Extrait de la publication Saggine / 178 Extrait de la publication Extrait de la publication Adriano Labbucci CAMMINARE, UNA RIVOLUZIONE DONZELLI EDITORE Extrait de la publication © 2011 Donzelli editore, Roma via Mentana 2b INTERNET www.donzelli.it E-MAIL [email protected] ISBN 978-88-6036-628-3 Extrait de la publication CAMMINARE Indice p. 3 Premessa. Esistere è resistere 7 Il gesto più umano 17 Ora sai cosa sono le Itache 27 Festina lente 39 Imparare a lasciar andare 57 Camminare ci rende liberi 65 All’inizio della storia: Chatwin e l’alternativa nomade 77 Alla fine della storia: Benjamin e il flâneur 87 Tristi epiloghi 97 Siamo liberi di camminare? 113 Una crosta di asfalto e cemento 133 Camminatori di tutto il mondo, uniamoci! Extrait deVla publication Extrait de la publication Camminare, una rivoluzione A Catia Extrait de la publication Extrait de la publication CAMMINARE Premessa Esistere è resistere Avviso ai lettori. Lasciate stare. Se cercate insegnamenti sul camminare ultima moda che spopola negli Stati Uniti con tanto di lezioni, corsi universitari e relativi professori oppure ricette sul camminare come cura di sé o infine paginate di resoconti di camminate che si perdono invariabilmente tra il noioso, l’elegiaco o il paranoico, ripeto a scanso di equivoci: lasciate stare. Questo libro non fa per voi. Qui c’è una tesi: non c’è nulla di più sovversivo, di più alternativo al modo di pensare e di agire oggi dominante che il camminare. Punto. Camminare è una modalità del pensiero. È un pensiero pratico. Di questo il libro racconta: di pensieri, idee, categorie, miti. E di persone che camminando ci hanno aiutato a comprendere meglio il mondo, noi stessi e questo pensiero pratico. Camminare realizza al meglio l’affermazione di Hofmannsthal: «L’uomo scopre nel mondo solo quello che ha già dentro di sé; ma ha bisogno del mondo per scoprire quello che ha dentro di sé»1. 1 H. von Hofmannsthal, Il libro degli amici, Adelphi, Milano 1996, p. 11. Extrait de3la publication Labbucci, Camminare Perché si cammina sempre in un contesto e questo fatto ci sollecita, ci spinge a porci domande; e ci impone di farne altre. Esercizio inattuale e quindi prezioso in un tempo in cui tutti danno risposte senza più farsi domande. A guidarci le parole di María Zambrano: «esistere è resistere, essere “di fronte”, opporsi. L’uomo è esistito quando, di fronte ai suoi dei, ha offerto una resistenza»2. Camminare rappresenta oggi questa forma alta di r-esistenza. Questa è la tesi. L’antitesi è interna alla tesi stessa. La sintesi non c’è. Dialettica senza sintesi. Resta tra tesi e antitesi una tensione che non può essere risolta, un conflitto che di tutte le cose è il padre. D’altronde solo la smemoratezza e la cultura dell’inconsapevolezza che regnano sovrane hanno reso occulto ciò che sin dall’inizio dei tempi ci era stato ri-velato e che ora dobbiamo tornare a s-velare. «Lekh lekhà (vattene)». Sono queste le prime parole che Dio rivolge all’uomo nella storia, ad Abramo: «Vattene dalla tua terra, dalla tua famiglia e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò», è scritto nella Genesi3. Parole esigenti, di sconvolgimento, tutt’altro che rassicuranti o comprensive. Ha commentato Enzo Bianchi: «Lekh lekhà, espressione che significa letteralmente “va’ verso te stesso”, un invito dunque a partire, 2 3 M. Zambrano, L’uomo e il divino, Edizioni Lavoro, Roma 2008, p. 18. Genesi 12:1. 4 Esistere è resistere un invito al viaggio anche interiore, paragonabile in qualche modo al celebre ghôti sautón – conosci te stesso –, della tradizione sapienzale greca […] obbedendo a quel “vattene” egli deve innanzitutto compiere tre precise rotture: con la terra di provenienza; con il mondo religioso idolatra; con la casa paterna, cioè con i legami di sangue»4. Mettersi in cammino, far muovere i piedi significa da sempre un rivolgimento, verso se stessi e il proprio mondo. E se restiamo agli inizi, ciò che per primo l’uomo imparò a leggere non furono le tavolette cuneiformi dei Sumeri o i geroglifici egizi, ma le orme sul terreno, quelle dei suoi simili e degli animali che cacciava o da cui fuggiva5. I primi quattro capitoli sono altrettante tappe. Poi una sosta per raccontarci una prima verità che porteremo con noi: ci servirà a continuare il cammino, a riflettere, fare associazioni e digressioni, stabilire nessi con idee e pratiche, a scoprirne altre di verità. Fuori e dentro di noi. Prima di iniziare il cammino una preghiera laica ai nostri numi tutelari nonché protagonisti indiscussi perché ci sorreggano nell’impresa. Elogio dei piedi Perché reggono l’intero peso Perché sanno tenersi su appoggi e appigli minimi E. Bianchi, Dio, dove sei?, Rizzoli, Milano 2008, pp. 19-20. «La più antica scrittura che egli imparò a leggere fu quella delle orme» (E. Canetti, Massa e potere, Cde, Milano 1988, p. 37). 4 5 Extrait de5la publication Labbucci, Camminare Perché sanno correre sugli scogli e neanche i cavalli lo sanno fare Perché portano via Perché sono la parte più prigioniera di un corpo incarcerato. E chi esce dopo molti anni deve imparare di nuovo a camminare in linea retta Perché sanno saltare, e non è colpa loro se più in alto nello scheletro non ci sono ali Perché scalzi sono belli Perché sanno piantarsi nel mezzo della strada come muli e fare una siepe davanti al cancello di una fabbrica Perché sanno giocare con la palla e sanno nuotare Perché per qualche popolo pratico erano unità di misura Perché quelli di donna facevano friggere i versi di Puškin Perché gli antichi li amavano e per prima cura di ospitalità li lavavano al viandante Perché sanno pregare dondolandosi davanti a un muro o ripiegati indietro da un inginocchiatoio Perché mai capirò come fanno a correre contando su un appoggio solo Perché sono allegri e sanno ballare il meraviglioso tango, il croccante tip-tap, la ruffiana tarantella Perché non sanno annusare e non impugnano armi Perché sono stati crocefissi Perché anche quando si vorrebbe assestarli nel sedere di qualcuno, viene scrupolo che il bersaglio non meriti l’appoggio Perché come le capre amano il sale Perché non hanno fretta di nascere, però poi quando arriva il punto di morire scalciano in nome del corpo contro la morte6. Perché i piedi non mentono. 6 E. De Luca, Altre prove di risposta, Edizioni Libreria Dante & Descartes, Napoli 2008, p. 77. Extrait de la 6publication CAMMINARE Il gesto più umano Il nostro è un mondo dominato dalla tecnica. La pervasività di questo fatto fa sì che non ce ne rendiamo neanche più conto, lo diamo per scontato considerandolo naturale. La tecnica da mezzo è diventata fine, e il fine della tecnica è il suo incessante potenziamento, accrescimento. È la tendenza fondamentale del nostro tempo1. Camminare rappresenta uno scarto rispetto a questo orizzonte dominato dalla tecnica. Da tempo questa alterità è stata manifestata e portata alla luce da una significativa tradizione letteraria e di pensiero che come un fiume carsico ha attraversato la nostra cultura occidentale. Scriveva Hermann Hesse all’indomani della prima guerra mondiale: «Vecchie scarpe da giramondo, mi rubate spazio e mi ricordate altri tempi […] e mi ricordate non solo il passato, ma ancor più qualcosa di quoti1 Si veda E. Severino, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi, Milano 1988. 7 Labbucci, Camminare dianamente nuovo: la lotta e la fuga della mia vita. Perché tutte le mie peregrinazioni, tutti i miei viaggi erano e sono in fondo soltanto una fuga, non certo la fuga di chi vive in una grande città e di un giramondo, non la fuga da se stessi, la fuga perenne del proprio Io verso l’esterno, ma l’opposto: un tentativo di fuga da questo tempo, da questo tempo di tecnica e di denaro, di guerra e di avidità di ricchezze»2. Nella stessa direzione ostinata e contraria, ma con ben altra radicalità, si muove al di là dell’oceano Henry David Thoreau. Per lui il camminare e la natura si confondono, rappresentano la possibilità di divorziare dal mondo, fuori dalla civiltà delle macchine, fuori dai condizionamenti sociali. «Essere – al di fuori – è esattamente il luogo che Thoreau ha scelto come sua dimora»3. Di qui il suo stile perentorio, apodittico, il suo tono profetico: «Le nostre spedizioni non sono altro che gite… Per metà del cammino non facciamo che ritornare sui nostri passi. Dovremmo avanzare, anche sul percorso più breve, con imperituro spirito d’avventura, come se non dovessimo mai far ritorno, preparati a rimandare, come reliquie, i nostri cuori imbalsamati nei nostri desolati regni. Se sei pronto a lasciare il padre e la madre, e il fratello e la sorella, e la moglie e il figlio e gli amici, e a non rivederli mai più; se hai pagato i tuoi 2 H. Hesse, Il viandante, a cura di V. Michels, Mondadori, Milano 1993, pp. 254-5. 3 H. D. Thoreau, Camminare, a cura di F. Meli, SE, Milano 1989, p. 75. Extrait de la 8publication Il gesto più umano debiti, e fatto testamento, se hai sistemato i tuoi affari, e se sei un uomo libero, allora sei pronto a metterti in cammino»4. Per Hesse non la fuga verso luoghi esotici ma dentro la propria interiorità a ritrovare ragioni e forza per contrastare questo tempo di tecnica e di denaro; per Thoreau il cammino è possibile a patto di rompere con le costrizioni di questo mondo e di fare il vuoto intorno a sé, che poi è un pieno dentro di sé, quello «spirito d’avventura» senza il quale non ci si mette in cammino. In entrambi, seppure così lontani geograficamente e culturalmente, il medesimo rifiuto della tecnica e della massificazione dell’individuo, la medesima forma di pensiero che individua nel camminare la possibile alternativa. Da allora l’accelerazione tecnologica è stata vertiginosa, incontrollata e incontrollabile, spazzando via ogni residua illusione di fuga, sia essa epica, romantica o crepuscolare. Da allora siamo enormemente più esposti ma anche enormemente più realisti. Ha scritto Emanuele Severino: «Se domani la preghiera, che un tempo muoveva le montagne, muovesse la terra e producesse merci e ricchezza con una abbondanza e velocità sconosciute alla tecnica, il capitalismo si metterebbe a pregare e abbandonerebbe la tecnica al suo destino […]. Ma quando la tecnica mostra di essere la più efficace delle preghiere, sì che a essa è oramai affidata la salvezza dell’uomo sulla terra, allora questo mezzo è destinato a di4 Ibid., pp. 12-3. Extrait de9la publication Labbucci, Camminare ventare lo scopo e il suo scopo è destinato a diventare un suo mezzo […]. Il rovesciamento di mezzo e scopo, che nel capitalismo si è presentato come processo in cui il denaro, da mezzo, diventa scopo dello scambio, si presenta nel modo più radicale nella subordinazione alla tecnica da parte di tutte le grandi forze che vorrebbero servirsene come semplice mezzo»5. Si può pensarla come Giorgio Ruffolo: «Non è il progresso tecnico la causa del venir meno dei fini, ma è il suo asservimento all’accumulazione capitalistica. Non è vero che la tecnica prescrive di fare tutto ciò che è fattibile. Essa prescrive di fare tutto ciò che è profittevole. Il problema allora non è di sottrarsi alla tecnica, ma di sottrarre la tecnica alle leggi del mercato»6. È un indirizzo e un atteggiamento politico e culturale apprezzabile e condivisibile, un antidoto a certe forme di rifiuto regressivo. Ma se vogliamo stare alla realtà nuda e cruda dei fatti non si può che ripetere ciò che scriveva oltre vent’anni fa un economista sui generis come Claudio Napoleoni: «La tecnica può servire fini buoni o cattivi a seconda di chi decide oppure la tecnica serve un fine solo, se stessa? Questione controversa però da un punto di vista concreto, empirico; ogni volta che si è voluto stabilire un condizionamento etico, valoriale questo non è riuscito, la tecnica è andata avanti»7. 5 E. Severino, Democrazia, tecnica, capitalismo, Morcelliana, Brescia 2009, pp. 35-7. 6 G. Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati, Einaudi, Torino 2008, p. 284. 7 C. Napoleoni, Cercate ancora, Editori Riuniti, Roma 1990, p. 49. 10 Il gesto più umano Questa conclusione ha ricevuto ampie e ulteriori conferme. La tecnica è andata avanti e con essa la questione enorme che ci sta di fronte: il non essere in grado di prevedere e valutare le conseguenze di questa straordinaria potenza tecnica che è nelle nostre mani. Se gli antichi avevano un deficit di conoscenza, a noi compete un deficit sugli effetti. Per questo ritorna centrale la domanda sull’etica, e allora: di quale etica parliamo quando parliamo del camminare? Di un’etica che parte da se stessi ma per aprirsi al mondo, che non mette barriere e non separa ma ristabilisce relazioni e collegamenti tra i propri passi e il contesto umano e naturale, perciò assai distante da quella che vige attualmente: frammentata, parcellizzata, che non risponde a una visione d’insieme ma agli obiettivi e alle finalità di ambiti settoriali e specifici. Ha scritto Luigi Zoja: «I valori etici hanno gradualmente perso contatto sia con le basi filosofiche dell’etica, sia con i valori estetici […]. Il modello vincente – l’economia del libero mercato – richiede un’etica, ma in senso ristretto: norme chiare e precise per il suo campo di applicazione, anche a costo di esser svincolate da principi etici più vasti e rattrappite in astrazioni limitanti. Per esempio: la libertà economica è intesa come libertà dei commerci tra diversi paesi. Ma un disoccupato che non trova lavoro nel suo paese non può trasferirsi in quello vicino: liberi di trasferirsi sono solo i capitali. Così, l’applicazione della legge produce ingiustizia, Extrait de11 la publication Labbucci, Camminare anziché giustizia: libero di cercare di arricchirsi è solo chi è già ricco»8. Camminare comporta un’etica differente perché chi cammina non è mai un isolato. Si può essere un camminatore solitario, come Jacques Lanzmann a cui dobbiamo l’affermazione più esplicita e di rara efficacia, «Ogni volta che sono partito con degli amici, sono ritornato con dei nemici»9; o prediligere, ma non sempre, di camminare con altri, come Bruce Chatwin, che «camminava sempre davanti a tutti, parlando tra sé e sé e a te che non sentivi mai bene quello che diceva», e che in un suo taccuino così annota: «Non c’è niente di più irritante del percorrere lunghi tragitti insieme a qualcuno che non riesce a tenere il passo»10; ma in entrambi i casi non è possibile essere isolati. L’isolamento è prerogativa della sedentarietà, non del movimento. Isolamento e sedentarietà hanno da sempre creato meno problemi e provocato meno timori rispetto a chi cammina, e per un motivo elementare: chi cammina ci viene incontro e ci interpella con la sua sola presenza, espone se stesso provocando inevitabilmente attrito; non sta fermo in un posto o confinato in una dimensione mentale rassicurante. Questo perché, come abbiamo già scritto, il movimento rappresenta sempre un atto di perturbamento rispetto all’ordine dato. 8 9 10 L. Zoja, Giustizia e Bellezza, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 56. Cit. in D. Le Breton, Il mondo a piedi, Feltrinelli, Milano 2004, p. 29. N. Shakespeare, Bruce Chatwin, Baldini & Castoldi, Milano 1999, p. 658. 12 Il gesto più umano Se vogliamo cercare qualcosa di nuovo, ma che nuovo non è, sta nel fatto che al fondamentalismo della tecnica se ne è affiancato un altro: il fondamentalismo religioso. C’è un ritorno di ortodossia che coinvolge anche il mondo cattolico, rimettendo al centro di tutto il corpo, con esiti, per quanto riguarda Santa romana Chiesa, paradossali e sconcertanti: dal rifiuto delle tecniche di fecondazione eterologa per coppie sterili con l’invito furbesco a non votare nel referendum del 2005, si è passati con disinvolta intransigenza alla richiesta opposta di utilizzo di tecniche mediche artificiali per tenere in vita persone contro la loro stessa volontà, come per Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro. C’è un abisso di umanità e compassione tra ciò che abbiamo letto e sentito da parte di esponenti delle gerarchie vaticane e ciò che scriveva papa Paolo VI ai medici cattolici nel 1970, quando li invitava ad alleviare le sofferenze e a non prolungare con qualunque mezzo una vita quando non è più pienamente umana. Si dice: la vita è sacra. La vita appunto, che è innanzitutto relazione con gli altri, reciprocità, scambio di affetti e di emozioni, dignità di sé. Allora che c’entra tutto questo con l’alimentazione e l’idratazione forzata per mantenere artificialmente un corpo che giace inerte in un letto? Questa vita non ha nulla di sacro né di «pienamente umano»; al contrario è idolatria che ha bisogno, per affermarsi, dell’idolatria della tecnica. Un doppio grave peccato. Succede purtroppo quando la vita Extrait de13 la publication