Dispensa Antropologia della violenza

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1. Interpretazioni antropologiche della violenza,
tra natura e cultura *
Fabio Dei
1. Premessa
In questo intervento vorrei discutere il problema della violenza dal punto di vista della disciplina
di studi cui appartengo, l’antropologia culturale. In particolare, mi chiederò quali strumenti
interpretativi l’antropologia possa offrire per comprendere la massiccia presenza della violenza e
della crudeltà nella storia del Novecento.
Il nostro secolo, se da un lato è stato il culmine di quello che Norbert Elias chiama il “processo
di civilizzazione”, ha dall’altro assistito ad eventi terribili come stermini, genocidi e altre forme di
uso sistematico della violenza; eventi che hanno avuto nella Shoah il punto di maggior orrore e
visibilità, almeno per l’Europa, ma che di fatto hanno costellato con regolarità l’intero corso del
Novecento e anche gli anni a noi più vicini (basterà pensare ai casi dell’Indonesia, del Vietnam,
della Cambogia, dei Balcani e del Ruanda). Non solo: la cosa più sconcertante è che tali violenze
sono state commesse da persone normali, da “uomini comuni”, per citare il titolo dell’ormai celebre
libro in cui Christopher Browning (1992) ricostruisce la carriera di assassini e massacratori di un
gruppo di tranquilli padri di famiglia amburghesi, trovatisi quasi casualmente coinvolti nelle
strategie naziste della soluzione finale.
Come comprendere questi fenomeni? Vale a dire, come rapportarli a quella che è la nostra idea di
esseri umani razionali e civilizzati? Lo studio dei massacri nazisti, o i racconti della vita nei campi
di sterminio, sembrano suggerirci la presenza - dietro tali eventi - di determinanti profonde e in
certo qual modo nascoste del comportamento umano; determinanti che non sono semplicemente
riconducibili a un contesto storico-sociale e ad una logica della situazione, investendo invece
dimensioni più generali di carattere psicologico, antropologico o persino etologico. Per usare le
efficaci e suggestive parole dello storico Leonardo Paggi,
il massacro nazista, in ragione del suo carattere passionale [...], si configura dunque
anche come risultato di una «eredità arcaica», come collasso dei sistemi di
autocoercizione, come emergenza di comportamenti e significati quasi in via di
principio sbrigativamente estromessi dal nostro presente. Si apre qui il terreno di una
analisi antropologica del massacro, ancora tutta da fare, che difficilmente potrà evitare
di misurarsi - credo - con il grande tema dei riti sacrificali di morte, che segnano
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profondamente, in senso sincronico e diacronico, tutta la storia della civiltà umana
(Paggi 1996: 8)
Paggi non vuol dire semplicemente che i nazisti sono individui regrediti a un comportamento
“primitivo”. Troviamo infatti lo stesso intreccio tra dimensione storica, antropologica e
psicoanalitica studiando il punto di vista delle vittime - ad esempio le reazioni dei superstiti dei
massacri e le modalità della loro elaborazione del lutto, che non sembrano comprensibili senza il
riferimento a configurazioni culturali più ampie, a modelli universali di comportamento. E la
riflessione sui massacri è solo un esempio possibile (per quanto centrale); analoghe considerazioni
possono esser e sono state di fatto svolte a proposito di molti altri fenomeni o eventi della storia
recente. Citerò come particolarmente significative le riflessioni di Primo Levi (1986) sul lager come
società primitiva o regredita, nella quale non solo scompaiono le istituzioni e le regole di
convivenza civili, ma si consolidano con straordinaria rapidità modelli antropologici di tipo
“barbaro” e arcaico; e il recente studio di Gabriele Ranzato (1997) sul linciaggio di un ex
funzionario fascista nella Roma del 1944, che scopre il ripresentarsi di antichi modelli socioculturali in un’esplosione di furore popolare apparentemente cieca e disordinata. Naturalmente non
è qui possibile dar conto della complessità di questo tipo di riflessioni, avanzate peraltro dagli autori
con grande cautela e consapevoleza critica. Il punto che interessa è un altro: ci troviamo in tutti
questi casi di fronte a fatti i cui contorni spazio-temporali sembrano dilatarsi a dismisura di fronte ai
tentativi di comprensione storica e umana del ricercatore, il quale si trova rinviato a dimensioni
assai generali dell’essere dell’uomo nel mondo.
Questo tipo di problema - l’intreccio fra dimensione storica e antropologica - è certamente
ineludibile, ma rischia anche di condurre verso soluzioni semplicistiche e fuorvianti. Esso può
spingerci a ricercare nelle scienze umane (o nell’etologia, o persino nella biologia) delle leggi
generali del comportamento, in grado di fornire quelle spiegazioni che non riusciamo a trovare nella
semplice analisi del contesto storico. “L’uomo è una belva” è il paradigma di questo tipo di
atteggiamento esplicativo: una affermazione (fatta propria da molti teorici, sia pure in formulazioni
complesse e raffinate) che riconduce la violenza, e molti comportamenti che contrastano con una
certa nozione di civiltà, a una presunta essenza naturale degli esseri umani.
Tesi di questo tipo, per quanto siano suggestive e per quanto le si possa difficilmente dir false,
rischiano tuttavia di risultare fuorvianti; sia perché, proprio in virtù della loro estrema generalità,
esse non riescono a spiegare nulla, a dirci cioè cose che già non sappiamo; sia perché possono
sviare la nostra attenzione dal piano delle pratiche umane storicamente situate e dei loro significati.
Vorrei sostenere che l’antropologia culturale, se può portare un contributo alla comprensione di
specifiche pratiche di violenza e crudeltà, può farlo solo a patto di non sottrarsi alla irriducibile
complessità del giudizio storico, in vani tentativi di attribuire a “leggi” universali ciò che è invece
prodotto di pratiche culturali, di motivazioni in senso lato politiche, di strategie sociali. Non è
compito dell’antropologia scoprire essenze che stanno al di là della storia. Come ogni altra
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disciplina sociale, essa non può fare a meno di immergersi nei contesti storici e di accettarne tutta la
complessità e la specificità.
Nella comprensione di un fenomeno intensamente etico come la violenza, lo stesso richiamo
all’oggettività della valutazione scientifico-naturalistica può risultare ambiguo: non per caso la
naturalizzazione e l’appello a un fondo di “elementarmente umano” è una delle più diffuse strategie
di giustificazione della violenza da parte di chi ne fa uso, di occultamento dei suoi significati in
senso lato politici (v. Heritier 1997: 18 sgg.).
In altre parole, del tutto indipendentemente dalle basi biologiche e istintuali dell’aggressività
studiate dagli etologi, la violenza che si manifesta nella storia e nella vita sociale non è il contrario
della cultura ma il prodotto di un certo tipo di cultura. Non è uno sfondo naturale del
comportamento umano che si manifesta quando venga meno per un momento la vernice sottile della
civilizzazione. E’ invece un atteggiamento costruito, che si apprende con l’educazione e la
socializzazione, e che sta in stretto rapporto con le forze che regolano la cosciente vita associata
degli esseri umani: il desiderio, il potere, persino la razionalità.
Esporre il punto di vista dell’antropologia culturale, peraltro, è piuttosto difficile, dal momento
che le classiche tradizioni di studio in questa disciplina hanno raramente affrontato il problema della
violenza in modo diretto. Per motivi che non è qui possibile discutere (ma si veda in proposito
Clastres 199 ), gli antropologi hanno spesso rappresentato le società “altre” di cui si sono occupati
come libere dalla guerra e da forme vistose di violenza interpersonale. Occorrerà dunque
accerchiare il problema da prospettive, per così dire, laterali. Dopo alcune ulteriori osservazioni sui
rapporti tra determinanti naturali e determinanti culturali della violenza, passerò schematicamente in
rassegna due punti di vista che l’antropologia e le scienze umane hanno sviluppato a proposito del
comportamento violento. In primo luogo, gli studi sulle istituzioni e le pratiche culturali volte al
controllo sociale della violenza; in secondo luogo, il tema della violenza come fondazione della
civiltà. Tornerò infine sulle peculiarità di un possibile approccio antropologico a questo tipo di
problemi.
Vorrei sottolineare come si tratti non di una trattazione sistematica ma di una pista di lavoro, volta
semplicemente a sollecitare successivi approfondimenti e affinamenti della riflessione.
2. Violenza tra natura e cultura.
La risposta alla domanda «perché gli uomini sono violenti?», almeno in un certo senso, è molto
semplice e scontata. Ovviamente, aggressività e violenza fanno parte della dotazione biologica e
istintuale del genere umano. Noi sentiamo il bisogno di «spiegare» il comportamento violento
perché lo vediamo come una contraddizione in relazione ai valori della cultura - di quella cultura su
cui si basa la nostra identità di esseri umani. Ma dobbiamo considerare che l’evoluzione culturale ha
avuto ed ha tempi assai più rapidi di quella biologica; cosicché, siamo in presenza di uno scarto fra
la costituzione zoologica dell’uomo e la sua cultura - intendendo qui con cultura, naturalmente,
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l’insieme delle pratiche, delle idee, degli strumenti, delle istituzioni e di tutti gli elementi non
biologici attraverso i quali una comunità umana si adatta al mondo.
Scrive l’etnologo francese A.Leroi-Gourhan, in Il gesto e la parola :
L’homo sapiens è nato al tempo delle steppe per la caccia al cavallo selvatico e si è
adattato progressivamente alla locomozione seduta, in un’atmosfera di petrolio bruciato
[...]. Tutta l’ascesa delle civiltà si è realizzata con quello stesso uomo fisico e
intellettuale che faceva la posta al mammuth; la nostra cultura elettronica, che ha appena
50 anni, si regge su un apparato fisiologico che risale invece a 40000 anni fa. Se c’è
motivo di aver fiducia nelle possibilità di adattamento, tuttavia la distorsione esiste ed è
evidente la contraddizione fra una civiltà dai poteri quasi illimitati e un civilizzatore la
cui aggressività è rimasta immutata dal tempo in cui uccidere la renna significava
sopravvivere (Leroi-Gourhan 1964-5: 464)
Sembrerebbe dunque di poter considerare la violenza e l’aggressività come limiti della civiltà retaggi di una costituzione naturale che la cultura non è riuscita ancora a modificare o soffocare, e
che riemerge, per così dire, negli interstizi della civiltà.
Ma questa sarebbe una concezione semplicistica: perché in realtà gli aspetti naturali e quelli
culturali dell’evoluzione, come ha mostrato lo stesso Leroi-Gourhan, non si sono semplicemente
contrapposti gli uni agli altri, ma si sono compenetrati. In particolare, è caratteristica peculiare della
cultura, intesa in senso antropologico, la capacità di plasmare la «dotazione naturale» degli esseri
umani - in modo tale che è difficile parlare di una pura base naturale del comportamento. Ciò che
noi consideriamo «naturale» ha spesso il carattere di una seconda natura. O, per dire la stessa cosa
in termini un po’ diversi, è all’interno di un insieme di condizioni culturali che si determina il
concetto stesso di natura - cioè, ogni cultura definisce al proprio interno la linea di demarcazione tra
ciò che è naturale e ciò che è culturale. Questa demarcazione è dunque culturalmente plasmata.
Possiamo forse capire meglio questo punto pensando al concetto di paesaggio naturale. Noi
consideriamo come natura boschi o campagne che in realtà sono profondamente modificati
dall’intervento umano, spesso persino costruiti, e sono dunque in senso stretto paesaggi culturali.
Nondimeno, noi giustamente li contrapponiamo oggi ai paesaggi urbani, cementificati, etc. - e
usiamo le categorie di naturale e artificiale per dar senso a questa contrapposizione, che è parte
importante e cardine della nostra visione del mondo. Si può criticare questo punto di vista in quanto
arbitrario, ma non avrebbe molto senso appellarsi a una natura più pura e autentica, che per noi non
può esistere. Anche le politiche del “rinselvatichimento” e della regressione radicale all’animalità,
come sono teorizzate ad esempio da alcune frange del pensiero ambientalista, sono scelte
profondamente culturali.
Per usare un’altra metafora, possiamo immaginarci la cultura come il software per il cui tramite
dialoghiamo col mondo: un programma o un sistema operativo che ha alle spalle un hardware, il
quale pone limiti oggettivi (la capacità di memoria, la velocità del processore etc.). Ma dalle
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caratteristiche dell’hardware non si può inferire molto delle caratteristiche del software. E in ogni
caso, trovandoci all’interno del programma, non possiamo sfuggirgli appellandoci per così dire a un
dialogo diretto con la macchina che lo fa girare. Inoltre, ci troveremmo di fronte ad un software
molto particolare, in grado, in tempi lunghi, di modificare le stesse caratteristiche dell’hardware che
lo sostiene, potenziando magari il processore, aggiungendo o eliminando alcune periferiche etc.
Tutto questo per sottolineare che la violenza e l’aggressività, per quanto indubbiamente radicate
nella costituzione biologica ed etologica dell’uomo, si manifestano nel comportamento umano,
all’interno di determinate civiltà e società, in modi culturalmente e storicamente plasmati. E’ questo
un punto essenziale per la nostra riflessione. Il senso comune può oggi farci considerare la violenza
come un residuo - ciò che resta quando si cancelli o si azzeri momentaneamente la cultura, la «belva
dentro di noi» che talvolta riemerge alla superficie. In realtà, ciò che noi oggi consideriamo
violenza è frutto di un processo storico molto preciso e anche molto recente, di una ridefinizione
continua della linea di demarcazione tra natura e cultura.
Per riflettere su questo punto è essenziale riferirsi ai lavori di Norbert Elias, che ricostruiscono la
storia dell’Occidente nei termini di un continuo processo di spostamento della linea che demarca i
comportamenti accettati da quelli non accettati, quelli normali da quelli abnormi, e che in sostanza
accentua progressivamente gli elementi di controllo sui sentimenti, le emozioni, le scariche
pulsionali e i contatti fisici diretti tra gli esseri umani. Secondo Elias, attraverso le diverse epoche
storiche si sono formate barriere sia istituzionali che psicologiche contro la manifestazione
immediata dei sentimenti, contro i contatti fisici che non rientrino in sfere ben determinate come
quella della sessualità, dello sport o di rituali sociali estremamente controllati (il bacio, la stretta di
mano, etc.); ed è cambiato molto l’atteggiamento nei confronti della violenza. In un volume tradotto
in italiano col titolo La civiltà delle buone maniere, Elias confronta ad esempio le manifestazioni
dell’aggressività nelle moderne società occidentali con quelle che caratterizzavano il Medioevo.
Nelle prime, l’aggressività risulta fortemente controllata e attenuata, persino in contesti come la
guerra:
essa è stata condizionata, pur nel mezzo dell’azione bellica, dalla più avanzata
divisione delle funzioni, dal più accentuato legame tra i singoli individui, dalla
maggiore dipendenza degli uni dagli altri e di tutti dall’apparato tecnico; è stata limitata
e smussata da un’infinità di regole e divieti che sono diventati autocostrizioni (dunque
sono stati interiorizzati). Si è pertanto trasformata, raffinata e civilizzata come tutte le
altre forme di piacere; e soltanto nel sogno o in singole esplosioni, che registriamo come
fenomeni patologici, si riaffaccia in parte con la sua forza immediata e scatenata (Elias
1988: 346).
Per il Medioevo, al contrario, Elias documenta il piacere di uccidere e torturare come
manifestazione di potere, e la presenza dei valori della violenza nel codice cavalleresco, che noi
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associamo di solito a valori di altro tipo. E traccia un profilo psicologico dell’uomo medioevale
come dominato da sentimenti contrastanti ma fortissimi, da esplosioni improvvise di gioia e
allegria, dalla facilità di infiammarsi in reazioni di odio e aggressività:
Gli impulsi, le emozioni si manifestavano in modo più libero, più scoperto e più
diretto di quanto sarebbe avvenuto in seguito. Siamo soltanto noi, divenuti più moderati,
più misurati e più calcolatori, noi che nella nostra eonomia pulsionale abbiamo
interiorizzato in misura assai maggiore come autocostrizioni i tabù sociali, a considerare
contraddittoria - ad esempio - la grande devozione religiosa e le manifestazioni di
aggressività e di assoluta crudeltà. Nella società medioevale, chi non sapeva amare o
odiare con tutte le sue forze era destinato all’emarginazione sociale: così come, in
società successive (p.es nella vita di corte delle grandi monarchie), vi sarà destinato chi
non sarà in grado di dominare le sue passioni e celare i suoi affetti, dimostrandosi così
«civile» (Ibid.: 358).
Questi mutamenti sono legati per Elias all’affermarsi di un potere centrale (virtualmente assente
nel Medioevo) che assume il monopolio della violenza e della sopraffazione fisica, non consentendo
più ai singoli individui di esercitarla (salvo a poche persone delegate a tal scopo, come il boia, il
poliziotto, il soldato; o salvo situazioni controllate come i rituali e lo sport; ma anche nei rituali e
nello sport si assiste a un processo di progressiva civilizzazione o «sublimazione», in cui la violenza
è simbolizzata più che realmente agita).
Violenza è dunque di per sé una categoria astratta: vi sono comportamenti violenti e concezioni di
ciò che è violenza che mutano socialmente e storicamente. Ciò che è normale oppure patologico e
deviante, ciò che ha bisogno o meno di una spiegazione, cambia a seconda dei concreti contesti
culturali. Ma allora, quello che può sembrare l’insorgere di una violenza incontrollata e naturale, è
spesso di fatto un comportamento governato da regole culturalmente e socialmente approvate.
Vorrei precisare che questo punto di vista non equivale affatto all’affermazione di un assoluto
relativismo culturale. E’ del tutto evidente, come già detto, che le scelte culturali hanno luogo
all’interno di limiti stabiliti dalla “natura”, e che possono esser descritti ad esempio in termini
biologici, etologici o psicologici. Ma occorre distinguere tra tipi diversi di problemi. Una cosa è il
problema delle cause o dell’origine dell’aggressività umana, che non può esser risolto senza il
riferimento alle caratteristiche zoologiche ed etologiche della specie homo sapiens; altra cosa è il
problema della comprensione del significato di pratiche violente all’interno di specifici contesti
storici e culturali, rispetto al quale la spiegazione naturalistica è quasi sempre di per sé irrilevante.
3. Il controllo sociale della violenza.
Ora, l’antropologia culturale è interessata per l’appunto al modo in cui gli istinti, le pulsioni, la
dotazione biologica dell’uomo è plasmata all’interno di ogni singola cultura. Per la verità, come ho
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già detto, la violenza non è mai stato un soggetto centrale e cruciale nei dibattiti antopologici: sia
nel senso che raramente si è trovata al centro di grandi elaborazioni teoriche (con almeno
un’eccezione importante, su cui tornerò), sia nel senso che pochi contributi etnografici si sono
soffermati a fondo sul problema delle diverse sensibilità alla violenza e dei diversi codici di
manifestazione dell’aggressività presenti in specifiche culture (per delle recenti eccezioni si vedano
i saggi raccolti in Riches 1986 ed Heritier 1997). Tuttavia, questi problemi sono spesso implicati
nelle discussioni sui sistemi sociali e politici, sulla struttura dell’ethos o dei valori, sui rituali e sulla
religione.
In modo particolare, l’attenzione degli antropologi si è appuntata sulle modalità del controllo
sociale della violenza. L’antropologia sociale e politica classica è partita spesso dal presupposto
hobbesiano di un originario homo homini lupus: la società e le sue istituzioni, per esistere, hanno
bisogno che sia ridotto e controllato il potenziale di aggressività e violenza che ciascun individuo
porta dentro di sé, in virtù della sua costituzione biologica. Gli animali, come ci insegna l’etologia,
possiedono meccanismi di controllo e ritualizzazione degli istinti aggressivi verso i loro simili,
senza i quali sarebbe messa in pericolo forse la stessa sopravvivenza della specie, e in ogni caso la
vita sociale, l’unità del branco etc. L’uomo sembra non possedere in modo naturale simili impulsi
inibitori: dev’esser dunque la società, tramite le sue istituzioni, a fornirli. Si deve trattare di
istituzioni che consentono all’individuo di «scaricare» le sue pulsioni aggressive, incanalandole
però in direzioni che non danneggino l’ordine e la stabilità della società stessa.
Queste istituzioni potrebbero esser classificate a seconda della loro prossimità alla violenza fisica
vera e propria. Ad esempio, all’estremo più violento sta probabilmente l’istituzione della cosiddetta
«faida di sangue», presente in modo più o meno formalizzato tra molti popoli di agricoltori e
allevatori, in particolare quelli con una struttura sociale segmentaria. La faida consiste - almeno in
apparenza - nel diritto-dovere di vendicare una uccisione attraverso un’altra uccisione, secondo il
principio della legge del taglione. In realtà si tratta di una istituzione molto complessa, tipica di
società in cui manca un potere giudiziario centrale, e che stabilisce regole per la risoluzione dei
conflitti tra lignaggi che sono aperti da un omicidio. In sostanza, la tradizione accetta che i membri
di un lignaggio (gruppo di parentela) cerchino di vendicare la morte di uno di loro uccidendo
l’assassino o un membro del lignaggio dell’assassino: la seconda uccisione ristabilirebbe un
equilibrio sociale che era stato infranto dalla prima. Ma, di fatto, la vendetta non ristabilisce mai
l’equilibrio: il gruppo che la subisce tende a interpretarla come un’offesa ulteriormente squilibrante
che deve a sua volta esser vendicata, e così via - potenzialmente ad infinitum. L’istituzione della
faida consiste allora nell’apertura di una serie di trattative e contrattazioni tra i due lignaggi rivali,
con lo scopo di risolvere il «debito» possibilmente senza spargimento ulteriore di sangue, e
comunque evitando il dilagare a macchia d’olio del conflitto.
La più classica descrizione del sistema è quella contenuta in una famosa monografia etnografica
dell’inglese E.E.Evans-Pritchard, a proposito della popolazione nilotica dei Nuer (1940 ). Tra di
essi esiste una figura politica specifica, il cosiddetto «capo dalla pelle di leopardo», che non ha un
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potere reale ma svolge il delicato compito di mediare nelle faide, convincendo ad esempio la parte
lesa ad accettare un compenso di tipo economico, o comunque un qualche compromesso che ponga
fine definitivamente e senza strascichi alla disputa. A noi occidentali moderni questa sembra una
strana forma di giustizia. In realtà non si tratta affatto della punizione di un crimine, come noi la
intendiamo, ma di un riequilibrio tra due segmenti sociali, che è stato rotto dal primo atto di
violenza e che dev’essere in qualche modo ripristinato. Se non si ripristina l’equilibrio, il principio
della vendetta potrebbe dilagare fino ad investire l’intera comunità.
Questo ci sembra strano, perché siamo abituati alla gestione delle sanzioni da parte del potere
centrale, e al fatto che un assassinio è un crimine eminentemente pubblico, anche se lede interessi
privati. Ma a molti popoli africani questi concezione della giustizia è estranea: a loro è sembrato
molto strano, al contrario, vedere gli amministratori coloniali imprigionare ed eventualmente
giustiziare un omicida, senza preoccuparsi del compenso da dare al gruppo che ha perso un
membro. Questa è una punizione che non risolve il problema dell’equilibrio; laddove un compenso
o persino una vendetta omicida, che non colpisca però l’autore del primo delitto, è considerata
perfettamente soddisfacente. In alcune società, come i Berberi del Nordafrica, un rigoroso principio
di equivalenza stabiliva che la faida dovesse colpire una persona dello stesso rango sociale di quella
uccisa. Cosicché, se un uomo di un gruppo uccide una donna di un altro gruppo, la vendetta si
appunterà su una donna del gruppo dell’assassino, non sull’uomo colpevole (Beattie 1964: 246. In
questa ricerca di equilibrio conta il danno subito dal soggetto-gruppo, non dall’individuo come
soggetto di diritti; inoltre, non si fa nessuna distinzione tra omicidio volontario e involontario,
premeditato o colposo.
La faida di sangue è solo un esempio. Vi sono molte altre istituzioni di regolazione della violenza
che non la vietano ma si limitano a circoscriverla. Anche la storia occidentale ne conosce: basti
pensare al duello. Fra le istituzioni che più si allontanano dall’esercizio reale della violenza per
proporne una rappresentazione ritualizzata, che può però produrre effetti catartici, si può citare lo
sport. Lo stesso Elias considera lo sport moderno come una sorta di sublimazione degli istinti
aggressivi e conflittuali, che si afferma con il procedere del processo di civilizzazione - e dunque
con l’aumento dell’autocontrollo e delle inibizioni alla diretta manifestazione degli impulsi violenti.
Questo processo di controllo della violenza è sicuramente centrale nella genesi dello sport moderno;
ma riconoscere questo non vuol dire accreditare la tesi che lo sport è semplicemente una valvola di
sfogo per la «belva che è in noi». Le cose sono molto più complesse. Come chiave di comprensione
del tifo calcistico, la tesi della scarica pulsionale è assai semplicistica e banale. Il calcio è un
universo simbolico nei cui termini i tifosi possono esprimere aspetti della loro identità e relazionarsi
agli altri in modi non consentiti nella normale vita quotidiana - modi che implicano e legittimano
anche una certa dose di aggressività e violenza. Ma non c’è motivo di dire che il calcio è
socialmente utile perché scarica violenza e incanala i conflitti in direzioni sostanzialmente innocue:
potremmo altrettanto bene affermare che crea nuovi conflitti e nuove occasioni di violenza (si
vedano in proposito Dal Lago 1990, Roversi 1992 e, per una sintesi del dibattito, Dei 1992).
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Tornando alla tradizione classica degli studi antropologici, l’istituzione di controllo della
conflittualità che più ha attratto il loro interesse è probabilmente la stregoneria. La stregoneria è un
insieme di credenze e pratiche sociali largamente diffuso in molte culture tradizionali di tutto il
mondo, e che come ben sappiamo ha svolto un ruolo di primo piano nella stessa storia della civiltà
occidentale. Possiamo definirla, sul piano delle rappresentazioni, come la credenza nel potere di
alcuni individui di nuocere ad altri per mezzo di poteri magici. Questi poteri, posseduti come dote
naturale o appresi attraverso un apprendistato magico, risultano in attacchi violenti di tipo personale
in grado di produrre fallimenti nella vita economica e sociale, disgrazie, malattie, morte. Sul piano
delle pratiche sociali, la stregoneria consiste in un sistema di accuse: in altre parole, essa si
manifesta socialmente quando qualcuno viene accusato di praticarla e di aver provocato tramite essa
danni particolari a particolari persone. Queste accuse seguono invariabilmente i canali dell’invidia
e della conflittualità sociale, manifestandosi ad esempio nei rapporti di vicinato, in quelli di
concorrenza economica, e così via.
In apparenza, l’insorgere delle accuse di stregoneria provoca liti e conflitti che non avrebbero di
per sé ragione di essere: a uno sguardo superficiale, ci troviamo di fronte a credenze superstiziose
che minacciano arbitrariamente rapporti sociali i quali, senza di esse, si manterrebbero tranquilli e
pacifici. In realtà, l’opinione prevalente tra gli studiosi è che la stregoneria rappresenti proprio un
sistema di risoluzione della conflittualità interna a un gruppo sociale, che ne consente l’espressione
ma permette al tempo stesso di “scaricarla” e neutralizzarne gli effetti disgreganti attraverso
comportamenti socialmente riconosciuti e legittimati. E’ ancora una volta all’opera di EvansPritchard che possiamo rivolgerci in cerca di esempi: il suo studio pionieristico sulla popolazione
africana degli Azande (1937) costituisce la più classica formulazione di questa tesi, oltre che una
insuperata rappresentazione etnografica delle credenze nella stregoneria e delle relative pratiche
divinatorie.
La tesi di Evans-Pritchard è che tali credenze siano al contempo un modo intellettualmente
soddisfacente di spiegare la sfortuna e di dare un senso all’insorgere del male, da un lato, e
dall’altro un modo di esprimere i sentimenti più negativi e distruttivi legati alla vita sociale (i timori
e le ansie, così come l’odio e le tendenze aggressive). Il linguaggio della stregoneria consentirebbe
di dare un ordine e un significato a esperienze oscure e a pulsioni disgreganti, per le quali non vi
sarebbe altrimenti alcun orizzonte di risoluzione. Non sono le rappresentazioni magiche, di per sé, a
creare conflitti: esse vanno per così dire a riempire canali conflittuali già presenti, almeno
potenzialmente, plasmandoli in modo da esser socialmente riconosciuti e, se possibile, risolti e
superati. Le pratiche divinatorie che gli Azande seguono per scoprire la presenza della stregoneria, e
per accusare qualcuno di averla esercitata (volontariamente o anche solo involontariamente),
permettono che il conflitto si manifesti apertamente senza sfociare nella violenza aperta e diretta, e
lasciano sempre aperte modalità di risoluzione contrattata e pacifica.
Su un piano un po’ diverso, si potrebbero citare molte altre istituzioni che hanno, almeno in
apparenza, una funzione catartica o di «valvola di sfogo». Tra di esse:
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- le feste annuali, di cui il caso più noto è forse quello dei Saturnali romani, nelle quali si
sprigiona la carica di aggressività e di furore distruttivo che è stata repressa nel corso di un intero
anno - secondo il principio semel in anno licet insanire. Il Carnevale e il Capodanno moderni
conservano qualcosa di queste feste antiche o tradizionali - con la caduta dei freni inibitori, delle
regole di convenienza sociale, degli stutus socialmente acquisiti, e con i rituali di inversione sociale
e sessuale, etc.
- Il cordoglio in occasione del lutto. In molte culture i rituali funerari implicano manifestazioni di
violenza e furore, fino a giungere al cannibalismo rituale, alla licenziosità sessuale, a manifestazioni
agonistiche (si pensi ai funerali di Patroclo nell’Iliade, o all’istituzione del pianto rituale in molte
culture popolari dell’Europa meridionale; v. De Martino 1958 per uno studio classico di questi
fenomeni);
- i riti di iniziazione, attraverso i quali in molte società arcaiche si media ritualmente l’ingresso di
un giovane nel mondo adulto. Essi implicano spesso una decostruzione della personalità sociale del
giovane, che per così dire deve rinselvatichire prima di diventare uomo a tutti gli effetti: per cui,
durante i riti iniziatici, si incoraggia l’esplosione del furore distruttivo, con comportamenti da
animale da preda, attacchi indiscriminati rivolti contro tutti e così via (per un’analisi recente v.
Bloch 1997).
Questi sono tutti esempi di comportamenti violenti accettati e persino incoraggiati e codificati dalla
società e dalla cultura. Possiamo pensare a tali istituzioni come a recinti protetti in cui la naturale
aggressività degli individui può manifestarsi liberamente, senza mettere in pericolo il tessuto delle
relazioni sociali. O forse, più produttivamente, possiamo pensarle come modi di plasmazione
culturale dell’aggressività, in cui la violenza funziona da materiale significante nell’espressione di
codici, valori, status sociali.
Ora, possiamo chiederci, questi esempi tipici di società tradizionali ci dicono qualcosa sulle
manifestazioni della violenza nella società occidentale contemporanea? Già all’inizio degli anni ’60
Ernesto De Martino, uno dei padri fondatori degli studi antropologici italiani, esplorava
l’accostamento tra fenomeni come i riti di iniziazione o le feste di rovesciamento simbolico e le
pratiche violente eminentemente moderne che cominciavano allora a intravedersi nella subcultura
giovanile - l’azione delle bande di teppisti, le esplosioni di furore di gruppo etc. Egli notava però
come in tutti i fenomeni tradizionali l’esplosione del furore sia seguita, in modo rigidamente
codificato, da un superamento, da quella che chiamava una reintegrazione dell’ordine culturale.
L’apparente infrazione delle regole serviva in definitiva a ripristinarle con maggior forza; laddove
nei fenomeni del teppismo giovanile contemporaneo questo momento di reintegrazione sembra
mancare, e le manifestazioni di violenza sembrano seguire semplicemente la direttrice anti-sociale e
anti-culturale per eccellenza del freudiano istinto di morte.
L'accostamento proposto da De Martino (1962) fra riti di iniziazione, Saturnali e teppismo giovanile
è molto interessante e meriterebbe di esser ripreso, anche a proposito degli innumerevoli episodi
che la cronaca non manca quotidianamente di segnalarci: è un approccio interessante e correttivo
rispetto a certe semplificazioni e letture psicologiche che di questi fatti ci vengono proposte. Si
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pensi a quanto ha circolato lo slogan delle «teste vuote» a proposito dei lanciatori di sassi sulle
autostrade, o degli incidenti in auto dopo la discoteca e così via. Nella prospettiva che ci propone
De Martino quelle teste sono piene, fin troppo piene, per così dire, perché riproducono valori e
schemi comportamentali che sono profondamente radicati nella cultura tradizionale (naturalmente,
una tale osservazione non mira in alcun modo a giustificare quei comportamenti, bensì a
comprenderli sulla base di un codice culturale piuttosto che su un presupposto di imbecillità). Mi
pare semmai dubbio attribuire un carattere totalmente asociale alla violenza delle bande giovanili,
dei frequentatori delle discoteche o dei tifosi del calcio. Forse il problema è che non riusciamo a
capire i nuovi codici attraverso cui la cultura giovanile si esprime, e le particolari modalità di
reintegrazione che in essi operano; non vi è reintegrazione possibile solo in quei casi in cui il furore
distruttivo o autodistruttivo assume forme irreversibili, come nella tossicodipendenza.
4. La violenza come fondazione della società.
Molti studi antropologici mettono dunque l’accento sulle forme di controllo sociale della violenza,
elaborando varianti della teoria politica hobbesiana: è come se gli impulsi aggressivi e violenti
fossero un ingombrante fardello che gli individui si portano dietro, e che è compito delle istituzioni
comunitarie e della cultura condivisa smussare, attenuare e neutralizzare. Come a dire che violenti
sono gli individui, per una sorta di imperfezione costituzionale, ma non le società. Vi sono però
anche altri punti di vista, per certi versi contrapposti, secondo i quali la società e la cultura non sono
così innocenti, e fondano anzi la loro presa sugli individui proprio sulla gestione della violenza.
Vorrei brevemente discutere tre autori, peraltro molto noti, che esemplificano con efficacia questa
prospettiva: Frazer, Freud e Girard. Per tutti e tre questi pensatori la civiltà contemporanea, fondata
sulla rimozione della violenza fisica, è una crosta sottile che nasconde una ben più profonda
costituzione selvaggia: non solo nel senso che gli individui sono in ultima analisi delle belve, che
l’uomo è ancora quello che faceva la posta al mammuth, come dice Leroi-Gourhan, ma nel senso
che le stesse istituzioni civili si fondano su un atto originario di violenza, senza il quale non
sarebbero possibili. E che in fin dei conti, dunque, la violenza è la «verità» della società civilizzata,
che le istituzioni moderne cercano di nascondere ma che riemerge negli interstizi della civiltà.
James G. Frazer è uno dei più famosi antropologi della scuola evoluzionista britannica; studioso
di formazione e di stampo ottocentesco, è tuttavia autore di uno dei libri che ha più influenzato la
cultura del ventesimo secolo e in particolare i movimenti modernisti, Il ramo d’oro. Si tratta di uno
studio monumentale sulle credenze e pratiche magiche e religiose diffuse tra i popoli che allora si
dicevano primitivi o selvaggi, nonché nelle culture classiche e nel folklore rurale europeo. Per
quanto pensato come trattato scientifico, Il ramo d’oro è costruito narrativamente come tentativo di
spiegare una istituzione culturale documentata da alcuni autori classici: la regola di successione
tramite duello del “re del bosco”, custode del tempio di Diana presso il lago di Nemi. Chi sfida e
uccide in duello il re del bosco gli subentra nella carica, finché non sarà a sua volta sfidato e ucciso
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da qualcuno più giovane e più forte di lui. Frazer ritiene che questa cruenta regola di successione sia
volta a garantire il rinnovamento del ruolo di re o sacerdote al momento del declino della forza
fisica della persona che lo ricopre. Ciò lo porta alla scoperta di un tratto culturale caratterizzante, a
suo parere, l’intero mondo antico, le culture «primitive» e tutte le civiltà agricole: il tema mitico di
un dio, rappresentante della vegetazione, che muore e risorge, a simboleggiare la decadenza e la
rinascita del mondo vegetale e dunque delle risorse alimentari. A ciò è connessa la pratica di
uccidere ritualmente rappresentanti umani dello spirito della vegetazione, al fine di promuovere
magicamente la crescita del raccolto, e molte analoghe pratiche che hanno comunque tutte al centro
il sacrificio umano perpetrato per il benessere dell’intera comunità.
Il Ramo d’oro ha una struttura estremamente complessa, che non è qui il caso di tentare di
sintetizzare (mi permetto di rimandare a Dei 1998 per un’analisi più approfondita). Il suo filo
conduttore esplicito sono le credenze magiche e religiose, presentate come superstizioni basate su
errori intellettivi; ma il tema che domina in modo ossessivo il libro è quello del sacrificio umano,
sia che ad esser ucciso sia un re divino al declino della sua gioventù, come in alcune tradizioni
africane; oppure uno straniero che si trova a passare per i campi al momento del raccolto del grano,
come nelle tradizioni del Mediterraneo antico e nel mito greco di Litierse; un capro espiatorio, su
cui sono riversati i peccati accumulati dall’intera comunità; una ragazza addestrata e preparata,
come nei sacrifici aztechi - e così via. Il benessere della comunità si fonda su questi atti di violenza
subiti da singoli individui. E, ciò che più conta in Frazer, la cultura attuale porta il segno di questa
violenza originaria, appena sotto la superficie di innocenza e civiltà.
A leggere Frazer, si è colpiti dal fatto che moltissimi elementi della nostra cultura vengono
risemantizzati, per così dire, e rivelano sinistre e inquietanti profondità. Le feste contadine, i giochi
dei bambini, alcuni innocenti modi di dire, ci appaiono come sopravvivenze di antiche pratiche
sacrificali, nelle quali era in gioco la morte di un uomo per il bene dell’intera società. E per quanto
Frazer sia un pensatore vigorosamente razionalista e un convinto sostenitore del progresso
scientifico, la sua opera è intessuta di metafore che mostrano la debolezza e la fragilità del proceso
di civilizzazione. Quest’ultimo è rappresentato come la superficie del mare in continuo movimento,
sotto la quale si estende l’immota profondità degli abissi; come una striscia sottile di terra sotto la
quale romba un vulcano; o come un pallido cerchio di luce circondato dalle tenebre della notte. Il
vulcano, le tenebre, gli abissi sono le strutture invarianti del pensiero magico-religioso e delle
connesse pratiche di sacrificio cruento: dalla lettura del Ramo d’oro, esse appaiono come una sorta
di essenza originaria e autentica della cultura umana, che nessun progresso e nessuna scienza
riescono in definitiva a scalfire, e che anzi si ripresentano nelle modernità sotto nuove vesti. Sarà
questa idea di una essenza selvaggia che informa la stessa civiltà moderna ad affascinare il pensiero
e la letteratura modernista, che coniugherà spesso in questa chiave l’antropologia frazeriana con la
psicoanalisi.
Freud è naturalmente un autore essenziale per il problema della violenza, prima di tutto in
relazione alla nozione di pulsione di morte, cui gli stessi storici hanno talvolta fatto ricorso di fronte
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allo “scandalo” dei massacri e dei genocidi. Qui interessa per la parte più propriamente
antropologica del suo lavoro, quella di Totem e tabù, dove ci racconta una specie di mito su una
violenza originaria che dei figli archetipici, per così dire, avrebbero commesso su un padre
archetipico, e che avrebbe dato origine alla religione e alla civiltà stessa. Il mito è questo (costruito
a partire da varie fonti antropologiche ma assolutamente fantasioso).
[Nell'orda primitiva] vi è solo un padre prepotente, geloso, che tiene per sé tutte le
femmine e scaccia i figli via via che crescono. Un certo giorno i fratelli scacciati si
riunirono, abbatterono il padre e lo divorarono, ponendo fine così all'orda paterna [...]
Che essi abbiano anche divorato il padre ucciso, è cosa ovvia trattandosi di selvaggi
cannibali. Il progenitore violento era stato senza dubbio il modello invidiato e temuto da
ciascun membro della schiera dei fratelli. A questo punto essi realizzarono, divorandolo,
l'identificazione con il padre, ognuno si appropriò di una parte della sua forza. Il pasto
totemico, forse la prima festa dell'umanità, sarebbe la ripetizione e la commemorazione
di questa memoranda azione criminosa, che segnò l'inizio di tante cose: le
organizzazioni sociali, le restrizioni morali e la religione (Freud 1913: 193-4).
Dopo il parricidio, nessuno dei fratelli può prendere il posto del padre, perché ciascuno lo
impedisce all'altro. La loro vita psichica, caratterizzata dall'ambivalenza (come nel caso dei
bambini e dei nevrotici, non manca di ricordarci Freud), è invasa dal rimorso e dal senso di colpa.
Quelli che erano stati i divieti imposti dal padre, i fratelli li interiorizzano sotto forma di coscienza
morale, fondando nientemeno che la società, l'etica e la religione:
Morto, il padre divenne più forte di quanto fosse stato da vivo [...] Ciò che prima egli
aveva impedito con la sua esistenza, i figli se lo proibirono ora spontaneamente nella
situazione psichica dell'«obbedienza retrospettiva», che conosciamo così bene attraverso
la psicoanalisi. Revocarono il loro atto dichiarando proibita l'uccisione del sostituto
paterno, il totem, e rinunciarono ai suoi frutti, interdicendosi le donne che erano
diventate disponibili. In questo modo, prendendo le mosse dalla coscienza di colpa del
figlio, crearono i due tabù fondamentali del totemismo, che proprio perciò dovevano
coincidere con i due desideri rimossi del complesso edipico (Ibid.: 195; corsivo
nell'originale).
Questa la storia raccontata da Freud. La «coscienza di colpa del figlio», come la definisce, è per
lui il fondamento psicologico di tutte le religioni successive; così come la figura del padre, per il
tramite del totem, è la base di ogni concezione di Dio.
Non ci interessa tanto, in questo mito, la spiegazione di istituti culturali quali il totemismo e
l’esogamia, quanto il fatto che Freud faccia derivare dalla violenza bruta del parricidio primordiale
le principali funzioni sociali: la struttura sociale, il cui nucleo risiede nelle regole esogamiche; la
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religione, di cui il totemismo rappresenta appunto il nucleo; e l’etica, l’interiorizzazione dei divieti,
che in definitiva è la condizione di quello che Elias chiama il processo di civilizzazione.
Di più : per Freud, la storia del parricidio primordiale, che egli presenta come punto nodale
dell’evoluzione culturale, si ripresenta in qualche modo sul piano ontogenetico, nell’evoluzione
psicologica di ciascun individuo (perlomeno degli individui maschi, perché com’è noto la
psicologia freudiana è modellata su una soggettività di genere maschile, anche se molte delle sue
pazienti erano donne). Il tema del parricidio primordiale è cioè il nucleo del complesso edipico,
anche se si tratta naturalmente di un parricidio immaginato e rappresentato. Cosicché, in definitiva,
il desiderio e la violenza originaria stanno alla base della costituzione psicologica di ciascuno di noi
- sono la «verità» che si nasconde dietro gli istituti civili della religione, della famiglia, della
morale.
Il francese René Girard è autore molto più recente di Frazer e Freud. Ha raggiunto una certa
celebrità negli anni ’70, con un libro dal titolo La violenza e il sacro. Per quanto ci riguarda, è
autore importante perché è di fatto l’unico antropologo (anche se sulla sua definizione come
antropologo si potrebbe discutere) che tematizza in modo diretto la violenza, ponendola al centro di
un affresco teorico affascinante seppur altamente speculativo. Girard rilegge Frazer e Freud, è
colpito dalle loro storie che pongono la morte violenta all’origine della società; tuttavia, rifiuta le
rispettive teorie che legano la violenza originaria alla magia, per Frazer, e all’ambivalenza della
situazione edipica per Freud. Dal suo punto di vista, è la pratica del sacrificio l’atto cruento su cui si
fonda la società civile. Il sacrificio, atto violento, è per lui tuttavia l’unico argine che la società
riesce a porre al dilagare incontrollato di una violenza disgregante e distruttrice.
Secondo Girard, il rischio radicale che ogni società umana si trova a dover fronteggiare, fin dalle
origini, è quello della disgregazione sotto la spinta dell’aggressività reciproca degli individui, che si
espanderebbe come un contagio sulla base di quel principio basilare che è la vendetta. La faida di
sangue, discussa prima, è il punto di partenza della stessa riflessione di Girard (anche se la sua
interpretazione di questo istituto non è probabilmente molto corretta sul piano etnologico): la faida
di sangue allude ad una catena di vendette (secondo il principio per cui un atto di violenza chiede
una risposta riequilibratrice) che giungerebbe a investire da ultimo l’intero corpo sociale. A questo
rischio Girard dà il nome di violenza essenziale :
una società primitiva, una società che non possiede alcun sistema giudiziario, è
esposta [...] alla escalation della vendetta, all’annullamento puro e semplice cui d’ora in
poi daremo il nome di violenza essenziale: si vede perciò costretta ad adottare nei
confronti di questa violenza certi atteggiamenti per noi incomprensibili. Se non
riusciamo a capire è perché noi non sappiamo assolutamente nulla della violenza
essenziale, nemmeno che esista, e perché gli stessi popoli primitivi conoscono tale
violenza solo in forma quasi del tutto disumanizzata, ossia sotto le parvenze
parzialmente ingannevoli del sacro (Girard 1972: 51).
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La risposta della cultura alla propagazione indefinita della violenza consiste nel compiere un atto
di violenza che non crei squilibri nel corpo sociale e che non richieda dunque ulteriori passi di
vendetta e rappresaglia. E questo atto è il sacrificio, compiuto in sostanza dall’intera comunità, in
accordo, su un unico individuo che svolge la funzione di capro espiatorio. Il sacrificio è dunque un
atto di unanimità violenta, che placa per così dire le esigenze aggressive purificando la società (e
purificare significa eliminare la catena perversa della violenza).
Questa è una sintesi molto schematica. Girard dà corpo alla sua tesi attraverso un percorso
all’interno della mitologia e in particolare della tragedia greca, nella quale legge l’espressione del
timore della «crisi sacrificale», come la chiama. Egli sostiene che senza il presupposto della
violenza essenziale noi non riusciamo a capire nulla della cultura antica, che si aggrega tutta attorno
al superamento di questo rischio; non capiamo nulla del sacro e della religione, che sono per così
dire il precipitato ideologico dell’unanimità violenta (e che, come per Frazer e Freud, si fondano
dunque su un atto di violenza originaria); e non capiamo nulla della tragedia greca, che sta poi
all’origine della stessa letteratura moderna, così come non capiamo una parte importante dell’etica
delle società moderne.
D’altra parte, dice Girard, se non ci rendiamo conto di ciò è perché la cultura tende a dissimulare
queste sue operazioni, e a nascondere allo sguardo proprio quel nucleo di violenza essenziale che è
suo compito neutralizzare. Per comprendere questo nesso civiltà-violenza occorre calarsi in qualche
modo nella costituzione esistenziale dell’uomo arcaico, e seguire le tracce della crisi sacrificale
dentro i documenti classici, etnologici e folklorici. Il che apre un programma di studio e di
interpretazione praticamente illimitato.
Tutti questi autori considerano la violenza non semplicemente come un residuo che sarebbe
desiderabile eliminare, ma come una forza costitutiva che è incastonata nelle fondamenta stesse
della civiltà. La loro idea è che, quanto più dissimuliamo o tentiamo di ignorare questo ingombrante
fardello, tanto più difficilmente possiamo liberarcene. Un superamento reale della violenza deve
passare, a loro avviso, attraverso la consapevolezza di questo nesso originario. Cosicché la società
non avrebbe bisogno di buoni propositi, enunciazioni di principi morali, etc., che nascondono
sempre più il nucleo terribile della violenza invece che risolverlo; avrebbe semmai bisogno di una
sorta di psicoterapia, che porti pienamente alla coscienza quel groviglio inestricabile di violenza,
desiderio, magia, e solo così lo risolva pienamente. Per tutti e tre, evidentemente, le scienze umane
possono svolgere una funzione importante in questa direzione.
5. Osservazioni conclusive
Sarebbe difficile a questo punto stringere il ragionamento ed arrivare ad una sintesi delle posizioni
teoriche esaminate. Come ho detto all’inizio, sono scettico sulla possibilità e sull’opportunità di
interrogare l’antropologia in cerca di una teoria generale della violenza, che possa essere applicata
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alle singole manifestazioni storiche di essa - per quanto ritenga ineludibile, vale la pena ripeterlo, il
problema dell’intreccio tra dimensioni storiche e antropologiche, o se si vuole tra logica dell’evento
e logica dei modelli culturali, che la comprensione del nostro tempo così spesso ci pone. Non si può
pensare questo intreccio come una semplice questione di divisione del lavoro: cosicchè l’approccio
universalista dell’antropologo inizierebbe laddove si ferma l’approccio individuante dello storico, e
viceversa. Le due discipline (nonché le altre, come psicoanalisi, sociologia, etologia) devono
interagire a tutti i livelli, senza il timore né di sporcarsi le mani con la fattualità empirica né di
misurarsi con probemi filosofici, astrazioni teoretiche, suggestioni interpretative.
Nel comune sforzo di comprensione, ogni disciplina porterà naturalmente il patrimonio di idee,
concetti, strumenti e metodi che le viene dalla propria tradizione intellettuale. Concludo, dunque,
cercando di enucleare alcune delle peculiarità (beninteso, non esclusive) dell’approccio
antropologico.
a) In primo luogo, l’interpretazione antropologica passa attraverso la soggettività degli attori
sociali. Per così dire, l’antropologia è una interpretazione di interpretazioni - si esercita cioè sulle
modalità in cui individui o gruppi umani costruiscono un proprio universo morale, danno senso al
mondo e alla storia. Per esser ancora più precisi, si esercita sulle pratiche sociali attraverso cui
questo “senso” viene negoziato, contrattato, sostenuto, modificato - con motivazioni che sono
sempre, in senso lato, politiche, che hanno cioè a che fare con il potere e la sua gestione. Mi sembra
degno di nota il fatto che gli storici contemporaneisti che più si sono interessati all’antropologia
sono proprio quelli che con maggior forza si sono posti il problema della soggettività degli attori
sociali. Per quanto riguarda il tema dei massacri o dei campi di concentramento e di sterminio, oltre
agli autori italiani già citati in precedenza, si possono ricordare gli studi di Christopher Browning (
1992) e Daniel Goldhagen (1996), che, pur da prospettive assai diverse, si sono posti l’obiettivo di
comprendere il punto di vista soggettivo dei massacratori, finendo entrambi su un terreno di
riflessione squisitamente antropologico.
b) Come conseguenza di quanto appena detto, nello studio di eventi storici l’antropologia ha a
che fare prevalentemente con discorsi, o meglio con racconti - vale a dire, con elaborazioni della
memoria nelle quali l’esperienza vissuta dei protagonisti viene forgiata in forma narrativa. La storia
di vita e la testimonianza narrativa, soprattutto orale, non è per l’antropologia una fonte come tante
altre, utile per ottenere dati che potrebbero esser ottenuti anche in altro modo. E’ invece oggetto di
interesse in sé, in quanto crogiuolo, per così dire, in cui si forgia il senso culturale della storia.
c) L’antropologia è interessata al modo in cui specifiche pratiche contribuiscono alla
determinazione di un ordine culturale. Per quanto riguarda la violenza, importante è capire qual è il
suo significato culturale, quali valori la muovono, quali sono i suoi usi sociali - e non tanto
considerarla come un residuo, ciò che rimane una volta che si sono allentati i vincoli della civiltà e
della cultura e che è emersa la “belva che è in noi”. L’approccio antropologico può servire a
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sviluppare sensibilità verso il linguaggio simbolico della violenza, abituando a leggere ciò che
sembra o si presenta come esplosione incontrollata di furore come, invece, una configurazione
ordinata di comportamenti che quasi sempre risponde a un codice culturalmente appreso; abituando
a chiedersi se atti violenti apparentemente analoghi abbiano lo stesso significato all’interno di
contesti culturali diversi; abituando a riflettere su come il confine stesso tra comportamento violento
e non violento venga costantemente ridisegnato nel corso della storia, in relazione a strategie in
senso lato politiche dei gruppi sociali.
d) La pratica del confronto con la diversità porta talvolta gli antropologi ad accostarsi a certe
epoche storiche come se fossero culture altre. Ciò può risultare fuorviante: ma può anche essere un
correttivo rispetto al presupposto di certa storiografia tradizionale, che pone come soggetto di ogni
evento una astratta individualità razionale piuttosto che soggettività plasmate da contesti di
differenze culturali. Il comportamento degli esecutori di massacri e genocidi può ad esempio
risultare incomprensibile se commisurato ai criteri di un generico agire razionale ( o ai criteri che
appartengono all’attuale cultura dello storico): in questo caso, l’intelligenza storiografica dovrà
usare un metodo antropologico, mirando a ricostruire il contesto socio-culturale “altro” in cui quel
comportamento possa esser ragionevolmente collocato. E’ l’operazione tentata da Goldhagen a
proposito della società tedesca che ha prodotto il nazismo e il progetto della soluzione finale. Lo
stesso evento della Shoah, egli afferma, “ci impone di mettere in discussione il presupposto
dell’affinità tra quella società e la nostra” e di “guardare alla Germania con gli occhi
dell’antropologo che studi un popolo di cui si sa poco” (Goldhagen 1996: 30). Scopriamo così che
si tratta di una società dominata da modelli cognitivi radicalmente diversi da quelli oggi diffusi nel
mondo occidentale, e in particolare da un antisemitismo talmente diffuso da risultare un vero e
proprio assioma indiscusso, una base della più elementare visione del mondo, un “luogo comune
che passava praticamente inosservato” (Ibid.: 34). Per inciso, l’analisi di Goldhagen è un po’ troppo
semplicistica, e fa un uso improprio e banalizzante di concetti antropologici come quello di
“modello cognitivo” (v. Hinton 1998). E’ dubbio che si possa considerare il nazismo come una
cultura radicalmente altra in senso antropologico; e, più in generale, la relativizzazione radicale dei
contesti culturali è operazione sempre rischiosa e da affrontare con estrema cautela. Tuttavia, è
anche un terreno su cui è talvolta necessario spingersi di fronte allo “scandalo” di eventi storici che
sembrano sfidare la stessa nostra idea di umanità.
e) Per restare a Goldhagen, il suo approccio per così dire distanziante al nazismo coglie con
lucidità almeno un aspetto importante del metodo antropologico. Egli si rende conto che per capire
il punto di vista dei “volenterosi carnefici di Hitler”, i tedeschi comuni che sono stati zelanti
esecutori materiali dei massacri, occorre studiare non solo il loro comportamento nel corso della
guerra e dei massacri stessi, ma anche e soprattutto la loro vita quotidiana, le loro routines, gli
aspetti più banali e ordinari della loro esistenza. Goldhagen enuncia con chiarezza questo principio
metodologico, anche se non riesce poi a svolgerlo completamente - cosicché, nell’architettura
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complessiva del suo fortunato e discusso libro, lo studio della vita quotidiana degli esecutori resta in
secondo piano (Goldhagen 1996: 276sgg.). In effetti, è peculiarità dello sguardo antropologico il
concentrarsi sulle pratiche comuni più che su quelle estreme e straordinarie, sulle routines più che
sugli eventi eccezionali. Suo obiettivo è cogliere i livelli più profondi della costituzione culturale
degli individui e dei gruppi, che si manifestano per l’appunto nelle pratiche o nelle idee più banali e
più scontate: anzi, proprio le idee o le azioni così scontate da non esser neppure notate dai loro
attori stessi, sono quelle che più interessano gli antropologi. E’ anche vero, all’inverso, che in certe
circostanze gli eventi estremi possono esser rivelatori di aspetti della costituzione culturale ordinaria
che normalmente non si riesce a cogliere: è l’idea sviluppata ad esempio da alcuni studiosi della vita
nei lager, come il già citato Primo Levi o, più di recente, Tzvetan Todorov (1991), il quale cerca di
ricavare un’etica delle virtù e dei vizi quotidiani dalle esperienze-limite dell’esistenza nei campi di
concentramento nazisti e sovietici. I due approcci sono probabilmente complementari: come ripeto,
è però peculiare dell’antropologia la tendenza a discostarsi dal fatto esemplare (su cui di solito si
concentar invece lo storico), per immergersi nei dettagli apparentemente opachi e insignificanti
della quotidianità.
* (in AA.VV., Alle radici delle violenza. Per spiegare l’inumanità dell’uomo, a cura del CIDI della
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2. Perché si uccide in guerra?
Cosa può dire agli storici l’antropologia *
Fabio Dei
1. L‘ambigua razionalità della guerra
Gli storici sono giustamente scettici verso ogni approccio troppo generalizzante al problema della
comprensione - o della spiegazione, se preferiamo - della guerra. Di solito, essi ci mettono in
guardia contro i tentativi di ricondurre la guerra a più ampie ma vaghe categorie antropologiche,
come violenza o aggressività. Anzi, non amano affatto parlare di guerra in generale: preferiscono il
plurale, e tendono a mettere a fuoco casi particolari o almeno tipologie diverse di guerre, da
comprendere in relazione a specifici contesti storico-sociali. Ci chiamano a considerare la diversità,
piuttosto che presunte essenze universali o tratti invarianti. Non “perché la guerra”, occorre
domandarsi, come nel celebre carteggio Einstein-Freud degli anni Trenta, ma perché quella
particolare guerra, in quel luogo e in quell'epoca, condotta da quei particolari attori sociali che le
attribuiscono quei particolari significati, e così via. In questo senso, gli storici stanno
tendenzialmente dalla parte della celebre concezione del Vom Kriege di Clausewitz: assumendo la
fondamentale razionalità politica della guerra, ritengono che spiegarla significhi ricostruire le
condizioni in senso lato politiche che producono ogni singolo conflitto.
Tuttavia, lo stesso Clausewitz riconosceva la presenza, nella guerra, di un'altra e assai più oscura
dimensione, che definiva in termini di “attrito”. La guerra è una macchina programmata e guidata
dalle limpide ragioni degli Stati: ma è una macchina pesante che, una volta avviata, tende
costantemente a sfuggire al controllo, a muoversi autonomamente secondo una propria logica.
Forse, sarebbe meglio dire, tende all'assenza di una vera e propria logica, giacché il suo procedere
sembra dominato da elementi di imprevedibilità, irregolarità, disordine. Come ha notato Daniel Pick
nella sua importante rassegna sul pensiero della guerra tra Ottocento e Novecento (1993: 53), per
Clausewitz la guerra ha qualcosa in comune con l'ambigua creatura del dottor Frankenstein: in essa
si manifesta una forza distruttiva, capricciosa e in ultima istanza anarchica, che sovverte le proprie
stesse originarie finalità e rischia di volgersi contro la volontà razionale che l'ha originata. Vi
sarebbe dunque nella guerra una fondamentale ambivalenza: e l'arte militare consiste proprio, per
Clausewitz, nella capacità di controllare gli elementi di attrito, soggiogando il “mostro” alle positive
ragioni che lo hanno creato.
D'altra parte, questa caratterizzazione ambivalente non è tipica soltanto dell'opera di Clausewitz:
come ha mostrato Pick, essa è presente in modo costante e quasi ossessivo in gran parte degli
intellettuali che negli ultimi due secoli hanno teorizzato sulla guerra, sul versante sia bellicista che
pacifista. A fronte della razionalità strumentale che la muove, la guerra lascia emergere e scatena
elementi oscuri e irrazionali, attingendo a uno strato molto profondo e molto arcaico dell'animo
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umano. Vi è in essa un “primato di forze ignote e inconoscibili, [...] nettamente al di là del regno
delle decisioni umane”, per usare le parole di Tolstoj (cit. in Pick 1993: 51). Mentre la razionalità
strumentale ha a che fare con i particolari contesti storici, questa seconda dimensione sembra
piuttosto rimandare alla natura umana, all'ordine del biologico o dell'istintuale, e in ogni caso
dell'universale. In breve, sembra sfuggire alla storia, presentandosi anzi come il limite stesso contro
il quale si scontra la razionalità storica (intesa sia come possibilità di comprensione da parte dello
storico, sia di plasmazione da parte dell'attore sociale, sia esso statista, condottiero o che altro).
Sarebbe però un errore considerare quest' “altra” dimensione della guerra come una mera
invenzione del pensiero speculativo, o di inclinazioni romantiche ed estetizzanti, cioè di
un'intelligenza radicalmente non-storica delle vicende umane. Ad imbattersi in essa, anzi, sono
spesso gli storici migliori, quelli che più profondamente si immergono nei contesti locali, nella
concretezza delle situazioni belliche, nelle pratiche umane di cui la guerra è fatta. Essi si trovano
spesso di fronte comportamenti individuali e collettivi non interamente riconducibili né alla
razionalità politica né a quella strettamente militare e strategica della guerra, per quanto terribile
essa possa rivelarsi.
Le manifestazioni della violenza fisica hanno tipicamente a che fare con tutto ciò. E' vero che la
violenza fa parte dell'essenza stessa della guerra, e viene consapevolmente mobilitata per le finalità
razionali che muovono i soggetti belligeranti. E tuttavia, essa sembra tenacemente resistere a una
integrale spiegazione di tipo contestuale, almeno per due motivi. Da un lato, nelle pratiche concrete
di guerra troviamo spesso un “di più” di violenza, in senso sia quantitativo sia qualitativo, non
richiesto e non giustificato da necessità politiche o strategiche di alcun tipo. Dall'altro lato, le
modalità di manifestazione della violenza in contesti storici anche radicalmente diversi presentano
analogie tanto sinistre quanto significative. Sembra quasi possibile costruire una fenomenologia
universale o meta-storica di certi atti di guerra, come il combattimento, la fuga e la caccia, il
massacro - l'operazione tentata ad esempio nel Saggio sulla violenza di W. Sofski (1996), con esiti
discutibili ma senza dubbio impressionanti.
2. “Un fondo limaccioso”
Nello studiare specifiche pratiche di violenza ci troviamo cioè di fronte a elementi che sfuggono a
una spiegazione contestuale e che propongono al contempo palesi rimandi intercontestuali. Alcuni
esempi assai significativi di messa a fuoco di questo problema ci vengono dalla più recente
storiografia italiana, che ha affrontato il tema della violenza negli anni della Seconda Guerra
Mondiale in modo nuovo e attraverso un approccio che potremmo chiamare etnografico. Vorrei
riferirmi brevemente a un paio di casi. A proposito degli eccidi di civili compiuti in Toscana dalla
Wermacht in ritirata, nell'estate del 1944, alcuni studiosi hanno cercato di rappresentare (fra l'altro,
attraverso l'uso cruciale delle fonti orali) la dimensione esperienziale e soggettiva del massacro, dal
punto di vista dei sopravvissuti come da quello degli esecutori. Ne sono risultati resoconti di grande
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impatto anche emotivo, che ci pongono di fronte all'orrore del massacro nella sua concretezza,
attraverso i frammenti visivi, olfattivi e acustici della memoria dei superstiti. Da tali resoconti la
ferocia e la crudeltà degli uccisori non può non apparire spropositata, eccessiva, sia pure a fronte di
chiare motivazioni strategiche dell'esercito tedesco. Ma è anche una ferocia che in qualche modo
suona sinistramente familiare: è come se i soldati tedeschi seguissero un copione fin troppo noto,
non solo perché già sperimentato nei territori orientali, come nel caso della famigerata divisione
Hermann Goering, ma perché messo in scena più e più volte nei secoli. I resoconti delle stragi
naziste che emergono dai lavori di Paggi (1996, 1997), Pezzino (1997), Contini (1997) e altri si
discostano solo per dettagli dalla descrizione per così dire ideal-tipica del massacro tentata da
Sofsky (1996: 149sgg.), che pure si basa su fonti prevalentemente moderne. Per dirla con
quest'ultimo autore, “cambiano le vittime e i carnefici, cambiano le armi e il teatro degli eventi.
Nondimeno la natura del massacro rimane immutata” (Ibid.: 152). Il motivo, a suo parere, è che in
esso la violenza “gode di libertà assoluta”, agisce secondo una propria logica indipendentemente
dalle finalità e dalle ragioni che la innescano:
L'uniformità dei massacri non dipende dall'identità degli scopi, ma dalla dinamica
universale della violenza assoluta [...] E' la violenza stessa che detta il corso degli
eventi. L'eccesso dell'azione collettiva si svincola dalle intenzioni politiche o sociali
(Ibid.: 153)
La “dinamica universale della violenza assoluta” è un concetto discutibile e difficile da accettare per
gli storici (e non solo per loro). Anch'essi, tuttavia, non possono fare a meno di confrontarsi con il
problema che pone Sofski, ammettendo l'insufficienza di spiegazioni meramente funzionaliste dei
massacri. Claudio Pavone, discutendo l'eccidio di Civitella val di Chiana (Arezzo), parla di
una linea di sotterranea tendenza alla violenza che sussiste anche nelle società che noi,
con eccessivo ottimismo, avevamo considerato ormai irreversibilmente civilizzate.
Questo limaccioso fondo, che può portare l'umanità a compiere eccessi ed orrori come
quelli operati dai tedeschi, era stato occultato dal monopolio della violenza legale che lo
Stato moderno si è attribuito (Pavone 1996: 18-9).
Questo monopolio si spezza in situazioni come quelle della guerra civile o guerra totale, che
sospendono le condizioni del processo di civilizzazione e lasciano “emergere quel fondo torbido e
violento” (Ibid.). L'uso ripetuto degli aggettivi “torbido” e “limaccioso” da parte di Pavone, che è
storico limpidamente razionalista, è significativo. Beninteso, il sostrato di cui egli parla non è una
“natura umana” che si sostituirebbe a una cultura momentaneamente sospesa. Pavone insiste anzi
sulle specifiche condizioni culturali che producono il “ritorno” del massacro, in particolare sulla
consapevole promozione dei valori della violenza da parte del nazismo. Anche nel suo celebre libro
«sulla Resistenza egli aveva posto il problema di quel “«di più» di violenza, quel di più del quale i
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reduci di tutte le guerre preferiscono non parlare”, e che riguarda il campo fascista come quello
resistenziale (Pavone 1991: 427). Non si tratta di un semplice problema di crudeltà e sadismo, egli
afferma: sul piano della comprensione storiografica occorre invece cogliere “le strutture culturali di
fondo che sostengono le due parti in lotta, così da chiedersi perché le une siano più adatte delle altre
a selezionare i crudeli e i sadici e a far emergere con tutta evidenza al livello dei comportamenti
politicamente rilevanti le più oscure pulsioni dell'animo umano” (Ibid.). Resta tuttavia il problema
di come considerare un tale “sostrato torbido” che pesca tra le più “oscure pulsioni dell'animo” e
che sfugge al contesto storico collocandosi apparentemente in una dimensione, se non naturale,
almeno di lunghissima durata: si tratta semplicemente una nozione-limite, attorno alla quale l'analisi
storiografica può solo girare, disegnandone per così dire i contorni in negativo, oppure è qualcosa
che può esser “chiarita” dalla storiografia o da altre discipline?
Più netta in questo senso è la posizione di Leonardo Paggi, che si sofferma più volte sulla natura
per molti aspetti “rituale” e “sacrificale” del massacro nazista e parla, anch'egli, di “riemergenza di
sostrati profondi” (1996: 69). Paggi si trova nella eccezionale situazione di esercitare l'intelligenza
storica su un evento - l'eccidio di Civitella, appunto - di cui, bimbo di tre anni, è stato diretto
testimone. Ciò lo porta ad approfondire con forza particolare il problema dell'esperienza soggettiva
del massacro, e della sua rielaborazione nella memoria. Per quanto non tralasci alcun tentativo di
interpretazione storica e contestuale, egli è attratto dalle profonde strutture antropologiche e
psicologiche che il massacro va a toccare, sia dal punto di vista degli assassini che da quello delle
vittime, e tenta di darne conto in termini di nozioni come “rito sacrificale” e “pulsione di morte”. Il
massacro nazista, scrive, “si configura anche come risultato di una «eredità arcaica», come collasso
dei sistemi di autocoercizione, come emergenza di comportamenti e significati quasi in via di
principio sbrigativamente estromessi dal nostro presente”. In altre parole, nel bel mezzo di una
guerra tipicamente moderna, condotta sulla base di un impianto di razionalità strumentale e tecnica
senza precedenti, si apre un abisso che porta dritti allo stato arcaico - si sarebbe tentati di dire
selvaggio - dell'umanità. E' qui che per Paggi diviene possibile, anzi necessario, innestare la
comprensione antropologica o psicoanalitica sul tronco di quella storiografica:
Si apre qui il terreno di una antropologia del massacro, ancora tutta da fare, che
difficilmente potrà evitare di misurarsi - credo - con il grande tema dei riti sacrificali di
morte, che segnano profondamente, in senso sincronico e diacronico, tutta la storia della
cultura umana (Paggi 1996: 8).
Un altro autore che, sia pure con toni diversi, ha affrontato direttamente questo tipo di problema è
Gabriele Ranzato. Un suo recente volume studia un caso di linciaggio nella Roma appena liberata
del 1944: Donato Carretta, ex direttore delle carceri di Regina Coeli, collaborazionista minore
tardivamente passato dalla parte del movimento di liberazione, viene ucciso da una folla inferocita
radunata per assistere a un processo: il suo cadavere viene scempiato e infine appeso a testa in giù
davanti all’ingresso del carcere. Ranzato, dopo una acutissima analisi dell’evento, dei suoi
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protagonisti de delle loro motivazioni, riconosce infine di trovarsi di fronte a un fenomeno non
comprensibile - almeno, non pienamente - in termini di agire razionale e di categorie meramente
politiche; uno di quei “fenomeni che scompaginano le carte della pretesa razionalità della politica”
(Ranzato 1997: 203). L’autore mette a fuoco in particolare due elementi. Da un lato, il linciaggio si
configura come un'eplosione di violenza di massa apparentemente irrazionale, sia per i modi
estremi della sua manifestazione che per l'oggetto cui si rivolge: per quanti pretesti si possano
trovare per questa violenza, essa non ha alcuna causa o motivazione razionale in senso stretto.
Dall'altro lato, Ranzato sottolinea la qualità particolare del linciaggio: non solo la spietata crudeltà
degli esecutori, ma soprattutto quella che potremmo chiamare la sintassi simbolica della violenza
messa in atto, il suo articolarsi secondo modalità formali che richiamano riti di rovesciamento del
potere tipici delle società di antico regime. Cosa spinge la folla ad agire? Chi o che cosa guida la
folla ad un comportamento ritualizzato che, come aveva scritto un commentatore dell'epoca, non si
vedeva a Roma dai tempi di Cola di Rienzo, e che con il linciaggio di Cola presenta sconcertanti
analogie? (Ibid.: 127-8).
Ancora una volta, si aprono problemi la cui soluzione sembra spingere risolutamente al di fuori
del particolare contesto storico. Ranzato offre una risposta complessa e articolata, che non è qui
possibile discutere nei dettagli. Ma anch'egli, come Pavone e Paggi, mette a fuoco il fenomeno del
riemergere di un sostrato culturale arcaico, che sembrava definitivamente soffocato dal processo di
civilizzazione; e anch'egli ritiene necessarie, per la soluzione di questo enigma, ampie aperture
interdisciplinari, in grado di individuare elementi che restano invisibili all'indagine empirica dello
storico. Se il linciaggio di Carretta ci mostra comportamenti sociali guidati da regole di cui gli attori
stessi sono (individualmente e collettivamente) inconsapevoli, per comprenderlo abbiamo bisogno
di far riferimento a qualcosa come l'inconscio o le strutture antropologiche:
E' evidente [...] che attraverso la falla lasciata aperta dall'ammissione di una presenza
dell'inconsapevole nella spiegazione politica dell'evento di cui ci siamo occupati,
passano altri saperi: la psicologia, l'antropologia e, in sede di indagine storiografica, una
storiografia più aperta al contributo di queste discipline anche per quel che riguarda lo
studio degli avvenimenti dell'età contemporanea (Ibid. 203).
3. Fra Hobbes e Rousseau
Antropologia, psicoanalisi, scienze umane sono dunque chiamate in causa da storici dell'età
contemporanea, per la comprensione di eventi di guerra e di violenza che presentano un enigmatico
“di più”, quantitativo e qualitativo, rispetto a quanto la razionalità contestuale consentirebbe di
aspettarsi. Questo appello a un approccio interdisciplinare è assai coraggioso e innovativo. Per
quanto riguarda l'antropologia culturale, viene così superata la tradizionale tendenza a riservarle lo
studio delle società senza Stato - il che equivale talvolta a dire “naturali” o “senza storia” e dunque
soggette a un determinismo generalizzante e nomotetico, laddove le società statuali o moderne
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sarebbero di esclusiva competenza di un approccio individuante o idiografico, dunque della
storiografia. Questa divisione del lavoro, peraltro, è stata spesso ben accetta agli stessi antropologi,
perché coerente con la dominante impostazione epistemologica della loro disciplina. Il che
giustifica ampiamente le cautele espresse da Ranzato, secondo cui
le maggiori difficoltà all'integrazione, alla compenetrata collaborazione di psicanalisi,
politica, antropologia e storia, dipendono in gran parte dalla loro scarsa flessibilità, o
meglio dalla rigidità e pretesa onnicomprensività di molte teorie che si sviluppano nel
loro ambito. Integrazione presuppone infatti rinuncia alle ambizioni totalizzanti, a quelle
chiavi interpretative che appaiono tanto più esplicative di tutto, quanto più si
allontanano dai fatti (Ibid.: 204).
Ranzato si riferisce alla teoria del capro espiatorio di René Girard come esempio di approccio sì
suggestivo e stimolante, ma tanto astratto e speculativo da non riuscire plausibilmente a calarsi nella
concretezza di un preciso caso storiografico. La sua osservazione, tuttavia, si applica in effetti a un
ampio ventaglio di approcci socio-antropologici. Il che ci riporta a quanto osservato in precedenza,
circa la tendenza a spiegare la dimensione non immediatamente politico-razionale della guerra in
termini di ipotesi universalistiche, di appelli a caratteristiche generali della natura umana. Una volta
esaurite le spiegazioni razionali, non resta che riconoscere che “l'uomo è una belva”, o, per usare la
più solenne e famosa formulazione di Einstein, che “l'uomo alberga in sé il bisogno di odiare e di
distruggere” (Einstein-Freud 1933: 291). E non resta che rivolgersi agli specialisti di una scienza
dell'uomo che getti luce sulle più recondite profondità della sua vita psichica e della sua
costituzione antropologica, assunte come invarianti che fanno da sfondo alla storia più che esserne
prodotte. E' appunto quello che fa Einstein quando decide di interpellare Freud sul problema
“perché la guerra?”, ritenendo la domanda in ultima analisi “un enigma che può essere risolto solo
da chi è esperto nella conoscenza degli istinti umani” (Ibid.). Freud, da parte sua, accetta il ruolo di
esperto degli istinti nonché dell'evoluzione culturale, e offre in risposta una piccola summa degli
aspetti più speculativi della sua intera opera. Certo che l'uomo alberga in sé una innata aggressività,
e persino una pulsione di morte. Questa non si può abolire: si può soltanto cercare di deviarla o
scaricarla (la celebre teoria “idraulica”), o di interiorizzarla trasformandola così in vincolo morale,
affinché non sfoci nella guerra ma in comportamenti socialmente accettabili.
Il carteggio Einstein-Freud è tipico del clima culturale della prima metà del secolo, e del rapporto
che in esso si instaura tra scienze umane e senso comune. Da un lato, vi è la diffusa convinzione che
antropologia e psicoanalisi possano dare risposte scientifiche e oggettivamente valide a eterni
quesiti morali o religiosi: ad esempio la natura del male, la fondamentale bontà o cattiveria degli
uomini, i legami esistenti tra sessualità e aggressività, e così via. Dall'altro lato le scienze umane,
quando escono dal loro specifico ambito di indagine e si avventurano su questi terreni, quasi sempre
non possono far altro che riproporre e accreditare le buone vecchie storie del senso comune, e in
particolare una qualche variante dei miti di Hobbes e Rousseau sull'originaria natura morale degli
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esseri umani. La già citata rassegna di Pick (1993) mostra in modo assai convincente la continuità,
tra Ottocento e Novecento, delle teorie scientifiche su guerra e aggressività con le relative
elaborazioni della letteratura, dell'ideologia e del senso comune.
Dunque, possono le scienze umane rispondere adeguatamente alle richieste che gli storici
pongono loro? Possono davvero dirci qualcosa di interessante su quel “substrato” oscuro, arcaico e
irriducibile al contesto che la guerra sembra invariabilmente riportare alla luce? Non vorrei
soffermarmi qui in una discussione della psicoanalisi della guerra, se non per constatare la sua
palese e persistente difficoltà a passare da penetranti interpretazioni della condotta e della vita
psichica individuale e familiare a teorie sulla cultura e sulla società. Se le speculazioni metapsicologiche di Freud, da Totem e tabù a Perché la guerra, hanno svolto un importante ruolo
culturale e sono ancora oggi interessanti, è in virtù della loro natura mitopoietica e letteraria, non
del valore scientifico o del radicamento nell'indagine empirica. (Lo stesso Freud sembra ammetterlo
quando scrive ad Einstein: “Lei ha forse l'impressione che le nostre teorie siano una specie di
mitologia, neppure lieta in verità. Ma non approda forse ogni scienza naturale a una sorta di
mitologia?”; in Einstein-Freud 1933: 100). E lo stesso si può dire di molti suoi successori, nella
misura in cui continuano a misurarsi con teorie generali sulla guerra e con il problema della sua
origine o fondazione. Difficile ad esempio trovare un uso all'interno della comprensione
storiografica (o antropologica, se è per questo) per la tesi di Franco Fornari, autore negli anni '60 di
un fortunato libro sulla psicoanalisi della guerra, secondo il quale essa rappresenta “una istituzione
sociale volta a curare angosce paranoicali e depressive esistenti [...] in ogni uomo” (1966: 14).
Ma che dire dell'antropologia culturale? Sarebbe ragionevole pensare che il suo sviluppo
novecentesco come scienza empirica, radicata in rigorose metodologie di ricerca, l'abbia portata a
offrire risposte più solide e convincenti rispetto alle antiquate speculazioni. E' difficile dire se sia
davvero così. Si può cominciare con l'osservare come l'antropologia culturale moderna abbia
studiato relativamente poco il fenomeno della guerra, per almeno due motivi. Il primo è l'ovvia
difficoltà ad applicare alla guerra il metodo principe della ricerca etnografica - l'osservazione
partecipante. Il secondo consiste nel fatto che gli antropologi hanno avuto più facilmente accesso a
società “pacificate”, prive di guerra semplicemente perché la loro organizzazione militare e la loro
eventuale bellicosità sono state soffocate dal potere coloniale. Il che spiega la quasi totale assenza
della guerra in molte delle più classiche monografie etnografiche. Nonostante questo, il problema
della guerra (insieme a quello connesso, ma evidentemente non coincidente, della violenza) è stato
al centro di una letteratura specializzata, non particolarmente ampia ma dotata di una certa
compattezza (si veda una vasta bibliografia in Ferguson-Farragher 1988, e rassegne antologiche in
Riches 1986, Haas 1990 e Reyna-Downs 1997). Vediamone, in estrema sintesi, alcuni tratti.
4. L’antropologia della guerra
Si tratta in primo luogo di studi monografici su singole popolazioni: l'esempio più tipico è forse
rappresentato dai lavori di Napoleon Chagnon (1968) sugli amazzonici indios Yanomami, presentati
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come emblema di un popolo guerriero e violento, costantemente impegnato in raid assassini
condotti tra villaggi nemici. Per altro verso, sul versante per così dire rousseauviano, assai noti sono
alcuni studi su popolazioni pacifiche (tipicamente piccole comunità egalitarie e non competitive di
cacciatori e raccoglitori o orticoltori), come quelli di Jean Briggs (1970) sugli eschimesi o di Colin
Turnbull (1961) sui pigmei Mbuti dello Zaire (monografie dai titoli assi tipici come Never in Anger,
The Harmless People etc.; se ne veda una rassegna in Knauft 1987). Un secondo filone di studi
riguarda prevalentemente l'antropologia fisica, e consiste in analisi di reperti paletnologici volte a
determinare la presenza di pratiche di violenza letale intraspecifica o di vera e propria guerra in età
preistorica (si veda Martin-Frayer 1997 per una recente rassegna e valutazione di questo tipo di
indagine).
In terzo luogo, l'antropologia della guerra consiste in studi di tipo comparativo e teorico, volti a
produrre generalizzazioni e a scoprire nessi causali in relazione al fenomeno della guerra tra quelli
che un tempo si dicevano i “primitivi”. Questo interesse è maturato soprattutto in ambito
statunitense, tra autori vicini al neo-evoluzionismo, all'ecologia culturale e, in molti casi, alla
sociobiologia. Le domande cui essi sono interessati riguardano l'origine e le cause della guerra, e
soprattutto la correlazione fra l'intensità e la frequenza delle guerre e determinate condizioni
ecologiche, economiche (popoli cacciatori e agricoltori, nomadi o sedentari) e sociali (sistemi di
discendenza patri- e matrilineari, sistemi di potere, stratificazione sociale e così via; v. Ferguson
1990, 1994, 1997). Tipico di questo approccio è ad esempio il lavoro dei coniugi Ember che,
all'interno del programma Human Relations Area Files, hanno tentato una immane comparazione
tra centinaia di culture etnograficamente registrate, estraendone dati passibili di analisi quantitativa
e di generalizzazioni statisticamente significative (Ember-Ember 1982, 1997). Occorre infine citare
gli studi sulla violenza intraspecifica e sui raid guerreschi tra i primati, che il neo-evoluzionismo e
la sociobiologia considerano assai rilevanti anche in prospettiva etnologica (v. fra gli altri MansonWrangham 1991, Wrangham-Peterson 1996).
Ora, in che misura questi studi rispondono alle domande sopra sollevate? Riescono veramente a
sostituire un sapere oggettivo ed empiricamente fondato alle generiche speculazioni sulla belva
umana o sul buon selvaggio? Mi pare vi sia da dubitarne. Proprio l'impostazione naturalistica
dell'antropologia della guerra, la sua ossessione per la quantificazione e per la scoperta di leggi
generali, la allontanano dalla concretezza e complessità dei contesti empirici. I “dati” sono
costantemente semplificati al fine di renderli misurabili e utilizzabili statisticamente: la realtà
etnografica cui siamo posti di fronte è fatta, come nel caso degli Ember, di frequenze temporali
delle guerre, di incidenza statistica delle morti violente, e così via. Tali quantificazioni assumono
prima di tutto una impossibile oggettività dei fatti etnografici, depurati del tutto della dimensione
del significato e di quella della storia. A meno di non pensare all'etnografia come a una sorta di
entomologia, è chiara la dipendenza dai quadri interpretativi dei dati anche più semplici: perfino
contare il numero di morti violente, o la percentuale di maschi che hanno partecipato all'uccisione
di qualcuno, o delle persone che hanno perso un consanguineo per atti violenti – alcuni degli
indicatori che Chagnon usa per gli Yanomami - non sono operazioni banali e scontate. Quando ci
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caliamo solo un po' più a fondo nel contesto etnografico, possiamo accorgerci quanto questi dati
siano interpretati, e scoprire che un diverso quadro interpretativo potrebbe produrre “dati”
assolutamente divergenti. E’ il caso appunto di Chagnon, le cui simpatie sociobiologiche sono
sfociate in una rappresentazione etnografica non solo non oggettiva, ma fortemente ideologizzata e
per molti assolutamente fuorviante (v. Albert 1989).
In secondo luogo, anche prendendo per buone le procedure di quantificazione, le “scoperte”
raggiunte su questa base sono empiricamente controverse e piuttosto deludenti sul piano teorico. Se
ne possono sintetizzare i risultati con le parole che Brian Ferguson usa in chiusura di un recente
volume su guerra e violenza nella preistoria:
Se c'è chi crede che violenza e guerra non esistessero prima dell'avvento del
colonialismo occidentale, o dello Stato, o dell'agricoltura, questo volume dimostra che
si sbaglia. Ugualmente, se c'è chi crede che tutte le società umane siano state afflitte da
violenza e guerra, e che queste ultime siano state sempre presenti nella storia evolutiva
dell'umanità, questo volume dimostra che si sbaglia (Ferguson 1997: 321)
Si dimostra cioè, se ce ne fosse stato bisogno, che i miti del buon selvaggio e dell’ homo homini
lupus sono, per l'appunto, dei miti, e che la realtà della guerra è troppo varia e multiforme per essere
ingabbiata in semplici categorie. Andar oltre è pericoloso e controverso, sia in termini di
generalizzazioni empiriche che di ipotesi esplicative. Basta scorrere la letteratura per accorgersi
come non vi sia accordo sui punti più fondamentali e, apparentemente, più fattuali. Ad esempio, in
che misura è diffusa la guerra tra le società non gerarchizzate e prive di potere centrale, considerate
le più evolutivamente arretrate? I pareri sono assai discordi. E’ piuttosto noto il punto di vista di
Pierre Clastres, secondo il quale la guerra è una condizione permanente e necessaria dell’esistenza
delle società senza Stato, e solo le condizioni di forzata pacificazione imposte dal colonialismo
impedirebbero agli antropologi di rendersene conto (“Se l’etnologia non parla della guerra è perché
non è possibile parlarne dal momento che le società primitive, quando divengono oggetto di studio,
sono ormai avviate lungo la strada della trasformazione, della distruzione e della morte: come
potrebbero mai dar mostra della propria libera vitalità guerriera?”; Clastres 1997: 30). Questa tesi,
che Clastres assume come autoevidente, è sostanzialmente suffragata dai dati degli Ember, secondo
i quali, “in assenza di poteri esterni che impongano la pacificazione, la guerra è quasi onnipresente
nelle registrazioni etnografiche” (Ember-Ember 1997: 5). Ma tali dati sono decisamente contestati
da altri ricercatori, che sottolineano l’esistenza di numerose società semplici sostanzialmente
pacifiche e prive di un’ideologia guerriera - un pacifismo primario, per così dire, che non v’è
motivo, contra Clastres, di considerare come un simulacro prodotto dall’oppressione imperialista
(v. fra gli altri Ferguson 1997: 330-2, e Knaupf 1987, 1991; quest’ultimo autore sottolinea tuttavia
la correlazione tra assenza di guerre esterne e alta percentuale di violenza letale interna al gruppo).
Ciò che colpisce in queste discussioni, informate da una retorica scientista e da costanti richiami
all’oggettività e alla neutralità dei fatti, è la totale impossibilità di risolverle sul piano empirico. Non
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solo nessun dato particolare potrebbe mai smentire tesi così generali o schemi comparativi di tale
ampiezza; ciò che più importa, ogni dato etnografico impiegato è di per sé controverso, e non è
possibile il controllo diretto delle fonti. La gran massa di fatti integrati nelle tabelle della Human
Relations Area Files, ad esempio, semplicemente non può esser verificata in modo indipendente:
accettare o osteggiare le generalizzazioni che ne sono tratte dipenderà da motivi largamente
culturali e non scientifici in senso stretto. Il che è uno stato di cose normale per l’etnografia: solo
che ne andrebbero riconosciute le conseguenze epistemologiche.
Lo stesso vale per le teorie esplicative elaborate dall’antropologia della guerra. Seguendo un utile
schema di Clastres, possiamo sintetizzarle suddividendole in tre tipi: teorie naturaliste, teorie
economiciste e teorie dello scambio. Le prime sono le teorie che radicano la guerra in una generica
propensione umana all’aggressività e alla violenza, considerate come dati naturali o proprietà
zoologiche che hanno avuto - e che hanno ancora, eventualmente - un ruolo fondamentale
nell’adattamento della specie. E’ la prospettiva sostenuta con forza dall’etologia e, con accenti
diversi, dal neo-evoluzionismo e dalla sociobiologia. Clastres (1997: 33) ne vede la formulazione
più tipica in uno dei capolavori dell’etnologia novecentesca, Il gesto e la parola di Leroi-Gourhan:
un’opera che legge i principali problemi della contemporaneità in termini di divario tra evoluzione
biologica ed evoluzione sociale dell’umanità. “Il comportamento aggressivo – scrive Leroi-Gourhan
– fa parte della realtà umana almeno a partire dagli Australantropi e l’accelerata evoluzione del
sistema sociale non ha cambiato in nulla il lento sviluppo della maturazione filetica” (1964-5: 199200). La guerra moderna sarebbe allora lo sbocco inevitabile di istinti e tendenze che si impongono
in quanto adattive, ma per le quali non vi sono più spazi (se non fortemente surrogati: p.es. gli
sport) nella normale vita economica e sociale.
Le teorie economiciste fanno risalire la necessità della guerra per i primitivi alla scarsità di
risorse, e dunque alla concorrenza fra gruppi per accaparrarsi beni necessari alla sopravvivenza.
Anche in questo senso, la guerra avrebbe una funzione adattiva: le teorie ecologiche, o quelle del
materialismo culturale alla Marvin Harris, che stabiliscono strette correlazioni fra la presenzaassenza di guerra e la quantità di proteine disponibili nell’ambiente, confinano strettamente con
quelle naturaliste. Clastres classifica anche l’approccio marxista nella categoria delle teorie
economiche, dandone una valutazione ferocemente critica e, a me pare, semplicistica. Coglie
tuttavia bene un punto che accomuna il marxismo e molte teorie naturalistiche: la necessità di
assumere, come postulato di filosofia della storia, la miseria dell’economia primitiva, senza la quale
essa non potrebbe servire da punto di partenza di un processo di costante sviluppo delle forze
produttive. Assunto, questo, che Clastres critica con forza, richiamandosi alle analisi di Sahlins
sulle società primitive come società dell’abbondanza e del loisir, nelle quali un tempo ridottissimo
della vita individuale viene dedicato alla produzione.
Infine, le teorie che Clastres definisce dello scambio sono quelle di tipo sociologico: in
particolare, egli si riferisce a Lévi-Strauss e ad un singolo passo della sua opera in cui si afferma
che “gli scambi commerciali rappresentano guerre potenziali pacificamente risolte, e le guerre sono
il risultati di transazioni sfortunate” (Clastres 1997: 40). La guerra non avrebbe dunque carattere
30
primario, ma sarebbe
il sottoprodotto o l’indesiderata conseguenza di più generali strutture
sociologiche. All’elenco andrebbe forse aggiunta la teoria che lo stesso Clastres (con un po’ troppa
enfasi) contrappone alle precedenti, basata sull’idea di guerra come meccanismo di protezione
dell’autonomia e dell’interno livellamento delle società senza Stato:
La guerra primitiva è manifestazione di una logica centrifuga, una logica della
separazione che si esprime periodicamente attraverso il conflitto armato. La guerra
serve a mantenere ogni comunità nel proprio stato di indipendenza politica; finché c’è
guerra, c’è autonomia […] La guerra è la più significativa forma di esistenza della
società primitiva nella misura in cui quest’ultima si distribuisce sul territorio in unità
sociopolitiche eguali, libere e indipendenti: se i nemici non esistessero, bisognerebbe
inventarli (Ibid.: 63).
5. Storiografia e antropologia
Se c’è qualcosa che accomuna questi approcci teorici, è la loro tendenza a restare ancorati a
questioni troppo generali o generiche sul perché della guerra o sulla sua origine. Non intendo negare
valore specifico agli studi che ho troppo rapidamente passato in rassegna; colpisce tuttavia la
sproporzione tra le loro esigenze di radicamento empirico e l’enormità – direi quasi metafisica –
delle domande che si pongono. Nell’approccio sociologico di Clastres e nel raffinato evoluzionismo
di Leroi-Gourhan, non meno che nel materialismo culturale o nella sociobiologia, si avverte la
presenza di una Grande Teoria dalle aspirazioni totalizzanti; si avverte ancora qualcosa della pretesa
ottocentesca di rispondere con il linguaggio della scienza alle domande ultime della religione e
dell’etica sul bene, sul male, sul destino dell’umanità. Non possiamo allora stupirci se ci troviamo
di fronte argomenti come il seguente, in difesa di una spiegazione sociobiologica della violenza:
Gli attributi delle persone e di altri animali sono stati plasmati da una storia di
selezione che ha promosso l’adattamento […] Le uniche alternative alle spiegazioni
darwiniane delle proprietà adattive degli organismi sono miti religiosi consapevolmente
inventati. Gli sforzi di “confutare” la sociobiologia sono dunque futili: sarebbe come
cercare di confutare l’antropologia stessa (Daly-Wilson 1987: 483).
Sociobiologia a parte, tutto ciò ci riporta alle cautele espresse da Gabriele Ranzato verso le
ambizioni totalizzanti delle scienze sociali, verso la loro inguaribile tendenza a ricercare “chiavi
interpretative che appaiono tanto più esplicative di tutto, quanto più si allontanano dai fatti”.
Dunque, dobbiamo concludere che l’antropologia culturale non è attrezzata per rispondere alle
richieste e alle aperture di credito da parte degli storici? Che non è pronta a integrarsi con la
storiografia in un progetto di comprensione della guerra e della violenza della nostra epoca?
Naturalmente, il punto è un altro. Gli studi specialistici di antropologia della guerra si sono
31
mantenuti all’interno dei più stretti e tradizionali confini della disciplina, individuando come
proprio oggetto la guerra in società semplici o primitive e trattando queste ultime come entità quasinaturali, immerse nel tempo eminentemente non-storico dell’evoluzione. Hanno dunque
consapevolmente evitato ogni rapporto sia con la contemporaneità sia con la dimensione storica –
oltre che, per scelta di metodo, con la soggettività degli attori sociali e con quella che potremmo
chiamare la dimensione “significativa” della guerra. In quasi tutti gli studi citati i nativi - guerrieri o
pacifisti che siano - non parlano, proprio come le farfalle e gli scimpanzé: sembrano troppo occupati
con i propri attributi adattivi e con le strategie di promozione dei propri geni.
Questo non è un buon punto di partenza: ma l’antropologia culturale è naturalmente anche altro.
C’è semmai da chiedersi perché gli indirizzi di taglio comprendente e interpretativo, in linea di
principio più promettenti della sociobiologia, si siano occupati così poco dei temi della guerra e
della violenza (con rare eccezioni: v. ad esempio Robarchek 1990). In ogni caso, c’è un lavoro tutto
da fare in questa direzione, valutando le possibilità interpretative di un’antropologia che abbia
rinunciato una volta per tutte a inseguire origini, essenze, leggi generali e grandiosi schemi
esplicativi. Occorre anche fare attenzione a un trabocchetto nascosto nella chiamata in causa da
parte degli storici: il rischio di contrapporre troppo nettamente la dimensione “antropologica”, come
essi la chiamano, alla contingenza storica e contestuale, relegando così l’antropologia al ruolo di
disciplina residuale e subalterna, di ultimo rifugio per quelle spiegazioni che non si riescono a
trovare nell’analisi strettamente storiografica. Gli storici, abbiamo visto, hanno talvolta a che fare
con fenomeni di dilatazione dei contorni spazio-temporali degli eventi; sanno quanto insidioso sia
uscire dal contesto, e chiedono l’aiuto di quella guida autorizzata – per quanto malfidata – che è
l’antropologia. Usano il termine “antropologia” come se alludesse a qualcosa che sta al di là della
storia – invitando per così dire gli antropologi a un peccato per loro fin troppo familiare. A questa
provocazione, essi possono rispondere senza perdersi solo a patto di restare saldamente ancorati al
contesto storico, accettandone per intero la specificità e la complessità.
Per tornare al problema iniziale: lo scandalo storiografico di una violenza eccessiva e arcaica, che
contrasta con le stesse finalità razionali della guerra, sembra aprire lo spazio all’intelligenza
antropologica. Ma quest’ultima non può assumere la forma di una risposta generale alla domanda
“perché si uccide in guerra?”. L’antropologia non è specializzata negli oscuri recessi dell’animo
umano, o nella “dinamica universale della violenza assoluta” – non più di quanto lo siano la storia,
la biologia o, se è per questo, il senso comune. Ha semmai qualcosa da dire sul piano delle piccole
domande, dell’analisi dei microcontesti, delle strategie culturali locali. Se può aggiungere qualcosa
al sapere storico, è mettendo in gioco peculiari metodi di indagine e categorie interpretative
maturate all’interno di una tradizione intellettuale che di “scandali” etici ed epistemici, come si
esprimeva Ernesto de Martino, si è nutrita da sempre. Il caso, sopra citato, degli studi sugli eccidi
nazisti di civili è uno dei pochi che abbia finora visto incursioni antropologiche di questo tipo, con il
tentativo di chiarire le modalità eminentemente culturali di costruzione della memoria da parte dei
32
sopravvissuti (si veda in particolare Pasquinelli 1996, nonché gli atti in parte ancora inediti del
convegno In memory. Per una memoria europea dei crimini nazisti, Arezzo, 22-24 giugno 1994).
Vorrei concludere richiamando un altro esempio di scandalo storiografico – anzi, lo scandalo per
eccellenza della storiografia contemporanea. Gli studi sulla Shoah sono centrati attorno al problema
che qui ci interessa: come trattare una dimensione orrifica della guerra, che sembra mantenere un
margine irriducibile di inesplicabilità a fronte di ogni possibile, per quanto ampio, criterio di
razionalità politica. In particolare il recente dibattito sulla soggettività degli esecutori della Shoah,
aperto nell’ultimo decennio dagli storici americani Cristopher Browning e Daniel J. Goldhagen,
coinvolge massicciamente le categorie dell’interpretazione antropologica. Che tipo di esseri umani
erano i massacratori dei campi di sterminio o delle fosse comuni? Come hanno potuto compiere in
modo tanto zelante azioni contrarie a principi etici apparentemente elementari e universali? Com’è
noto, Browning (1992) ritiene che i massacratori siano “uomini comuni”, spinti verso un
comportamento mostruoso dalle circostanze storiche (l’ideologia nazista, il regime totalitario, le
pressioni della situazione bellica) unitamente ai meccanismi universali della conformità di gruppo e
dell’obbedienza all’autorità. Goldhagen (1996) preferisce invece parlare di “tedeschi comuni”, e
ritiene che causa necessaria e sufficiente dello sterminio sia la peculiare ideologia antisemita del
nazismo.
Mi interessa qui solo rilevare come Goldhagen faccia diretto ed esplicito richiamo all’approccio
antropologico nella impostazione stessa del suo argomento. La Shoah ci appare oggi inesplicabile,
egli afferma, perché noi diamo troppo facilmente per scontato il presupposto di una comune
umanità dei tedeschi nel periodo nazista: li supponiamo simili a noi, o almeno al modo in cui noi
amiamo rappresentarci - “figli sobri e razionali dell’Illuminismo, non guidati dal pensiero magico
ma radicati nella realtà oggettiva” (Goldhagen 1996: 29). Dovremmo, al contrario, guardare ai
tedeschi partendo dal presupposto di una loro radicale alterità : guardarli cioè
con l’occhio critico dell’antropologo che sbarca in una terra sconosciuta, aperto
all’incontro con una civiltà radicalmente diversa dalla propria e consapevole di dover
elaborare interpretazioni che non si adattano al suo senso comune, o persino lo
contraddicono, per poter capire la struttura di quella civiltà (Ibid.: 16).
Qui Goldhagen sembra enunciare un programma di ricerca relativista. Intende partire dal “rifiuto
dell’universalità del nostro «senso comune»” (Ibid.), mettere in discussione il presupposto
dell’affinità fra quella società e la nostra. Ciò che rende la cultura tedesca degli anni ’30
radicalmente “altra” è appunto l’antisemitismo, nella sua peculiare variante eliminazionista, che
gode in essa dello status di modello culturale o cognitivo – concetto che Goldhagen mutua
dall’antropologia cognitiva e da autori come D’Andrade, Lakoff e Harré. Un modello cognitivo è
un insieme di assunti che forniscono la struttura della “conversazione” di ogni società (Ibid.: 36).
Tali assunti non sono semplicemente opinioni condivise: sono la base comune a partire dalla quale
le opinioni stesse possono venir espresse. Non sono oggetto di dubbio o di certezza: sono il perno
33
sul quale i giudizi di dubbio o certezza si incardinano. Rappresentano dunque un prisma attraverso
cui guardare il mondo, nel quale ogni membro di una cultura è per così dire imprigionato, di cui non
può neppure rendersi conto se non uscendo dalla propria cultura. Così Goldhagen può affermare
(Ibid.: 41) che gli ebrei non sono soltanto valutati secondo i principi e le norme morali di quella
cultura, ma divengono costitutivi dell’ordine morale stesso e degli elementi cognitivi fondamentali
che delineano il campo del sociale e dell’etico. L’antisemitismo non sarebbe dunque solo un aspetto
di una visione del mondo, ma il cardine stesso attorno al quale quella visione ruota.
Goldhagen ha subìto un gran numero di critiche, fattuali e concettuali, da parte degli storici. Ma
raramente ci si è soffermati a valutare l’impianto antropologico della sua argomentazione. I
problemi antropologici che Goldhagen solleva sono reali e importanti: d’altra parte, è palese è il
fatto che egli se ne serve in modo superficiale e strumentale. Ad esempio, il concetto di modello
culturale che egli usa è decisamente semplicistico e superato dal punto di vista dell’antropologia
cognitiva. Goldhagen assume un eccessivo grado di coerenza interna del modello, e sottovaluta
sistematicamente la sua elasticità e le possibilità di divergenza individuale (Hinton 1998: 12).
Inadeguata e ingenua, ancora, è la sua discussione del relativismo e della incommensurabilità tra
sistemi etico-culturali; altrettanto ingenua la sua concezione delle credenze (antisemite) come unica
causa dell’azione genocida, concezione che ignora la complessità dei rapporti tra ragioni, motivi e
cause del comportamento.
Può darsi che la riflessione maturata dall’antropologia culturale su questi temi possa risultare di
qualche aiuto alla comprensione. Ciò che stupisce è il quasi totale silenzio mantenuto dagli
antropologi, di fronte a un dibattito che pure ha varcato i confini specialistici e ha avuto una certa
risonanza nell’opinione pubblica (l’unica eccezione di cui sono a conoscenza è Hinton 1998);
silenzio che contrasta, per tornare a un punto precedente, con la quasi maniacale attenzione alle
variazioni percentuali negli episodi di morte violenta in società formate da poche centinaia di
individui. Certo, ogni disciplina ha i suoi percorsi privilegiati, e l'antropologia procede attraverso un
“giro lungo” che la porta lontano dal centro, verso i più sperduti “angoli di mondo”. E’ anche vero,
però, che la Shoah ci pone di fronte ai limiti estremi della variabilità culturale e morale degli esseri
umani, di fronte a quella che Primo Levi chiamava “una gigantesca esperienza biologica e sociale”.
C’è da chiedersi se la scienza dell’uomo e della diversità culturale possa ignorare tutto questo.
* in Parolechiave, 20-21 (“Guerra”), 1999, pp. 281-303
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3. Per un’antropologia della Shoah:
cultura, modelli cognitivi e ordinari carnefici.
(Fabio Dei)
1. Un breve articolo apparso nel 1992 su American Anthropologist faceva rilevare il pressoché
totale silenzio dell’antropologia sul tema della Shoah – o dell’Olocausto, come gli americani
continuano impropriamente ad esprimersi. L’autrice, Carroll McC. Lewin, attribuisce tale silenzio a
una certa “riluttanza”, condivisa con altre discipline, ad affrontare gli aspetti più perturbanti della
Shoah: in particolare, quegli “aspetti nascosti” della società moderna e del progresso scientifico e
culturale che essa mette in luce (Lewin 1992: 161). A me pare piuttosto che la latitanza degli
antropologi su questo tema non sia che un aspetto dei loro difficili rapporti con la storia
contemporanea: vi è, da un lato, il timore di invadere ingenuamente campi fortemente specialistici,
dall’altra la tacita accettazione di una divisione del lavoro che riserva all’antropologia lo studio
delle società senza Stato. Così, mentre esistono ad esempio ricche tradizioni di studio su guerra e
violenza tra piccole comunità di cacciatori e raccoglitori o orticoltori, sembra illegittimo un
approccio antropologico alle grandi guerre che hanno mutato i destini dell’umanità nel ventesimo
secolo. Queste ultime sarebbero eventi unici, integralmente riconducibili alla razionalità politicoeconomica degli Stati che ne sono protagonisti; laddove le spiegazioni antropologiche
generalizzanti e strutturali, sarebbero pertinenti in contesti senza Stato – il che equivale a dire,
spesso, senza storia.
Questi pregiudizi epistemologici sembrano oggi superati, con ampie celebrazioni del “ritorno a
casa” dell’antropologia. Ma il silenzio sulla storia contemporanea, e sulla Shoah in particolare,
rimane. L’appello di Lewin all’apertura di un programma di studi in tal senso è rimasto senza
risposta, con rare eccezioni (si vedano negli anni Novanta Lewin 1993, Stein 1993, Conte-Essner
1995, Hauschild 1997, Linke 1997, Hinton 1998). Eppure la pertinenza antropologica del tema è
diretta e palese. Basti pensare all’importanza di un’antropologia storica del nazismo, che
ricostruisca non tanto le premesse strettamente ideologiche, quanto il più ampio contesto culturale
nel quale l’antisemitismo eliminazionista ha preso forma e concretezza; oppure, al tema del lager
come radicale esperimento antropologico, secondo un’idea suggerita fra gli altri da Primo Levi e
ripresa da Francesco Remotti in un suggestivo passo di Noi, primitivi (Remotti 1991: p. 39). E si
pensi ancora al problema della costruzione sociale della violenza e dell’obbedienza all’autorità,
fondamentale per ogni tentativo di comprendere il comportamento degli esecutori della Shoah; e, su
un diverso piano, al dibattito fra concezioni universaliste e relativiste dei diritti umani aperto dalle
reazioni intellettuali al genocidio (Cohen 1989). Infine, di stretta pertinenza antropologica appare il
tema della rappresentazione della Shoah: sia nel senso dell’analisi della strutturazione retorica e
narrativa delle testimonianze dei superstiti, che rappresentano la principale fonte conoscitiva (v. fra
l’altro Lang 1988, Langer 1991, Young 1988, 1993), sia nel senso più generale della possibilità di
38
testualizzare e rappresentare “oggettivamente” un evento che raggiunge i limiti estremi
dell’esperienza umana. Un punto, quest’ultimo, sottolineato dalla stessa Lewin. Questa studiosa fa
notare acutamente come la Shoah ponga in modo particolarmente drammatico quel problema del
rapporto tra testo e realtà che sta alla base delle correnti cosiddette postmoderne dell’antropologia;
assai superficiali appaiono però le sue conclusioni, che vedono nel rifiuto del realismo etnografico e
nella relativa frammentazione descrittiva un cedimento etico, potenziale battistrada di
interpretazioni revisionistiche (Lewin 1992: 163). Ben più complesso è il quadro del dibattito fra
“oggettivisti” e “postmodernisti” che si è aperto in storiografia (v. fra gli altri Friedlander 1992,
Braun 1994; Kellner 1994, Lang 1997, White 1999).
2. Lasciando sullo sfondo questi grandi temi, vorrei qui limitarmi a discutere un caso storiografico
che ha avuto una certa importanza negli anni ’90: il dibattito tra Cristopher Browning e Daniel J.
Goldhagen sulla soggettività degli esecutori della Shoah. In questo dibattito le categorie
dell’interpretazione antropologica si sono trovate massicciamente coinvolte, ad opera degli stessi
storici, senza che tuttavia gli antropologi abbiano voluto o potuto intervenire (la sola e preziosa
eccezione di cui sono a conoscenza è Hinton 1998). Sono consapevole di quanto, negli anni
trascorsi dalla pubblicazione del controverso libro di Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler,
sia stato scritto e detto dagli storici su questo tema (v. fra l’altro i saggi raccolti in Finkelstein-Burn
1998 e in Shandley 1998). Nelle osservazioni che seguono non pretendo di dire nulla di nuovo, ma
semplicemente di rilevare elementi di pertinenza dell’antropologia messi in gioco in una
discussione densissima e di grande interesse; elementi che, per quanto maldestramente maneggiati
da Goldhagen, possono rappresentare un punto di partenza per quella integrazione interdisciplinare
che tanto spesso è auspicata.
Il tema della comprensione della soggettività degli esecutori del genocidio è stato a lungo
trascurato dalla storiografia, che si è adeguata al postulato di senso comune di una generica
“mostruosità” delle SS e dei più fanatici nazisti (o, al contrario, al cliché giustificazionista che li
rappresenta come semplici soldati che obbediscono agli ordini). Ma che tipo di persone erano gli
assassini degli ebrei? Con quali atteggiamenti, stati d’animo, presupposti culturali si ponevano di
fronte al loro “lavoro sporco”? Il loro comportamento può esser compreso nei termini di una teoria
dell’agire razionale? E ancora, è un tale comportamento compatibile con criteri minimi di
“umanità”? Questi problemi emergono in primo piano negli anni Novanta soprattutto a partire da
due libri: Uomini comuni di C. (1992) e il già ricordato I volenterosi carnefici di Hitler di D. J.
Goldhagen (1996). Si tratta di opere molto note, ed è appena il caso di ricordarne i punti salienti.
Il primo libro è la ricostruzione del punto di vista di un battaglione della polizia riservista tedesca
che, fra il ’41 e il ’42, fu lungamente impegnato in Polonia nelle operazioni prima di diretto
sterminio degli ebrei, attraverso rastrellamenti e fucilazioni di massa, e successivamente nella
deportazione verso i campi di sterminio, finendo per causare, direttamente o indirettamente, la
morte di centinaia di migliaia di esseri umani, fra cui donne, anziani, bambini e neonati. Basandosi
sugli atti di un processo svolto negli anni ’60, Browning ricostruisce la personalità, le motivazioni e
39
gli stati d’animo dei componenti il Battaglione 101: tutti uomini ordinari, appunto, padri di
famiglia, non sadici mostri, non militari di professione, non particolarmente fanatici del nazismo e
dell’antisemitismo. Attraverso una brillante lettura delle fonti, l’autore segue le iniziali difficoltà dei
soldati nell’adattarsi al rapporto quotidiano con la fisicità della morte, con l’orrore dei corpi
seviziati e macellati; e poi le loro modalità di assuefazione a questo lavoro sporco, incluse le
giustificazioni e le razionalizzazioni prodotte ex-post.
Browning si chiede che cosa abbia spinto questi uomini normali ad eseguire ordini tanto terribili,
ad abituarsi al ruolo di assassini genocidi, perfino a trovare soddisfazione nel loro lavoro. La sua
risposta è complessa, e fa appello a una serie di elementi, alcuni di ordine storico e altri di tipo
socio-psicologico. Fra i primi, le convenzioni antisemite, la forza della disciplina militare e
l’influenza dello stato di guerra, con la paura e la rabbia per le sorti di una Germania accerchiata; e
ancora, la natura totalitaria della società nazista, che assolutizza i valori della subordinazione
all’autorità costituita. Fra gli elementi psicologici, Browning cita la tendenza alla conformità di
gruppo e soprattutto i meccanismi - in apparenza universalmente umani - dell’obbedienza
all’autorità, con ampi riferimenti ai celebri studi di Stanley Milgram (1975) e di altri psicologi
sociali; fra gli elementi sociologici, riprende e discute le note tesi di Hannah Arendt sulla
deresponsabilizzazione morale degli individui che sarebbe prodotta dalla società moderna. Tutti
elementi che attenuano, annullano o forse semplicemente cambiano quella “coscienza morale” che
ci si aspetterebbe di trovare negli esecutori del massacro in quanto esseri umani.
L’approccio soggettivo di Browining viene ripreso, ma con un totale rovesciamento delle sue tesi,
nel libro di Goldhagen. Questo autore, reinterpretando fra le altre le stesse fonti di Browning,
sostiene che non di uomini comuni si è trattato, bensì di tedeschi comuni - intendendo con ciò che la
Shoah può trovare una spiegazione storica solo nelle peculiari condizioni della cultura tedesca degli
anni ’30 e ’40, e in particolare da quello che egli chiama il modello culturale o cognitivo
dell’antisemitismo eliminazionista. Pressioni sociali, conformità di gruppo e così via sono elementi
tipici di ogni cultura e società e, da soli, non spiegano un evento unico e terribile come la Shoah:
solo il peculiare antisemitismo eliminazionista può esser considerato causa necessaria e sufficiente
dello sterminio.
3. Uomini comuni o comuni tedeschi, dunque ? L’alternativa, apparentemente banale, nasconde in
realtà modalità profondamente diverse di intendere la comprensione storica - e, a me pare, ha
importanti implicazioni antropologiche, che provo a enucleare per poi discuterle singolarmente:
- problema della incommensurabilità tra sistemi etico-culturali;
- problema della pervasività e compattezza dei modelli cognitivi:
- problema dell’individualismo metodologico e del rapporto tra credenza e azione
- problema dell’interpretazione letterale o simbolica degli asserti degli informatori;
- problema delle strategie retoriche della rappresentazione culturale.
In primo luogo, come accennato, Goldhagen fa un diretto ed esplicito richiamo all’approccio
antropologico nella impostazione stessa del suo argomento. La Shoah ci appare oggi inesplicabile,
40
egli afferma, perché noi diamo troppo facilmente per scontato il presupposto di una comune
umanità dei tedeschi nel periodo nazista: li supponiamo simili a noi, o almeno al modo in cui noi
amiamo rappresentarci - “figli sobri e razionali dell’Illuminismo, non guidati dal pensiero magico
ma radicati nella realtà oggettiva” (Goldhagen 1996: 29). Dovremmo, al contrario, guardare ai
tedeschi partendo dal presupposto di una loro radicale alterità : guardarli cioè
con l’occhio critico dell’antropologo che sbarca in una terra sconosciuta, aperto
all’incontro con una civiltà radicalmente diversa dalla propria e consapevole di dover
elaborare interpretazioni che non si adattano al suo senso comune, o persino lo
contraddicono, per poter capire la struttura di quella civiltà (Ibid.: 16).
Qui Goldhagen sembra enunciare un programma di ricerca relativista. Intende partire dal “rifiuto
dell’universalità del nostro «senso comune»” (Ibid.), mettere in discussione il presupposto
dell’affinità fra quella società e la nostra. Se la Shoah è un evento unico nella storia, non dovremmo
esitare a presupporre l’unicità e l’alterità radicale della cultura che lo ha prodotto, egli afferma.
In particolare, Goldhagen ritiene che questa alterità consista nell’insieme di convinzioni razziste,
e nella peculiare variante eliminazionista dell’antisemitismo, diffuse capillarmente nella cultura
tedesca di quell’epoca, nella quale godrebbero dello status di presupposti fondamentali, di certezze
assiomatiche che si collocano al di sopra o al di sotto del dubbio. Noi sottovalutiamo questo punto,
afferma Goldhagen, perché quelle credenze ci appaiono oggi troppo assurde e fantastiche;
ponendosi nella posizione dell’antropologo, egli ci ricorda come quasi tutte le culture storicamente
conosciute abbiamo sostenuto insiemi di credenze oggi, e qui, considerate assurde, ma da loro
considerate “così tautologicamente vere da entrare a far parte del «mondo naturale» della gente,
dell’ordine naturale delle cose” ; credenze e norme tanto indiscusse da risultare intrecciate “nel
tessuto stesso dell’ordine morale della società, non più suscettibili di dubbio di quanto lo sia per noi
una delle nostre idee fondanti, che cioè la «libertà» sia un bene” (Ibid.: 31).
Qui Goldhagen è molto netto: non si possono presupporre universali etici cui ogni cultura
dovrebbe almeno in parte uniformarsi. Questo richiamo al relativismo (che peraltro, vedremo, è
contraddetto da altre sue assunzioni intellettuali), è sostenuto nel libro per mezzo della teoria
antropologica dei modelli cognitivi, ripresa da autori come D’Andrade, Lakoff e Harré.
L’antisemitismo eliminazionista possiede per Goldhagen, per l’appunto, lo status di modello
cognitivo: un insieme di assunti che forniscono la struttura della “conversazione” di ogni società dove per conversazione, con Harré, si intende l’insieme degli scambi verbali e comunicativi della
realtà sociale (Ibid.: 36). Tali assunti non sono semplicemente opinioni condivise: sono la base
comune a partire dalla quale le opinioni stesse possono venir espresse. Non sono oggetto di dubbio
o di certezza: sono il perno sul quale i giudizi di dubbio o certezza si incardinano. Rappresentano
dunque un prisma attraverso cui guardare il mondo, nel quale ogni membro di una cultura è per così
dire imprigionato, di cui non può neppure rendersi conto se non uscendo dalla propria cultura. Così
Goldhagen può affermare (Ibid.: 41) che gli ebrei non sono soltanto valutati secondo i principi e le
41
norme morali di quella cultura, ma divengono costitutivi dell’ordine morale stesso e degli elementi
cognitivi fondamentali che delineano il campo del sociale e dell’etico. L’antisemitismo non sarebbe
dunque solo un aspetto di una visione del mondo, ma il cardine stesso attorno al quale quella
visione ruota.
Come commentare questo punto di vista? E’ evidente come tutto ciò abbia a che fare col difficile
problema antropologico della incommensurabilità delle culture altre. Possiamo notare, in prima
istanza, come Goldhagen faccia uso di una nozione piuttosto semplicistica e grossolana di modello
culturale, che non tiene conto delle più sofisticate teorie antropologiche sul rapporto tra modelli
sociali e comportamenti e motivazioni individuali (Hinton 1998: 12). Intanto, i modelli non sono
concepibili come dottrine o insiemi di asserti, forse neppure come visioni del mondo in senso
classico: sono piuttosto strutture di senso ampie ed elastiche, che vengono apprese, assimilate e
fatte proprie dagli individui in modi molti diversi, e con una possibilità molto ampia di variazioni.
Goldhagen considera l’antisemitismo eliminazionista come modello monoliticamente e
acriticamente accettato da tutti i tedeschi, e solo da loro. In questo modo egli assume un grado
eccessivo di coerenza interna del modello, secondo quello che Claudia Strauss ha chiamato il
“modello fax” della socializzazione (in D’Andrade-Strauss 1992; cit. in Hinton 1998: 12); inoltre,
sottovaluta da un lato le possibilità di divergenza individuale, dall’altro le continuità e i contatti fra
la cultura tedesca e le altre. In definitiva, i tedeschi non erano certo gli unici feroci antisemiti del
loro tempo, come molti storici hanno obiettato, né sono stati gli unici esecutori materiali della
Shoah - un punto che indebolisce la tesi di Goldhagen, il quale dà in proposito spiegazioni
sostanzialmente circolari (1996: 424 sgg.).
Inoltre, Goldhagen non sembra rendersi conto che questa relativizzazione della cultura tedesca
degli anni ’30 e ’40, l’insistenza sulla sua radicale alterità, fornisce paradossalmente una
giustificazione morale potentissima agli esecutori - e non a caso, ha rappresentato spesso il
principale argomento difensivo dei criminali nazisti. Se non era per loro possibile uscire dalla
propria cultura, distanziarsi dagli assunti fondamentali dell’antisemitismo eliminazionista, è allora
possibile almeno sollevarli dalla responsabilità morale individuale. Quest’ultima si dà infatti solo
quando vi sia reale possibilità di scelta fra il bene e il male. Goldhagen intende il suo libro come un
atto d’accusa definitivo contro i tedeschi : ma in realtà, quando sostiene che essi erano tanto
radicalmente alieni da non percepire come male l’uccisione di esseri umani inermi e innocenti, li
solleva dalla colpa.
4. Vi è una ulteriore e ancor più importante considerazione critica: le motivazioni all’azione non
seguono affatto meccanicamente rispetto all’acquisizione di descrizioni culturalmente modellate
della realtà. Qui si manifesta un limite serio della prospettiva di Goldhagen, che potremmo definire
in termini di individualismo metodologico o, per certi versi, di “intellettualismo”. Egli suppone che
le credenze rappresentino il presupposto necessario e sufficiente dell’azione, che dunque la
spieghino. “Sono le conoscenze e i valori, e soltanto questi, che in ultima istanza inducono un uomo
a levare volontariamente la mano verso un altro” (Ibid.: 22). Rispetto a Browning, che tenta di
42
ricondurre il comportamento degli esecutori dello sterminio a un insieme di fattori strutturali,
determinanti culturali, pressioni sociali e psicologiche, Goldhagen afferma con forza, lungo tutto il
suo ponderoso studio, la priorità esplicativa delle credenze. Ogni altro fattore, sostiene, non è
sufficiente a spiegare le peculiarità della Shoah. In questo modo egli aderisce, seppur
implicitamente, a una teoria intellettualista del soggetto agente, e propone una spiegazione razionale
del genocidio come opera di attori razionali che agiscono semplicemente secondo sequenze di
comportamenti diretti ad uno scopo. Come nelle vecchie teorie intellettualiste sulla religione o sulla
magia, date credenze di un certo tipo, è normale che si produca un certo tipo di comportamenti.
Gli oppositori di Goldhagen, come Browning stesso, sono mossi dalla considerazione che quelle
credenze sono troppo assurde, “errate” o irrazionali per esser prese alla lettera, e per poterle
considerare come perno di corsi d'azione così drammatici. La loro argomentazione ricorda quella di
Wittgenstein (1975: 28), che ironizzava sui libri per le scuole elementari in cui sta scritto che Attila
intraprese le sue guerre di conquista perché credeva di possedere la spada del dio del tuono. Le
credenze non sono mai una base sufficiente dell'azione - può semmai esser vero il contrario. Inoltre,
alcuni studiosi sembrano convinti di non poter interpretare alla lettera credenze sulla natura
subumana degli ebrei, che contrasterebbero con un principio minimo universale di razionalità
epistemologica, o di “umanità” nel senso morale del termine. L’ideologia nazista non può non
innestarsi su un più profondo e universale sostrato culturale, su preesistenti e mai del tutto
cancellabili “certezze”, sia pure pre-discorsive, che fanno riconoscere un essere umano come essere
umano, e che non lasciano dubbi sul significato degli atti di violenza e di privazione della altrui
vita. Dunque, le credenze naziste andrebbero reinterpretate per renderle compatibili con il
fondamentale riconoscimento dell’umanità degli ebrei.
E’ un argomento familiare all’antropologia religiosa, che tende ad assegnare un significato
simbolico e non letterale a quelle credenze magico-religiose che contrastano palesemente con il
sapere empirico o con i criteri logici che una cultura possiede o che almeno, in quanto cultura
umana, non può non possedere (v. in proposito Simonicca-Dei 1998). E in effetti, numerosi sono i
punti in cui la disputa Browning-Goldhagen prende la forma di contrasto tra interpretazione
letterale e simbolica delle asserzioni dei realizzatori dello sterminio. Il problema è complicato dal
fatto che si tratta di asserzioni pronunciate durante un processo, quindi modulate secondo possibili
vantaggi giudiziari, e che per di più si riferiscono alla memoria di eventi di venti anni prima, letti
quasi necessariamente in modo selettivo.
Un esempio. Durante il massacro di Lomazy gli uomini (Goldhagen preferisce usare il termine
“tedeschi” piuttosto che “uomini”, ritenendo evidentemente che la seconda nozione non contenga
necessariamente la prima) del Battaglione 101 provano meno disagio rispetto al loro primo eccidio.
Evidentemente si sono assuefatti al “lavoro sporco”. Ma Browning interpreta il minor disagio come
conseguenza del fatto che gli uomini non erano stati posti di fronte alla scelta se partecipare o no al
massacro, diversamente dal primo episodio di Jozefow, in cui il comandante del battaglione aveva
offerto a chi non se la sentiva di tirarsi indietro. Dunque, i soldati dovevano solo obbedire agli
ordini e non sentivano su di sé il peso di una scelta morale. Goldhagen rifiuta questa
43
interpretazione: semplicemente, egli sostiene, i soldati si erano assuefatti agli aspetti spiacevoli e
fisicamente ripugnanti del loro compito, e “facevano tutto il loro dovere, non perché non avessero
scelta (formalmente, quanto meno), ma perché non avevano buoni motivi per fare altrimenti”
(Goldhagen 1996: 557 nota). In altre parole, Browning ritiene impossibile o improbabile che i
soldati non provassero avversione per il loro compito (una assunzione di elementarmente umano), e
procede a interpretare le loro azioni e asserzioni “simbolicamente”, riferendosi a profonde
dinamiche psichiche e così via. Goldhagen sostiene invece un'interpretazione “letterale” (fare una
cosa è indice di motivazioni a farla, o almeno di assenza di motivazioni a non farla), che prescinde
da significati nascosti e da dinamiche inconsce).
Gli esempi pertinenti si potrebbero moltiplicare, e ne aggiungo solo un altro. I soldati del
Battaglione 101 raccontano spesso di momenti di socialità festiva che seguivano talvolta i massacri,
nel corso dei quali alcuni di loro si vantavano delle uccisioni compiute o le prendevano a oggetto di
macabri scherzi. Browning ritiene impossibile che si tratti di veri festeggiamenti, e li interpreta,
all’interno del proprio schema, come segno dell'ottundimento della sensibilità, dell'abbrutimento di
chi era contrario al massacro o almeno ne era turbato (peraltro, il riso come reazione all’orrore è
fenomeno ben noto all’antropologia, che ha tentato di darne conto tramite nozioni quali “dissonanza
psicosociale” o “compartimentalizzazione psicologica”; v., Knauft 1987: 475, Pasquinelli 1996:
121, Hinton 1998: 13). Goldhagen, al contrario, afferma che l'allegria è allegria, e che essa si spiega
solo col fatto che i tedeschi non consideravano delittuosi quegli eccidi. “Quella non era gente
abbrutita e insensibile: scherzavano su azioni che ovviamente approvavano, e alle quali avevano
preso parte con evidente piacere” (1996: 562 nota). Come i cacciatori al ritorno dalla battuta,
insomma: i tedeschi usavano la metafora della caccia all'ebreo, che forse non era solo metafora
(Ibid.: 251).
5. Questo scontro sulla interpretazione di fatti peraltro accettati da entrambi è molto interessante.
Browning e Goldhagen si accusano a vicenda di fare uso troppo selettivo delle fonti (v. anche
Browning 1998, 1999): ma il punto è che, una volta fatta la scelta interpretativa iniziale, ogni
dettaglio si posiziona facilmente attorno ad essa, senza che sia mai possibile invocare puri “fatti”
che spezzino la circolarità argomentativa. Di fronte a ciò, il lettore non può prender posizione sulla
base di considerazioni empiriche, e finirà per schierarsi dalla parte in cui avvertirà maggiore
sensibilità, autorevolezza o raffinatezza argomentativa e stilistica. Il che ci conduce a un ultimo
punto. I due autori trattano le fonti in modo molto diverso, e costruiscono due generi diversi di
libro. Goldhagen pretende di fornire una spiegazione, per di più monocausale, della Shoah. Egli
costruisce il libro come un trattato: un accumulo di fatti e prove empiriche a supporto di una
intelaiatura di asserzioni teoriche connesse da legami logico-argomentativi. Si richiama
esplicitamente a una metodologia scientifica di tipo popperiano (il che ha forse a che fare con il
tono presuntuoso e a tratti arrogante del suo discorso, tipico di quasi tutti gli antropologi di scuola
popperiana, da Ian Jarvie a Derek Freeman): non mira a produrre rappresentazioni
impressionistiche, ma a formulare ipotesi limpidamente soggette a giudizi di verità-falsità (ma sulla
44
falsificabilità delle sue ipotesi, incastonate all’interno di un quadro interpretativo totalizzante, ci
sarebbe molto da dire).
Browning, da parte sua, sembra puntare piuttosto ad una stretegia comprendente. Egli compone il
testo in forma narrativa, concentrandosi su singoli personaggi, su ambientazioni, su dettagli, nel
tentativo di ricostruire la realtà fenomenologica degli esecutori. Ciò rende il suo libro senza dubbio
più gradevole, e la sua figura autoriale più equilibrata di quella di Goldhagen. Peraltro, anche
quest’ultimo asserisce di mirare a rendere la realtà fenomenologica della violenza, in una serie di
passi descrittivi che contrastano singolarmente col tono complessivo del suo libro. Si ha
l’impressione che anche in Goldhagen, forse involontariamente e malgrado le proprie esplicite
asserzioni teoriche, finisca per operare una strategia comprendente, che mira all’identificazione
immaginativa del lettore nelle vittime o negli esecutori della violenza nazista. Non si
spiegherebbero diversamente le dimensioni e il carattere estremamente ripetitivo dell’opera, dove
gli “esempi” sono assolutamente ridondanti rispetto alle esigenze argomentative.
Questo è forse uno dei motivi del successo popolare del libro: a un’argomentazione quasi
sillogistica e di facile presa, che si è giustamente attirata le critiche della gran parte degli storici, si
sovrappongono frammenti di rappresentazione narrativa che parlano prevalentemente
all’immaginario del lettore. Un collage di frammenti, peraltro, che forse dice qualcosa di diverso
dalle esplicite opinioni dell’autore, alludendo in definitiva - a me pare - a quella che malgrado tutto
è la comune umanità dei nazisti, al fatto che ciascuno di noi avrebbe potuto partecipare a quella
tragedia non solo dalla parte delle vittime, ma anche da quella dei carnefici.
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48
4. Il secolo delle tenebre. Verità storica e memoria
sociale *
Fabio Dei
Il Novecento sarà ricordato dagli storici futuri come il secolo delle tenebre? Con questa
domanda Tzvetan Todorov apriva nel marzo 2000 un convegno senese dedicato a Storia, verità,
giustizia. I crimini del XX secolo. Si trattava di un incontro internazionale di grande respiro
teorico, volto a fare il punto sull’aspetto più oscuro e inquietante della storia del Novecento,
quello dei totalitarismi, delle violazioni dei diritti umani, delle stragi di popolazioni civili, dei
genocidi. Del convegno sono di recente usciti gli atti, con lo stesso titolo e a cura di Marcello
Flores (ed. Bruno Mondadori, 2001). Trovo che si tratti di un libro molto importante, e non solo
sul piano strettamente storiografico. I temi che affronta sono infatti centrali per quel processo di
plasmazione della memoria e di ricostituzione di categorie etiche e politiche da cui molti di noi si
sentono impegnati in questo esordio di XXI secolo. Vorrei qui discutere alcuni degli spunti che il
libro propone, legandoli ad altri recenti contributi al dibattito sulla memoria storica e con
un’attenzione particolare ai nessi con la mia disciplina di studio – che non è la storia ma
l’antropologia culturale.
1. Totalitarismi, democrazie e guerra totale.
E’ ormai acquisito che i crimini del XX secolo non possono essere compresi come occasionali
cadute o incidenti di percorso, buchi neri in una storia che resterebbe comunque di civiltà e di
progresso. Al contrario, essi esprimono un aspetto essenziale, per quanto parziale, del Novecento, e
a quel progresso sono profondamente e paradossalmente legati. Naturalmente, è difficile una
comparazione con altri secoli in termini di maggiore o minore barbarie e atrocità. La storia gronda
sangue ed è costellata di eccidi e violenze . Quel che caratterizza il Novecento è da un lato la
potenza delle tecnologie di morte impiegate, queste sì senza precedenti; e, dall’altro, la novità del
contesto politico in cui la violenza è stata impiegata. Come sottolinea Flores, alla base di tutti i
piccoli e grandi massacri del secolo vi sono stati “piani d’ingegneria etnica o sociale, razziale o
politica”, guidati da una “volontà di modificare la storia – di accelerarla, deviarla, indirizzarla – che
diventa desiderio e ossessione di poterla dominare” (p. 381).
Questa volontà di dominare la storia è tipicamente moderna, e sembra direttamente connessa alla
peculiare esperienza novecentesca dei totalitarismi. Questa è appunto la tesi di Todorov: i crimini
del XX secolo scaturiscono per lui in modo diretto dal “manifestarsi di un male nuovo, di un regime
politico inedito, il totalitarismo, che al suo apogeo ha dominato su buona parte del mondo; un
regime che è attualmente scomparso dall’Europa ma indubbiamente non dagli altri continenti, e i
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cui postumi continuano ad agire tra noi” (p. 1). Il totalitarismo viene definito da Todorov come un
“utopismo scientista”: in esso si saldano la fede acritica e dogmatica nel sapere positivo (lo
scientismo è qui inteso non come scienza ma come religione, una dottrina che contraddice la stessa
natura critica della scienza) con “lo spirito rivoluzionario, il progetto, cioè, di creare attraverso
mezzi violenti una società nuova, abitata da uomini nuovi” (p. 7). Sarebbe dunque questa miscela
esplosiva di ingredienti moderni a fondare la violenza del ventesimo secolo, a rappresentarne la
metà oscura - in opposizione all’altra metà costituita dal grande nemico del totalitarismo, la
democrazia.
Todorov è naturalmente consapevole del carattere controverso della nozione di totalitarismo, che
include esperienze storiche diverse e per alcuni non accomunabili: ritiene tuttavia che la
contrapposizione democrazia-totalitarismo resti lo strumento fondamentale per pensare la storia
recente e il nostro stesso tempo. Altri contributi del volume tendono invece a sfumare questa
dicotomia, e a mostrare come la violenza politica si distribuisca in modi trasversali rispetto ad essa.
Lo stesso Flores, ad esempio, vede un tratto caratterizzante del Novecento nella “crescita di
istituzioni di controllo e repressione che hanno spesso acquistato un’autonomia di comportamento
quando anche non di stato giuridico”, che hanno fatto uso sistematico della violenza e della
violazione dei diritti umani e che non sono state affatto un’esclusività dei totalitarismi: si collocano
anzi “in un continuum, dove la contrapposizione tra democrazia e dittatura non è di per sé
sufficiente a garantire quella tra legalità e illegalità, tolleranza e violenza” (p. 382).
Non mancano certo esempi di crimini commessi in nome e per conto della democrazia, anche fra
le pagine di questo libro. In particolare, il comportamento dei paesi occidentali nel contesto del
dominio coloniale non mostra una netta demarcazione fra democrazie e totalitarismi; e lo stesso
vale per la conduzione di guerre di carattere “totale”, nelle quali la popolazione civile – come scrive
Gabriele Ranzato, “è equiparata a un obiettivo militare o addirittura diventa un bersaglio
privilegiato per il conseguimento della vittoria” (p. 70). Hiroshima ci appare oggi come uno dei
grandi crimini di guerra della storia recente, l’unico forse – è la tesi di Michael Löwy (p. 15) paragonabile alla Shoah per le dimensioni e per il diretto rapporto tra un disegno politico
(concludere rapidamente la guerra e stabilire una posizione di preminenza degli Stati Uniti nello
scenario del dopoguerra) e il massacro di centinaia di migliaia di persone innocenti. Ciò non
significa naturalmente sottovalutare l’importanza dei differenti progetti politici che sottendono
questi eccidi. Ma questa differenza è ciò che rende oggi Hiroshima ancor più inquietante,
unitamente al suo carattere, per così dire, di accentuata modernità. Siamo di fronte, scrive Löwy, a
una morte pulita e asettica recapitata dal cielo, attraverso un atto tecnico distante e impersonale,
privo di quei residui arcaici che caratterizzano ancora la Shoah – il sadismo e la furia omicida delle
SS, quella “violenza inutile” su cui ragiona Primo Levi in I sommersi e i salvati.
Analoghe considerazioni possono esser svolte su quella “guerra ai civili” che ha caretterizzato
così profondamente l’evolversi delle moderne strategie belliche. Il secondo conflitto mondiale ha
rappresentato un drammatico spartiacque sotto questo profilo: da una guerra combattuta tra militari,
si è passati a guerre che mietono fra i civili la stragrande maggioranza delle loro vittime. Gli esempi
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più recenti, incluso quello che stiamo oggi vivendo, lo dimostrano. Qui l’ideologia o la forma
politica che supporta l’azione bellica sembra non far differenza sotto questo profilo. E’ la tesi
sostenuta con forza da Ranzato, che nel suo contributo ricostruisce una evoluzione in qualche modo
interna delle tecniche e degli apparati militari, largamente autonoma rispetto alle finalità per le quali
la guerra viene condotta: evoluzione che ha il suo punto di forza appunto nel bombardamento di
obiettivi civili. A quale logica rispondono i bombardamenti massicci delle città tedesche e italiane,
che hanno fatto la gran parte delle loro vittime quando le sorti della guerra erano ormai decise? Il
fatto che questa domanda sia stata posta in passato da revisionisti, più o meno ansiosi di rovesciare
il quadro delle responsabilità storiche di nazismo e fascismo, non la rende meno inquietante.
Che la guerra tenda a operare secondo una sua logica interna, a svincolarsi e a divenire autonoma
rispetto alle finalità politiche che la muovono, l’aveva del resto osservato già Clausewitz. Nello
scenario del dopo-undici-settembre, non possiamo non chiederci se ciò valga anche per i peculiari
conflitti armati che hanno caratterizzato l’ultimo decennio, dalla guerra del Golfo al Kossovo
all’Afghanistan, sotto forma di interventi largamente appaggiati dalla comunità internazionale
contro aggressivi fondamentalismi regionali. La domanda è difficile, e la risposta nient’affatto
scontata. Da un lato, quel che oggi sappiamo sul comportamento dei militari nella Guerra del Golfo,
ad esempio, o sull’uso di uranio impoverito nei Balcani, è assai preoccupante. Dall’altro lato,
tuttavia, non possiamo ignorare di trovarci di fronte a contesti assai diversi dalle guerre totali del
Novecento, con la logica di massacro di civili che le ha caratterizzate. Sono semmai
l’ultranazionalismo e il terrorismo fondamentalista che mirano a creare scenari in cui le masse di
civili sono integralmente coinvolte in strategie di potere locale. In questo mutato contesto, vorrei
osservare per inciso, è anche difficile capire dove si situino le ragioni della pace – almeno, molto
più difficile di quanto a molti – su entrambi gli schieramenti – oggi appaia.
2. Le radici del male: illuminismo vs. storicismo
Ci sono dunque mostruosità della nostra storia, come dice Ranzato, che sono state commesse da
uomini non offuscati da ideologie, ma semplicemente disposti a usare qualsiasi mezzo per vincere il
nemico o punirlo. E’ tuttavia indubbio che alcuni crimini specifici, a partire dalla Shoah, non si
comprendano se non in riferimento a un peculiare contesto ideologico o almeno, in senso più
ampio, culturale. Tali crimini non si configurano semplicemente come mezzi per il raggiungimento
di finalità. Lo sterminio degli ebrei d’Europa si differenzia da Hiroshima perché rappresenta un fine
in sé: e si tratta di un fine che rimanda non a una generica razionalità politica, o a desideri, per così
dire, elementarmente umani, ma a un contesto socio-culturale assai specifico. Quali sono la natura
e le radici di questo contesto?
Il dibattito contemporaneo mi sembra muoversi tra due tesi contrapposte – ugualmente estreme, e
che è tuttavia interessante mettere a fuoco proprio nella loro radicalità. Entrambe le tesi vedono la
cultura criminale che ha sotteso la Shoah come profondamente connaturata all’età moderna e alle
sue origini. Ma mentre la prima individua nell’illuminismo e nella Rivoluzione francese le fonti di
51
un’ideologia totalitaria e disumanizzante, la seconda pone invece l’accento sugli esiti deleteri della
reazione ottocentesca al razionalismo illuminista e all’esperienza rivoluzionaria.
La prima tesi trova le sue basi filosofiche nella Dialettica dell’illuminismo di Adorno e
Horkheimer, e nelle riflessioni che Hannah Harendt e altri pensatori hanno svolto proprio a partire
dall’esperienza della Shoah. La sua formulazione più recente e più radicale si deve probabilmente a
Zygmunt Bauman, autore di un volume importante come Modernità e Olocausto. In un precedente
convegno senese dedicato a Nazismo, fascismo, comunismo. Totalitarismi a confronto (atti editi a
cura di M. Flores, Milano, B. Mondadori, 1998), Bauman aveva sostenuto con grande nettezza che
“gli orrori del XX secolo derivano dai tentativi pratici di creare la felicità, l’ordine di cui la felicità
aveva bisogno, e il potere totale necessario a instaurare quell’ordine” (p. 18). Questi tentativi, tra i
quali gli esperimenti nazista e comunista spiccano per la grandiosità degli obiettivi oltre che per
l’impatto storico, ereditano per Bauman l’ideale illuminista di un mondo integralmente governato
dalla Ragione, di una società perfetta e depurata dai residui di debolezza umana (pp. 24-5).
I campi di concentramento, il prodotto forse più mostruoso dei totalitarismi, sarebbero l’esito
estremo e più conseguente di questa Ragione-in-Atto, di una modernità che punta a una totale
adesione della realtà al modello ideale. Bauman pensa ai campi come a una sorta di permanente
possibilità antropologica della modernità, un luogo dove si inverano fino in fondo – e
paradossalmente – l’utopismo razionalistico e quello spirito rivoluzionario che è convinto di poter
programmare fino al dettaglio la vita umana. E laddove Todorov stabilisce un netto confine tra
totalitarismo e democrazia, Bauman sembra invece interessato alle aree di intersezione, alla costante
possibilità che la logica di un ordine totale progettato e amministrato dallo Stato, volto a eliminare
tutto ciò che è di disturbo o anche soltanto superfluo, si insinui nel mondo democratico, magari
sotto forme inaspettate. Hannah Arendt scriveva che “le soluzioni totalitarie possono sopravvivere
alla caduta dei regimi totalitari nella forma di forti tentazioni che si presenteranno ogni volta che
sembri impossibile alleviare la miseria politica, sociale o economica in un modo degno dell’uomo”
(Ibid., p. 32). Bauman sembra pensare che l’ordine dell’odierno capitalismo dei consumi sia
fortemente soggetto a simili tentazioni, pur nel quadro di una programmazione fortemente dispersa,
privatizzata e deregolata, e con la seduzione pubblicitaria che ha preso il posto della coercizione,
della sorveglianza e dell’addestramento.
La tesi contrapposta, per tornare al volume Storia, verità e giustizia, trova potente espressione
nell’intervento dello studioso israeliano Zeev Sternhell. Storico delle ideologie fasciste, Sternhell le
vede come “il nucleo e la variante più radicale di un fenomeno assai più diffuso e assai più vecchio:
una revisione complessiva dei valori essenziali insiti nell’eredità umanistica, razionalistica e
ottimistica proveniente dall’Illuminismo” (p. 47). Il fascismo, il nazismo e i loro esiti sono sì
prodotti del Novecento, legati alla crisi che seguì la Grande Guerra e all’emergere della società di
massa; il loro nucleo culturale è tuttavia antecedente, e consiste nella “lotta contro la modernità a
livello ideologico, vale a dire contro la tradizione francese e kantiana dell’illuminismo” (pp. 47-8).
Sternhell include sotto la nozione di “storicismo” questa reazione anti-illuminista, che fa
discendere dal movimento protoromantico tedesco e in particolare dal pensiero di Herder. Il
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“relativismo storico” di Herder, il suo rifiuto di “qualsiasi interpretazione razionale dello sviluppo
sociale”, la sua insistenza sul Volksgeist o spirito di una nazione, in contrapposizione all’idea di una
ragione umana universale e di una altrettanto universale legge di natura – tutto ciò costituirebbe la
base di una ideologia reazionaria, volta verso il passato, esasperatamente nazionalista e
tendenzialmente razzista, che nell’Ottocento mette salde radici in Germania e in buona parte
d’Europa. Questo torbido miscuglio di idee irrazionaliste, di mistica nazionalista, di sfiducia nel
progresso e di nostalgie antidemocratiche passa poi nel Novecento, mediato dal grande attacco alla
modernità di Nietszche e da quello che Sternhell chiama (in modo piuttosto sorprendente) il
relativismo storico e morale di Croce. Fascismo e nazismo ne sono la traduzione politica – ciò che
succede quando la reazione anti-illuminista scende nelle strade.
Le posizioni di Bauman e di Sternhell non potrebbero contrapporsi in modo più netto. Come
detto, entrambe sono (volutamente, credo) parziali. Accentuano eccessivamente il peso di
movimenti culturali nel determinare gli eventi politici e i corsi d’azione della storia; e, soprattutto,
propongono interpretazioni a senso unico e quasi caricaturali di tradizioni di pensiero assai
complesse e articolate. Bauman trascura il semplicissimo fatto che sono stati l’illuminismo e la
rivoluzione francese a produrre una intera cultura dei diritti umani e un modello politico che lascia
ampi spazi di autonomia all’individuo all’interno della società - agli antipodi rispetto al
totalitarismo e a quelle sue particolari manifestazioni che sono il lager e il gulag. Sternhell, da parte
sua, dimentica il contributo essenziale che il razionalismo positivista ha dato all’affermazione della
teoria e della pratica razzista ed eugenetica tra Ottocento e Novecento, e la misura in cui le parole
d’ordine del progresso e della modernità scientifica sono state costitutive delle ideologie totalitarie.
Per contro e inversamente, dimentica tutti quegli aspetti della tradizione “storicista” che, proprio in
virtù dell’antiuniversalismo e dell’opposizione a una visione naturalista delle vicende umane, hanno
promosso il rispetto della diversità, la tolleranza, il dialogo - tutti quei valori ai quali i totalitarismi
e la “logica dei campi” si oppongono.
Questi due contrapposti tentativi di rintracciare le radici del “male” del ventesimo secolo,
tuttavia, non pongono soltanto un problema di storia delle idee. Si connettono invece direttamente
alle questioni che oggi ci affaticano, al dibattito del dopo-undici-settembre sullo scontro fra civiltà,
sulla “superiorità” occidentale, sui limiti e i pericoli del cosiddetto relativismo culturale e così via.
La tensione difficilmente risolvibile fra universalità dei diritti e particolarità delle culture, tra fedeltà
a certi nostri valori e tolleranza per i valori degli altri, che avvertivamo finora su un piano
prevalentemente teorico, ci si è manifestata nella sua drammatica concretezza etico-politica. Da
dove vengono oggi i rischi maggiori, dalla boria di un’autoproclamata superiorità o dalla sterilità di
un relativismo equivoco? E di cosa abbiamo più bisogno, di un approccio orientato verso la
ragione, il progresso, l’universalità, o di uno più attento alle culture, alla tradizione, alla
particolarità storica? E ancora, a quale modello di agente umano dovremmo far riferimento: la
astratta e dappertutto identica soggettività razionale distillata dal secolo dei Lumi, o una romantica
pluralità di soggetti storici, irriducibilmente legati a culture e tradizioni particolari?
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Naturalmente, si può dare una risposta generica e di buon senso dicendo che abbiamo bisogno
del meglio di entrambe le tradizioni, quella illuminista e quella “storicista”, le quali devono
temperarsi a vicenda. Ci serve un illuminismo critico e consapevole dei limiti della ragione e dei
paradossi del progresso, ma anche una sensibilità per le differenze e le particolarità che non scivoli
sui versanti dell’irrazionalismo e del misticismo e non abdichi, come si esprimeva Ernesto de
Martino, alle fedeltà della nostra tradizione storica. Eppure, qualche volta, un cauto ed equilibrato
buon senso non serve a far progredire il dibattito. Io voglio dire che fra le due tesi sopra esposte
trovo particolarmente inaccettabile e pericolosa quella di Sternhell, con la sua svalutazione totale
della tradizione storicista, e con il suo implicito suggerimento che la cura per i mali della modernità
possa consistere nel ritorno “al razionalismo, all’universalismo e all’idea di progresso derivati
dall’Illuminismo francese”.
Anche se non posso qui sviluppare questo argomento, a me pare che riproporre una ragione e
un modello di agente razionale di tipo settecentesco non serva molto a capire la situazione che oggi
stiamo vivendo – né il processo di globalizzazione, né quello parallelo (e solo in apparenza
divergente) di una nuova esplosione di differenze e particolarismi. Si può davvero pensare ai
particolarismi culturali, religiosi o “etnici” (come si dice con termine equivoco) semplicemente
come a residui arcaici e superstiziosi, irrazionali incrostazioni sulla superficie di una soggettività
umana universale e tendenzialmente a-culturale? E si può davvero pensarli come destinati a esser
spazzati via sull’unica vera strada del progresso, nella graduale distillazione di un sistema sociale
volto a massimizzare l’utilità razionale? Se il nostro problema oggi è capire gli altri senza
pretendere che siano uguali a noi, comprendere i grumi di differenze al cui interno gli esseri umani
si costituiscono come tali, è piuttosto nella tradizione storicista che possiamo cercare appigli.
Incluso il vituperato Herder, che è sbagliato e ingiusto considerare come capostipite del pensiero
reazionario, antimoderno e razzista dell’età contemporanea, e di cui oggi dovremmo ricordare il
monito, rivolto all’Europa, a non comportarsi da “tiranna che costringe alla felicità tutte le nazioni”.
3. Sull’indebolimento della verità
Il contrasto tra la tradizione illuminista e quella storicista ha a che fare con un altro problema
centrale nel dibattito contemporaneo, quello della verità storiografica e del suo rapporto con la
giustizia. A quale oggettività può aspirare la conoscenza storica? In che relazione sta la verità
storiografica con la verità dei testimoni della storia? E, infine, in che modo la verità storica può
fondare o almeno sostenere pratiche di giustizia?
E’ abbastanza diffusa l’idea che il (presunto) relativismo della tradizione storicista mini alla base
l’idea stessa di verità storica, legittimando potenzialmente ogni tipo di strategia revisionista e
negazionista. I recenti approcci “postmoderni”, che rifiutano una concezione realista del sapere
storico insistendo invece sugli inevitabili processi di plasmazione retorica e letteraria che lo
costituiscono, sono spesso i bersagli di simili critiche. La rinuncia a pretese di oggettività sembra
trapassare in un inaccettabile disimpegno etico nei confronti dei crimini e delle vittime della storia,
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o, ancora peggio, in una sorta di complicità con i criminali stessi. L’indebolimento della verità è
infatti esplicitamente perseguito dai criminali. Le strategie negazioniste sono parte integrante degli
eccidi del ventesimo secolo, appartengono fin dall’inizio al loro progetto; e per contrastarle, sembra
che non possiamo fare a meno di una certa dose di oggettività o di realismo epistemologico –
dobbiamo poter distinguere con certezza verità e finzione, dire che lo cose sono andate così e così, e
basta.
Tra gli storici che hanno recentemente sostenuto questo punto di vista spicca il nome di Carlo
Ginzburg. Partendo da assunti epistemologici tutt’altro che ingenuamente realisti, riassunti nella
celebre formula del “paradigma indiziario”, Ginzburg ha difeso nelle sue ultime opere una nozione
critica ma forte di verità storica, in polemica con il decostruzionismo e con la “svolta retorica”
rappresentata ad esempio da Hayden White. E’ significativo che tale polemica si faccia
particolarmente dura a partire dal suo libro sul caso Sofri, e dalle considerazioni che lo
accompagnano a proposito del rapporto tra giudice e storico (Il giudice e lo storico, Torino,
Einaudi, 1991): nonché dal saggio, anch’esso dei primi anni ’90, “Just One Witness”, dedicato al
problema del negazionismo e della “vera” rappresentazione della Shoah (in S. Friedlander [ed.],
Probing the Limits of Representation. Nazism and the “Final Solution”, Cambridge, Mass. Harvard
University Press, 1992; versione italiana in Quaderni storici, 80, 1992). In questi scritti Ginzburg si
pone il problema dell’apporto della storia alla giustizia: e sostiene che questo apporto non può
tollerare i sofismi relativistici, e deve invece mirare a un ragionevole livello di oggettività, o almeno
a “prove” che possano decidere della verità/falsità di due versioni alternative (le dichiarazioni di
Sofri e quelle del pentito Marino, poniamo, o le narrazioni storiche di Primo Levi e quelle del
negazionista Faurisson).
In “Just One Witness” l’obiettivo polemico di Ginzburg è principalmente l’approccio retorico di
H. White, di cui egli mostra le radici nell’idealismo italiano, e in particolare nell’assunto gentiliano
per cui la storia è sempre una creazione della storiografia (p. 90). In un più recente libro, Rapporti
di forza (Milano, Feltrinelli, 2000), la critica si appunta sul decostruzionismo di Derrida e De Man,
la cui origine filosofica è con grande nettezza identificata in Nietzsche (a sua volta, per così dire,
campione della tradizione storicista) e nel suo celebre passo sulla verità e la menzogna:
Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie,
antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate
poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo
uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti... (cit. in Ibid., p. 25)
Questo passo, citatissimo nella letteratura decostruzionista, è per Ginzburg non solo paradossale,
in quanto implica la rinuncia ad ogni pretesa di conoscere il mondo attraverso il linguaggio (p. 35),
ma anche profondamente immorale. Tra la liquidazione della verità e la liquidazione della giustizia
il passo è breve: e Ginzburg cerca di dimostrarlo discutendo il caso di Paul De Man, che in nome
dell’ironia scettica postmoderna avrebbe nascosto per tutta la vita un passato collaborazionista e
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antisemita. Il dominio della retorica si traduce così in una strategia di “autoassoluzione individuale
e collettiva” (p. 40), e dunque nella rinuncia al concetto stesso di giustizia storica.
Le osservazioni di Ginzburg sono importanti, e del tutto giustificato il suo richiamo alla nozione
di prova. C’è però da chiedersi se si possa accettare – chiamiamolo così – il ricatto etico contro gli
argomenti epistemologici del “relativismo” e del decostruzionismo. Soprattutto, mi pare
improponibile il nesso tra relativismo (qualunque cosa si intenda con questo termine) e
revisionismo o negazionismo. Problematizzare gli aspetti riflessivi e retorici nella costruzione del
sapere storico non significa affatto porre sullo stesso piano la verità delle vittime e quella dei
carnefici, o considerarle come due “finzioni” ugualmente costruite e ugualmente parziali. Al
contrario, proprio per la capacità di penetrare nelle modalità di costruzione del racconto storico, gli
approcci retorici possiedono una forte potenzialità critica verso la menzogna e la falsificazione. Chi
si è accostato qualche volta ai testi negazionisti, noterà come siano invece essi a prediligere il
linguaggio dell’oggettività e la retorica di una verità incondizionata: in essi, il confronto con il
senso complessivo di un racconto storico è sostituito da minuziose procedure “fisicaliste”, da
sequele di presunti dati di fatto, di piccole perizie da tribunale, di tentativi di screditare i testimoni e
così via. Ma non basta appellarsi ritualmente alla Verità, o fare ad essa professione di fede, per
seguirne la strada.
4. Il testimone e il racconto storico.
L’indebolimento postmoderno della verità è parso a molti inaccettabile soprattutto in relazione
all’etica della testimonianza. Come si può ridurre allo statuto di fiction quell’atto fondamentale del
portare testimonianza da parte di chi i crimini della storia li ha vissuti sulla propria persona, sul
proprio corpo, sui propri più cari affetti? Non è offensiva l’idea stessa di “decostruire” queste
testimonianze? Non prolunga l’atteggiamento di quegli aguzzini che dicevano alle vittime, come ci
rammenta Primo Levi, “anche se vi salverete e racconterete, non sarete credute”? Sembra cioè che
la verità testimoniale goda di uno statuto più solido rispetto alla narrazione storiografica, sia in
qualche modo meno attaccabile dallo scetticismo relativista.
Il rapporto tra testimonianza e storiografia è però molto più complesso di così. Su alcuni suoi
aspetti ha indirizzato l’attenzione un recente libro di Annette Wieviorka, che si intitola appunto
L’era del testimone (Milano, Cortina, 1999; ed. orig. L’Ère du témoin, 1998). Questa studiosa
analizza il progressivo emergere nel dopoguerra della figura del testimone individuale come nucleo
della memoria collettiva della Shoah. Non è così banale e scontata, come potrebbe oggi apparire, la
centralità del ricordo soggettivo, connotato da esperienze specifiche e da forti componenti
emozionali, per la nostra rappresentazione del passato; né è scontata l’idea che del racconto della
propria vita si possa e si debba fare atto di testimonianza pubblica. Non è così per i primi decenni
del dopoguerra, almeno fino al processo Eichmann (1961), che fa emergere per la prima volta il
testimone come figura pubblica. Successivamente, questa figura si colloca in un clima culturale in
cui la soggettività privata diviene sempre più oggetto di un discorso e di un immaginario diffuso.
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Contribuisce a ciò la sessantottesca “presa di parola” della gente comune, con l’idea che “il
personale è politico”; vi contribuisce la tendenza di radio e televisione a esporre vicende personali,
intimi stati d’animo e difficoltà psicologiche, facendo spettacolo della parola e dei sentimenti di
quello che un tempo si chiamava “l’uomo della strada”. Nel clima culturale dell’occidente
mediatico, l’individuo è posto “al centro della società e retrospettivamente della storia. Diviene
pubblicamente, da solo, la Storia” (p. 110).
Questo nuovo clima culturale è di solito valutato positivamente. Combinato con gli sviluppi delle
tecnologie di registrazione audio e video, esso produce la grande stagione delle fonti orali, con un
progresso storiografico che non mi pare possa esser posto in dubbio. Tuttavia, non mancano
ambiguità in questo movimento verso la soggettività e verso una puntiforme storia dal basso –
ambiguità che Vieviorka attribuisce non tanto agli storici quanto al discorso mediale e pubblico
sulla storia. Tra i suoi principali bersagli c’è la Survivors of the Shoah Visual History Foundation,
la Fondazione creata nel 1994 dal regista Steven Spielberg con l’obiettivo di una raccolta a tappeto
delle testimonianze dei sopravvissuti ai lager nazisti. Questa grandiosa impresa di storia orale
raccoglie oggi più di 50.000 interviste in video, raccolte in 57 paesi e in 32 lingue diverse. Si
avvicina così a quella specie di sogno storiografico che consiste in un immane racconto del passato
narrato da tutti coloro che l’hanno vissuto. Sogno, o forse incubo: nel 1998 il direttore della
Fondazione calcolava che per visionare l’intero materiale raccolto (allora meno di 40.000 interviste)
sarebbero occorsi nove anni e mezzo di lavoro 24 ore su 24. Abituati alla scarsità di fonti, gli storici
non avrebbero forse mai pensato di entrare in crisi per un loro eccesso (che non è, occorre notare,
semplice ridondanza, giacché ogni vita narrata è diversa dalle altre e ugualmente degna di essere
“raccolta” e “tramandata”).
Nell’impresa voluta da Spielberg c’è qualcosa di sacrale, legato a una concezione profondamente
ebraica del tramandare la memoria. La Fondazione lancia inoltre una sfida ineludibile alla
storiografia, portando alle sue estreme conseguenze le possibilità documentarie offerte dalle
tecnologie più avanzate. A Vieviorka non sfugge la ricchezza delle memorie così raccolte, e la
qualità della comprensione storiografica che esse possono offrire: ne vede tuttavia anche gli aspetti
più pericolosi, legati al tentativo di “sostituire le testimonianze…alla Storia” (p. 128), di confondere
il ruolo del testimone con quello dello storico o, come talvolta accade, con quello dell’insegnante. Il
discorso del testimone, in sé perfettamente legittimo e indispensabile, è oggi spesso incastonato
all’interno di stereotipi socio-politici e mass-mediali che ne mutano il senso. Attraverso di esso, le
categorie politiche si volgono in categorie psicologiche, il linguaggio del cuore tiene il posto del
linguaggio della ragione.
Il testimone stipula un “patto di compassione” con colui che l’ascolta […] Il
protocollo di compassione dispone una messa in scena fondata sull’esibizione
dell’individuo, della sua specifica sofferenza, e pone l’accento sulla manifestazione
delle emozioni e sulla espressione corporea. Per quanto riguarda la ricezione,
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l’identificazione con le infelicità e l’empatia con le sofferenze costituiscono la molla
dello slancio di compassione (p. 153)
E’ un meccanismo comunicativo che con le dovute differenze può essere accostato a quello della
cosiddetta “televisione dell’intimità” – i programmi in cui persone comuni danno pubblica
espressione alle loro relazioni e ai loro affetti o dolori più privati, guidati da abili (e cinici)
conduttori, spiati da registi pronti a cogliere il primo tremito delle mani o la prima lacrima non
trattenuta, trasformate immediatamente in percentuali di ascolto. E’ in questa dimensione, osserva
Vieviorka, che il nazismo e la Shoah sono prevalentemente presenti nello spazio pubblico (Ibid.). E
questa prevalenza delle memorie individuali può risultare d’ostacolo alla formulazione di un
autentico racconto storico: in che modo, ella si chiede, possiamo “fare appello alla riflessione, al
pensiero, al rigore quando i sentimenti e le emozioni invadono la scena pubblica”?
La critica di Vieviorka è forse eccessiva e provocatoria, ma coglie punti importanti. Intanto,
mostra come la testimonianza non possa considerarsi in alcun modo una inattaccabile base della
oggettività storiografica, e vada semmai intesa come fonte da trattare criticamente e da collocare
all’interno di un racconto storico che è comunque costruito, fabbricato. In secondo luogo, pone il
problema del rapporto tra il sapere storico e il discorso o l’immaginario pubblico e, in particolare,
mediale. L’ “era del testimone”, come la chiama Vieviorka, è caratterizzata da un netto declino del
ruolo sociale dei saperi specialistici, incluso quello storiografico. La democratizzazione
comunicativa, mentre da un lato diffonde informazioni e conoscenze in modo diffuso e senza
precedenti, dall’altro ha l’effetto di indebolire l’autorità dei “saperi esperti”, in particolare quelli
scientifici. Alla logica argomentativa del sapere esperto si sostituisce nell’universo mediale la
logica dell’opinione e della spettacolarizzazione. Dalla medicina alla politica, sia pure in gradi
diversi, il discorso pubblico si presenta come un proliferare di voci che, per così dire, partono tutte
ugualmente da zero, senza rendite pregresse di posizione. Si può sostenere qualsiasi punto di vista:
il fatto stesso di parlare di fronte a un microfono o a una telecamera dà legittimità a ciò che viene
detto: ed è la drammaticità, il taglio retorico, la spettacolarità della presenza mediale a decidere da
che parte sta la ragione.
Si potrebbe sostenere che l’altra faccia dell’indebolimento autoriale di storiografica e scienze
umane è il negazionismo. Come mostra piuttosto bene l’analisi del discorso negazionista svolta da
Valentina Pisanty (nell’intervento in Storia, verità, giustizia e, più ampiamente, nel volume
L’irritante questione delle camere a gas, Milano, Bompiani, 1998), esso è interamente incentrato
sul tentativo di presentarsi come una plausibile opzione in un dibattito d’opinione. Le sue strategie
retoriche mirano, come scrive Pisanty, a
dare l’impressione, del tutto illusoria, che sia in corso un serio dibattito storiografico
tra la “storiografia ufficiale” (o “sterminazionista”) da un lato e la “storiografia
revisionista dall’altro” (p. 370).
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I negazionisti tentano di portare il problema della verità storica sul piano della querelle polemica,
dello scontro personale, come in quei dibattiti politici in televisione (così diversi da quelli di soli
vent’anni fa) in cui i contendenti si urlano in faccia slogan accompagnati dagli applausi e dai fischi
di rumorosi sostenitori. Rivendicano una par condicio per le loro posizioni, un potenziale cinquanta
per cento di consensi da cui partire. La già notata insistenza sui dettagli fattuali e su una retorica
della verità-falsità è solo l’altra faccia di questo atteggiamento da polemisti mediali. Due modi
complementari di sfuggire alle norme del discorso storiografico e della comunità scientifica che lo
sostiene. Fa parte di questa strategia la tendenza ad autorappresentarsi come una minoranza
illuminata ma esclusa, perseguitata dal bieco e pavido consenso di una maggioranza di intellettuali
asserviti al Grande Complotto. E’ su questo piano (oltre che per gli elementi di anti-sionismo) che il
negazionismo ha attratto l’attenzione di certi settori della sinistra radicale: valga il discusso caso di
Noam Chomski, che ha scritto la prefazione a un libro di Faurisson in nome della libertà
d’espressione.
Si potrebbe anche osservare come, ben al di là del revisionismo storico, questo paradigma
comunicativo basato sull’indebolimento dei saperi esperti, su un peculiare populismo
antiintellettualista e sulla teoria del complotto assuma sempre più spesso preminenza sociale e
politica. Un caso clamoroso come quello del dottor di Bella, ad esempio, può esser compreso solo
sullo sfondo di un simile scenario. Lo stesso può forse dirsi di molte delle strategie politiche
dell’attuale destra italiana, e del suo leader in modo particolare. In perfetta buona fede, egli
riterebbe certamente giusto riscrivere la storia sulla base di un sondaggio d’opinione.
5. Verità e giustizia.
Vorrei infine accennare al problema del rapporto tra sapere storico e giustizia, centrale nel volume
curato da Flores. Anche qui, possiamo schematicamente contrapporre due punti di vista. Da un lato,
molti interventi nel volume citano il Marc Bloch di Apologia della storia, con la sua netta
divaricazione etica ed epistemologica tra il lavoro dello storico e quello del giudice. La
comprensione cui lo storico aspira è per Bloch incompatibile con l’esigenza di assolvere o
condannare. “Non si può condannare o assolvere senza prendere partito per una tavola di valori che
non deriva da nessuna scienza positiva”, scriveva nel 1943 (mentre, come cittadino, formulava
invece giudizi precisi e si impegnava nella Resistenza). E aggiungeva che “per intendere una
coscienza estranea, separata da noi dall’intervallo delle generazioni, occorre quasi spogliarsi del
nostro io; per dirle il fatto suo, basta restare se stessi. Lo sforzo è certamente meno gravoso” (cit.
nel saggio di Mariuccia Salvati, p. 143). In altre parole, la compensione storica implica una sorta di
atteggiamento antropologico, un apprezzamento dall’interno e quasi empatico della diversità dei
contesti socio-culturali, che contrasta con l’atteggiamento esteriore del giudice, il quale per
definizione non volge mai in dubbio le norme di riferimento e il contesto che dà loro significato.
Questo punto di vista è sostenuto con forza particolare da Karol Modzelewski, storico medioevista
polacco che è anche stato uno dei protagonisti del movimento di Solidarność. Egli mette in guardia
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dal confondere il ruolo di storico con quello di attore della storia. Non si può confondere il pesce
con l’ittiologo, afferma, e non si può essere storici di eventi vissuti in prima persona: la
partecipazione personale, la memoria diretta degli eventi (sempre parziale e soggettiva) non solo
non aiutano la ricerca, ma la ostacolano. Al contrario, come per Bloch, Modzelewski ritiene che la
comprensione richieda un processo di identificazione antropologica col punto di vista degli altri:
occorre attraversare la diversità che da essi ci separa, e ciò richiede un certo grado di empatia e
perfino di simpatia (p. 135) E’ questo, si potrebbe osservare, che rende così difficile studiare la
violenza: o partiamo da una sua condanna dall’esterno, il che ci rende difficile comprenderla, o
cerchiamo di calarci antropologicamente nei panni degli assassini e del loro contesto culturale, etico
e psicologico, e allora la comprensione rischia troppo facilmente di trasformarsi in giustificazione.
Il dibattito degli anni ’90 aperto da Uomini comuni di Browning si è incentrato in buona parte
attorno a questo dilemma.
Per tornare a Modzelewski, il suo monito a non confondere comprensione storica e condanna
morale o giuridica non è un semplice richiamo a una distaccata oggettività dello storico, il quale
constaterebbe i fatti lasciando agli altri il giudizio. Ciò che egli teme è la strumentalizzazione del
lavoro storico all’interno di processi politici che rispondono a logiche diverse da quella di una
giustizia in qualche modo “pura” In particolare nelle epoche di “transizione”, come quella
attraversata in questi anni dall’Europa dell’Est, il giudizio sul passato è costantemente soggetto a
“trappole”, a “rischi di manipolazione”, legati in particolare alla “sindrome del capro espiatorio”:
si sente il bisogno di esteriorizzare e condannare il male perché non rimanga dentro,
perché appaia come un fattore esterno; e condannandolo, magari nella persona di
qualche responsabile individuale, di alcune pecore nere, riusciamo a liberarci del peso
della corresponsabilità (p. 135).
Modzelewski applica queste considerazioni al contesto politico della Polonia di oggi, dove vede
un chiaro tentativo di convolgere la conoscenza storica e il giudizio sul regime comunista in
questioni politiche interne e attuali: in particolare, nella delegittimazione e nella messa al bando di
un partito, l’Alleanza della Sinistra Democratica, che del comunismo viene considerato l’erede. Ma
molti altri esempi, anche italiani, si potrebbero trovare per questi rischi di uso strumentale e
decontestualizzato della conoscenza storica.
Abbiamo dunque un richiamo al distacco conoscitivo della storiografia e alla sua netta
separazione dal giudizio e dalla pratica etico-politica. A questa cautela si contrappone, d’altra parte,
la diffusa convinzione che la storia possa e debba servire la causa della giustizia, in particolare nel
caso dei grandi crimini di massa. L’imperativo del “never again”, “affinché non accada mai più”,
che domina oggi il discorso pubblico sulla Shoah, trova nella storia uno strumento indispensabile.
Occorre conoscere il cattivo passato, come si dice, perché non si ripeta.Anzi, è solo attraverso la
storia che si può arginare la tendenza a negare i crimini che, come abbiamo visto, è profondamente
connaturata ai crimini stessi. In questa prospettiva, proprio in virtù del suo sapere tecnico e della
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“oggettività” del suo approccio, lo storico si trova collocato in una dimensione di chiaro impegno
etico e politico.
Si sostiene anche spesso che l’inevitabile coinvolgimento emotivo nello spettacolo dei crimini di
massa rende impossibile, per lo studioso, il freddo distacco della teoresi, implicando invece un
coinvolgimento emotivo che può ostacolare ma anche vivificare lo sforzo conoscitivo. Come si
sono espressi nel convegno senese gli studiosi uruguayani Marcelo Viñar e Maren Ulriksen Viñar,
in un intervento molto bello sulla violenza politica e sul terrore di Stato in Sudamerica,
in tale argomento, la distanza politica e quella epistemica hnno confini incerti. Per
quanto concerne tale materia di studio non c’è alcuno spazio per l’oggettività e la
neutralità, bensì solo per atteggiamenti di coinvolgimento emotivo [...] Abbandoniamo
dunque l'erronea convinzione per cui uno sguardo oggettivo è la sola verità possibile,
mentre è, a dire il vero, al servizio dello status quo (p. 204)
Il caso dei desaparecidos di cui parlano i Viñar presenta in effetti una particolare saldatura tra
l’istanza di giustizia e quella di conoscenza storiografica – entrambe impegnate principalmente ad
affermare la realtà di crimini che ufficialmente non esistono Stabilire la verità e fare giustizia nei
confronti delle vittime del terrore rappresentano un unico obiettivo. Le vittime della tortura o i
familiari dei desaparecidos, di cui sono state distrutte le soggettività e i legami sociali primari,
hanno bisogno per reinserirsi nella società non solo di veder riconosciuto quanto è accaduto, ma di
poterlo “re-inscrivere simbolicamente” (p. 215), collocarlo in narrazioni dotate di senso. E questo è
lavoro per gli storici – oltre che per gli psicoanalisti, quali i Viñar sono.
Essi sono d’altra parte consapevoli che nelle situazioni di transizione, come quella che
caratterizza attualmente molti Stati sudamericani, emerge una potente esigenza sociale di amnesia.
La comunità nazionale esce dal terrore spaccata in due: coloro che sono stato colpiti e danneggiati,
e coloro che hanno colpito o che almeno sono usciti incolumi. Evitare questa frattura, ricostituire un
tessuto sociale compatto, implica una “ingiunzione all’oblio”, un divieto di rievocare il dolore se
non in forme innocue e controllate (lo stesso meccanismo che ha attenuato la portata delle
epurazioni e della giustizia nell’Italia del dopoguerra, come mostra l’intervento di Mariuccia
Salvati). Si apre così un irrisolvibile dilemma tra sicurezza e giustizia: e di fronte a questo, scrivono
i Viñar, “le deboli democrazie hanno scelto di dare alla sicurezza la priorità sulla giustizia” (p.
218). Ma i traumi non sanati, non “elaborati” e “simbolizzati”, sono destinati a ripresentarsi. Vi è
dunque per questi studiosi una fondamentale responsabilità etica, cui lo storico non può sfuggire,
che consiste nel “costruire una narrazione dell’orrore”, nel contribuire a una memoria sociale che
includa l'esperienza delle vittime e non le isoli.
6. Verità, memoria sociale, uso pubblico della storia.
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Abbiamo dunque da un lato il richiamo al distacco teoretico, dall’altro quello a un rapporto
partecipato tra storico e vittime dei crimini, un rapporto che nella versione dei Viñar ha qualcosa
del transfert psicoanalitico. Sono compatibili queste due prospettive? Il limite della prospettiva di
Medzelevski sta nel fatto che, per condannare palesi strumentalizzazioni, egli rischia di
delegittimare ogni uso pubblico della storia. Occorre invece ribadire che la storia può e deve essere
usata pubblicamente, e che gli storici non possono fare a meno di impegnarsi consapevolmente e
criticamente nel dibattito pubblico. E’ d’altra parte indubbio che storico e giudice sono guidati da
obiettivi diversi e da diverse regole epistemologiche. Come sottolinea Flores nelle conclusioni del
volume, è illusorio pensare di equiparare verità giudiziaria e verità storica, o pensare di porre
quest’ultima sul piano di una perizia tecnica a oggettivo supporto della prima. “La storia,
diversamente dalla giustizia, non ha vestali riconosciute che mettano un punto fermo (la verità
giurudica) alle vicende in discussione; la storia è necessariamente oggetto di una revisione continua
e il suo canone è certamente più ambiguo di quello della giustizia penale” (p. 380).
Lo stesso può forse dirsi del rapporto tra la storiografia e quella che potremmo chiamare memoria
sociale, vale a dire i processi di rievocazione, monumentalizzazione e attribuzione di significati
etico-politici a eventi del passato. La ricerca e il racconto storico sono necessariamente di supporto
ai discorsi pubblici che si sviluppano in tal senso (inclusi, ad esempio, i discorsi commemorativi
della Shoah, o quelli relativi alle guerre o alla Resistenza), ma non coincidono con essi. Nel
dibattito sui limiti etici alle possibilità di rappresentazione della Shoah, cui già ho fatto cenno,
questo punto è stato individuato con grande chiarezza da Hans Kellner (“«Never again» is now”,
History and Theory, 33 [2], 1994; poi in The Postmodern History Reader, a cura di K. Jenkins,
London, Routledge, 1997, pp. 397-412). Kellner vede una fondamentale tensione tra l’obiettivo del
discorso pubblico e celebrativo sulla storia, che ha natura essenzialmente conservativa, e il discorso
della storiografia professionale che è invece essenzialmente innovatore – revisionista, potremmo
dire se questo termine non fosse così negativamente caratterizzato nella discussione odierna.
Il discorso pubblico tende ad attribuire agli eventi del passato significati stabili, quasi sacrali, e a
tramandarli attraverso versioni che potremmo ben chiamare “mitiche” e attraverso pratiche rituali.
La fedeltà a certe interpretazioni del passato è qui il valore positivo, e i mutamenti interpretativi
sono visti come potenziali attacchi. La posta in gioco è la difesa di certi valori etico-politici, che
appaiono legittimati e rafforzati dal radicamento storico. La professione storiografica, al contrario,
per le sue caratteristiche sociologiche prima ancora che per il suo statuto epistemico, tende a
valorizzare l’innovazione conoscitiva, la critica ai resoconti e alle interpretazioni esistenti, la
moltiplicazione dei punti di vista. Il successo di un’opera o la carriera di uno studioso possono
dipendere dalla misura in cui quest’opera e questo studioso presentano nuove acquisizioni e si
distanziano dal panorama precedente degli studi. Mentre il discorso pubblico o la memoria sociale
tendono a costruire monumenti, il discorso storiografico tende a demolirli. Il primo è contripeto, il
secondo centrifugo. E’ per questo, afferma Kellner (op. cit., p. 411), che la moderna professione
storica non risponde bene a funzioni cerimoniali e monumentali, né a quelle di sostegno di stabili
interpretazioni del passato. Lasciata alla sua intima logica, la storiografia accademica e
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professionale tende a “usurpare la storia”, nel senso che a questa espressione si attribuisce nel
discorso pubblico.
Questa tensione fra memoria sociale, professione storiografica, etica (e pratica) della giustizia mi
sembra un nodo fondamentale nel dibattito sull’uso pubblico della storia. Per quanto in tutti e tre gli
ambiti ci si appelli alla verità storica, questa nozione ha in ciascuno di essi un significato molto
diverso; ed è difficile dire che una di queste verità è più “vera”, più importante o gerarchicamente
superiore alle altre. La saldatura non è impossibile, a patto però che si mantenga una distanza
critica. Soprattutto, è illusorio pensare che la verità storica rappresenti un fondamento oggettivo, o
un presupposto (logico e cronologico) per il discorso pubblico sulla memoria dei crimini di massa.
Si potrebbe forse sostenere il contrario: e cioè che il sapere storico può svilupparsi solo dove e
quando si siano create le condizioni politiche per la condanna dei crimini e per l’articolazione di un
corrispondente discorso pubblico. Come scrive Ruti Teitel nel suo intervento al convegno senese,
E’ la verità a permettere cambiamenti politici liberali, o sono i cambiamenti politici a
permettere il ripristino di un governo democratico e il racconto della verità?E ancora,
come può esattamente la verità impedire una catastrofe futura? La preseunzione teorica
per cui è la verità in sé a essere liberatrice – e di conseguenza che la verità sia in grado
di condurre alla democrazia – è sembrata errata quasi ovunque sotto il profilo della
realtà pratica (p. 270).
L’intervento di Teitel, “Giustizia di transizione come narrativa liberale”, mostra meglio di ogni
altro saggio del volume l’intreccio strettissimo tra i processi penali, la narrazione storiografica e la
costruzione della memoria sociale. Questi livelli si influenzano a vicenda, e contribuiscono alla
costruzione di una rappresentazione condivisa del passato strutturata su precisi modelli retorici.
Analizzando i racconti (sia letterari sia “veritieri”) dei periodi di trasformazione politica che
seguono a un potere repressivo, ad esempio nell’America Latina e nell’Europa dell’Est, Teitel vi
scorge all’opera una medesima matanarrazione, incentrata sulla rivelazione di conoscenze segrete,
di informazioni precedentemente occultate, di appropriazione di una nuova verità. Questa profonda
struttura metanarrativa suggerisce che la transizione sia appunto guidata dalla verità, che il
cambiamento, come si è espresso Václav Havel, sia un passaggio dal “vivere nella menzogna al
vivere nella verità” (cit. a p. 271). Si sostiene, esplicitamente o implicitamente, che “se ci fosse stata
prima la conoscenza, le cose sarebbero andate ben diversamente. E, al contrario, ora che la verità è
stata pubblicamente resa nota, la realtà avrà un corso assai diverso” (Ibid.).
Teitel valuta questo modello narrativo in una prospettiva non descrittiva (come detto, il rapporto
tra verità e mutamento che esso pone è per molti versi illusorio) ma normativa. Ritenere che la
verità guidi la transizione è a suo parere il valore-guida del liberalismo politico: dunque i racconti di
transizione svolgono una fondamentale funzione pedagogica nel modellamento di una identità
liberale (p. 274). Si dovrebbe estendere questa analisi retorica all’attuale discorso pubblico sulla
Shoah e sui crimini del Novecento. L’argomento del “conoscere il cattivo passato perché non si
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ripeta”, con i relativi viaggi guidati ad Auschwitz, interventi di testimoni nelle scuole, documentari
televisivi, o conferenze organizzate per la Giornata della Memoria, dovrebbe esser considerato in
questo quadro: cioè come una propedeutica o un’autocelebrazione dei valori di una società e di
un’epoca che si ritiene al di là dei crimini. C’è in tutto questo un fondamentale elemento di fiction.
Il discorso del “mai più” si presenta più o meno così: dobbiamo conoscere la verità storica e, sulla
base di questo oggettivo fondamento, condannare certi valori e sceglierne altri. Ma l’analisi storica
ci mostra un processo piuttosto diverso: vi sono mutamenti di scenari politici e di quadri di valori al
cui interno matura la possibilità (e forse l’inevitabilità) di certe narrazioni del passato, di un certo
senso della verità storica.
Qui il problema si fa piuttosto intricato. Si può dire delle narrazioni liberali di transizione, così
come di un certo discorso pubblico sulla memoria, che si fondano su una inaccurata descrizione dei
rapporti tra verità, trasformazioni politiche e giustizia. D’altra parte, queste forme di discorso (e le
pratiche sociali ad esse legate) hanno grande importanza civile ed educativa: promuovono valori e
ideali normativi centrali per una democrazia liberale. E’ per questo che, come abbiamo visto, gli
attacchi (“relativisti”, “decostruzionisti”) a nozioni troppo forti della verità storica sono visti come
attacchi agli stessi valori liberal-democratici. Ma è davvero necessario accettare questa equazione?
Non è possibile fondare una memoria civicamente impegnata su narrazioni più scettiche o
autoriflessive? In altre parole – è il dubbio con il quale chiudo – non potrebbe l’ironia postmoderna
rivelarsi uno scenario di giustizia storica migliore di quella aperto da una Verità che dopotutto, sul
piano pratico, non ha poi dato così grande prova di sé?
* Testimonianze, XLV (3), 2002, pp. 28-43
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5. Antropologia della violenza nel XX secolo
Fabio Dei - Università di Roma “La Sapienza”
1. La “belva umana”
In questo intervento vorrei discutere il contributo dell'antropologia e delle scienze sociali alla
comprensione della violenza di massa nel ventesimo secolo: in particolare di quelle pratiche di
genocidio che lo hanno caratterizzato con tanta forza da farlo oggi apparire a molti come il “secolo
delle tenebre”1. Come lavora la comprensione antropologica in relazione a eventi storici? Credo si
tratti di mettere in evidenza i collegamenti tra manifestazioni della violenza di massa e schemi
culturali, caratteristiche di lunga durata delle società e delle soggettività che ne sono state
protagoniste. Occorre capire se e come la violenza possa essere intesa non come pura esplosione di
brutalità selvaggia, né semplicemente come mezzo volto a raggiungere un fine (la conquista del
potere o della ricchezza): capire se possano individuarsi al di sotto di essa delle logiche culturali
profonde, dei significati socialmente condivisi da parte sia dei carnefici che delle vittime.
Naturalmente, parlare di significati o di valori della violenza non deve essere equivocato: non si
tratta di giustificarli (comprendere non è perdonare), ma di intenderli come comportamenti umani,
contro la diffusa concezione di senso comune che riconduce la crudeltà o la violenza genocida a
inumanità, comportamento bestiale o patologico, follia, qualcosa che sta al di là della cultura e della
civiltà2. Come se la cultura e la civiltà, o l'educazione, o il progresso, fossero il contrario della
violenza, e bastassero da soli a contrastarla; come se i crimini del Novecento, dal genocidio degli
armeni, alla Shoah, alla ex-Jugoslavia, fossero nient'altro che momentanee ricadute nella barbarie,
legate a perversioni della modernità, o al riemergere di condizioni premoderne, come gli odii tribali
o etnici, i sentimenti primordiali di appartenenza e di contrapposizione - categorie, come vorrei
mostrare, assai equivoche e fuorvianti. Al contrario, le caratteristiche della violenza di massa del
Novecento sono legate strettamente a caratteristiche costitutive della modernità; forse, addirittura,
non sono pensabili al di fuori della modernità.
Neppure una contrapposta tesi “utilitarista”, che vede la guerra semplicemente come
“prolungamento della politica con altri mezzi”, secondo la celebre definizione di von Clausewitz, è
soddisfacente: è difficile comprendere la violenza di massa come pura conseguenza della razionalità
economica di un soggetto astratto e universale. Ma contro il senso comune dominante, è forse più
urgente sgombrare il campo dalla tesi della “belva umana”, dall'idea che le violenze di massa si
producono solo quando vengono meno i freni della civiltà, lasciando riemergere la brutale natura
selvaggia degli uomini. Una tesi hobbesiana, diciamo, secondo la quale lo stato di natura degli
La definizione è di T. Todorov, “Il secolo delle tenebre”, in M. Flores (a cura di), Storia, verità, giustizia. I crimini del
XX secolo, Milano, Bruno Mondadori, 2001, pp. 1-8.
2
J. Abbink, “Preface: Violation and violence as cultural phemomena”, in G. Ajimer, J. Abbink (eds.), Meanings of
Violence. A Cross-Cultural Perspective, Oxford, Berg, 2000, p. xiii.
1
65
esseri umani è violento, e la convivenza pacifica si produrrebbe solo con il contratto sociale, con il
quale gli uomini rinunciano alla violenza conferendone il monopolio allo Stato. Questa prospettiva
coglie, certo, un aspetto importante di quello che chiamiamo il processo di civilizzazione; e tuttavia,
la contrapposizione natura-cultura non è molto promettente come chiave di lettura della violenza. I
tentativi di spiegare la violenza storica, o anche certe sue manifestazioni sociologiche (come la
violenza giovanile), sulla base della naturale aggressività degli esseri umani sono non tanto errati,
quanto banali e poco significativi. La stessa ricerca neurobiologica ha smentito questa idea di senso
comune, criticando p.es. le applicazioni alla realtà umana delle teorie etologiche alla Konrad
Lorenz3, secondo le quali la società e la cultura si preoccuperebbero di fornire delle valvole di sfogo
innocue per il deflusso di una naturale aggressività da predatore che non trova sbocchi diretti.
Queste teorie interpretano la violenza come un vuoto di cultura (i ragazzi “con la testa vuota”),
laddove occorre capirla come un prodotto della cultura, come “piena” di significati4. Anzi, come
vedremo, non riusciamo a capirla se non collegandola ai meccanismi di produzione del potere.
2. Riti della violenza
Vorrei procedere nell’analisi del problema discutendo alcuni esempi storiografici. Il primo
riguarda un caso apparentemente minore e assai locale di violenza politica, che presenta tuttavia
grande interesse metodologico. Si tratta di un episodio di linciaggio avvento a Roma nel settembre
del 1944, pochi mesi dopo la liberazione, studiato in una recente e accuratissima monografia da
Gabriele Ranzato5. Donato Carretta, direttore delle carceri di Regina Coeli nel periodo
dell'occupazione tedesca, viene catturato e linciato da una folla inferocita nel corso del processo che
si sta celebrando contro Pietro Caruso, questore di Roma, zelante collaborazionista e tra i principali
responsabili dell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Il linciaggio non è organizzato e preparato. Alcune
donne inveiscono contro Carretta, che riconoscono come responsabile dell'arresto e uccisione dei
propri figli; la folla comincia a inseguirlo, e si apre una specie di caccia del gatto con il topo.
Carretta viene picchiato, poi momentaneamente messo in salvo dalle forze dell'ordine, poi ancora
preso dalla folla, picchiato e gettato in Tevere per affogarlo. Incredibilmente ancora vivo, comincia
a nuotare verso la riva. A questo punto intervengono i bagnanti di uno stabilimento balneare sulle
rive del fiume, che lo inseguono in barca e lo colpiscono con i remi (da notare che questi sono
soggetti completamente estranei alla vicenda che stava maturando attorno al tribunale). Una volta
ucciso, la folla fa scempio del cadavere e lo trascina fino alle carceri di Regina Coeli, dove viene
appeso a testa in giù alle cancellate, secondo un classico rituale di degradazione.
Ora, nell’evento del linciaggio di Carretta sono almeno due gli aspetti la cui comprensione
sembra non potersi esaurire nello specifico contesto delle vicende romane del ’44. In primo luogo,
3
4
V. su questo P. Karli, L’uomo aggressivo, trad. it Milano, Jaca Books, 1990 (ed. orig. 1987)
Per gli aspetti epistemologici e metodologici del problema, qui appena accennati, rimando a F. Dei, “Interpretazioni
antropologiche della violenza, tra natura e cultura”, in AA.VV., Alle radici della violenza, Udine, Paolo Gaspari
editore, 1999, pp. 31-55; F. Dei, “Perché si uccide in guerra”, Parolechiave, 20-21, 1999 [2000], pp. 281-301.
5
G. Ranzato, Il linciaggio di Carretta, Roma 1944. Violenza politica e ordinaria violenza, Milano, Il Saggiatore, 1997.
66
le modalità dell’esplosione della violenza, che sembrano sfidare ogni possibile teoria dell’agire
razionale - cioè, nessuna motivazione (possibile o reale) di ordine in senso lato politico è sufficiente
a giustificarla. In particolare, è sconcertante il modo in cui gruppi successivi di persone si
aggregano al linciaggio, senza neppure conoscerne la vittima - soprattutto i bagnanti. Come detto,
dopo che Carretta è gettato nel fiume e tenta di salvarsi a nuoto, viene colpito e fatto affogare con
incredibile crudeltà da persone in calzoncini da bagno che erano fino a un attimo prima
completamente estranee al contesto del processo Caruso, nel cui ambito il linciaggio prende avvio.
Il secondo aspetto del linciaggio che non appare intelligibile alla sola luce del contesto locale è la
sua “sintassi simbolica”. Un’azione iniziata in modo quasi casuale, sicuramente non preparata in
anticipo, condotta in modo confuso, interrotta più volte dall’intervento delle forze dell’ordine dunque, lontanissima da un piano preordinato - quest’azione finisce tuttavia per seguire precise
configurazioni simboliche, facilmente individuabili a un’analisi comparativa come quella compiuta
da Ranzato. Il tentativo di far schiacciare Carretta da un tram, il lancio nel fiume, lo scempio del
cadavere trascinato per le strade di Roma e appeso a testa in giù alle carceri di Regina Coeli «detronizzato» nel suo stesso regno, come scrive l’autore: tutti questi elementi non sono casuali, e
rispondono invece a una logica simbolica precisa, che troviamo espressa con impressionanti
analogie in documenti storici riguardanti i supplizi corporali nelle società di antico regime e le
pratiche regicide nelle rivolte popolari dell’Europa moderna. Tanto che Ranzato può parlare di una
qualità rituale dell’evento:
è difficile allora non interpretare le modalità del massacro di Carretta […]
fondamentalmente come un rito – che in quanto tale ha una notevole fissità nel tempo –
di rovesciamento del potere, di – letteralmente – capovolgimento e dissacrazione. Rito
politico che si sarebbe ripetuto, a una scala ben più ampia, a pochi mesi dall’episodio
del linciaggio di Carretta, con il cadavere di Mussolini a Piazzale Loreto6.
Il che è paradossale : poiché un rito è un evento assolutamente strutturato, organizzato secondo un
ordine rigoroso, l’esatto contrario dalla caotica baraonda che si verifica quel giorno del ’44 al
Palazzo di Giustizia di Roma. Eppure c’è l’inquietante emergere, quasi spontaneo, della sintassi
simbolica della detronizzazione, e vediamo i comportamenti incontrollati della “folla impazzita”
configurarsi secondo un ordine antico, come per un disegno superiore. Fatto tanto più sconcertante
in quanto, come osserva Ranzato, gli attori della vicenda difficilmente potevano possedere, per così
dire, quella specifica competenza simbolico-rituale : né in modo diretto (perché, come dice un
commentatore, è dai tempi di Cola di Rienzo che a Roma non succedeva nulla di simile) né
indirettamente (attraverso libri etc.).
Dunque, come spiegare l’emergere della violenza da un lato, e dall’altro il suo configurarsi
secondo un ordine simbolico e rituale, quasi indipendentemente dalla consapevolezza e dalla
Ibid., p. 128. Per una approfondita analisi dell’episodio di Piazzale Loreto v. Sergio Luzzatto, Il corpo del duce,
Torino, Einaudi, cap. 2.
6
67
volontà degli stessi attori ? Si deve dire intanto che Ranzato libera subito e opportunamente il
campo dalle teorie alla Gustave Le Bon sull’irrazionalità del comportamento delle folle, considerate
come un soggetto collettivo nel quale si cancellano le singole persone che ne fanno parte. Teorie
che, curiosamente, sono fatte proprie dalla stessa Commissione d’inchiesta sul linciaggio di Carretta
e dalla Corte giudicante nel corso del processo7. Le pagine del libro su questo tema sono molto
lucide : Ranzato non nega una peculiarità all’azione sociale della «folla esaltata» (mob), ma si
richiama a una tradizione storiografica che rifiuta l’irrazionalità come spiegazione di eventi sociali,
e soprattutto insiste nel non considerare la folla come un’unità indistinta e indifferenziata. La sua
analisi delle motivazioni dell’eccidio mette infatti a fuoco alcuni singoli individui - gli imputati considerati come rappresentativi di categorie o tipologie di partecipanti al linciaggio. Il giovane
idealista, il piccolo delinquente di quartiere, la madre di paese in cerca di vendetta, e così via. Credo
che si potrebbe andar oltre nel supporre il carattere altamente differenziato e quasi “organizzato”
della folla. L’antropologia, ed esempio, quando ha potuto studiare direttamente eventi collettivi, nei
quali la folla è protagonista, ha quasi sempre riscontrato non solo la presenza nella folla di singole
e molto diverse personalità, ognuna mossa da particolari motivazioni: ma anche l’immediata
attivazione di relazioni interpersonali che tendono a stabilire ruoli di leadership, a imporre corsi
d’azione, a contrattare ed accreditare valori e significati8. Ma naturalmente quasi sempre ci
mancano i dati per compiere simili analisi, cioè ci manca l’accesso alle immediate pratiche
discorsive degli attori sociali ; in storia, per definizione, ci manca l’osservazione partecipante. Potrà
sembrare una forzatura razionalistica, ma è assai probabile che la folla “indistinta” e “impazzita”
sia stata articolata in ruoli precisi e sia stata percorsa, nei brevi momenti che hanno preceduto il
linciaggio, da pratiche comunicative (non solo verbali) che hanno spinto a un certo tipo di
comportamento. E questo mi pare coerente con l’osservazione di Ranzato9 sull’origine colta e
politicizzata della configurazione simbolica assunta dal linciaggio, e sulla presenza di “mediatori”
intellettuali in grado di trasmettere alla folla significati e modelli comportamentali acquisiti dalla
letteratura, dai media, dalla stessa conoscenza storiografica.
La critica alle spiegazioni basate sull’irrazionalità della folla, tuttavia, non risolve di per sé il
problema. Ranzato analizza minuziosamente le diverse motivazioni che muovono o possono
muovere gli individui coinvolti nella vicenda : da quelle politiche, a quelle di vendetta personale.
Ma conclude che esse, nel loro insieme, non sono sufficienti a spiegare il linciaggio di Carretta, nel
quale resta una dimensione oscura, di pura e gratuita violenza, di “malvagità popolare” 10, che non è
comprensibile in termini di moventi o motivazioni, che non sembra potersi adattare ad alcuna teoria
dell’agire razionale. Anche l’ipotesi che Carretta sia oggetto di meccanismi di “spostamento”,
“proiezione” o “condensazione”, per usare termini della psicoanalisi, cioè che si indirizzi su di lui la
7
G. Ranzato, op. cit, p. 141
Un esempio particolarmente interessante, in tutt’altro campo di ricerca, è rappresentato dalle analisi di Paolo Apolito
sulle apparizioni mariane ad Oliveto Citra, nella Campania degli anni ’80: dove si mostra quanti negoziati, quanti
scontri e quante “manovre sociali” stiano dietro a un evento tradizionalmente collocato nella categoria dell’ “eccitazione
collettiva”; P. Apolito, Dice che hanno visto la Madonna, Bologna, Il Mulino, 1990.
9
G. Ranzato, op. cit., p. 140
10
Ibid., p. 161
8
68
violenza e il rancore che in realtà è rivolto verso il questore Caruso, verso i massacratori tedeschi, o
verso tutte le ingiustizie del mondo, non risolve il problema. Resta un residuo di violenza
apparentemente immotivata, fine a se stessa, praticata per il puro piacere della violenza.
Come comprendere questo aspetto? Ranzato inquadra la vicenda Carretta nel contesto di un forte
aumento degli episodi di violenza nel corso della guerra. La guerra è naturalmente il “lievito” della
violenza, e la violenza degli episodi bellici trapassa naturalmente all’interno della stessa società
civile, fra l’altro per l’enorme disponibilità di armi e per l’indebolimento e la perdita di autorità
degli apparati repressivi, ma anche perché la guerra diffonde valori che svalutano l’importanza e la
dignità della vita umana11, produce assuefazione alla sopraffazione fisica e così via. La situazione di
guerra può dunque esser letta come un contesto che cancella o sospende le condizioni attuali del
processo di civilizzazione. Il libro di Ranzato contiene ampi riferimenti alle tesi del sociologo
Norbert Elias, che ha studiato il modo in cui le istituzioni sociali hanno storicamente messo sotto
controllo i naturali impulsi aggressivi dell’uomo, il piacere della violenza e dell’aggressione fisica,
che divengono monopolio del potere centrale. Il processo che Elias chiama di civilizzazione
consiste appunto nella eliminazione dei comportamenti violenti dalle pratiche quotidiane ; ma
questa inibizione non cancella gli impulsi, che si esprimono o in forme per così dire sublimate (lo
sport è per Elias una di queste), o riemergono nella loro natura originaria in periodi di crisi, di
turbamento sociale, di rivoluzioni e guerre.
L’opera di Elias ricostruisce la storia dell’Occidente nei termini di un continuo processo di
spostamento della linea che demarca i comportamenti accettati da quelli non accettati, quelli
normali da quelli abnormi, e che in sostanza accentua progressivamente gli elementi di controllo sui
sentimenti, le emozioni, le scariche pulsionali e i contatti fisici diretti tra gli esseri umani.
Attraverso le diverse epoche storiche si sono formate barriere sia istituzionali che psicologiche
contro la manifestazione immediata dei sentimenti, contro i contatti fisici che non rientrino in sfere
ben determinate come quella della sessualità, dello sport o di microrituali sociali estremamente
controllati (il bacio, la stretta di mano, etc.) ; ed è cambiato molto l’atteggiamento nei confronti
della violenza. Elias confronta ad esempio le manifestazioni dell’aggressività nelle moderne società
occidentali con quelle che caratterizzavano il Medioevo, mostrando come nelle prime l’aggressività
risulti fortemente controllata e attenuata, persino in contesti come la guerra :
essa è stata condizionata, pur nel mezzo dell’azione bellica, dalla più avanzata
divisione delle funzioni, dal più accentuato legame tra i singoli individui, dalla
maggiore dipendenza degli uni dagli altri e di tutti dall’apparato tecnico; è stata limitata
e smussata da un’infinità di regole e divieti che sono diventati autocostrizioni (dunque
sono stati interiorizzati). Si è pertanto trasformata, raffinata e civilizzata come tutte le
altre forme di piacere; e soltanto nel sogno o in singole esplosioni, che registriamo come
fenomeni patologici, si riaffaccia in parte con la sua forza immediata e scatenata12.
11
12
Ibid., p. 180
N. Elias, La civiltà delle buone maniere, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1988, p. 346
69
Elias documenta ad esempio per il Medioevo il piacere di uccidere e torturare come
manifestazione di potere, e la presenza dei valori della violenza nel codice cavalleresco, che noi
associamo di solito a valori di altro tipo. Traccia quindi un profilo psicologico dell’uomo
medioevale come dominato da sentimenti contrastanti ma fortissimi, da esplosioni improvvise di
gioia e allegria, dalla facilità di infiammarsi in reazioni di odio e aggressività:
Gli impulsi, le emozioni si manifestavano in modo più libero, più scoperto e più
diretto di quanto sarebbe avvenuto in seguito. Siamo soltanto noi, divenuti più moderati,
più misurati e più calcolatori, noi che nella nostra economia pulsionale abbiamo
interiorizzato in misura assai maggiore come autocostrizioni i tabù sociali, a considerare
contraddittoria - ad esempio - la grande devozione religiosa e le manifestazioni di
aggressività e di assoluta crudeltà. Nella società medioevale, chi non sapeva amare o
odiare con tutte le sue forze era destinato all’emarginazione sociale : così come, in
società successive (p.es nella vita di corte delle grandi monarchie), vi sarà destinato chi
non sarà in grado di dominare le sue passioni e celare i suoi affetti, dimostrandosi così
“civile”13.
Questi mutamenti sono legati per Elias all’affermarsi di un potere centrale (virtualmente assente
nel Medioevo) che assume il monopolio della violenza e della sopraffazione fisica, non consentendo
più ai singoli individui di esercitarla - salvo a poche persone delegate a tal scopo, come il boia, il
poliziotto, il soldato, o salvo situazioni controllate come i rituali e lo sport; ma anche nei rituali e
nello sport si assiste a un processo di progressiva civilizzazione o “sublimazione”, in cui la violenza
è simbolizzata più che realmente agita.
Tornando a Carretta; alla fine della seconda guerra mondiale ci troveremmo dunque in un contesto
disgregato, in cui i legami e i valori sociali sono indeboliti, e che lascia in parte riemergere una
violenza per così dire originaria, una sorta di naturale gioia di distruggere e di uccidere. Tesi
convincente, salvo per un aspetto: l’idea cioè che la tendenza alla violenza sia un aspetto naturale,
universale e astorico degli esseri umani. Come già detto, questo è un assunto naturalistico, poco
utile per comprendere i fenomeni storici. La “sospensione momentanea del processo di
civilizzazione” non dev’esser intesa come un vuoto che si sostituisce a un pieno, un negativo a un
positivo, la natura che prende il sopravvento sulla cultura: bensì come l’affermazione di un diverso
codice culturale (forse più arretrato, se ci piace considerarlo in una prospettiva “progressista” come
quella di Elias), tanto poco naturale quanto quello che inibisce la violenza. Da dove viene questo
codice ? Dalla guerra, indubbiamente. Ma c’è anche un altro aspetto: il regime fascista ha
fortemente promosso i valori della violenza, nonché una chiara sintassi o strutturazione simbolica
della violenza, che deve aver fatto presa con forza su una generazione.
13
Ibid., p. 358
70
Il fascismo ha legato alla pratica della sopraffazione fisica la sua immagine, oltre che la pratica
concreta del suo potere. In esso, la violenza è incoraggiata come valore e usata come strumento del
potere. Essa non si limita a riemergere dagli oscuri recessi dell’inconscio, ma è positivamente e
“culturalmente” sostenuta. Ogni violenza è in questo senso politica; e la cultura della violenza
permea paradossalmente la stessa pratica degli oppositori al fascismo14. E’ peraltro noto il
fenomeno per cui le vittime della violenza si appropriano facilmente del suo linguaggio, della sua
simbologia. Il che ci porta al secondo esempio che vorrei discutere.
3. Un continuum genocida
L’aspetto del lager che forse più di ogni altro sconvolge Primo Levi è il fatto che le vittime, gli
ebrei internati nei lager, si appropriano facilmente della cultura e dei comportamenti dei loro
aguzzini, giungendo a riprodurli nella vita del campo. I libri di Levi, più di ogni altro racconto o
riflessione sui lager nazisti o sui gulag sovietici, sembrano andar oltre la peculiarità spaziale e
temporale - quei determinati campi, in quel periodo storico etc. - e avviare invece una riflessione
generale sulla cultura moderna e sull'etica delle relazioni umane. Una delle sue idee è che il campo
rappresenti una sorta di gigantesco e terribile esperimento antropologico:
Si rinchiudano fra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine,
lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante,
controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno
sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa
acquisito nel comportamento dell'animale uomo di fronte alla lotta per la vita15.
Levi aggiunge che da ciò non si possono trarre facili deduzioni sull'egoismo, la brutalità o la
stupidità degli esseri umani, laddove sia tolta loro ogni infrastruttura civile. Sottolinea invece
l'emergere di due categorie, che chiama i sommersi e i salvati – binomio che, com’è noto, dà il
titolo a una sua più recente riflessione saggistica sull’esperienza del lager. I salvati sono quelli
che in qualche modo sanno adattarsi alla legge del lager, che è una legge “apertamente iniqua”. I
primi sono i "mussulmani", gli "uomini in dissolvimento" - una specie di simulacro di essere
umano, in cui qualche filosofo ha voluto vedere una figura della soggettività contemporanea, il
prodotto estremo di una tendenza che caratterizza l'intera modernità16. Ma Levi è fortemente
colpito da chi si adatta, da tutti coloro che nel lager non si collocano né dalla parte degli
assassini né da quella delle vittime, occupando una zona intermedia, di chiaroscuro, che Levi
definisce appunto la zona grigia (con termine che sarà poi ampiamente ripreso dagli storici e
14
Su questo punto è fondamentale il contributo di C. Pavone, Una guerra civile, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, in
particolare cap. 7.
15
P. Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1958 (ed. orig. 1947), p. 105
16
Si veda fra i contributi più recenti G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1999
71
usato anche per contesti esterni al lager). Gli ebrei che hanno fatto parte della zona grigia, che
hanno accettato la legge del lager, partecipando ad esempio alla persecuzione dei propri stessi
compagni per ottenere piccoli vantaggi personali, pongono i problemi etici forse più grandi spalancano abissi di oscurità morale forse ancora più incomprensibile di quella delle stesse SS.
E' ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema infero, qual era il
nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime; al contrario, esso le degrada, le assimila a
sé, e ciò quanto più esse sono disponibili, bianche, prive di un’ossatura politica o
morale. Da molti segni, sembra che sia venuto il momento di esplorare lo spazio che
separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori […] Solo una retorica
schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di
figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità a un tempo), che è
indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana, e se vogliamo saper
difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente
prospettare…17
Levi ritiene che questa struttura delle relazioni umane nei lager rispecchi la natura dei regimi
totalitari, “in cui tutto il potere viene investito dall'alto e un controllo dal basso è quasi
impossibile”18. Troviamo qui il nucleo di una teoria che collega direttamente i crimini del XX
secolo con l'esperienza politica dei totalitarismi. E' il rapporto tra potere e soggettività umana
proprio del totalitarismo, in contrapposizione al liberalismo, che crea le condizioni per il
genocidio e la violenza di massa.
Un secondo grande elemento di riflessione nell’opera di Levi riguarda i meccanismi di
disumanizzazione messi in atto all'interno del lager: cancellazione dell'identità personale
(capelli rasati, divise, numero al posto del nome, eliminazione di ogni rete di relazioni
personali), la serie di inutili violenze e sofferenze inflitte, le offese al pudore (la nudità, l'essere
obbligati a evacuare in pubblico), il lavoro usato come tortura, e una serie di piccole privazioni
quotidiane, assolutamente inutili e inflitte quasi per un gusto sadico (come il dover mangiare la
minestra senza un cucchiaio). Levi si interroga sui meccanismi di degradazione e sui loro effetti
sulle vittime, ma anche sulla soggettività degli esecutori della violenza. Come possono normali
esseri umani comportarsi in modo non solo violento, ma tanto crudele e spietato, con un surplus
di violenza inutile che non può esser spiegato dalle sia pur terribili finalità politiche razziste e
genocide del regime hitleriano? Le sue risposte sono due. La prima fa riferimento all'educazione
alla violenza tipica dei regimi totalitari e del nazismo in particolare. Le SS erano state educate
alla violenza, dice Levi:
17
18
P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986, pp. 27-8
Ibid., p. 33
72
La violenza scorreva nelle loro vene, era normale, ovvia. Trapelava dai loro visi, dai
loro gesti, dal loro linguaggio. Umiliare, far soffrire il “nemico”, era il loro ufficio di
ogni giorno: non ci ragionavano sopra, non avevano secondi fini: il fine era quello. Non
intendo dire che fossero fatti di una sostanza umana perversa, diversa dalla nostra (i
sadici, gli psicopatici c’erano anche fra loro, ma erano pochi): semplicemente erano stati
sottoposti per qualche anno ad una scuola in cui la morale corrente era stata capovolta.
In un regime totalitario, l’educazione, la propaganda e l’informazione non incontrano
ostacoli: hanno un potere illimitato, di cui chi è nato e vissuto in un regime pluralistico
difficilmente può costruirsi un’idea19.
La seconda risposta, parzialmente in contrasto con la prima, fa riferimento a un’affermazione
del criminale nazista Franz Stangl, comandante di Treblinka, intervistato nel 1971 dalla
giornalista Gitta Sereny:
“Visto che li avreste uccisi tutti…che senso avevano le umiliazioni, le crudeltà?”,
chiede la scrittrice a Stangl, detenuto a vita nel carcere di Dusseldorf; e questi risponde:
“Per condizionare quelli che dovevano eseguire materialmente le operazioni. Per
rendergli possibile fare ciò che facevano”. In altre parole: prima di morire, la vittima
dev’essere degradata, affinché l’uccisore senta meno il peso della sua colpa20
Questa seconda risposta contrasta forse con la precedente, come detto, perché suppone che le
SS non avessero perduto completamente il senso della morale comune, e avvertissero anzi il
contrasto fra una coscienza umanitaria e le imposizioni dell'ideologia nazista. La violenza
eccessiva potrebbe esser letta allora come una risposta alla dissonanza cognitiva causata da
questo contrasto: cioè dalla necessità per i nazisti di agire al punto d'intersezione fra due insiemi
di valori contrastanti, quello imposto con forza dall'indottrinamento ideologico e quelli di una
morale elementarmente umana assai più profondamente radicata che non era stato possibile
estirpare del tutto nel breve periodo della rivoluzione antropologica propugnata dal nazismo, dai
suoi tentativi di creare un uomo nuovo21.
Ma nelle riflessioni di Levi sulla distruzione sistematica dell'identità personale e dei requisiti
di umanità vi è un elemento ancora più inquietante: queste pratiche di esercizio del potere non
sono affatto esclusive del lager. Le ritroviamo invece largamente disseminate in istituzioni
caratterizzanti la modernità: p.es. nelle prigioni, nell'organizzazione del lavoro industriale,
nell'esercito, in tutte quelle che Goffman ha chiamato le istituzioni totali, e che Foucault ha
analizzato in libri come Storia della follia o Sorvegliare e punire. Si tratta di strategie
19
Ibid., p. 97
Ibid., p. 101. L’affermazione di Stangl si trova in G. Sereny, In quelle tenebre, trad. it. Milano, Adelphi, 1975, p. 135.
21
Per l’applicazione del concetto di dissonanza cognitiva al contesto della Shoah v. A.L. Hinton, “Why did the Nazis
kill? Anthropology, genocide and the Goldhagen controversy”, Anthropology Today, 14 (5), 1998, pp. 9-15.
20
73
attraverso le quali il potere si esercita sui corpi, che nel lager trovano una forma estrema,
eccessiva e quasi terribilmente caricaturale, ma pur sempre strategie note22. Si pone allora il
problema della continuità o discontinuità della pratica della violenza nel lager rispetto alle
forme “normali” di esercizio del potere nella modernità. Proviamo ad elencare alcune delle cose
che più ci colpiscono del lager:
- la classificazione del genere umano in specie cui viene riservato un trattamento radicalmente
diverso, titolari di diritti completamente diversi; e anche il fatto che queste specie siano
contrassegnate sul piano fisico, cioè da marcatori che appartengono all'ordine del biologico;
- il fatto che il potere si eserciti direttamente sui corpi attraverso la reclusione, una disciplina
rigorosissima e “razionale” del tempo e dello spazio, forme di privazione e pratiche miranti
a infliggere dolore e sofferenza, torture fisiche e morali;
-
il fatto che questo diverso trattamento possa portare alla eliminazione di un gran numero di
individui delle categorie più basse, anche attraverso forme seriali di uccisione, e che questa
eliminazione sia vista con una sostanziale indifferenza morale da molte persone appartenenti
alle categorie privilegiate.
Tutto ciò lo ritroviamo in altri aspetti della modernità, anche se in forme meno palesi.
Sicuramente lo ritroviamo nei rapporti che l'Occidente ha stabilito con i paesi coloniali.
L'imperialismo è stato una vera e propria palestra di formazione di quei valori e di quelle
pratiche che si sono poi manifestate nella Shoah - in termini di classificazione del genere
umano, di pratiche di espropriazione, violenza e sterminio, nonché di indifferenza morale.
Soprattutto la crudeltà e la “violenza inutile”, che tanto colpiscono nella Shoah, si esercitano
sistematicamente nella situazione coloniale. La conquista dell’America ne costituisce una
situazione paradigmatica. Prendiamo come esempio un racconto di Las Casas su un massacro
compiuto a Caonao (Cuba) dagli spagnoli:
Bisogna sapere che gli spagnoli, il giorno del loro arrivo, si fermarono al mattino per
far colazione nel letto prosciugato di un torrente, disseminato ancora, qua e là, da alcune
piccole pozze d'acqua e pieno di pietre da molare: ciò suggerì loro l'idea di affilare le
spade.
Giunti al villaggio indigeno, agli spagnoli viene in mente di verificare la nuova affilatura delle
spade:
All'improvviso uno spagnolo (nel quale si può pensare fosse entrato il demonio), trae
la spada dal fodero, e subito gli altri cento fanno altrettanto: e cominciano a sventrare, a
trafiggere e a massacrare pecore e agnelli, uomini e donne, vecchi e bambini che se ne
stavano seduti tranquillamente lì vicino, guardando pieni di meraviglia i cavalli e gli
22
Per una recente riflessione su questi temi v. E. Traverso, La violenza nazista. Una genealogia, Bologna, Il Mulino,
2002
74
spagnoli. In pochi istanti, non rimase vivo nessuno. Entrati allora nella grande casa
vicina...gli spagnoli si misero ad uccidere, colpendoli di taglio e di punta, tutti coloro
che vi si trovavano: il sangue colava dappertutto, come se fosse stata scannata una
mandria di vacche23
Il racconto, nella sua essenzialità, è agghiacciante. Ciò che colpisce di più in esso è la gratuità
dell'atto degli spagnoli. Non vi sono ragioni apparenti che muovono il loro comportamento, se non
che “il diavolo è entrato dentro di loro”, come si esprime Las Casas (e il diavolo, nel linguaggio di
Las Casas e dell'Europa cattolica del '500, ha lo stesso valore semantico che ha per noi il
riferimento a un substrato arcaico di piacere per la violenza, a un affioramento di oscure pulsioni da
sotto lo strato sottile della civilizzazione). La comunità dei massacratori e quella dei massacrati
sono estranee l'una all'altra: non si conoscono, ma neppure si odiano, non sono nemiche in senso
proprio. Ciò rende l'eccidio ancora più incomprensibile, opaco ad ogni possibile ragione umana.
Inoltre, terribile è la sproporzione tra l'enormità del delitto e la leggerezza con cui viene compiuto.
Commentando il racconto di Las Casas, Todorov introduce l’importante distinzione tra una logica
del sacrificio e una logica del massacro, e tra società in cui queste due logiche sono rispettivamente
prevalenti. A Caonao, dice Todorov, “tutto avviene come se gli spagnoli provassero un piacere
particolare nella crudeltà, nell'esercizio del potere sugli altri, nella dimostrazione di poter dare la
morte”24. Questa è una crudeltà molto diversa, ad esempio, da quella dei sacrifici umani degli
Aztechi (pure citati spesso come paradigma di crudeltà). Aztechi e spagnoli del XVI secolo sono
per Todorov rappresentativi di due contrapposti usi della crudeltà, che rimandano appunto alle
categorie di sacrificio e di massacro.
Le differenze sono così sintetizzabili: il sacrificio è un delitto religioso; l’identità del sacrificato è
rilevante, e contano le sue qualità personali; è un atto rivendicato, pubblico e aperto;
si richiama alla tradizione; testimonia della forza dei legami sociali; si compie sul posto, “a casa”. Il
massacro è un delitto ateo; l'identità del sacrificato è irrilevante, non si ha neppure la curiosità di
sapere chi si sta uccidendo; è un atto che si tende a tenere segreto, a occultare, a negare; non si
richiama esplicitamente a valori tradizionali; rivela la debolezza del tessuto sociale, il venir meno
dei principi che ne garantiscono la coesione; si compie in luoghi lontani. Dalla riflessione su queste
caratteristiche, Todorov conclude che il massacro è una forma di violenza tipicamente moderna e
legata alla situazione coloniale. I conquistadores spagnoli sembrano dunque aver inaugurato un tipo
di violenza, che ritroveremo poi nei massacri nazisti:
Lontani dal potere centrale, lontani dalla legislazione regia, tutti i divieti cadono: il
legame sociale, già indebolito, si sfalda e rivela non una natura primitiva (la belva
assopita in ciascuno di noi), ma un essere moderno, a cui appartiene l'avvenire, che non
Las Casas, Historia de Las Indias, cit. in T.Todorov, La conquista dell’America, trad. it. Torino, Einaudi,
1982, pp.170-72.
23
24
Ibid., p. 174
75
ha alcuna morale e che uccide perché e quando gli piace. La “barbarie” degli spagnoli
non ha niente d'atavico o d'animale: è interamente umana e preannuncia l'avvento dei
tempi moderni25.
Una simile logica del massacro, in forme e con accenti diversi, pervade la storia e
l’immaginazione coloniale – trovando forse nella figura conradiana di Kurtz la sua espressione
letteraria più forte26.
Ma anche al di fuori del contesto coloniale troviamo nella modernità occidentale pratiche di
disciplina dei corpi e di esercizio del potere attraverso l'imposizione della sofferenza e della
morte - tanto più simili alle logiche del genocidio quanto più legate a contesti di povertà,
scarsità di risorse e forti differenze sociali. Questa idea è stata recentemente espressa in forma in
qualche modo estrema dall’antropologa statunitense Nancy Scheper-Hughes, che stabilisce una
sorta di continuum genocida tra violenze di massa e crimini di guerra, da un lato, e dall'altro
quelli che Basaglia chiamava crimini di pace, le piccole o grandi violenze nella gestione
quotidiana del potere:
…un continuum genocida fatto di una moltitudine di “piccole guerre e genocidi
invisibili” condotto negli spazi sociali normativi delle scuole pubbliche, sale d’ospedale
e di pronto soccorso, case di cura, aule di tribunale, prigioni, riformatori, obitori
pubblici. Tale continuum si riferisce alla capacità umana di ridurre gli altri a nonpersone, a mostri, o a cose che conferiscono una struttura, un significato e un senso alle
pratiche quotidiane di violenza. E’ esenziale che riconosciamo nella nostra specie (e in
noi stessi) una capacità genocida, e che esercitiamo una ipervigilanza difensiva, una
ipersensibilità verso tutti quegli atti di violenza quotidiana che sono meno drammatici e
persino consentiti, ma che rendono possibile (in certe circostanze) la partecipazione ad
atti genocidi, più facilmente di quanto ci piace pensare. Includo in ciò tutte le
espressioni di esclusione sociale, deumanizzazione, depersonalizzazione, pseudospeciazione e reificazione che normalizzano le atrocità e la violenza verso gli altri27.
Questa idea di continuità mi pare discutibile per molti aspetti: potremmo sostenere che il punto
determinante consiste nel comprendere quel “in certe circostanze” cui Scheper-Hughes si
riferisce. Ma il problema sollevato è essenziale. Proviamo ad affrontarlo da una ulteriore
prospettiva.
4. La soggettività dei carnefici.
25
Ibid., p. 176
Tra i contributi antropologici sul nesso colonialismo-crudeltà-terrore vorrei segnalare quello di Michael Taussig,
Shamanism, Colonialism, and the Wild Man, Chicago, University of Chicago Press, 1987.
27
N. Scheper-Hughes, “Coming to our senses: Anthropology and Genocide”, in A.L. Hinton (ed.), Annihilating
Difference. The Anthropology of Genocide, Berkeley, California University Press, 2002, p. 369.
26
76
La controversia tra due storici americani, Cristopher R. Browning e Daniel J. Goldhagen, è stata
al centro degli studi sulla Shoah negli anni Novanta. I termini del dibattito sono abbastanza noti e li
riassumo qui in estrema sintesi. Nel 1992 Browning pubblica Ordinary Men, un libro che
ricostruisce accuratamente il punto di vista di un battaglione della polizia riservista tedesca che, fra
il ’41 e il ’42, fu lungamente impegnato in Polonia nelle operazioni prima di diretto sterminio degli
ebrei, attraverso rastrellamenti e fucilazioni di massa, e successivamente nella deportazione verso i
campi di sterminio, finendo per causare, direttamente o indirettamente, la morte di centinaia di
migliaia di esseri umani, fra cui donne, anziani, bambini e neonati28. Basandosi sugli atti di un
processo svolto negli anni ’60, Browning ricostruisce la personalità, le motivazioni e gli stati
d’animo dei componenti il Battaglione 101: tutti uomini ordinari, appunto, padri di famiglia, non
sadici mostri, non militari di professione, non particolarmente fanatici del nazismo e
dell’antisemitismo. Attraverso una brillante lettura delle fonti, l’autore segue le iniziali difficoltà dei
soldati nell’adattarsi al rapporto quotidiano con la fisicità della morte, con l’orrore dei corpi
seviziati e macellati; e poi le loro modalità di assuefazione a questo lavoro sporco, incluse le
giustificazioni e le razionalizzazioni prodotte ex-post.
Browning si chiede che cosa abbia spinto questi uomini normali ad eseguire ordini tanto terribili,
ad abituarsi al ruolo di assassini genocidi, perfino a trovare soddisfazione nel loro lavoro. La sua
risposta è complessa, e fa appello a una serie di elementi, alcuni di ordine storico e altri di tipo
socio-psicologico. Fra i primi, le convenzioni antisemite, la forza della disciplina militare e
l’influenza dello stato di guerra, con la paura e la rabbia per le sorti di una Germania accerchiata; e
ancora, la natura totalitaria della società nazista, che assolutizza i valori della subordinazione
all’autorità costituita. Fra gli elementi psicologici, Browning cita la tendenza alla conformità di
gruppo e soprattutto i meccanismi - in apparenza universalmente umani - dell’obbedienza
all’autorità, con ampi riferimenti ai celebri studi di Stanley Milgram e di altri psicologi sociali; fra
gli elementi sociologici, riprende e discute le note tesi di Hannah Arendt sulla
deresponsabilizzazione morale degli individui che sarebbe prodotta dalla società moderna. Tutti
elementi che attenuano, annullano o forse semplicemente cambiano quella “coscienza morale” che
ci si aspetterebbe di trovare negli esecutori del massacro in quanto esseri umani.
Soffermiamoci sui modelli esplicativi proposti da Browing, che rappresentano uno schema utile
per parlare dei rapporti tra storiografia e scienze sociali.
a) Abbrutimento e tendenza all'atrocità prodotta dalla situazione di guerra - in particolare di
una guerra razziale. La guerra razziale tende a polarizzare il mondi in noi e loro, e la parte
avversa tende facilmente a essere disumanizzata, a essere esclusa dalla comunità umana e
dalle sue leggi morali. Si dà inoltre il fenomeno dell'esaltazione da campo di battaglia, ben
nota ad esempio nel caso della guerra in Vietnam. Browning distingue però le brutalità e le
atrocità che emergono spontaneamente ma non sono una procedura operativa corrente, da
C. R. Browning, Uomini comuni: Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia, trad. it. Torino, Einaudi, 1995 (una
seconda edizione, 1999, contiene un’ampia postfazione in risposta, appunto, alle critiche di Goldhagen).
28
77
quelle che invece lo sono, che rappresentano cioè la piena espressione della volontà dei
vertici militari e del governo. Coloro che eseguono gli ordini non sono normalmente spinti
dall'esaltazione, dall'esasperazione e dalla frustrazione. Quale situazione di personalità o
mentalità li caratterizza, allora?
b) Aspetti burocratici e amministrativi dello sterminio. Le caratteristiche della modernità divisione del lavoro, ampio apparato burocratico etc., creano distanza fisica tra chi agisce e
chi subisce le conseguenze dell'azione. Il caso di Eichmann, nell’interpretazione che ne ha
suggerito Hannah Arendt29, è paradigmatico. Nella modernità, il male può consistere nello
svolgere il proprio lavoro di sterminatore con la stessa modalità di routine e lo stesso zelo
con cui gli impiegati svolgono le proprie mansioni d'ufficio. Non importa se si tratta di
comprare e rivendere stoffe, di gestire scuole o di sterminare ebrei. Una implicazione forte
di questo concetto è stata sviluppata da Zygmunt Bauman in Modernità e olocausto30:
secondo questo studioso la Shoah e i genocidi del XX secolo non contraddicono la
modernità, non sono buchi neri in un processo di civilizzazione che va in direzione opposta:
ne sono anzi la conseguenza, il prodotto, in molti sensi. In un ovvio senso tecnologico (armi,
tecnologie di distruzione); in un senso amministrativo-burocratico (solo una forte burocrazia
è in grado di organizzare lo sterminio di massa, basandosi su tecniche di anagrafe e
censimento, sugli stessi strumenti, cioè, tramite i quali il moderno stato-nazione assicura il
proprio controllo sui cittadini); in senso politico, poiché le ideologie che producono i
genocidi, quelle totalitarie, germinano storicamente dal cuore stesso della modernità dall'Illuminismo, per Bauman, dalle aspirazioni utopiche a una società ideale, totalmente
controllata dalla ragione. “Gli orrori del XX secolo derivano dai tentativi pratici di creare la
felicità, l'ordine di cui la felicità aveva bisogno, e il potere totale necessario a instaurare
quell'ordine”31.
c) La personalità autoritaria. Fra le SS e nel partito nazista confluiscono, per una sorta di
spontanea selezione, individui particolarmente inclini alla violenza? Le ricerche della scuola
di Francoforte sulla personalità autoritaria mettono in luce una serie di caratteristiche
psicologico-sociali che produrrebbero “individui potenzialmente fascisti”, favorendo cioè
l’adesione a modelli totalitari e comportamenti intolleranti e violenti. Ecco come Browning
li riassume:
sottomissione alle figure che incarnano l’autorità: aggressività nei confronti dei gruppi
esterni; ostilità verso l’introspezione, la riflessione e la creatività; inclinazione alla
superstizione e ai giudizi stereotipati; ossessione per il potere e la “durezza”;
distruttività e cinismo; proiettività (“disposizione a credere che eventi selvaggi e
29
H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme), trad. it. Milano, Feltrinelli, 1999 (ed. orig. 1963).
Z. Bauman, Modernità e olocausto, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1992 (ed. orig. 1989).
31
Z. Bauman, “I campi: Oriente, Occidente, Modernità”, in M. Flores (a cura di), Nazismo, fascismo, comunismo.
Totalitarismi a confronto, Milano, Bruno Mondadori, 1998, p .18.
30
78
pericolosi accadano nel mondo” e “proiezione all’esterno di impulsi emotivi e
inconsci”); preoccupazione esagerata per i contatti sessuali32.
In sostanza, per i teorici della personalità autoritaria, i movimenti fascisti e le ideologie
totalitarie consentirebbero a simili individui di proiettare legittimamente i propri impulsi e la
propria aggressività all’esterno, contro gruppi sociali stigmatizzati e perseguitati con il consenso
della stessa autorità. Questa tesi non va interpretata nel senso di un determinismo psicologico
della violenza di massa. I suoi sostenitori mirano piuttosto a chiarire il grande problema etico
posto dalla violenza: com’è possibile mantenere un comportamento che ci sembra contrastare
con i più elementari criteri di moralità umana. Il punto debole della tesi è una certa circolarità
metodologica nello stabilire le caratteristiche della personalità autoritaria (si noti che sono
l’esatto opposto di ciò che un buon progressista, politicamente corretto, democratico e sano di
mente penserebbe di sé), nonché la sua tendenza ad assolvere e immunizzare gli “uomini
comuni” dalla possibilità di diventare assassini genocidi. I soldati di Browning non erano
certamente tutti delle personalità autoritarie: il problema che egli pone resta dunque ancora
aperto.
d) Tesi dell'obbedienza all’autorità: gli individui scivolano nei ruoli sociali che sono loro
assegnati. Browning sfata fra le altre cose il mito della coercizione o del terrore, che avrebbe
imposto ai soldati tedeschi i comportamenti più efferati per il timore di subire a propria volta
terribili punizioni. I soldati del battaglione da lui studiato non solo non sono minacciati in
caso di non obbedienza (o di esecuzione meno zelante) agli ordini più crudeli, ma hanno
persino la possibilità di tirarsi indietro e non lo fanno, con poche eccezioni (che non
subiscono, appunto, alcuna rappresaglia). Esperimenti di psicologia sociale, come quelli di
Zimbardo (Stanford) e di Milgram (Yale), mostrano in modo piuttosto sconcertante in che
misura il comportamento violento dipenda dall’obbedienza agli ordini ricevuti e dal rispetto
del ruolo sociale in cui siamo calati. E’ soprattutto Stanley Milgram33 a mostrare come
l'obbedienza all'autorità possa facilmente indurre, senza alcuna minaccia di punizione o
coercizione diretta, a eseguire azioni che sarebbero normalmente considerate ripugnanti,
contrarie a elementari e usualmente condivise norme morali. Chi sarebbe disposto a
infliggere una pesante tortura fisica, sotto forma ad esempio di elettroshock, ad altre persone
verso le quali non si nutre alcun particolare odio o risentimento, e senza che da questo
comportamento vengano particolari premi o vantaggi? Milgram mostra come ciò possa
avvenire normalmente in una situazione sperimentale che pone gli individui in condizioni di
eteronomia, vale a dire di dipendenza da un’autorità indiscussa che impone un
comportamento sulla base di vaghi valori ideali (in questo caso, si tratta di uno scienziato
che chiede di infliggere scosse elettriche a un terzo soggetto, il quale ne simula le
32
33
C.R. Browining, op. cit., p. 172
S. Milgram, Obbedienza all’autorità, trad. it. Milano, Bompiani, 1975 (ed. orig. 1974).
79
conseguenze dolorose, presentando la situazione come finalizzata a un esperimento di
psicologia cognitiva).
Le conclusioni di Browning mostrano che, se la Shoah è radicata in un particolare contesto
storico e in una specifica temperie socio-culturale come quella della Germania degli anni ’30 e
’40, le condizioni della sua esecuzione rimandano a qualcosa, per così dire, di più ampiamente
umano - a caratteristiche più generali del rapporto tra potere e individui. I tedeschi dell’epoca
nazista rappresentano solo un caso particolarmente forte di interiorizzazione del principio di
autorità. .
L’approccio soggettivo di Browning viene ripreso, ma con un totale rovesciamento delle sue tesi,
nel libro di Goldhagen34. Questo autore, reinterpretando fra le altre le stesse fonti di Browning,
sostiene che non di uomini comuni si è trattato, bensì di tedeschi comuni - intendendo con ciò che la
Shoah può trovare una spiegazione storica solo nelle peculiari condizioni della cultura tedesca degli
anni ’30 e ’40, e in particolare in quello che egli chiama il modello culturale o cognitivo
dell’antisemitismo eliminazionista. Pressioni sociali, conformità di gruppo e così via sono elementi
tipici di ogni cultura e società e, da soli, non spiegano un evento unico e terribile come la Shoah:
solo il peculiare antisemitismo eliminazionista può esser considerato causa necessaria e sufficiente
dello sterminio.
La tesi di Goldhagen ha implicazioni antropologiche importanti. Egli sostiene che la cultura
tedesca degli anni '30 e '40 va affrontata nello stesso modo in cui un antropologo si accosta a una
cultura completamente altra - cioè, sulla base di assunti o modelli cognitivi radicalmente diversi dai
nostri, fondati, addirittura incardinati, sul presupposto della sub-umanità e della natura patologica
degli ebrei (una concezione che il nazismo non si è certo inventato ma che ha salde radici nella
storia tedesca). Dall'altro lato, pone il problema di quanto le credenze, i modelli cognitivi e i
priincipi etici possano essere culturalmente variabili, e in che misura bastano a spiegare il
comportamento. Comunque la si metta, la tesi “intellettualista” di Goldhagen, l'idea che le credenze
antisemite bastino a spiegare la Shoah, non regge, e l'analisi di Browning è molto più profonda ed
efficace - anche se purtroppo porta a conclusioni assai più pessimiste circa la ripetibilità di simili
eventi35.
E’ tuttavia importante, per comprendere la genesi delle pratiche del genocidio e della violenza di
massa, l'accento che Goldhagen pone sulla costruzione di una visione del mondo che divide
l'umanità in identità incommensurabili e nemiche. In qualche modo, la riflessione sui genocidi
contemporanei, come il Ruanda e la ex-Jugoslavia, confermano la presenza di un simile aspetto
cognitivo, di modelli culturali profondi che portano a classificare gli altri come sporchi, impuri,
pericolosi, dannosi, come anomalie in un sistema di ordine e di sicurezza che vanno eliminate per il
bene di “tutti noi”, dei nostri figli etc. Quando i leader politici assumono questo punto di vista,
34
D.J. Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler, trad. it. Milano, Mondatori, 1997 (ed. orig. 1996).
Per una critica di taglio antropologico all’uso che Goldhagen fa della nozione di “modelli culturali” v. A.L. Hinton,
“Why did the Nazis kill?”; cit. Per una più generale valutazione critica delle tesi di Goldhagen si vedano fra gli altri i
contributi raccolti in R.R. Shandley, Unwilling Germans? The Goldhagen Debate, Minneapolis-London, University of
Minnesota Press, 1998.
35
80
soffiano sul fuoco potenziando il senso di insicurezza e istigando all'odio verso gli altri, assunti
come capri espiatori per ogni nostro problema, allora nascono le condizioni del genocidio.
Per tornare all'antropologia culturale, questa disciplina si è messa profondamente in discussione
negli ultimi anni proprio su questo punto. Essa ha contribuito per tutto il Novecento alla
costituzione di un discorso sulle identità culturali, viste come un elemento di rivendicazione locale
contro le pretese del potere imperialista. Ma oggi il discorso delle culture e delle identità è diventato
pericoloso, rischia di funzionare da supporto alla ideologia xenofoba e alla pratica violenta e
genocida. L’antropologia cerca allora di combattere le concezioni essenzialiste e reificate
dell’identità, insieme al mito della violenza etnica come causa scatenante dei conflitti nel mondo
contemporaneo. E’ solo quando sono piegate consapevolmente a ideologie, al servizio di interessi o
privilegi particolari, che le identità culturali divengono strumenti della violenza36. Opporsi a un
simile uso strumentale, e al contempo mantenere l’attenzione al problema della differenza culturale
in un mondo globalizzato, sembra la principale sfida per l’antropologia del nuovo secolo.
36
Si veda per una sintesi di questa prospettiva J. R. Bowen, "The myth of global ethnic conflict", Journal of
Democracy, 7 (4), 1996, pp. 3-14
81
6. Etnografie della violenza *
Fabio Dei
Il secolo che si è da poco concluso ha prodotto un corpus amplissimo di resoconti etnografici.
Certo, niente di simile a quella collezione ordinata di culture che l’antropologia positivista si
sarebbe aspettata: piuttosto, racconti eterogenei, talvolta forse bizzarri, di persone che hanno scelto
di andare professionalmente incontro alla diversità. E’ sorprendente la relativa assenza, in questa
grande raccolta di sapere sull’uomo, di riferimenti alla guerra e alla violenza: cioè a quella
specifica, se non esclusiva, tendenza degli esseri umani a farsi male a vicenda, a procurare agli altri
grandi sofferenze per un piccolo proprio vantaggio, talvolta persino a provar piacere del dolore
inflitto. Non intendo dire che il tema della violenza sia assente dal discorso antropologico classico;
anzi, per certi aspetti esso vi si innesta, dibattuto com’è tra immagini dell’Altro dionisiache e
apollinee, hobbesiane e rousseoviane, e ossessionato, da Frazer a Freud a Girard, dall’idea di una
violenza originaria profondamente inscritta nel cuore stesso della civiltà. La violenza è tuttavia
raramente presente nelle narrazioni etnografiche, nei resoconti della ricerca sul campo, nella
rappresentazione delle culture: o almeno, non è presente nella stessa misura di parentela, religione,
sistemi di scambio e altri soggetti classici della disciplina. Né, salvo rari casi, appare tematizzata sul
piano soggettivo e dialogico, come elemento rilevante dell’incontro etnografico.
I motivi di ciò possono essere molteplici. L’antropologo classico lavora all’interno di realtà
coloniali, “forzatamente” pacificate dal potere occidentale; per di più, tende (giustamente) a
ritagliarsi “bolle ambientali” sicure, micro-realtà locali prive di elementi rilevanti di conflittualità e
rischio. Ma, ciò che più conta, l’antropologo classico mira a descrivere culture ordinate e “normali”,
strutture sociali, sistemi condivisi di valori e di significati: e per questo non è interessato
all’esperienza della violenza, di per sé destrutturante, che produce disordine, distrugge la normalità
delle relazioni sociali ed etiche. Le etnografie si soffermano magari sui sistemi di regolazione e
controllo del conflitto, dalla faida di sangue dei Nuer alla divinazione degli Azande: ma non su
quell’esperienza – che pure si intuisce assai comune - della violenza assoluta e irrelata, che incrina
irrimediabilmente l’orizzonte di senso della quotidianità.
Questo scenario degli studi è radicalmente mutato negli ultimi anni. Intanto, l’esplosione di guerre
e conflitti locali ha posto gli antropologi, molto più di prima, all’interno di contesti “non controllati”
di violenza. Inoltre, la cosiddetta svolta riflessiva della disciplina li ha un po’ allontanati dalla
ricerca maniacale dell’ordine e li ha predisposti, invece, a una più piena restituzione dell’esperienza
soggettiva di coinvolgimento sul campo. Partiti per il mondo con progetti di ricerca più o meno
tradizionali, si sono trovati coinvolti in situazioni di guerra civile, di terrorismo, di macroscopiche
violazioni dei diritti umani, o più semplicemente di violenza diffusa e quotidiana; e non hanno
potuto fare a meno di confrontarsi con tali situazioni nella loro scrittura, di costruire resoconti
etnografici che le inglobassero. Talvolta sono stati “antropologi nativi” a scrivere dei violenti
82
contesti di provenienza (p.es. ex-Jugoslavia, India, America Latina), fondendo in testi complessi e
ricchi uno sguardo “interno” con una prospettiva disciplinare “esterna”.
Negli ultimi dieci anni, soprattutto in ambito anglosassone, la letteratura di questo tipo è stata
assai ampia. Non ho qui lo spazio per una sia pur minima rassegna bibliografica. Vorrei citare,
come riferimenti base per il lettore, alcuni volumi antologici dai titoli eloquenti come Fieldwork
Under Fire (Nordstrom, Robben 1995), Social Suffering (Kleinman, Das, Lock 1997), Violence
and Subjectivity (Das et al. 2000), Cultures Under Siege. Collective Violence and Trauma (Robben,
Suárez-Orozco 2000), Meanings of Violence (Aijmer, Abbink 2000), Remaking a World: Violence,
Social Suffering, and Recovery (Das, Ramphele, Reynolds 2001), Anthropology of Violence and
Conflict (Schmidt-Schröder 2001); e alcune monografie importanti, a partire dagli ormai classici
studi di M. Taussig (1987) sulla violenza coloniale in Colombia e di A. Feldman (1991) sul
terrorismo nord-irlandese, fino agli studi di J.S. Tambiah (1991) e di E.V. Daniel (1996) sullo SriLanka, di N. Scheper-Hughes (1992) sul Brasile, di S. Kakar (1996) sui conflitti tra indù e
musulmani in India.
Questa letteratura etnografica pone una serie di problemi rilevantissimi, che vanno al di là del
tema specifico della guerra e della violenza per investire, più complessivamente, le basi stesse della
disciplina: in particolare, essa mostra come l’irruzione della violenza modifichi in profondità non
solo il metodo e le tecniche, ma anche l’etica e l’epistemologia della ricerca sul campo.
Schematizzerò alcuni di questi problemi in cinque punti.
1. Come accennato, l’antropologia classica parte dal presupposto di dover “scoprire” e descrivere
un ordine culturale, l’ethos di un certo gruppo sociale, il senso che esso dà alla vita. Ora,
quest’ordine viene usualmente disintegrato nelle situazioni di violenza radicale e cronica. La
violenza produce caos, disgregazione dei legami sociali fondamentali e dei mondi culturali.
Questo punto è posto in rilievo dalla gran parte dei contributi citati. Quando “la paura diventa
un modo di vita”, come scrive L. Green per il Guatemala, o “la guerra disfà i mondi, sia reali
che concettuali”, come si esprime Carolyn Nordstrom per il Mozambico (in Nordstrom-Robben
1995, pp.105, 131), l’antropologo sembra perdere il suo oggetto di studio. La cultura, l’identità,
la tradizione si sbriciolano, per così dire, fra le mani del ricercatore. Se la violenza è vissuta
dalle sue vittime come caotica, irrelata, priva di significato, non diviene tale anche l’esperienza
etnografica? La stessa nozione di una “ragione” etnografica ne risulta messa in discussione.
Non è forse ambiguo cercare di scoprire i “significati” della violenza? Non equivale in qualche
modo a giustificarla? Come nota ancora Nordstrom, “cercare le ragioni della guerra si avvicina
pericolosamente al cercare di rendere la guerra ragionevole”; l’accento sulle ragioni, per questa
autrice, oscura “la realtà della guerra” (Ibid., p. 138). Ma anche ammettendo questo, come
possiamo rendere nella forma e nel linguaggio etnografico l’esperienza irriducibilmente
irrazionale della violenza? Non è forse la scrittura etnografica un medium di per sé ordinatore,
intollerante del caos e dell’assenza di significato? Dobbiamo allora pensare che l’antropologia è
condannata a fornire della violenza resoconti “ragionevoli”, che ne tradiscono la più profonda
natura esperienziale?
83
2. A questo problema se ne connette strettamente un secondo. Da Malinowski in poi, si è abituati a
pensare alla ricerca sul campo nei termini di una tensione fra partecipazione e distacco. Da un
lato vi è l’esigenza di far proprie le forme di vita locali, di cogliere il mondo “dal punto di vista
dei nativi”; dall’altro, l’esigenza di oggettivare queste forme, di guadagnare rispetto ad esse
quell’autonomia di percezione e di giudizio che sola può fondare un atteggiamento scientifico.
Ora, il delicato equilibrio fra questi due momenti sembra rompersi nell’incontro con la violenza,
il terrore, la sofferenza cronica. L’esperienza di partecipazione personale del ricercatore è
troppo intensa e non lascia margini, sul piano emotivo come su quello etico. Nessuna finzione di
“osservazione partecipante” è possibile. Basta ascoltare una qualsiasi delle storie di crudeltà,
sopraffazione e terrore che raccontano informatori da ogni angolo del mondo. Ci troviamo
immersi in scenari che ricordano al lettore occidentale i resoconti della Shoah o della Cambogia
di Pol Pot. Per inciso, è curioso osservare come noi tendiamo a proiettare queste forme di
comportamento “barbaro e disumano” nel passato, magari commemorandole con forte
partecipazione civile, ma trascurando l’evidente manifestarsi nel nostro presente della stessa
fenomenologia della violenza. Solo le vicende della ex-Jugoslavia, con i lager e gli stupri etnici,
hanno per un momento scosso la nostra coscienza. Ma questi eventi sono largamente
rappresentativi del mondo attuale. Le guerre regionali e civili in molte parti del mondo povero
gareggiano in barbarie con i più oscuri eventi del ventesimo secolo.
Tornando all’antropologo, la partecipazione emotiva e l’impegno etico non confliggono forse
con il necessario detachment scientifico? E, viceversa, la semplice applicazione delle tecniche
standard di ricerca non può risultare inappropriata, inopportuna, quasi offensiva quando
l’”oggetto” di studio è il terrore e la sofferenza di individui e popolazioni? Molti etnografi
manifestano il loro disagio nel condurre interviste, nello sviluppare domande, nel praticare
quella “critica delle fonti” che il metodo scientifico richiederebbe. Di fronte a storie
drammatiche, o alla manifestazione del dolore e della sofferenza, sembra di poter solo ascoltare
e tacere. Antonius Robben, lavorando con i parenti dei desaparecidos argentini, scrive ad
esempio di essersi sentito incapace di mantenere un atteggiamento critico e analitico nei
confronti dei suoi testimoni, di superare l’impatto emozionale dei loro discorsi. A proposito del
racconto di un padre sui vani tentativi di avere informazioni sulla figlia scomparsa, commenta:
avrei voluto porre molte domande, “ma la mia mente era vuota: potevo solo condividere in
silenzio il dolore di quest’uomo” (Ibid., p. 93).
3. Robben lavora sulla memoria della violenza, ma i problemi che pone non sono molto diversi da
quelli di chi opera in contesti di guerra attuale. Egli definisce questa difficoltà nel rapporto con
le fonti in termini di “seduzione”. Seduzione è l’atteggiamento del testimone, che vuol condurre
il ricercatore ad aderire al proprio discorso. Per quanto questa adesione sia talvolta moralmente
inevitabile, Robben ritiene che sul piano scientifico e critico occorra resisterle. Anche perché la
seduzione è operata, simmetricamente, sia dalle vittime che dagli esecutori della violenza. I
84
colonnelli e generali argentini che Robben intervista, accusati di crimini politici, non mancano
di argomenti e strategie per mostrare la ragionevolezza della propria posizione. Robben si rende
conto che la seduzione poggia su elementi molto sottili – dall’affabilità dell’atteggiamento, alla
condivisione di riferimenti culturali, a stratagemmi retorici di vario tipo. Ma tutto ciò fa parte
sia del discorso delle vittime che di quello dei carnefici, nessuno dei quali è dunque di per sé più
“vero” o “autentico” (senza parlare del fatto che non sempre è così facile separare i due ruoli).
Possiamo allora chiederci: l’etnografo deve cercare comunque l’imparzialità, facendo coincidere
il suo (eventuale) impegno etico con il mantenimento della capacità critica di distanziamento? O
è invece inevitabile schierarsi, privilegiando un’assunzione etica rispetto al determinarsi di
condizioni conoscitive?
Il problema dei “carnefici” ha anche una ulteriore dimensione. Se l’etnografo vuole
comprendere la violenza, non dovrebbe essere in grado di cogliere, dall’interno, il loro stesso
punto di vista? E’ lo stesso metodo antropologico che sembra richiederlo. Ma come si può
entrare in relazione empatica con gli assassini? E’ un problema analogo a quello sollevato dalla
recente letteratura sulla Shoah, ad esempio da un libro come Uomini comuni di C. Browning
(1992), che si interroga sulla soggettività e sull’universo culturale degli esecutori del genocidio.
Le SS di Auschwitz non sono forse la più chiara manifestazione del radicalmente altro, verso il
quale l’intelligenza antropologica di solito intende mettersi alla prova? E d’altra parte, torna qui
inesorabile il dubbio che comprendere equivalga in parte a perdonare, il disagio di aprire un
virtuale dialogo con chi sta dalla parte del male assoluto. Questo dilemma si mostra forse con la
massima drammaticità in un testo dell’antropologa americana K. Winkler (in Fieldwork under
Fire), che analizza con sconvolgente distacco e dettaglio l’esperienza di uno stupro da lei stessa
subito – non in un contesto esotico e “selvaggio”, ma nella propria stessa città. L’autrice vuole
cogliere il punto di vista dello stupratore; ricostruisce puntigliosamente i dialoghi e cerca di
capirne l’universo simbolico. C’è un processo penale in corso, e tutto ciò non è finalizzato alla
pura conoscenza, ma all’individuazione e punizione del colpevole. Il lettore non può non
sentirsi a disagio di fronte a questa apparente freddezza autoriflessiva, che lascia intravedere
abissi di sofferenza. Il tentativo, eroico e paradossale, di K. Winkler è mettere le proprie
competenze etnografiche al servizio di una giustizia che, come sempre in questi casi, è assai
difficile da ottenere e richiede la reiterazione dell’umiliazione e del dolore.
4. Le difficoltà di rappresentare etnograficamente la violenza rimandano al problema della
scrittura. Quale linguaggio, quale forma compositiva, quali scelte stilistiche e retoriche
consentono di veicolare il terrore, il nonsenso, il caos culturale? Sembra chiara l’insoddisfazione
degli etnografi della violenza per le forme classiche della monografia realista. Nei testi citati si
assiste alla ricerca di risorse compositive nuove. Si fa ampio ricorso ad estratti da note e diari di
campo – come se, curiosamente, la scrittura immediatamente prodotta sul campo fosse più vera
e autentica delle rielaborazioni successive (un ricorso all’autorevolezza del being there, per dirla
con Geertz). L’uso di fonti orali è invece abbastanza limitato: la parola è lasciata raramente in
85
modo diretto ai testimoni. Alcuni autori si servono ampiamente di riferimenti letterari. Ad
esempio T. Swedenburg, scrivendo del fieldwork condotto in Palestina negli anni ’80, sceglie di
assumere come filo conduttore della sua esposizione il riferimento al libro di Jean Genet, Un
captif amoreux, resoconto dell’esperienza di soggiorno dello scrittore francese tra i fedain
all’inizio degli anni ’70. La sua esperienza è sistematicamente filtrata attraverso il testo di
Genet, che detta l’agenda etnografica e diviene, per così dire, più reale del “terreno” stesso.
Nonostante ciò, gli etnografi della violenza non sembrano inclinare verso la totale
dissoluzione del realismo etnografico propugnata dagli indirizzi postmoderni. Al contrario,
molti di loro vedono in questi ultimi una intollerabile minaccia etica. Indebolendo la nozione di
verità, sostenendo che le rappresentazioni storiche o etnografiche sono solo finzioni testuali, si
rischia di negare la realtà della violenza e di giustificarne gli esecutori. Come è stato scritto di
recente, “se pensiamo ai campi di sterminio, di stupro e di tortura, l’idea di trattare gli eventi – e
le loro rappresentazioni – come finzioni diviene immediatamente ripugnante” (Suárez-Orozco,
Robben 2000, p. 12 n.). Tra il rifiuto del realismo etnografico e la negazione dell’olocausto e di
altri genocidi, non vi sarebbe che un passo. La prospettiva postmoderna (qualunque cosa ciò
voglia dire) trasformerebbe i genocidi in semplici “storie” o “finzioni”: il che è inaccettabile
intellettualmente e moralmente, rappresentando una nuova offesa e violenza alle vittime che
hanno sopportato una ben reale sofferenza (Ibid.). Questo problema è importante, e sembra
dominare il nascente dibattito antropologico sul tema dei genocidi (v. Hinton 2002a, 2002b).
Tuttavia, un simile modo di porlo è a mio parere semplicistico e profondamente sbagliato,
poiché confonde i “fatti” con le loro “rappresentazioni”. Accusare il postmodernismo di
“manipolare la memoria” o di fornire strumenti al negazionismo è del tutto arbitrario: al
contrario, è l’assolutismo, che non ammette margine tra fatti e rappresentazioni, a costituire la
base di molte ideologie totalitarie che hanno prodotto i più terribili crimini del secolo.
5. Di fronte a contesti di violenza radicale, tre aspetti del lavoro antropologico sembrano dunque
intrecciarsi inestricabilmente, e a tratti forse confliggere: il sapere, il rappresentare, il dovere
morale. Per molti, quest’ultimo è predominante e deve in qualche modo guidare gli altri due.
Fare ricerca e scrivere sulla violenza serve a denunciarla, a dar voce alle sue vittime.
“L’antropologo come uno scriba – afferma Linda Green – che documenta fedelmente le storie
narrate dalla gente, ciò che essi hanno visto, sentito, annusato, toccato, interpretato e pensato
[…] Monografie come «luoghi di resistenza», «atti di solidarietà», un modo di «scrivere contro
il terrore»” (in Nordstrom, Robben 1995, p. 108). Risuona in queste frasi il de Martino delle
Note Lucane: l’intellettuale come mediatore, capace di prestar voce di fronte alla storia a coloro
che non possono parlare. Ma le cose non sono così semplici. L’antropologo sbaglia, e si
sopravvaluta, quando si autoelegge al ruolo di intellettuale organico, di voce ufficiale dei vinti.
Dobbiamo chiederci quali rapporti vi siano tra l’approccio dell’antropologo e quello di altri
intellettuali, dei giornalisti, degli attivisti di associazioni in difesa dei diritti e così via. C’è una
peculiarità del lavoro antropologico e, ancor più specificamente, etnografico? A me pare che , se
86
tale specificità esiste, dobbiamo cercarla proprio nella capacità di tenere sempre legati e in
continua reciproca tensione questi tre aspetti della ricerca, della scrittura e dell’impegno etico.
* Primapersona, 8, 2002, pp. 20-24
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1991 Sri Lanka: Ethnic Fratricide and the Dismantling of Democracy, Chicago, University of
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1987 Shamanism, Colonialism, and the Wild Man, Chicago, Chicago University Press
88
7. Antropologia e genocidio
Fabio Dei
(intervento al convegno internazionale “Discipline, violenza, Stato-nazione” - Napoli, 22-23
maggio 2003; in corso di stampa su Parolechiave, numero monografico su “Occidentalismo”, 2004)
0. Premessa.
La parola-chiave di questo numero spinge a cercare di mettere a fuoco alcuni mutati scenari
del dibattito epistemologico nell’antropologia contemporanea. Chi si è formato in questa
disciplina fra gli anni Settanta e Ottanta, come me, è abituato a pensare ai problemi
epistemologici nei termini della contrapposizione tra una posizione ermeneutica o interpretativa
e una naturalista o oggettivista. Quest’ultima, prevalente nella stagione classica della disciplina,
si è nutrita dell’ideale di una conoscenza oggettiva, verificabile e cumulativa, emulando la
statuto delle scienze naturali nello sforzo di inseguirne il prestigio. A molti essa appare oggi
ancorata a un concetto ingenuo e irriflessivo di rappresentazione etnografica, a una forma di
realismo etnografico basato sulla raccolta di fatti indipendenti sia dalla teoria che dalla
soggettività dell’osservatore. Interpretazione di culture di Clifford Geertz37, per quanto letto in
Italia con un certo ritardo, è stata la nostra Bibbia – con i suoi fascinosi richiami alla densità
dell’incontro etnografico e della rappresentazione culturale, inevitabilmente coinvolta nelle
opache profondità della scrittura. Molti di noi hanno anche dato per scontato che l’approccio
ermeneutico fosse, per così dire, “di sinistra” o “progressista”, sul piano filosofico come su
quello etico-politico, portatore cioè delle istanze più radicali di superamento dell’etnocentrismo e
di riconoscimento dell’altro: laddove il naturalismo tenderebbe ad assolutizzare acriticamente le
categorie dell’Occidente, e, almeno implicitamente, ad appoggiarne e giustificarne le pratiche di
dominio.
Nel dibattito recente, nell’ambito dell’antropologia come dei cultural e postcolonial studies,
queste posizioni tendono a rovesciarsi. Assistiamo infatti a un deciso attacco all’approccio
ermeneutico, non più condotto in nome di un oggettivismo naturalistico di vecchio stampo, ma
portato “da sinistra”, in nome di una riformulazione in apparenza ancora più radicale delle
implicazioni politiche dell’incontro etnografico. L’antropologia interpretativa sarebbe, in questo
quadro, nient’altro che l’ultimo e più raffinato strumento che il sapere-potere occidentale
impiega per controllare e neutralizzare il potenziale politico della diversità - in ultima analisi, per
dominare l’Altro. Questa linea di ripensamento critico dell’ermeneutica si intreccia in modi
interessanti con un altro importante filone degli studi contemporanei: lo sviluppo, assai
consistente negli ultimi anni, di ricerche antropologiche sul tema della violenza di massa. In
37
Trad. it. Bologna, Il Mulino, 1987 (ed. originale 1973)
89
questo intervento, vorrei seguire l’intreccio tra questi due ambiti del dibattito, riconoscendone le
importanti acquisizioni e, tuttavia, sollevando dubbi su alcuni degli esiti cui esso sembra
condurre.
1. Interpretazione e ideologia.
Possiamo così sintetizzare i principi fondamentali di un approccio ermeneutico
all’antropologia:
a) la comprensione antropologica consiste nell’incontro tra sistemi di significato;
b) essa non produce un sapere sotto forma di generalizzazioni, leggi, spiegazioni causali (anche
se ciò non implica che alcune porzioni del sapere antropologico non possano utilmente
c)
d)
e)
f)
articolarsi in forma naturalistica, generalizzante, causale);
questo incontro mette in gioco le categorie “nostre” come le “loro”, che risultano entrambe
mutate dal processo di comprensione: dunque, si tratta di un processo di carattere riflessivo;
tale processo coinvolge inevitabilmente la soggettività del ricercatore, rendendo impossibile
la finzione della distaccata oggettività;
la comprensione (l’incontro tra sistemi di significato) non è mai garantita da regole
metodologiche (da una epistemologia) e passa invece attraverso strategie pratiche;
in particolare, visto che la scrittura è il principale mezzo di costruzione e trasmissione del
sapere etnografico e antropologico, queste strategie pratiche hanno carattere retorico e
letterario.
Se nel dibattito internazionale è stato Geertz, con la formula della interpretive anthropology,
l’indiscusso profeta di questo approccio, per noi in Italia è stato naturale vederne le connessioni
con l’antinaturalismo della tradizione storicistica; in particolare, con l’eredità dell’opera di
Ernesto de Martino e con la sua teorizzazione dell’etnocentrismo critico. A partire dagli anni
Novanta, tuttavia, la punta di diamante di una antropologia antinaturalistica è stata la corrente di
studi sulla scrittura etnografica, che ha il suo manifesto nel volume collettaneo del 1986 Writing
Culture.38 Basato sull’idea delle rappresentazioni etnografiche come finzioni retoricamente
costruite, il libro sviluppa coerentemente la linea di riflessione aperta da Geertz (nonostante la
profonda antipatia che sia apre fra quest’ultimo e gli autori cosiddetti – assai impropriamente “postmoderni”), spingendo alle sue estreme conseguenze la riflessione sulla natura pratica della
comprensione antropologica.
Ma proprio da Writing Culture si sviluppa una divaricazione, a partire dal binomio contenuto
nel sottotitolo: “poetica e politica dell’etnografia”. Il volume tenta, sia pure con difficoltà, di
tenere insieme i due termini. Poetica e politica sono le due dimensioni tenute nascoste, non
problematizzate, dalla tradizione del realismo etnografico: le relazioni di potere al cui interno
l’incontro etnografico avviene, e le strategie retoriche tramite le quali il sapere antropologico
viene costruito. E’ attraverso lo stesso movimento critico che entrambi questi aspetti sono
38
Trad. it. Scrivere le culture, Roma, Meltemi, 2001
90
disvelati nel tessuto della rappresentazione etnografica, smascherando la strategia realista che li
celava sotto una impossibile pretesa di oggettività.
Eppure, il dibattito successivo sembra considerare inconciliabili e anzi in contraddizione un
approccio che si concentri sulla costruzione letteraria dell’alterità, da un lato, e dall’altro uno che
tenti invece di mettere a fuoco i reali rapporti di potere. Questi ultimi, così sembra a molti,
richiedono di essere descritti con un linguaggio reale e oggettivo, che si sottragga
all’affermazione postmoderna della natura finzionale e letteraria di ogni rappresentazione. Anzi,
proprio questa insistenza sul fatto che ogni immagine etnografica è in ampia misura una nostra
costruzione, che non può essere semplicemente confermata o smentita da fatti indipendenti, è
vista come una copertura del ruolo reale del potere, e dunque una sua giustificazione.
Insistere sul rapporto tra sottili “ragnatele di significato” più che su quello tra le ben più dure e
consistenti realtà degli interessi economici e politici, sulla retorica più che sul potere, può
apparire l’ultima e più subdola forma di mistificazione: l’estremo avamposto di una
epistemologia che legittima e giustifica o perlomeno nasconde i rapporti di potere asimmetrici
sui quali l’incontro tra noi e altri si verifica (il dominio dell’Occidente, in definitiva). Da qui il
potente ritorno di un concetto come quello di ideologia, riletto in chiave di un raffinato postmarxismo ma pur sempre volto a condannare sistemi di pensiero come coperture, come spettri,
dei reali rapporti di potere39. Concetto, quello di ideologia, che resta invece indigesto per
l’ermeneutica, restia a descrivere la realtà nei termini di una netta dicotomia essenze-apparenze.
Ciò finisce per mettere in discussione un concetto centrale per l’antropologia, quello di
differenza culturale. Se per l’approccio ermeneutico la differenza culturale è una priorità
irriducibile, qualcosa che esiste prima e indipendentemente dal processo interpretativo, per i suoi
critici essa è invece sempre costruita, fabbricata in relazione a interessi specifici del potere.
Il tema della finzionalità della cultura – il grande tema di Writing Culture o di Interpretation of
Cultures – assume allora un senso assai diverso. In Geertz e ancora in Writing Culture le
finzioni sono i costrutti rappresentativi dell’etnografo, le sue mezze verità, e sono comunque
finzioni produttive, che senza poter attingere a una impossibile oggettività cercano comunque di
gettare ponti verso l’altro, di aprire un percorso di comprensione che non dispone di altri
sbocchi. Nell’antropologia postmoderna-ma-anti-ermeneutica, che possiamo per comodità
definire “antropologia critica”, la finzione culturale è una manifestazione fantasmatica del
potere, suo sostegno e copertura: e compito dell’antropologia è costruire una rappresentazione
oggettiva dei rapporti di potere che smascheri quelle finzioni.
2. Etnografie della violenza.
Rappresentativo di questa tendenza è ad esempio il volume curato da Slavoj Žižek, Mapping Ideology, London-New
York, Verso, 1994. L’introduzione di Žižek è disponibile in traduzione italiana in C. Bianchi, C. Demaria, S. Nergaard,
Spettri del potere, Roma, Meltemi, 2002, pp. 41-86; volume, quest’ultimo, che fornisce un quadro assai utile delle
posizioni dei cultural e postcolonial studies intorno ai concetti di ideologia, identità e traduzione.
39
91
Vorrei adesso affrontare il problema partendo da una seconda angolatura, apparentemente
piuttosto distante: il recente sviluppo di un’ampia letteratura antropologica sul tema della
violenza di massa connotata in senso etnico e politico. Violenza, conflitto e guerra non sono stati
temi centrali per l’antropologia classica – così come, peraltro, per molte scienze sociali. Il che è
piuttosto sorprendente, se si pensa alla centralità che le pratiche di sterminio e genocidio hanno
avuto nella storia del Novecento, sia in Europa che nelle più lontane aree tradizionalmente
oggetto degli studi etnografici. In queste pratiche, per di più, l’antropologia è stata - sia pure in
modo forse indiretto e involontario – coinvolta. Mentre assumeva l’Altro come suo oggetto di
studio, questo era al contempo oggetto di politiche di dominio caratterizzate da un contenuto
estremo di violenza: ma l’antropologia solo raramente ha saputo o voluto tematizzare questo
inquietante aspetto del proprio statuto disciplinare40. Così come raramente ha indirizzato la
propria riflessione sulle esplosioni genocide nel cuore stesso dell’Occidente, malgrado il loro
stretto legame con ideologie che mestavano ambiguamente sul terreno - elettivamente
antropologico - della diversità razziale e culturale. L’antropologia classica sembra aver
considerato questi fenomeni, dallo sterminio dei popoli indigeni sotto il dominio imperialista alla
Shoah, come spiacevoli incidenti, o al massimo come inevitabili effetti collaterali del processo di
civilizzazione, ma in ogni caso non essenziali rispetto a una definizione “normale” delle culture,
della civilizzazione stessa e della comprensione interculturale. Secondo tale approccio,
descrivere e comprendere le culture significa mettere a fuoco una loro presunta normalità, esente
e non turbata da violenze esogene. Queste ultime non farebbero parte degli interessi
dell’etnografo il quale, quando non può fare a meno di imbattervisi, tende a escluderle dalla
propria rappresentazione in quanto fattori contaminanti.
Su entrambi questi aspetti si é invece sviluppata negli ultimi 10-15 anni una notevole
letteratura, di carattere sia etnografico sia teoretico. Intanto, molti antropologi hanno scelto di
porre la dimensione della violenza, o della memoria della violenza, al centro dei resoconti della
loro ricerca sul campo: ci hanno dunque presentato esplicitamente il loro lavoro come una
Fieldwork under fire, per citare il titolo di un volume collettaneo particolarmente
rappresentativo41. L’effetto di questa scelta è profondo: la violenza non appare semplicemente
come un particolare oggetto di studio, da porre accanto ad altri temi come la parentela, la
religione e così via. Anzi, la violenza è per certi versi l’antitesi di quelle forme ordinate della
cultura (parentela, religione, etc.) che tradizionalmente stanno al centro degli interessi
antropologici. L’effetto della violenza sulle società e sugli individui che colpisce è proprio la
rottura dell’ordine culturale, la dissoluzione delle sue forme – dei legami sociali primari, delle
basi minime di sicurezza e dignità, di quella fiducia basilare nella domesticità del mondo che
sola è in grado di fondare un universo culturale. Come rappresentare attraverso la scrittura
Vedi John Bodley, Victims of Progress, Mountain View, CA, Mayfield, 1999; David Maybury-Lewis, “Genocide
against indigenous peoples”, in A.L. Hinton (ed.), Annihilating Difference: The Anthropology of Genocide, Berkeley,
California University Press, 2002, pp. 43-53.
41
Carolyn Nordstrom, Antonius C.G.M. Robben (eds.), Fieldwork Under Fire. Contemporary Studies of Violence and
Survival, Berkeley, California University Press, 1995.
40
92
etnografica il caos, il terrore, il disfacimento dei mondi culturali che si attua quando “la paura
diventa un modo di vita”42? Come operare quella descrizione densa che ci raccomanda
l’antropologia interpretativa, quando ciò che va inscritto nel testo etnografico è il puro terrore?
Sembra che lo stesso tentativo di rendere la realtà della violenza attraverso una descrizione
ordinata e “razionale” contraddica la natura profonda dell’esperienza della violenza. Come è
stato scritto a proposito delle rappresentazioni della Shoah, “una volta ‘risolto’ nella narrazione,
l’evento violento sembra perdere la sua particolarità […] Una volta scritti, gli eventi assumono
quel manto di coerenza che la narrazione impone necessariamente su di loro, e il trauma della
loro inassimilabilità è alleviato”43.
Inoltre, fare “fieldwork under fire” porta a posizionare in modo necessariamente diverso il
ricercatore rispetto alla realtà studiata e ai suoi attori sociali. Da un lato, sembra impossibile
mantenere quella finzione di distacco teoretico che caratterizza il classico approccio
dell’osservazione partecipante: come si può essere distaccati di fronte alla sofferenza, al dolore,
al sopruso, allo spettacolo della negazione dei più elementari diritti umani? Dall’altro, appare
altrettanto problematico stabilire un rapporto empatico, per motivi diversi, sia con le vittime che
con gli esecutori della violenza. Michael Taussig ha affrontato con grande efficacia questo
problema nel suo lavoro sulla Colombia, mostrando come le conseguenze della violenza (la
tortura subita dagli oppositori al regime, in questo caso), si prolunghi all’interno della relazione
etnografica, producendo una irriducibile ambiguità44; e Antonius Robben, nel quadro di una
ricerca sulla memoria dei desaparecidos argentini, ha parlato di una “seduzione etnografica” che
caratterizza i rapporti con gli informatori, siano essi i generali argentini, gli ex-guerriglieri o i
parenti delle vittime45. Nel complesso, porre la violenza al centro di un progetto di
rappresentazione etnografica e di comprensione interculturale è sembrata a molti studiosi una
scelta radicale, dirompente rispetto alle convenzioni metodologiche e retoriche finora dominanti
nella disciplina46.
3. Genocidio e modernità.
Parallelamente, si è aperta nell’ultimo decennio una riflessione teorica sul ruolo della violenza
di massa nella storia contemporanea. Come detto, è sorprendente constatare nell’antropologia
classica l’assenza pressoché totale di contributi sulla Shoah, sui lager e i gulag, e su tutti gli altri
fenomeni che hanno caratterizzato il Novecento come “secolo delle tenebre”, occupando tanto
Linda Green, “Fear as a way of life, in Fieldwork under fire, cit., p. 105.
James E. Young, Writing and Re-writing the Holocaust. Narrative and the Consequences of Interpretation,
Bloomington, Indiana University Press, 1988, pp. 15-16
44
Michael Taussig, “Terror as usual: Walter Benjamin’s theory of history as state of siege”, in M. Taussig, The Nervous
System, London-New York, Routledge, 1992, pp. 11-36.
45
Antonius C.G.M. Robben, “The politics of truth and emotion among victims and perpertrators of violence”, in
Fieldwork Under Fire, cit., pp. 81-103.
46
Rimando per alcune ulteriori osservazioni in proposito a F. Dei, “Etnografie della violenza”, Primapersona, 5,
Giugno 2002, pp. 20-24
42
43
93
spazio nella cultura e nella coscienza contemporanea47. Come giustificare questa assenza? E’
difficile appellarsi semplicemente a una incompetenza disciplinare. La Shoah pone infatti in
gioco problemi antropologici fondamentali, quali l’universalità delle norme morali e dei diritti
umani, la natura del processo di civilizzazione e della modernità in senso weberiano, il rapporto
tra coscienza individuale e istituzioni sociali. C’è da chiedersi come sia stato possibile per la
nostra disciplina sfuggire così a lungo alla sfida di comprensione posta dai resoconti della vita
nei lager, che come sosteneva Primo Levi hanno rappresentato un gigantesco e drammatico
esperimento antropologico. Levi diceva “biologico e sociale”, ma intendeva palesemente
antropologico, cioè qualcosa che ha a che fare con la natura morale degli esseri umani e delle
loro istituzioni culturali:
Vorremo far considerare come il lager sia stato, anche e notevolmente, una gigantesca
esperienza biologica e sociale. Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui
diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti a
un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è
quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa
sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale uomo di fronte alla
lotta per la vita48.
Ma soprattutto, per una disciplina che si occupa dell’Altro, è difficile non confrontarsi con le
due grandi figure dell’alterità contemporanea che il lager presenta; da un lato quella del nazista,
che sembra sfuggire ai criteri minimi di moralità attribuiti dal nostro senso comune al concetto
stesso di “essere umano”, e dall’altro quella del “musulmano”, del sommerso, della vittima che
si presenta ormai soltanto come un simulacro di umanità.
Anche a questo proposito, come detto, il dibattito è in forte movimento, forse anche come
conseguenza dell’impatto culturale di genocidi come quelli del Ruanda e della ex-Jugoslavia e
della esplosione dei conflitti etnici e religiosi alla fine del XX secolo. Due recenti volumi
dedicati specificamente all’antropologia del genocidio ne sono una testimonianza, insieme a
numerosi studi di forte apertura interdisciplinare, mirati al tema della memoria traumatica e
della elaborazione individuale e collettiva dei lutti prodotti dalla violenza di massa49. Se dovessi
indicare un punto comune a questa ormai ampia letteratura, direi che esso consiste nell’indicare
Per una rassegna delle rilevanze antropologiche della Shoah, e un invito all’apertura di un dibattito in proposito, si
vedano Carroll McC. Lewin, “The Holocaust: Anthropological possibilities and the dilemma of representation”,
American Anthropologist, 1992, 94 (1), pp. 161-66; Ibid., “Negotiating selves in the Holocaust”, Ethos, 1993, 21, pp.
295-318.
47
Il passo di Levi si trova in apertura del cap. 9 (“I sommersi e i salvati”) di Se questo è un uomo, Torino, Einaudi,
1992, p. 105. Per un ampio sviluppo di questa riflessione si veda Tzvetan Todorov, Di fronte all’estremo, trad. it.
Milano, Garzanti, 1992 (ed. orig. 1991); per un commento specificamente antropologico cfr. Francesco Remotti, Noi,
primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, pp. 38-9.
49
Alexander L. Hinton (ed.), Genocide. An Anthropological Reader, Oxford, Blackwell, 2002; Ibid., Annihilating
Difference. The Anthropology of Genocide, Berkeley, California University Press, 2002. Tra l’ampia letteratura sulla
memoria traumatica, di particolare interesse antropologico sono altre due raccolte di saggi: Paul Antze, Michael
Lambek (eds.), Tense Past. Cultural Essays in Trauma and Memory, London-New York, Routledge, 1996; Antonius
C.G.M. Robben, Marcelo M. Suárez-Orozco (eds.), Cultures under Siege. Collective Violence and Trauma,Cambridge,
Cambridge University Press, 2000
48
94
il genocidio e la violenza di massa, anche nelle loro manifestazioni che siamo soliti considerare
più crudeli e “barbare”, come un fenomeno eminentemente moderno. Molti antropologi si
collocano, esplicitamente o implicitamente, in una tradizione interpretativa che fa capo
soprattutto ad Hannah Arendt e che trova la sua espressione forse più radicale in Modernità e
Olocausto di Zygmunt Bauman50.
Perché il genocidio non è pensabile se non come fenomeno moderno? Le risposte di Bauman e
altri sono che esso, per la sua realizzazione, ha bisogno di tecnologie avanzate in senso sia
strumentale che amministrativo: armi, sostanze chimiche, ferrovie, ma anche una burocrazia, una
organizzazione amministrativa e una divisione del lavoro di tipo moderno, cioè un alto grado di
razionalizzazione della società in senso weberiano. Inoltre, il genocidio moderno si fonda
sull’ideale illuministico della creazione di una società perfetta e di un uomo nuovo – un fine
rispetto al quale la valutazione morale dei mezzi passa in secondo piano. E ancora, i
comportamenti “disumani” di cui il genocidio ha bisogno presuppongono una strutturazione
della coscienza morale in compartimenti stagni, tale da consentire la deresponsabilizzazione
dell’individuo rispetto alle conseguenze del suo agire in conformità alle norme dettate dal
potere51.
Gli antropologi insistono spesso su un punto ulteriore. Condizione del genocidio è la
costruzione politica e culturale dell’Altro, della differenza essenziale che separa gli altri da noi.
Se c’è un elemento comune nei genocidi del XX secolo, da quelli degli Herero e degli Armeni,
fino alla pulizia etnica nei Balcani, si tratta proprio del processo di assolutizzazione delle
differenze che ci separano dall’altro; queste differenze sono reificate, stigmatizzate e poste a
fondamento di un programma politico che promette una qualche forma di purificazione.
4. Violenza disciplinare
Questo punto ci porta al cuore dell’argomentazione che vorrei sviluppare. La costruzione delle
differenze non può esser vista semplicemente come manifestazione di un generico e universale
sentimento etnocentrico: rappresenta, piuttosto, una conseguenza (anche se una conseguenza
estrema e non necessaria: questo è un punto importante su cui tornare) delle politiche del
moderno Stato-Nazione e delle ideologie che lo accompagnano, come il razzismo (anch’esso, è
appena il caso di ricordarlo, non retaggio di un pensiero arcaico ma fenomeno del tutto
moderno, nato dall’incrocio tra nazionalismo e positivismo). Lo Stato tende a massimizzare e
50
trad. it. Bologna, Il Mulino, 1992 (ed. orig. 1989). Per una formulazione particolarmente incisiva di questa tesi si
veda anche Z. Bauman, “I campi: Oriente, Occidente, Modernità”, in M. Flores (a cura di), Nazismo, fascismo,
comunismo. Totalitarismi a confronto, Milano, Bruno Mondadori, 1998, pp. 15-35.
51
Quest’ultimo è il tema sollevato nel commento di Hannah Arendt al processo Eichmann, che ha reso celebre la
formula “banalità del male” (H. Arendt, La banalità del male, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1999, ed. orig. 1963). Il
problema del comportamento violento e crudele di “uomini comuni” è stato successivamente al centro della riflessione
della psicologia sociale, ad esempio con il notissimo esperimento di Yale sull’obbedienza all’autorità (S. Milgram,
Obbedienza all’autorità, trad. it. Milano, Bompiani, 1975, ed. orig. 1974; v. anche Ervin Staub, The Roots of Evil. The
Origins of Genocide and Other Group Violence, Cambridge, Cambridge University Press, 1989), nonché di quella
storiografica, soprattutto con il saggio di Christopher R. Browning, Uomini comuni: Polizia tedesca e “soluzione
finale” in Polonia, trad. it. Torino, Einaudi, 1995 (ed. orig. 1992).
95
assolutizzare l’omogeneità interna – quella di cittadini che condividono un territorio dai confini
ben precisi e una cultura, una lingua, una religione più o meno altrettanto precise – e tende a
reificare le differenze esterne. Ciò avviene, nell’epoca classica del nazionalismo, per mezzo di
un insieme di discipline che ruotano attorno all’identità e alla differenza, nel duplice senso del
termine “discipline”; saperi o ideologie sui fondamenti naturali di quelle differenze che si
comincia appunto a chiamare razziali, da un lato, e dall’altro pratiche sociali (amministrative,
classificatorie, pedagogiche) attraverso le quali il potere – foucaultianamente – si inscrive e si
interiorizza nei corpi. Queste discipline raggiungono la loro maggior visibilità e crudezza nel
contesto coloniale, ma fanno parte fin dall’inizio del progetto dello Stato moderno.
Arjun Appadurai ha mostrato in un famoso articolo di qualche anno fa52 come si debba partire
da qui per comprendere lo scatenarsi apparentemente selvaggio o “bestiale” della violenza e
della crudeltà nei genocidi contemporanei. La violenza senza limiti esercitata sui corpi, con le
mutilazioni, le degradazioni simboliche, gli stupri etnici ha a che fare con le discipline statali
dell’identità e della differenza, e con il senso di purezza-impurità, di ordine e disordine
classificatorio che esse implicano. La violenza estrema sui corpi è l’altra faccia della costruzione
moderna della identità nazionale: è il tentativo radicale di inscrivere nell’ordine dei corpi una
differenza classificatoria che non si palesa immediatamente nell’ordine naturale e biologico.
Pensando soprattutto agli eccidi del Ruanda, dove la violenza genocida si scatena fra gruppi
etnici che sono in larga parte creati dall’immaginazione coloniale, e sempre meno distinguibili in
modo “naturale” nella realtà, Appadurai scrive:
La mutilazione e lo smembramento dei corpi etnici è uno sforzo disperato di restituire
validità ai demarcatori somatici dell’ “alterità”, a fronte delle incertezze create dalle
definizioni dei censimenti, dai cambiamenti demografici e da quelli linguistici, tutti
fenomeni che rendono le appartenenze etniche meno somatiche e corporee, più sociali
ed elettive… [E’ questo che] rende il corpo luogo di risoluzione dell’incertezza, per
mezzo di forme brutali di violazione, ricerca, decostruzione ed eliminazione53.
L’analogia tra il massacro e il censimento anagrafico, o altre pratiche amministrative
apparentemente innocenti che incasellano gli esseri umani in un astratto ordine categoriale, è
forte e impressionante. Si tratterebbe di due facce diverse ma complementari delle stesse pratiche
di controllo dello Stato, che si esercitano entrambe fin all’interno del corpo e che sono
ugualmente ossessionate dalla distinzione tra “cittadini” e “non cittadini”. Per comprendere tale
analogia, come Appadurai scrive, dobbiamo partire dalla “intuizione che i sentimenti coinvolti
nella violenza etnica
acquistano senso solo entro vasti conglomerati di ideologia,
immaginazione e disciplina”54.
A. Appadurai, “Dead Certainty: Ethnic violence in the era of globalization”, Public Culture, 10 (2), 1998, pp. 22547; poi in A.L. Hinton (ed.), Genocide: An Anthropological Reader, cit., pp. 286-303.
53
Ibid., p. 297.
54
A. Appadurai, Modernità in polvere, trad. it. Roma, Meltemi, 2001 (ed. orig. 1996), p. 192. Nel quadro di ampio
respiro offerto da Appadurai, l’esplodere della violenza etnica e particolarista nell’ultima parte del XX secolo non
52
96
Temi come questi sono piuttosto diffusi nella riflessione antropologica contemporanea sulla
violenza. Il nesso tra essenzialismo culturale (o primordialismo) e violenza genocida, inoltre,
viene spesso esteso fino a una imputazione complessiva di complicità nei confronti dell’intera
disciplina antropologica e di suoi concetti basilari quali cultura, identità, differenza. Tra le
espressioni più estreme di questo punto di vista c’è un testo dei primi anni ’90 di Lila AbuLughod, significativamente intitolato “Writing against culture”. La cultura, afferma AbuLughod, è lo strumento essenziale per la costruzione degli altri. E’ un costrutto teorico che si
porta dietro tutta la violenza del dominio occidentale. Il discorso antropologico, che la assume
come proprio fondamento, è per questo un discorso che costruisce e sostiene la differenza e la
discriminazione fra gruppi umani che essa implica. In questo senso, non vi sarebbe differenza
sostanziale tra il concetto di cultura e quello di razza: si tratterebbe di idiomi diversi volti
entrambi a preservare e rafforzare l’ineguaglianza55.
5. Un continuum genocida.
Eccoci dunque al punto di giunzione tra la critica alla tradizione ermeneutica delle scienze
umane, sopra rapidamente tratteggiata, e la riflessione sulla violenza disciplinare di cui
l’antropologia sarebbe portatrice - non mero riflesso ma parte costitutiva della violenza del
dominio, la quale sarebbe plasmata dalle medesime istanze classificatrici e identitarie. Non solo
il discorso antropologico sulle culture, dunque, è epistemologicamente equivoco: esso è anche
inaccettabile sul piano etico-politico, proprio in quanto attraverso le finzioni culturaliste
nasconde la cruda realtà del potere, facendosi concretamente complice della violenza
essenzialista. Quest’ultima, come si legge in una recente raccolta europea di saggi
sull’antropologia del conflitto e della violenza , nasce potenzialmente laddove si stabiliscono
confini e barriere; non dove li si infrange (come vorrebbe una più classica teoria “liberal” della
violenza), ma dove si delimitano spazi e attività - appunto, l’attività prediletta dello Statonazione:
la violenza è una forza che si manifesta non soltanto nella distruzione di confini, ma
anche nella loro creazione; la “violenza intransitiva” (che può operare concettualmente
prima di manifestarsi nell’azione) ha l’effetto di creare identità integrali, che divengono
a loro volta bersaglio di quel tipo di violenza che va in cerca di vittime. La violenza non
è una performance nel corso della quale una entità integrale (una persona, una comunità,
uno stato) viola l’integrità di un’altra; piuttosto, essa consiste nel processo stesso che
genera tali identità integrali per mezzo della inscrizione di confini…56
appare come un attacco alla coesione degli Stati ma, al contrario, come una reazione difensiva dalla forma-Stato a
fronte della sua progressiva implosione nello scenario della globalizzazione.
55
L. Abu-Lughod, “Writing against culture”, in R. Fox (ed.), Recapturing Anthropology. Working in the Present, Santa
Fe, School of American Research Press, 1991, pp. 137-62. Per più approfonditi commenti in proposito rimando a F.
Dei, Beethoven e le mondine. Ripensare la cultura popolare, Roma, Meltemi, 2002, p. 40 sgg.
56
Glenn Bowman, “The violence in identity”, in Bettina E. Schmidt, Ingo W. Schröeder (eds.), Anthropology of
Violence and Conflict, London, Routledge, 2002, pp. 27-8
97
Questa affermazione sembra trascurare l’importanza decisiva del passaggio dalla violenza
intransitiva a quella transitiva o reale – che è un po’ la stessa differenza tra immaginare un delitto
e compierlo. Ma il problema posto è decisivo: c’è continuità o discontinuità fra le pratiche
normali e quotidiane tramite cui lo Stato-nazione controlla le menti e i corpi dei suoi cittadini, e
le pratiche straordinarie del genocidio e della violenza di massa? E’ un problema che già Primo
Levi poneva, notando come le modalità di esercizio del potere all’interno del lager, in particolare
le strategie di distruzione sistematica dell’identità dei detenuti e dei loro “requisiti di umanità”,
non sono affatto esclusive del lager. Le ritroviamo invece largamente disseminate in istituzioni
caratterizzanti la modernità occidentale: nelle prigioni, nell'organizzazione del lavoro industriale,
nell'esercito, negli ospedali, e soprattutto nell’amministrazione coloniale. In tutte queste
situazioni, abbiamo a che fare con una classificazione del genere umano in specie titolari di
diritti diversi e oggetto di diversi trattamenti; con una inscrizione diretta del potere sui corpi
attraverso la reclusione, una disciplina rigorosissima e “razionale” del tempo e dello spazio,
forme di privazione, torture fisiche e morali; e, ancora, con la possibilità che questo diverso
“trattamento” possa portare alla eliminazione di un gran numero di individui delle categorie più
basse, anche attraverso forme seriali di uccisione, e che questa eliminazione sia vista con una
sostanziale indifferenza morale da molte persone appartenenti alle categorie privilegiate.
La Shoah, lontano dal rappresentare una inspiegabile falla nella modernità occidentale,
scaturisce da alcuni suoi tratti costitutivi: come ha scritto Enzo Traverso, occorre vederne
“l’ancoraggio profondo nella storia dell’Occidente, dell’Europa del capitalismo industriale, del
colonialismo, dell’imperialismo, della rivoluzione scientifica e tecnica, l’Europa del darwinismo
sociale e dell’eugenismo, l’Europa del ‘lungo’ XIX secolo concluso nei campi di battaglia della
prima guerra mondiale”57.
L’antropologa statunitense Nancy Scheper-Hughes, in un recente e assai incisivo contributo,
richiama la nozione basagliana di “crimini di pace”, sostenendo che solo una differenza di grado
separa questi ultimi dai “crimini di guerra”58. Essi sarebbero accomunati in una sorta di
“continuum genocida”, nel quale coesistono il lager e le istituzioni “normali” di controllo e
disciplina dei corpi e delle menti, le grandi e le piccole violenze, lo sterminio e le pratiche di
stigmatizzazione, esclusione, essenzializzazione dell’altro che caratterizzano la nostra vita
quotidiana:
…un continuum genocida fatto di una moltitudine di “piccole guerre e genocidi
invisibili” condotto negli spazi sociali normativi delle scuole pubbliche, sale d’ospedale
e di pronto soccorso, case di cura, aule di tribunale, prigioni, riformatori, obitori
pubblici. Tale continuum si riferisce alla capacità umana di ridurre gli altri a nonpersone, a mostri, o a cose che conferiscono una struttura, un significato e un senso alle
pratiche quotidiane di violenza. E’ essenziale che riconosciamo nella nostra specie (e in
noi stessi) una capacità genocida, e che esercitiamo una ipervigilanza difensiva, una
ipersensibilità verso tutti quegli atti di violenza quotidiana che sono meno drammatici e
57
58
E. Traverso, La violenza nazista. Una genealogia, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 22
N. Scheper-Hughes, “Coming to our senses”, in A.L. Hinton (ed.), Annihilating Difference, cit., p. 370
98
persino consentiti, ma che rendono possibile (in certe circostanze) la partecipazione ad
atti genocidi, più facilmente di quanto ci piace pensare. Includo in ciò tutte le
espressioni di esclusione sociale, deumanizzazione, depersonalizzazione, pseudospeciazione e reificazione che normalizzano le atrocità e la violenza verso gli altri59.
Questo passo esprime con grande efficacia il punto di vista della critical anthropology, anche
nella scelta di considerare un problema quasi secondario quello delle “certe circostanze” che
consentono di trascorrere dall’uno all’altro capo del continuum, di trasformare la potenzialità
genocida in atto concreto. Per una teoria liberale o hobbesiana della politica, il problema
consisterebbe proprio nel tenere sotto controllo queste circostanze. Per l’approccio critico, la
violenza non è invece che l’inveramento più trasparente del dominio all’interno della società
liberale e capitalistica. Compito dell’antropologia è smascherare le apparenze e svelare il vero
volto di tale dominio, mettendo al contempo in discussione il proprio stesso coinvolgimento con
esso, la violenza epistemologica sulle cui basi la disciplina è nata. Essa scopre così il carattere
costruito e interessato – dunque determinato sul piano economico-politico - di quelle differenze
che l’ermeneutica pretende di assumere come punto di partenza per il suo libero gioco di
interpretazioni. In questa prospettiva, la svolta riflessiva che insiste sul carattere finzionale e
retorico del sapere antropologico non può che apparire il primo gradino di una ben più radicale
consapevolezza politica; un gradino che, se resta isolato, non soltanto è insufficiente ma finisce
per rappresentare la più raffinata e subdola copertura ideologica alla violenza del potere.
6. Per una critica all’antropologia critica.
L’antropologia critica rappresenta un contributo importante, forse decisivo, alla comprensione
della violenza politica ed etnica nel mondo contemporaneo, e dei suoi rapporti con le istituzioni e
i saperi della modernità occidentale. Tuttavia, alcune delle sue conseguenze in termini di
epistemologia e teoria delle scienze umane mi sembrano ambigue e dense di difficoltà. Cercherò,
in conclusione di questo articolo, di farne risaltare alcune, partendo dalla convinzione che
l’analisi politica possa e debba esser ricompresa all’interno di un orizzonte ermeneutico di
comprensione degli altri, e non soppiantarlo in nome di una sia pur implicita epistemologia
realista.
a) In primo luogo, assai equivoca appare la liquidazione del concetto di differenza culturale e
dello stesso concetto antropologico di cultura, in quanto mere coperture ideologiche del dominio
dello Stato-nazione. Il riconoscimento della differenza culturale come costitutiva della agency
umana, assunto basilare dell’ermeneutica, non implica i processi di essenzializzazione e
naturalizzazione della differenza che, come abbiamo visto, possono esser correlati al razzismo e
al genocidio. Il rifiuto del concetto stesso di differenza nasconde anzi una nozione universalistica
di agente umano – un’idea illuminista e fortemente anti-antropologica di una ragione assoluta, di
un modello di agente come cittadino del mondo, dal quale l’analisi filosofica dovrebbe
59
Ibid., p. 369.
99
semplicemente raschiar via le incrostazioni del pregiudizio religioso, culturale, differenzialista,
create da biechi dominatori per l’esercizio del loro potere. Considerare il concetto di cultura
come un sottoprodotto dell’ideologia nazionalista, un mascheramento dei reali rapporti di potere
dell’epoca borghese – secondo lo schema classico dell’Ideologia tedesca – ci riporta a una
prospettiva non post- ma pre-antropologica. A questo approccio dovremmo contrapporre l’invito
di Clifford Geertz a ricostruire e riformare oggi il linguaggio della politica e dell’economia alla
luce di una sensibilità per le differenze culturali – differenze che non sono mai essenziali o
naturali quanto non sono integralmente riducibili a residui arcaici o coperture ideologiche60.
b) L’approccio dell’antropologia critica sembra talvolta sviato da una concezione superficiale del
potere-sapere e del suo rapporto con la violenza – a sua volta, frutto forse di fraintendimenti
nella lettura di Foucault, soprattutto di Sorvegliare e punire. Si parla talvolta del potere come di
qualcosa di esterno e separabile dalle relazioni umane – qualcosa di cui si potrebbe fare a meno
in una società più giusta e non violenta. Ma, proprio in termini foucaultiani, la scoperta che un
sapere non è “innocent of power”61 è una pura tautologia. Niente nella nostra vita è innocente o
avulso da contesti di potere: il problema è distinguere fra un potere migliore e uno peggiore, ad
esempio tra uno che è genocida e uno che non lo è. Abbiamo già visto come Scheper-Hughes
sottovaluti il problema delle “circostanze” che trasformano la “potenzialità genocida” che sta
dentro ciascuno di noi, e dentro la nostra società, in genocidio effettivamente agito. Allo stesso
modo, Appadurai afferma che i movimenti culturalisti e primordialisti non portano sempre alla
violenza: semmai vi sono “inclini”, e solo in certe condizioni la violenza si manifesta 62. Ma il
problema cruciale diviene allora: quali sono queste condizioni? Cosa risveglia le potenzialità
sopite? La più classica risposta a questa domanda fa appello alla distinzione fra democrazie
(social)-liberali e totalitarismi63. L’antropologia critica ha buone ragioni per rifiutare una
dicotomia troppo netta di questo tipo, soprattutto alla luce della storia del colonialismo: tuttavia,
minimizzando le differenze in funzione anti-liberale, rischia di privarsi di strumenti di
discriminazione etica e politica e di cadere in una indistinta e quasi caricaturale denuncia del
“moderno stato occidentale” – quello che potremmo a buona ragione chiamare uno stereotipo
occidentalista. Non sarà allora inutile ricordare le critiche che già alla fine degli anni ’60
Hannah Arendt rivolgeva alle tesi secondo cui “la violenza non è altro che la più flagrante
manifestazione del potere”, anzi, la sua più profonda essenza; tesi strettamente connesse all’idea
60
C. Geertz, Mondo globale mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, Bologna, Il Mulino, 1999
L. Abu-Lughod, “Writing against culture”, cit., p. 142. Nella sua imputazione di complicità nei confronti del concetto
di cultura, Abu-Lughod insiste sul fatto che proprio la professionalizzazione del discorso antropologico lo configura
come sapere esperto al servizio del potere. Sembra tuttavia non rendersi conto che lo statuto delle scienze umane
implica la costituzione di una comunità scientifica regolata da principi diversi da quelli del potere economico e politico
nelle sue manifestazioni più dirette. Non coglie cioè la costituzione di una sfera relativamente autonoma del sapere nella
modernità, che lo difende dalle intrusioni più dirette e strumentali del potere (è forse questa l’essenza, sociologica più
che epistemologica, della scienza moderna). Un argomento simile si può applicare alla critica, largamente diffusa nei
postcolonial studies, all’auspicio kantiano sul predominio della ragione: se questa nozione può apparire manifestazione
neppure tanto celata della hybris del dominio, non si può non ricordare che essa era volta a sostituire le regole della
discussione razionale al dominio arbitrario della violenza pura, caratteristico dell’antico regime.
62
A. Appadurai, Modernità in polvere, cit., p. 202.
63
Si vedano ad esempio le posizioni sostenute nei più recenti lavori di Todorov: Tzvetan Todorov, Memoria del male,
tentazione del bene. Inchiesta su un secolo tragico, trad. it. Milano, Garzanti, 2001 (ed. orig. 2000).
61
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che “l’insieme della politica e delle sue leggi e istituzioni siano pure e semplici sovrastrutture
coercitive, manifestazioni secondarie di altre forze sottostanti64. Per Arendt, non solo potere e
violenza non sono la stessa cosa, ma si trovano in una relazione per certi versi oppositiva: La
violenza passa in primo piano come strumento di dominio quando il potere si indebolisce o è
assente (una situazione che si manifesta pienamente, ad esempio, nel caso di invasione o
occupazione straniera): “Il potere e la violenza sono opposti: dove l’una governa in modo
assoluto, l’altro è assente. La violenza compare dove il potere è scosso, ma lasciata a se stessa
finisce per far scomparire il potere”65.
c) Si imputa all’approccio ermeneutico una colpa di dissoluzione della realtà e della verità,
incompatibile con le istanze di testimonianza e di denuncia che il tema della violenza e del
genocidio implicano. Sostenere la natura finzionale di ogni rappresentazione o racconto storico
sembra legittimare le strategie revisioniste e negazioniste, facendo il gioco dei criminali stessi, i
quali mirano sempre all’indebolimento della verità. E’ stato mostrato in modo assai convincente
come il negazionismo sia parte integrante dei genocidi del Novecento: e per contrastarlo, sembra
che non possiamo fare a meno di una certa dose di oggettività o realismo epistemologico. E’ in
particolare il cosiddetto postmodernismo ad essere accusato di complicità revisionista. Esso è
giudicato “eticamente inammissibile” in relazione alla conoscenza e alla memoria storica della
Shoah, in quanto sostenitore di un “relativismo in cui tutte le voci e le interpretazioni divengono
ugualmente valide”, con lo spostamento dal testimone al lettore del “fardello della creazione del
significato”66. Di più, come scrivono i curatori di una raccolta di testi sul rapporto tra violenza e
cultura,
se pensiamo ai campi di sterminio, di stupro e di tortura, l’idea di trattare gli eventi – e
le loro rappresentazioni – come finzioni diviene immediatamente ripugnante […] Chi
sostiene un’idea dell’etnografia come puro racconto pone l’autorità degli studiosi (sia
pure involontariamente) al servizio dei sinistri tentativi di negare l’Olocausto, la “guerra
sporca” latino-americana, e altri recenti episodi di distruzione organizzata. Attraverso la
lente postmoderna, essi divengono semplicemente “racconti” o “finzioni”, il che è
repellente in termini sia intellettuali che morali. In termini intellettuali, si fa così
violenza a un periodo storico che ha coltivato l’odio organizzato in dimensioni nuove e
senza precedenti. In termini morali, si fa violenza (sebbene in un diverso idioma) alle
indicibili sofferenze di milioni e milioni di persone67.
Ma possiamo accettare questa sorta di ricatto etico a favore di una cattiva epistemologia? Il
nesso tra ermeneutica (o relativismo, o postmodernismo, benché questi concetti non siano affatto
sinonimi) e negazionismo mi sembra assolutamente improponibile. Sostenere il carattere
costruito di ogni racconto storico o rappresentazione etnografica non significa affatto porre sullo
stesso piano la verità delle vittime e quella dei carnefici, o considerarle come due finzioni
64
H. Arendt, Sulla violenza, trad. it. Parma, Guanda, 2001 (ed. orig. 1969), pp. 37-8.
Ibid., pp. 58-9, 61.
66
Carroll McCLewin, “The Holocaust: Anthropological possibilities and the dilemma of representation”, cit., p. 163
67
Marcelo M. Suárez-Orozco, Antonius C. G. M. Robben, “Interdisciplinary perspectives on violence and trauma”, in
A. Robben , M. Suárez-Orozco, (eds.), Cultures Under Siege, cit. p. 12 nota .
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ugualmente parziali e infondate; è da notare che un radicale oggettivismo fattuale è proprio la
strategia usata dalle argomentazioni negazioniste, che sostituiscono il racconto storico con
minuziose procedure fisicaliste, sequenze di perizie tecniche da tribunale, prove portate a
discredito dei testimoni, e così via. Un’adesione così stretta ai “fatti” che ci fa perdere il senso
del nostro rapporto con la storia. Inoltre, l’argomento della incompatibilità etica fraintende
completamente la natura di un approccio interpretativo alla conoscenza storica o etnografica,
appiattendolo sul modello di un relativismo in cui “tutto va bene”. Al contrario, lo scetticismo
nei confronti di verità oggettive assolute spinge nella direzione di una maggiore apertura e di una
più rigorosa attenzione critica verso i dati empirici. Non è dunque così facile attribuire attestati
di rispetto per la verità storica e per la sofferenza delle vittime.
d) Quale ruolo politico gioca l’antropologia culturale? Il fatto che essa nasca – almeno in una
delle sue componenti – come una delle discipline della differenza del moderno Stato-Nazione, e
che la sua epistemologia continui a portarsi dietro questo imprinting, non vuol dire affatto che
storicamente essa abbia sempre mantenuto il ruolo di mosca cocchiera del nazionalismo e
dell’imperialismo. L’accusa rivolta oggi all’antropologia da parte di molti post-colonial studies
è che, in virtù delle sue origini e della sua complicità nello sviluppo del discorso della differenza,
essa non può che rappresentare un discorso del potere, un’arma volta alla incorporazione
dell’Altro a fini di dominio: ancora una volta, un’arma tanto più subdola quanto più raffinata alla
scuola dell’ermeneutica. Curioso ritorno alle tesi evoluzioniste, per cui il significato di un
fenomeno risiede nella sua origine. Ma storicamente, l’antropologia culturale non ha
rappresentato solo complicità e incorporazione: ha significato anche resistenza e riconoscimento.
E’ stata l’antropologia a fare della lotta all’etnocentrismo un programma insieme etico e
scientifico; in contesti storici che tendevano ad elevare muri, è stata l’antropologia che si è
sforzata di gettare ponti; in contesti che perseguivano il dominio puro, l’antropologia si è posta
l’obiettivo della comprensione. E rileggere oggi, a posteriori, le sue aperture come sottili e
subdole strategie di incorporazione dell’Altro appare ingeneroso oltre che non corretto in una
prospettiva di storia delle idee. Del resto, su questo piano si applica l’argomento del tu quoque.
Se ogni disciplina è così strettamente determinata dalla struttura di potere nel cui quadro nasce,
cosa dire allora dell’antropologia critica o dei postcolonial studies di oggi68?
In conclusione, sottolineare gli elementi che accomunano l’epistemologia delle scienze sociali
e la violenza tipicamente moderna del genocidio è un’operazione assai utile, e anzi necessaria,
sul piano della consapevolezza riflessiva della disciplina, ma non porta necessariamente a
imputazioni di complicità e connivenza. Quale ideologia è più vicina alle logiche dello
sterminio: quella che insiste sulle differenze e sulle culture, herderiana, se vogliamo, o quella –
hegeliana – che insiste sulla unicità della ragione, sulla convinzione di poter parlare il linguaggio
stesso della realtà? Si riapre il tema tante volte posto sull’origine della Shoah e del fascismo:
sono prodotti di una eredità illuministica o romantica? La domanda è forse oziosa. Il punto
v. su questo punto Steven Sangren, “Rhetoric and the authority of ethnography”, Current Anthropology, 29 (3), 1988,
pp. 405-35
68
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essenziale è capire come si verificano le condizioni del passaggio dal primordialismo
culturalista, per dirla con Appadurai, allo sterminio; perché il continuum genocida di cui parla
Scheper-Hughes trascorra dai suoi gradi più bassi a quelli più alti; perché il potenziale genocida,
il dormiente nascosto nel nostro self moderno e nelle nostre moderne istituzioni, si realizzi, da
potenza si faccia atto. E per rispondere a queste domande c’è bisogno di una filosofia politica un
po’ più complessa rispetto al generico discorso sul “potere” e al modello caricaturale di Statonazione su cui si fonda certa critical anthropology.
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