse proviene dai mercati emergenti. Livelli insostenibili di debito Inoltre, poiché gran parte del mondo sviluppato sta scricchiolando sotto il peso di un debito insostenibile, la strada politicamente meno dolorosa (almeno nel breve periodo) consiste nel consentire la diminuzione del potere d’acquisto della valuta. È pertanto improbabile che i tassi di interesse aumentino abbastanza da attrarre nuovamente i capitali verso la liquidità, se non per un posizionamento tattico a breve termine. Ciò probabilmente condurrà a una maggiore volatilità dei prezzi delle commodity, a causa dei flussi finanziari continuamente in entrata e in uscita sui mercati. In ogni caso, finché non si assisterà a uno sforzo credibile e sostenuto per rafforzare il dollaro attraverso tassi di interesse più elevati, una maggiore pressione fiscale e una riduzione della spesa pubblica, il denaro degli investitori continuerà a confluire negli "hard assets". Il rischio di impennate dei prezzi delle commodity rimane pertanto superiore alla norma. Conclusioni In prospettiva, considerato il rischio di un aumento della volatilità le materie prime continuano a rappresentare un porto sicuro per preservare il capitale e si confermano un'efficace copertura contro l’inflazione. David Donora - Head of Commodities di Threadneedle Investments